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Sbucciare le cipolle ...

LA GERMANIA, HITLER E IL NAZISMO: «la» domanda tedesca per eccellenza, dal 1945 a oggi. Günter Grass rivela: ero nelle Ss

Tutto questo doveva uscire fuori, finalmente...
sabato 12 agosto 2006 di Federico La Sala
[...] Sessantuno anni dopo la caduta del Terzo Reich, arriva da Günter Grass, premio Nobel per la letteratura nel 1999, appassionato socialdemocratico, grande sostenitore di Willy Brandt e oggi pacifista, la confessione più drammatica: giovanissimo fu arruolato nelle Waffen SS, i reparti militari d’elite guidati da Himmler. [...]
EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E (...)

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domenica 27 agosto 2006

Grass: una cipolla non sbucciata del tutto

di Luigi Reitani*

Nulla è più incerto e fragile del ricordo, esposto alle correzioni e alle censure dell’inconscio o della volontà. E quando la vergogna si intromette nei processi della memoria, per allontanare episodi imbarazzanti o sgradevoli, anche la verità si frange in mille rivoli, che non sempre corrono nella stessa direzione.

Da quando Rousseau, nelle sue Confessioni, dichiarò di voler raccontare gli episodi più intimi e penosi della propria esistenza, in nome di una verità sentita come assoluta, l’autobiografia è giudicata con il metro di una impossibile autenticità, come se la vita fosse rispecchiabile nella trasparenza della letteratura. Eppure sappiamo che non è così (neppure in Rousseau), e che la molteplice contraddittorietà dell’esistenza si lascia ricomporre solo nella finzione o con l’inganno. Sappiamo anzi che è proprio la memoria a fondare la nostra identità, e che dunque nel passato proiettiamo volentieri il nostro presente e forse anche le nostre attese per il futuro. Per questo la teoria della letteratura invita a considerare l’autobiografia come un genere fondato su un «patto» tra autore e lettore: quel patto che identifica il fittizio eroe di una storia con quell’io che la narra, ed entrambi con quel nome - stampato sulla copertina del libro - a cui corrisponde un indirizzo, un passaporto e un passato. Ma questo «patto» è naturalmente una finzione, sebbene, come tutti i patti, abbia un effetto normativo. Stabilisce le regole della lettura, senza tuttavia attestare la veridicità di ciò che è narrato. L’autobiografia non è un documento: è letteratura, e come tale va giudicata. Ricordando però che anche la letteratura è parte della vita e della storia.

Chi voglia leggere Sbucciando la cipolla - l’autobiografia con cui Günter Grass ha aperto porte e finestre sul proprio passato (Steidl, 480 pagine, 24 euro) - farà bene a dimenticare il turbine di polemiche seguito alla dichiarazione dell’autore di aver per la prima volta raccontato in questo libro della propria militanza nella Waffen-SS. E non dovrà cercare puntigliosamente nel testo concordanze con i documenti ufficiali. Che cosa importa sapere, ad esempio, se Grass fu chiamato alle armi nel settembre (come si legge nella autobiografia) o solo nel novembre (come è scritto nei documenti degli Americani) del 1944? Qui si presenta la storia di una SS divenuta un artista, ed è questo che conta.

Grass è del resto autore fin troppo smaliziato e consapevole per cadere nella ingenuità di chi presenta al lettore i suoi ricordi avvolti nell’aura intoccabile del vero e dell’autentico. L’intera autobiografia è invece costruita sulla problematicità del ricordo e sulla difficoltà del ricordare. La struttura portante con cui l’autore rievoca scene centrali della sua vita è così la formula interrogativa dell’ipotesi. Come avvenne, ad esempio, il commiato dal padre, prima di prendere il treno che l’avrebbe portato al fronte? Ci fu una stretta di mano, un abbraccio, un cappello o un fazzoletto sventolato nell’aria, una parola solenne di saluto, un sorriso imbarazzato, o altro? L’autore sventaglia un insieme di possibilità e si rifiuta di rispondere. E quando la narrazione sembra invece assumere il piglio di una autorevolezza indiscutibile, ecco arrivare subito dopo la smentita, l’ammissione che forse le cose non sono andate proprio così e che probabilmente nella rievocazione hanno avuto peso le parole lette in un libro o le immagini viste in un film. Perché se la nostra vita è unica, universali sono gli schemi con cui la formuliamo.

