FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. L’essenza dell’uomo e la questione dell’umanismo (I parte). Un breve saggio - di Franco Toscani

martedì 13 gennaio 2015.

Umanismo, esistenza e senso dell’oltre

di Franco Toscani

I - II - III - IV parte.

1. L’essenza dell’uomo e la questione dell’umanismo.

Nella lunga storia della filosofia occidentale numerose forme di umanesimo (o di "umanismo") sono apparse sulla scena e non ci è qui possibile ripercorrerne, sia pure rapidamente, i tratti essenziali. Limitiamoci almeno ad accennare alla civiltà umanistico-rinascimentale, che merita una costante riconsiderazione e non cessa ancor oggi di stupirci per la fecondità, ricchezza e grandezza dei suoi apporti.

Rileviamo poi che le varie forme di "umanismo", in un modo o nell’altro - e senza sottovalutare le differenze anche notevoli esistenti fra di esse -, hanno per lo più lasciato il campo libero o non hanno fatto debitamente i conti con quella volontà di potenza e di dominio che oggi sta contribuendo a inaridire e a devastare il mondo in cui viviamo. Ogni volontà di Sinngebung non può non confrontarsi con quella illimitata volontà di potenza scientifico-tecnologica ed economico-politico-militare che è forse oggi la minaccia più grave che pesa sul nostro destino.

Ogni volontà di Sinngebung dovrebbe confrontarsi - come hanno visto con grande lucidità, tra i filosofi del XX secolo, pensatori come Heidegger, Jonas e Anders - con l’enorme potenza tecnologica accumulata dalla nostra civiltà, perché tale grado di potenza cambia oggi tutti i termini delle questioni ed è assolutamente ineludibile.

Soltanto partendo dalla povertà della propria essenza l’uomo può pervenire alla sua massima e autentica ricchezza. Soltanto considerando appieno la propria finitezza e mortalità, la propria fragilità e caducità l’uomo può riscoprire le gioie e i frutti del cammino. La coscienza della propria povertà essenziale può infatti condurre l’uomo alla salvaguardia e alla cura di ciò che è più prezioso per la sua vita, per ciò che lo circonda e per il senso stesso delle cose.

A questo proposito incontriamo fra l’altro un celebre passo del giovane Marx, tratto da Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), secondo cui "Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso (Die Wurzel für den Menschen ist aber der Mensch selbst)".[1]

Questo passo del giovane Marx è stato a lungo commentato da Martin Heidegger nel Seminario di Zähringen (1973), l’ultimo dei seminari tenuti dall’autore di Sein und Zeit.[2] Ora, l’interpretazione di questo passo fornita da Heidegger è certamente assai discutibile, ad esempio essa non ne prende assolutamente in considerazione l’importante aspetto politico e ne privilegia invece una interpretazione "metafisica".

E’ davvero disdicevole che Heidegger non abbia in alcun modo ponderato le implicazioni politiche del passo, che vanno nella direzione di quella che anche nel marxismo novecentesco si determinerà come una interpretazione umanistica e libertaria del pensiero marxiano, nettamente da contrapporre alle prospettive e alle interpretazioni a lungo dominanti del comunismo staliniano, del cosiddetto "socialismo reale" e dell’ideologia "marxista-leninista" ufficiale.

Detto questo, c’è però a nostro avviso un punto di verità della riflessione heideggeriana, la quale sottolinea il fatto che il pensiero della semplice autoproduzione dell’uomo e della società può oggi condurre al pericolo estremo dell’autodistruzione dell’uomo e ad un esito radicalmente nichilistico.

Il pericolo - che concerne lo stesso misconoscimento dell’essenza umana - resta nascosto, non si manifesta in tutta la sua ampiezza e profondità ai mortali. Il mito dell’autoproduzione tecnica illimitata dell’uomo o del Fondamento posto essenzialmente in sé stesso e nella propria volontà di potenza affascina e seduce, incanta sino alla cecità l’uomo, ma, col suo ignorare o sottovalutare ogni senso del limite, della misura e del destino, non può che condurlo all’autodistruzione.

In questione è dunque l’ "umanismo" nelle sue varie versioni. Qualcuno potrebbe pensare che proprio questa critica dell’umanismo sia essa stessa intimamente nichilistica e conduca a svalutare la dignità, la nobiltà e il senso della vita umana nell’intero. Niente affatto.

L’uomo sta sì a fondamento del senso, ma solo in quanto fondamento nullo e gettato. Insieme al grande pensiero orientale (mi riferisco qui in particolare agli apporti del buddhismo zen e del taoismo), insieme pure a Meister Eckhart si tratta qui di pensare la Nichtigkeit che ci caratterizza non in senso nichilistico, di pensare il vuoto e i "fiori del vuoto"[3], il ridimensionamento dell’ego.

La dissoluzione del soggetto metafisico, la coscienza dell’impermanenza, della nullità di noi stessi, del non-possesso, del non-attaccamento, di ciò che Meister Eckhart chiamava Abgeschiedenheit (distacco)[4] sono la via per l’acquisizione della nostra ricchezza autentica, non vana e illusoria.

Il nulla non è mai semplicemente il nulla d’altri o d’altro, esso va pensato, sempre e innanzitutto, anche come il mio nulla, il niente di me stesso, il nulla che mi spazza via una volta per tutte, il nulla dei miei piaceri e dei miei dolori, delle mie sensazioni e dei miei pensieri, dei miei sentimenti e dei miei affetti. Il pensiero ancor oggi fatica a fare i conti radicalmente col problema del nulla, tende quasi irresistibilmente ad aggrapparsi a presunte certezze, a cercare consolazioni e teme giustamente un approdo sterilmente nichilistico.

La coscienza della Nichtigkeit ci affranca da ogni volontà di dominio e di prevaricazione, da ogni miope ego-mania, da ogni arbitrario e metafisico presunto primato di un Soggetto, ci dispone alla fruizione del mondo libera dalla violenza del potere, nella condivisione della condizione umana. E ci apre alla possibilità della ricchezza umana intesa come ricchezza di sentimenti, affetti, parole, relazioni, gesti, pensieri, azioni.


NOTE:

[1] K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), in Die Frühschriften, Hsg. von S. Landshut, "Geleitwort" von O. Negt, Kröner, Stuttgart 2004, p. 283; trad. it. di R. Panzieri riv. da N. De Domenico, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, III, 1843-1844, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1976, p.197.

[2] Cfr. M. Heidegger, Seminar in Zähringen 1973, in Seminare (1951-1973), vol. XV della Gesamtausgabe, a cura di C. Ochwadt, Klostermann, Frankfurt am Main 1986; trad. it. di M. Bonola, Seminari, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1992, in particolare le pp. 164-168.

[3] Cfr. Giuseppe Jisō Forzani, I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

[4] Cfr. "Del distacco", in Meister Eckhart, Dell’uomo nobile. Trattati, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1999, pp. 129-152.


Rispondere a questa breve

Forum