Dolci, la Sicilia che spera
DI LUCA MIELE (Avvenire, 07.06.2008)
Attivista, animatore di “scioperi alla rovescia”, promotore di una battaglia per l’acqua, sociologo, educatore, scrittore. Si fa fatica a intrappolare in una definizione la multiforme attività di Danilo Dolci. Nato a Trieste, Dolci si trasferisce quasi trentenne in Sicilia, nel piccolo borgo marinaro di Trappeto. Una scelta di vita radicale, la sua. La Sicilia che incontra è ancora immersa nelle nebbie del dopoguerra, piegata dalla disoccupazione e dalla metastasi della mafia. Dolci inizia una attività di promozione umana ed economica, spingendo la comunità locale alla rottura del clima omertoso che la soffoca. La rinascita è possibile. Come nella lotta per la costruzione di una diga sul fiume Jato che riscatta un fazzoletto di terra arido dalla siccità e dalla ubbidienza alla mafia. O ancora, lo “sciopero alla rovescia”, nel quale contadini e braccianti si uniscono non per incrociare le braccia, ma per lavorare a una causa comune: una prova tangibile delle potenzialità della “rivoluzione non violenta”, professata da Dolci. La casa editrice Mesogea offre un’antologia dei suoi scritti che abbraccia tutta la sua attività, dall’approdo in Sicilia fino all’attività pedagoga. Ne emerge un personaggio, che a distanza di undici anni dalla morte, non ha perso il suo fascino.
L’originalità di Dolci è tutta nella rottura degli steccati tra teoria e azione. Nessuna distanza tra chi teorizza e chi agisce. Nel suo percorso la teoria si invera nell’azione, l’azione si affina nel metodo, teoria metodo e azione si compongono in quelli che lo stesso Dolci chiamava i “laboratori maieutici”. Il suo impegno fu sempre accompagnato da un attento lavoro di “ricentratura” lessicale che lo portò alla definizione di una “anatomia” del pensiero che restituiva pienezza ad alcuni concetti. Il potere, innanzitutto. Concepito come potenzialità, facoltà di operare.
Una forza in grado di aprire alla crescita, degli individui come della collettività. E dunque nettamente distinto dal dominio, sua degenerazione, inteso come violenza. Se il potere - nella lettura di Dolci - è essenzialmente crescita, allora non è mai disgiunto dalla creatività. Potere e creatività confluiscono in qualcosa che le completa: la rivoluzione non violenta, che è capacità di agire, di promuove il cambiamento.
Conquista collettiva della verità. E ancora, il concetto di pace. Un’idea di pace quella vissuta da Dolci - scrive Giuseppe Barone nell’introduzione - «molto poco accomodante, quietistica, tutt’altro che pacificatoria, connessa anzi al coraggio, all’impegno, alla lotta non violenta». Una pace che non è mai assenza di conflitti, al contrario si declina come ricerca, rottura, progettazione comune, capacità di essere e agire al plurale. La pace, per usare una splendida definizione dello stesso Dolci, «è inventare il futuro».
Danilo Dolci
CIÒ CHE HO IMPARATO E ALTRI SCRITTI
Mesogea. Pagine 191. Euro 16,00