CHIESA DOMINATA DALLA PAROLA
AL CONVEGNO PAROLE FREMENTI
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 18.10.2006)
Ci sono parole che vengono maneggiate in modo antitetico: c’è chi se le strappa quasi dalle viscere e le getta davanti agli altri ancora frementi e c’è chi le tira fuori dalla tasca della giacca come se fossero un regalino da mettere sul tavolo per una festicciola. Il monaco Franco Mosconi ieri a Verona ha tratto dalla sua meditazione tre parole facendole serpeggiare in mezzo all’uditorio come se fossero lingue di fuoco. Eppure sono vocaboli che condiscono spesso le prediche e il linguaggio ecclesiale, risultando alla fine inoffensive.
La prima parola è speranza, e sperare nel cristianesimo vuol dire avere fisso «un orizzonte escatologico», significa lasciar cadere tante sovrastrutture, gli stereotipi spirituali, la melassa devozionale e rischiare sul sentiero d’altura dei «valori essenziali del Vangelo quali la gratuità, l’amore, la povertà, la piccolezza», in opposizione a ciò che ormai siamo stati convinti a considerare come veramente primari, cioè «la potenza, il successo, la ricchezza, la forza dei numeri e dei mezzi». Senza questa essenzialità il cristianesimo si stinge in un impegno pur nobile ma col solo debole respiro della storia.
Se si rimane in questa valle senza «levare il capo verso la liberazione vicina», come diceva Gesù, si è «bloccati dai paludamenti delle nostre menti che sono le nostre paure, le nostre angosce, i nostri sospetti». Le comunità si appesantiscono, si inflaccidiscono, cedono stancamente, ingrigite come la tiepida e sazia Chiesa di Laodicea, rigettata dal Cristo dell’Apocalisse.
Ed ecco, allora, la seconda parola che dom Mosconi ha estratto dalla sua lettura del testo della Prima Lettera di Pietro, la santità. Un termine ormai relegato tra gli incensi e spogliato della sua carica originaria fatta di trascendenza e di esistenza intrecciate tra loro. «Santità, infatti, significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio». Nella santità la creatura col suo limite e la sua colpa non si dissolve in una sorta di aura sacrale ma si libera e si ri-crea.
Ma sulle due parole della "speranza" e della "santità" si erge come vertice e stella polare proprio il terzo vocabolo decisivo, Parola di Dio, vocabolo tipico della Chiesa post-conciliare. Ma la domanda del monaco nella sua brutalità cade come una sferzata: «Cosa ne abbiamo fatto della Parola a quarant’anni dalla Dei Verbum?» Questo arco di tempo - che per la Bibbia è il segno di un’intera generazione - quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola? La Parola divina non la si deve conservare solo come una pietra preziosa da collocare in un reliquiario: essa è come un mare in cui si ci deve immergere, bagnare, avvolgere. «Uno diventa la Parola che ascolta. Uno si assimila alla Parola che medita quotidianamente e diventa narratore di speranza».
Le nostre comunità sono state attraversate veramente da questa Parola? Chi, come me e come tanti presbiteri e vescovi della Chiesa italiana, aveva al tempo del Concilio venti o trent’anni, che cosa scopre guardando al fluire degli ultimi decenni? Nelly Sachs, una poetessa ebrea tedesca, Nobel nel 1966, in una sua ballata sui profeti si domandava: «Se i profeti irrompessero per le nostre porte della notte incidendo ferite nei campi dell’abitudine, se i profeti irrompessero cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini ostruito di ortiche, sapresti ascoltare?». Dobbiamo riconoscere e non sminuire quello che si è fatto di importante per la Bibbia - sarà non a caso tema del prossimo Sinodo episcopale - ma dobbiamo anche chiederci perché spesso la Parola divina non incide ferite nella placida superficialità dei nostri giorni e le ortiche delle cose secondarie o vane continuano a ottundere il nostro ascolto. Per questo è stato necessario far risuonare con vigore a Verona quelle tre parole in tutto il loro ardore.