Questa consapevolezza narrativa è espressa nella metafora centrale che dà il titolo al libro: il ricordo è come una cipolla, stratificato. Dietro la prima crosta indurita si nascondono altre foglie, altri strati. Immagini e impressioni sepolte dal tempo e dall’orgoglio. E il processo del ricordare è doloroso: sbucciare la cipolla fa piangere, quando si arriva agli strati più nascosti. Così talvolta si chiudono gli occhi o si smette. Anche lui, l’autore, scrive di aver ceduto a questa tentazione, così che «il mio silenzio ora, sbucciando la cipolla, mi rimbomba nelle orecchie».

A intervalli regolari l’autore riprende questa immagine (disegnata in molteplici variazioni dallo stesso Grass per le illustrazioni al volume), seguendo una tecnica compositiva caratteristica della sua intera prosa. Perché in tutti i suoi libri c’è un oggetto metaforico - il tamburo di Oskar Matzerath, il pomo d’Adamo del Gatto e topo, il rombo e la ratta dei romanzi omonimi, l’ascensore di È una lunga storia, il crostaceo del Passo del gambero (già vicino nel suo significato alla dimensione del ricordo) - da cui scaturisce la narrazione. E persino sbucciare la cipolla non basta, quando a nascondersi sono elementi duri e sgradevoli. Allora lo scrittore prende dal suo cassetto un altro oggetto: un’ambra che alla luce rivela di custodire al suo interno insetti e altre impurità.

Emerge così strato dopo strato un ragazzo come tanti, che colleziona le figurine con i dipinti dei grandi pittori e divora l’eterogenea biblioteca della madre; un ragazzo che aiuta la madre a recuperare i crediti del negozio e con i soldi guadagnati scappa appena può al cinema, ma che non fa domande quando lo zio di origine polacca viene fucilato dai tedeschi e la famiglia interrompe ogni contatto con i cugini, prima regolari ospiti e compagni di giochi. Un ragazzo che accetta passivamente la propaganda e la retorica dei cinegiornali, milita con entusiasmo nelle organizzazioni giovanili naziste, e non si pone nessun interrogativo sulla natura del regime. Un ragazzo che impara a memoria - come i personaggi del Gatto e topo - i nomi e le caratteristiche della flotta tedesca e vive il progressivo coinvolgimento nella guerra, prima nella contraerea e poi nel servizio civile, come una piacevole avventura che lo fa uscire dalla ristrettezza dell’ambiente familiare, dalle due stanze con il bagno sul pianerottolo in comune con gli altri inquilini del palazzo. Nessun dubbio, nemmeno quando un testimone di Geova al corso di formazione lascia sistematicamente cadere il fucile e dice «noi queste cose non le facciamo». Le divise lo aiutano a superare l’insicurezza dell’adolescenza, crede in Hitler e nella «vittoria finale», crede soprattutto in se stesso. Per questo in una giornata «probabilmente di pioggia» a quindici anni fa domanda per arruolarsi volontario. Gli piacerebbe combattere nei sottomarini tanto mitizzati dai cinegiornali, ma gli andrebbe bene anche un carro armato, magari per imitare Rommel. Così, quando due anni dopo riceve la chiamata alle armi in una divisione corazzata delle SS è contento e ancora una volta non fa e non si fa nessuna domanda. E neppure dopo trapela il dubbio: né vedendo i disertori impiccati agli alberi, né dopo la guerra in visita di rieducazione a Dachau. Solo il processo di Norimberga servirà ad aprirgli gli occhi e a mettere in moto un processo di lenta consapevolezza.

Ma quanto più il ragazzo vive in questa incosciente adesione alla tragedia collettiva tedesca, tanto più lo scrittore che quel ragazzo è diventato lo sottopone sessant’anni dopo a un interrogatorio impietoso. L’intera autobiografia di Günter Grass mette in scena un dramma del ricordo, fondato sulla distanza tra l’Io che narra e l’Io che ha agito, tra un narratore e un eroe dallo stesso nome. E se il secondo cerca scusi o appigli, e talvolta vorrebbe trovare scampo nel grembo della mamma, il primo riflette implacabile e ricorda (magari compiaciuto) come abbia dato espressione artistica a questo o quel sentimento, a questo o quel problema.

Perché anche Sbucciando la cipolla non sfugge alla legge autobiografica di voler stabilire una connessione - come aveva fatto Goethe - tra poesia e verità, tra la finzione e la vita. E così sono molteplici i rinvii a tutti gli scritti dell’autore, poesie e drammi compresi, e in particolare al Tamburo di latta, che si presenta una volta di più come il cuore dell’intera opera di Grass. Scopriamo dunque i modelli ispiratori di figure e situazioni, ma soprattutto intuiamo come alla letteratura (e alle arti visive) Grass abbia assegnato la funzione catartica e liberatoria di una vita insidiata da nodi irrisolti.

