Corriere della Sera. 25 settembre 2001
Quelle cose che il Papa non può dire
di Vittorio Messori
Qualche irriverente le ha paragonate a un disco rotto: "Pace! dialogo! dialogo! pace!". O a una sorta di mantra, alla ripetizione coatta di parole scaramantiche. Parliamo, ovviamente, delle reazioni cattoliche a ogni annuncio di guerra, quale che sia. Pur comprendendo il fastidio di alcuni per ciò che può apparire il rituale del buonista clericale, bisogna però cercare di capire.
E’ vero che la parola “dialogo” -che pure non appare mai nella Scrittura- è divenuta una sorta di passe-partout nel mondo ecclesiale. Diceva Nietzsche che i cristiani avevano reso insopportabile persino la parola “amore“, a furia di usarne ed abusarne. Oggi, forse, estenderebbe la sua invettiva alla folla cattolica dei “dialoganti”, sempre e comunque.
Ma, in queste settimane convulse, dietro il ritornello consueto ci sono buone ragioni. Almeno, s’intende, da un punto di vista cattolico. Punto di vista che non è cambiato (e lo diciamo ben consapevoli degli umori all’interno della Chiesa) dalle recenti dichiarazioni del cardinal Camillo Ruini, peraltro forzate nei titoli, come avviene inevitabilmente nei media, quasi che significassero un deciso schieramento di campo, che il papa stessa ha proprio in questi giorni escluso. Resta, dunque, tra i cattolici, l’ inquietudine per i rischi imprevedibili della prima guerra “contro ignoti” della storia. C’è l’orrore, ovviamente, per il massacro di civili americani, ma anche la consapevolezza che -parola di vangelo- la pietà deve estendersi a tutti i morti. A cominciare dalle migliaia di cristiani che ogni anno -statistiche di Amnesty alla mano- cadono martiri delle più diverse violenze. Ad essi, nell’Anno Giubilare, Giovanni Paolo II ha dedicato una liturgia simmetrica a quella dei mea culpa ecclesiali, ma l’impatto di quella commemorazione degli uccisi per odio alla fede è stato ben minore.
Ma oggi c’è anche, forse soprattutto, un motivo drammatico, di cui poco si ama parlare pubblicamente ma che sta dietro a certi appelli, soprattutto della Chiesa gerarchica, che possono sembrare solo ripetizione edificante di formule retoriche. Conosciamo vescovi in partibus infidelium o prestigiosi islamologi cattolici, anche di università pontificie, che si muovono su un doppio registro. In pubblico, il "pace e dialogo!" del teologicamente corretto. In privato, ben altri discorsi, assai meno zuccherosi. Anzi, constatazione amara -nata dagli studi e confermata dalla dura esperienza- dell’impraticabilità, con il mondo musulmano, di una strategia dialogante che non migliora ma aggrava la situazione perché è scambiata per disprezzabile debolezza. Doppiezza, in questi esperti cattolici, tutti sorrisi ai convegni e tutti sfoghi amari con i fratelli di fede? No: non ipocrisia, ma obbligata prudenza. Il mondo non è fino in fondo consapevole della tragedia del ricatto cui è sottoposta la Chiesa, i cui fedeli sparsi in alcuni Paesi musulmani sono sopravvissuti a secoli di persecuzioni e sono soggetti di continuo a minaccia. Pochi sanno che, anche tra noi, l’islam ha orecchie attente: ogni parola cattolica che esca dai canoni dell’ossequio si traduce in ritorsioni in quei Paesi dove, come vuole il Corano, Dio e Cesare sono la stessa cosa.
Nel giudicare, oggi e in futuro, le parole della Gerarchia ecclesiale, occorrerà non dimenticare che sembra ripetersi il dramma di Pio XII: il beau geste della “denuncia profetica”, a spese dei fedeli indifesi? o la pratica delle prudenza -magari umiliante perché scambiata per ritornello edificante- cercando di evitare agli innocenti guai peggiori? Oggi, più che mai, la Chiesa è una madre trepidante che cerca di non aggravare i rischi che minacciano i suoi figli, sparsi tra folle tumultuanti e ostili.