“Ius soli” cade il tabù
di Michele Ainis (La Stampa, 11 gennaio 2010)
La prima riforma degli Anni Dieci non ha il timbro della legge, né tantomeno della legge costituzionale. Viaggia su una vettura più dimessa, più modesta: la circolare ministeriale. Quella con cui il ministro Gelmini ha comunicato ai presidi che il tetto del 30% di alunni stranieri nelle classi non riguarda tutti gli stranieri. Non riguarda, più in particolare, gli stranieri nati qui. Che dunque da oggi sono un po’ meno estranei alla terra su cui hanno spalancato il loro primo sguardo, o meglio sono diventati un po’ italiani.
Una novità a ventiquattro carati: è la prima applicazione dello ius soli in un ordinamento che continua ad essere improntato allo ius sanguinis.
Rispetto al fatto nuovo, non è poi così importante interrogarsi sulle ragioni che lo hanno generato. Può darsi che un tetto rigido, senza compromessi né eccezioni, avrebbe svuotato troppe scuole, dato che i figli degli immigrati sono maggioranza in varie aree del Paese. Può darsi che una riforma per via legislativa s’infrangerebbe contro l’altolà di Bossi e della Lega, e quindi meglio scavalcare il Parlamento. O infine può darsi che in Italia le uniche riforme si facciano sottovoce: non abbiamo forse battezzato l’elezione diretta del presidente del Consiglio senza scomodare la Costituzione, limitandoci a cambiare la scheda elettorale?
Ma il fatto nuovo è figlio a propria volta della nuova società in cui siamo immersi mani e piedi. Nel 2007 gli stranieri iscritti nei registri anagrafici sono cresciuti di 460 mila unità, più dell’anno prima, e dell’anno prima ancora. Questi stranieri hanno dato alla luce 64 mila bambini, il 90% in più rispetto al 2001. E tutti loro - i padri e i figli - sono ormai 4 milioni, solo a contare gli immigrati regolari. Sennonché questi immigrati restano stranieri nella loro nuova Patria: nel 2005 gli abbiamo concesso 19.266 cittadinanze, un terzo rispetto alla Spagna, un decimo rispetto alla Germania, un grammo di polvere rispetto alle 154.827 cittadinanze elargite quello stesso anno dalla Francia.
Possiamo allora accompagnare con un viatico questa circolare? Il viatico è al contempo una speranza, quella d’abitare in un Paese dove le riforme siano proclamate a tutto tondo, senza sotterfugi normativi. Dove la legge del 1992 sulla cittadinanza venga corretta per adeguarla ai nuovi tempi: oggi servono 10 anni (ma in realtà non meno di 13), la proposta bipartisan Sarubbi-Granata (pendente dal 30 luglio in Parlamento, e sottoscritta da 50 deputati di ogni gruppo, a eccezione della Lega) dimezza questo termine. E trasforma inoltre la cittadinanza italiana in un diritto, anziché in una graziosa concessione delle autorità amministrative. Con un giuramento e con un esame d’italiano, perché non c’è diritto senza l’adempimento d’un dovere. Ma in un tempo certo e ragionevole, che diventa automatismo per i figli degli immigrati residenti da 5 anni. Non è buonismo: specialmente dopo i fatti di Rosarno, è un esercizio di realismo.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
TOMMASO CAMPANELLA (Wikipedia)
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
TEOLOGIA-POLITICA LUCIFERINA... A SILVIO BERLUSCONI UN "NOBEL"
Ius scholae: cosa prevede e perché è un’opportunità di uguaglianza
La legge sulla cittadinanza attualmente in vigore risale al 1992. In trent’anni il mondo è cambiato (più volte) ed è cambiato anche il nostro Paese. La normativa per diventare cittadini italiani è invece rimasta ferma al palo ed è una delle più restrittive in Europa.
di Redazione La Fedeltà - 10 Luglio 2022
La legge sulla cittadinanza attualmente in vigore risale al 1992. In trent’anni il mondo è cambiato (più volte) ed è cambiato anche il nostro Paese. La normativa per diventare cittadini italiani è invece rimasta ferma al palo ed è una delle più restrittive in Europa, per non parlare del confronto con molti Stati americani, laddove quasi ovunque (dagli Usa al Canada, al Brasile) la cittadinanza è collegata direttamente alla nascita sul territorio dello Stato. Ius soli, come sintetizza efficacemente la formula latina.