Articolato in undici capitoli, il libro abbraccia i vent’anni compresi tra lo scoppio della guerra e la pubblicazione del Tamburo di latta, dal 1939 al 1959, con una forte prevalenza degli anni della guerra e del dopoguerra. Inframmezzati vi sono episodi successivi, in cui l’autore già affermato ritorna da solo o con la propria famiglia sui luoghi della giovinezza, e sporadiche incursioni in zone più remote dell’infanzia. Da questo punto di vista l’autobiografia di Grass (non a caso dedicata «a tutti coloro da cui ho imparato») si presta ad essere letta come un romanzo di formazione: la nascita dell’artista dallo spirito della corresponsabilità nella tragedia. Un romanzo di formazione a tratti picaresco, che si concede volentieri scene di sanguigno erotismo e di grassa comicità, dove il protagonista è un antieroe che non sa nascondere la propria paura e il proprio spesso inopportuno desiderio sessuale. Troviamo dunque il giovane soldato delle SS che si rifugia sotto un Panzer al primo scontro a fuoco con i Russi e si piscia addosso per la paura, e lo ritroviamo salvo per miracolo perché non in grado di partecipare a una sortita in bicicletta, non essendo in grado di pedalare. Storie forse in parte inventate, come anche quella, costantemente ripresa, che lo vede giocare a dadi nel campo di prigionia con un certo Joseph, fervente e ambizioso cattolico...

Ma è questo - da sempre - il Grass migliore, capace di rievocare i colori e gli odori della vita con mille e mille aggettivi, di dare vita a figure e a immagini grottesche e sensuali con una prosa imbevuta di metafore, dove quasi ogni parola ha un senso traslato; il Grass che si ispira alla prosa barocca di Grimmelshausen e serve ai suoi lettori pietanze forti e speziate, come quelle a lui insegnate in un improvvisato corso di cucina, tenuto nel campo di prigionia da un cuoco che è uno dei più riusciti personaggi della narrazione. E se c’è un appunto estetico da muovere a questo libro, è che troppo spesso l’autore fa della sua arte una maniera e non ha il coraggio di eliminare episodi in fondo superflui, soprattutto negli ultimi capitoli, dove la narrazione si sbriciola in aneddoti non sempre riusciti (comprese alcune avventure in Italia).

Uscito indenne dalla guerra e dalla prigionia, dopo aver sbarcato il lunario come contadino, minatore, trafficante della borsa nera e persino indovino tra le campagne, Grass approda come Oskar Matzerath a Düsseldorf, dove alloggia alla Caritas e diviene apprendista scalpellino, sognando di diventare scultore. Da studente all’Accademia delle belle arti si guadagnerà da vivere suonando in una jazz-band. Diventa fumatore seguendo «la moda dell’esistenzialismo». Trasferitosi a Berlino conosce la sua prima moglie, Anna, e si innamora. Poi, dopo aver debuttato da scultore e poeta, a Parigi scrive il Tamburo di latta con l’Olivetti ricevuta come regalo di nozze e si afferma come uno dei più promettenti romanzieri europei. Questo è l’epilogo del libro, la metamorfosi dell’io colpevole (almeno nella sua irresponsabilità) in artista cosciente, il raggiungimento di un obiettivo di vita. L’autobiografia si chiude con il ritorno a Berlino della famiglia e l’annuncio di pagine e libri successivi.

E qui in ogni senso si colloca il limite più evidente del libro, perché se l’autobiografia riesce, in modo quasi sempre convincente, a interrogare quell’altro io lontano e remoto, che condivise la colpa e la follia di una nazione, lascia stare invece l’io presente dell’intellettuale di ieri e di oggi. Questo io appare su un piedistallo intoccabile, al riparo da ogni dubbio e da ogni critica, ed è questo, forse, a rendere talvolta irritante l’atteggiamento dello scrittore Günter Grass. Non si tratta solo della lunga incapacità di rompere il tabù - peraltro ampiamente condiviso - di un silenzio sul proprio passato (un aspetto che nel libro è di fatto solo sfiorato), ma di un certo modo di mettersi in cattedra e di trinciare giudizi. Questa cipolla Grass non l’ha ancora sbucciata. Ed è questo che almeno in parte rovina la digestione al lettore.

www.unita.it, Pubblicato il: 27.08.06 Modificato il: 27.08.06 alle ore 11.06


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