FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. Il frammento 101 di Eraclito e il nichilismo (II parte). Un breve saggio - di Franco Toscani

martedì 13 gennaio 2015.

I - II - III - IV parte

2. La tensione filosofica e il ruolo del filosofo. L’uomo e la misura. Gedankenlosigkeit e nichilismo nella nostra epoca.

Nella sua folgorante brevità il frammento 101 di Eraclito dice più di mille libri e di mille presunte saggezze: ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν ("Ho interrogato me stesso").

Interrogare sé stessi è una delle attività più preziose e inesauribili. E’ l’esercizio della cura di sé che va sempre di nuovo ripreso, sino all’ultimo dei nostri giorni: il compito di una vita intera.

Saper sostare nelle domande, saperle suscitare e amare è proprio del grande pensiero e ci mette sulla via giusta. Questa sosta non è sterile immobilismo, non conduce mai meramente a nuotare nel buio o a vagare alla cieca.

Ora, il pensiero non trova mai l’esistenza umana come un semplice dato davanti a sé, ma sempre come un problema, un enigma, una questione aperta che richiede ogni volta una Sinngebung, una donazione o un conferimento di senso che non sono mai ovvi e scontati.

Anche e soprattutto per questo motivo il pensiero è essenzialmente dialogico e non va confuso con un monologo del pensatore solitario, come ha ben visto Feuerbach nei suoi Grundsätze der Philosophie der Zukunft (1843): "Die wahre Dialektik ist kein Monolog des einsamen Denkers mit sich selbst, sie ist ein Dialog zwischen Ich und Du" ("La vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con sé stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu").[1]

Il dialogo, il confronto, l’accordo e il dissenso, il dubbio, la contesa indispensabili al filosofare genuino non possono non mettere in crisi e in discussione ogni filosofia sistematica, con tutte le sue pretese conclusive ed esaustive.

Il pensiero raggiunge la sua vetta suprema non quando difende la propria presunta assolutezza, ma quando riesce a pensare anche contro sé stesso, riconosce la propria gettatezza (Geworfenheit), coglie i propri limiti, si espone al rischio estremo e all’abisso (Abgrund), si abbandona all’incalcolabile, all’incommensurabile, all’impadroneggiabile.

Abbiamo e avremo ancora di più nel futuro bisogno dei pensatori intesi non come meri giocolieri teoretici e abili dispensatori di parole, ma, appunto, come funzionari post-metafisici dell’umanità, attenti alla saggezza della vita pratica, interpreti essi stessi di un nuovo stile di vita rivolto ad abitare la Terra senza dominio, appassionati alle ragioni dell’umanità, al servizio solo di essa, della cura del Tutto e della verità, miranti alla totalità, al vero nella sua interezza.

Dire con Husserl che il filosofo è il funzionario dell’umanità significa per noi ribadire con certezza inequivocabile che egli non è innanzitutto il funzionario o l’impiegato di un ministero, di una istituzione, di una scuola, di un partito, di uno stato, di un sistema, di un apparato, etc.. Significa sottolineare la sua profonda libertà legata indissolubilmente alla sua coscienza e responsabilità per le sorti dell’umanità e del pianeta. Ma oggi il ruolo e la funzione stessa del filosofo sono rimessi completamente in questione dal dominio della ratio strumentale-calcolante e da un uso semplicemente metodologico della ragione. Il filosofo stesso rischia di venir sempre più ridotto a mero funzionario dell’Apparato e a mera funzione ausiliaria dei mezzi di comunicazione di massa. Se la filosofia diventa ancella della tecnoscienza, pura analisi del linguaggio o mero discorso sulle procedure della ragione, se il filosofo non riesce più ad essere il funzionario dell’umanità, della verità e del pianeta nel contempo, viene meno la funzione specifica forte del pensatore inteso come colui che ama la verità sino in fondo e cerca di investigare in modo radicale circa il modo d’essere della civiltà, la situazione spirituale presente dell’umanità, la sua direzione e il suo destino. Solo il filosofo ricerca con pienezza l’ambito del vero nella sua interezza, mira alla totalità, può rivolgere lo sguardo ampio e profondo oltre i semplici recinti disciplinari, non accontentandosi di quanto viene reso disponibile dalle tecniche e dai saperi parziali. Questi ultimi, però, sembrano avere il sopravvento, respingendo come irrazionalistiche, "letterarie" e metafisiche le pretese filosofiche non soggiacenti al dominio dello scientismo e della tecnoscienza.