In Italia, a meno di non avere almeno un genitore italiano (e si parla allora di ius sanguinis), gli stranieri possono chiedere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo dieci anni di permanenza continuativa e i loro figli devono comunque attendere il compimento della maggiore età e dimostrare di aver vissuto in Italia ininterrottamente dalla nascita. È una normativa così lontana dalla realtà maturata in questi tre decenni da produrre spesso risultati paradossali.
I casi che emergono dalle cronache riguardano per lo più il mondo dello sport, con giovani campioni nati e cresciuti in Italia impossibilitati a competere con i colori azzurri, ma ancor più straniante è la situazione di coloro (si stimano in circa un milione i ragazzi costretti in una sorta di limbo giuridico) che a scuola e fuori vivono quotidianamente accanto ai loro coetanei italiani, che magari parlano italiano con le colorite cadenze dei nostri territori, ma per la legge sono a tutti gli effetti degli stranieri.
La proposta di legge in discussione alla Camera intende porre rimedio a questa profonda contraddizione collegando l’acquisizione della cittadinanza a un percorso formativo. Per questo è stato coniato il termine ius scholae.
L’art. 1 del testo all’esame dell’Aula di Montecitorio afferma che acquista la cittadinanza italiana “il minore straniero nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che risieda legalmente in Italia e che, ai sensi della normativa vigente, abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale”. Il testo precisa che “nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è altresì necessaria la conclusione positiva del corso medesimo”. Un apposito decreto interministeriale, previa intesa nell’ambito della conferenza Stato-Regioni, fisserà i requisiti essenziali che devono avere i percorsi formativi “ai fini dell’idoneità a costituire titolo per l’acquisto della cittadinanza”.
Sempre l’art. 1 stabilisce che, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, per acquisire la cittadinanza è necessario che “un genitore legalmente residente in Italia” o “chi esercita la responsabilità genitoriale” esprima una “dichiarazione di volontà” all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore. Dopo di che “entro due anni dal raggiungimento della maggiore età l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza”. Nello stesso termine temporale l’interessato, essendo diventato maggiorenne, può richiedere direttamente la cittadinanza se gli altri titolati non hanno provveduto a farlo precedentemente. Nei sei mesi precedenti il compimento dei diciotto anni, gli ufficiali dell’anagrafe sono tenuti a informare i residenti stranieri della facoltà e dei requisiti per richiedere la cittadinanza italiana. L’inadempimento di tale obbligo sospende i termini di decadenza per la richiesta.
Lo jus scholae non è il primo tentativo di modifica, ce ne sono stati altri negli ultimi dieci anni, dallo jus soli allo jus culturae. Tutti hanno finito per cadere nel dimenticatoio. Però in questo modo alcune persone rischiano di rimanere in una posizione ambigua. Non pienamente inserite, non totalmente incluse.
C’è un rapporto diretto tra mancata inclusione e sfruttamento. Ci sono molte persone che si trovano a vivere lungo un margine. Sono inserite nella società. Affrontano il loro percorso di studi, entrano nel mondo lavorativo, possono essere curati dal sistema sanitario. Tuttavia, non sono completamente inseriti. Ognuno finisce per abitare uno spazio intermedio e subisce le conseguenze di questo suo stato. In quello spazio intermedio attecchisce lo sfruttamento. Lo sanno i migranti che barattano il loro sogno di futuro per un permesso di soggiorno lavorativo ottenuto per cogliere pomodori e vivere in fatiscenti strutture di lamiera. Lo sanno i giovani lavoratori che fanno finta di non conoscere alcuni dei loro diritti per cercare di mantenere l’occupazione per cui hanno studiato. Lo imparano presto i ragazzi e le ragazze di seconda generazione che sono in Italia, conoscono l’italiano e il dialetto della città dove vivono, hanno stili di vita identici ai loro amici e tifano le loro stesse squadre di calcio, ma a loro è impedito di sentirsi completamente accettati e inseriti.
Ius soli, parlamentari e insegnanti iniziano sciopero fame: "Per non doverci rammaricare"
Ampia la risposta all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma. Digiuno a partire da oggi
di VLADIMIRO POLCHI (la Repubblica, 03 ottobre 2017)
ROMA - Uno sciopero della fame tra i parlamentari "per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza". Deputati e senatori rispondono all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma dello ius soli. E dichiarano di essere pronti a digiunare a partire da oggi, assieme a 800 insegnanti a sostegno della legge sulla cittadinanza.
"Cara collega, caro collega - si legge nell’appello a cui aderiscono anche i Radicali italiani, il segretario Riccardo Magi e la presidente Antonella Soldo - vi scriviamo perché siete tra coloro che, dal primo momento e con maggiore determinazione, hanno sostenuto le buone ragioni della legge sullo ius soli. Ogni giorno lo spiraglio - pur esile, esilissimo - che sembra aprirsi sulle possibilità di una approvazione del testo, tende a chiudersi. Qualcosa si deve pur fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza. Se, come tutto sembra indicare - e come segnalano anche le ripetute dichiarazioni del ministro Del Rio - questi sono giorni decisivi, proviamo a muoverci".
"Oggi, 3 ottobre - giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione - oltre 800 insegnanti attueranno uno sciopero della fame a sostegno della legge e informeranno i loro studenti del significato della propria azione. Potrebbe essere l’occasione, questa, per collegarsi a tale iniziativa rilanciandola nella nostra qualità di parlamentari. Si tratta di prendere una decisione immediatamente. L’ipotesi è quella di un digiuno a staffetta a sostegno della richiesta della presentazione in Aula prima possibile del disegno di legge. Dunque, per tenere aperto questo spiraglio e provare a inserirci in esso in maniera attiva ed efficace, coinvolgendo il maggior numero di persone affinché il governo decida di porre la fiducia".
"I tempi potrebbero essere i seguenti: mercoledì 4 ottobre ci sarà il voto a maggioranza assoluta sulla nota di variazione di bilancio DEF. Dopo di ché si apre una sorta di finestra. Infatti la legge di stabilità arriverà in Senato (alle Commissioni) nell’ultima settimana di ottobre. Il calendario dei lavori dell’Aula si ferma a giovedì 19 ottobre. Occorrerà dunque una nuova Conferenza dei capigruppo. Ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo allo ius soli. Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna Ero straniero. L’umanità che fa bene e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della legge Bossi-Fini. I due obiettivi potrebbero sostenersi e incentivarsi a vicenda. Pensiamo, in ogni caso, che si tratti di una prova difficile ma che vale la pena affrontare".
"Le modalità del digiuno a staffetta, a sostegno di questo percorso, verranno precisate puntualmente nelle prossime ore. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle 16, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione alla quale sarebbe opportuno che tutti noi partecipassimo, promossa dalla rete degli "Italiani senza cittadinanza". Ti chiedo la tua adesione all’iniziativa nel più breve tempo possibile. Già una trentina di deputati si sono dichiarati disponibili a condividere con noi l’atto del digiuno. Aspettiamo la vostra adesione". Firmato: Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini.