Anche a partire da tutto ciò sorgono allora domande che restano e resteranno probabilmente ancora a lungo senza risposta, benché vorremmo dare ad esse risposte convincenti e risolutive.

Con lo Husserl della Krisis,[2] anche noi potremmo ripetere che non cessiamo di ammirare i passi avanti, le prodigiose conquiste, i miracoli della scienza, della tecnologia, della tecnoscienza. Riconosciamo pure che ci sono interi campi della realtà e del sapere che necessitano più che mai del pensiero calcolante e di un approccio metodologico di tipo quantitativo-misurabile. E tuttavia resta attuale ciò che Heidegger ha chiamato (nel breve scritto Gelassenheit, 1959) die totale Gedankenlosigkeit (la totale assenza di pensiero)[3] come una caratteristica sempre più crescente della nostra epoca. Questa Gedankenlosigkeit è invadente, impressionante, tragica, devastante e si maschera sotto l’apparenza del pensiero calcolante e dominante, unica forma di pensiero per lo più praticata e valorizzata.

La dominante Gedankenlosigkeit si ammanta del e rivendica a sé il monopolio del pensiero nella sua massima espressione e al suo massimo livello, ma in realtà essa nega l’essenza più genuina, libera e critica del pensiero stesso. Tutto ciò ha, naturalmente, conseguenze assai negative e potenzialmente catastrofiche per la nostra epoca, che noi oggi intravediamo ancora solo in parte.

L’uomo e il mondo intero sono ridotti a nient’altro che materiali impiegabili, risorse da sfruttare illimitatamente, numeri e dati di cui disporre da parte degli apparati e di una ragione efficientistico-funzionalistica. Diventa sempre più irrilevante ogni senso della bellezza, della misura, del limite, del destino. Cose, mondo e uomini perdono la loro essenza.

E’ proprio questo il pericolo estremo, l’esito più inquietante del nichilismo pienamente dispiegato della nostra epoca. E’ il nichilismo della Verkehrung, del mondo rovesciato, sottosopra, a testa in giù, del feticismo economico e della mercificazione universale della forma attuale della "globalizzazione", in cui - come già diceva Marx negli Oekonomisch-philosophische Manuskripte (1844) - "la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose".[4]

E’ il nichilismo inconsapevole della sua portata devastante e interamente rivolto ai dettami del profitto economico, dell’efficienza e della funzionalità del sistema dato, che non riconosce più l’esser-uomo dell’uomo, l’esser-cosa della cosa, l’esser-mondo del mondo.


NOTE:

[1] L. Feuerbach, Grundsätze der Philosophie der Zukunft (1843); trad. it. e a cura di N. Bobbio, Principî della filosofia dell’avvenire, Einaudi, Torino 1971, p. 140.

[2] Cfr. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie (1934-1937, pubblicata nel 1954); trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, a cura di W. Biemel, "Avvertenza" e "Prefazione" di E. Paci, il Saggiatore, Milano 1972, in particolare il testo del ciclo di conferenze di Praga (novembre 1935), La crisi delle scienze quale espressione della crisi radicale di vita dell’umanità europea, pp. 31-47.

[3] M. Heidegger, Gelassenheit (1959); trad. it. di A. Fabris, L’abbandono, "Introduzione" di C. Angelino, il melangolo, Genova 1983, p. 40.

[4] K. Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 (1844); a cura di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1973, p. 71.


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