Hanno aderito finora: Loredana De Petris, Vannino Chiti, Walter Tocci, Laura Fasiolo, Francesco Palermo, Sergio Lo Giudice, Stefano Vaccari, Claudio Micheloni, Monica Cirinnà, Daniela Valentini, Laura Puppato, Luis Alberto Orellana, Massimo Cervellini, Peppe De Cristofaro, Alessia Petraglia, Deputati Michele Piras, Sandra Zampa, Mario Marazziti, Franco Monaco, Luisa Bossa, Eleonora Cimbro, Florian Kronbichler, Paolo Fontanelli, Nello Formisano, Gianni Melilla, Lara Ricciatti, Pippo Zappulla, Marisa Nicchi, Michele Ragosta, Luigi Laquaniti, Giovanna Martelli, Donatella Duranti, Toni Matarrelli, Filiberto Zaratti, Franco Bordo, Filippo Fossati, Tea Albini, Delia Murer.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
CITTADINANZA E "IUS SOLIS" (DIRITTO DEL SOLE). USCIRE DALLA CAVERNA, NON RINCHIUDESRI DENTRO .... *
Ius Soli
Figli nostri e figli dello Stato
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 28.09.2017)
LA RESISTENZA antropologica e psicologica, oltre che politica ed elettoralistica, allo Ius soli rende manifesta una tendenza sempre presente nella realtà umana: difendere il proprio status narcisistico, sociale e identitario dal rischio perturbante della contaminazione. È quella inclinazione autistica della vita umana che aveva condotto Freud a paragonare la sua condizione primordiale di esistenza a un guscio chiuso su se stesso e ostile per principio al mondo esterno, colpevole di essere “straniero e apportatore di stimoli”.
Questa concezione corazzata dell’identità nei tempi di crisi tende inevitabilmente a rafforzarsi e a sclerotizzarsi. La paura dello straniero incentiva l’edificazione di una versione dell’identità fobica, refrattaria allo scambio, iper-difensiva. I confini diventano muraglie, cessano di essere porosi, acquistano la consistenza del cemento armato. In un tempo dominato dal panico sociale generato dalla durezza della crisi economica, dal carattere anarchico e inarrestabile dei flussi migratori e dalla follia terrorista, la solidificazione dell’identità tende a configurarsi come una reazione giustificata alla minaccia incombente. I rigurgiti nazionalisti, etnici, populisti, sovranisti che caratterizzano la scena politica non solo nazionale ma internazionale cavalcano irresistibilmente questa onda. Ma la vita della città senza contaminazione è destinata all’imbarbarimento esaltato della setta, alla psicologia totalitaria delle masse. In questo senso dovrebbe essere chiaro a tutti che la partita dell’integrazione è il più grande antidoto ad ogni forma di violenza compresa quella del terrorismo.
Come non considerare che in questo mondo nuovo attraversato dall’esperienza inevitabile della contaminazione, del cosmopolitismo, dello scambio, della flessibilità dei confini, la nozione di cittadinanza deve essere radicalmente riformulata? Le situazioni di crisi non necessariamente sono destinate ad accentuare una difesa strenua contro quello che pare ingovernabile. È un insegnamento che proviene dalla vita psichica: il tempo di maggiore crisi - se elaborato nella direzione giusta - spesso coincide con il tempo delle trasformazioni più generative. L’attraversamento di una malattia non riporta mai la vita a com’era prima, ma la può rendere più ricca, più sensibile alla vita, più capace di vita. In questo senso la crisi può essere sempre un’occasione di apertura più che di chiusura.
La battaglia politica e culturale dello Ius soli potrebbe diventare un esempio luminoso. Alla tentazione della chiusura e del barricamento identitario vincolato al sangue e al particolarismo dell’etnia - che sono, in realtà, la faccia speculare della globalizzazione universalistica - si può rispondere ponendo con forza il tema della rifondazione positiva del senso di appartenenza alla vita della città. La psicoanalisi lo verifica quotidianamente nella sua pratica clinica: l’integrazione cura la dissociazione; l’esperienza del riconoscimento cura l’odio; la condivisione cura il senso di segregazione.
Il legame familiare, forse più di ogni altro, ci offre un esempio significativo di giusta cittadinanza. Non si diventa padri o madri perché si genera biologicamente una vita. La vita del figlio è tale solo se viene simbolicamente adottata al di là del sangue e della stirpe. C’è genitorialità solo se ci assumiamo la responsabilità illimitata che il prendersi cura della vita di un figlio comporta.
Questa nozione di responsabilità non è mai un fatto di sangue, ma implica un consenso, un atto, una decisione simbolica. Allo stesso modo lo Stato ha il dovere etico di adottare - di riconoscere come suoi figli - coloro che non solo e non tanto nascono nel suo territorio, ma si riconoscono come parte integrante di quello Stato contribuendo alla sua vita. Diversamente l’idea che la cittadinanza sia un diritto vincolato al sangue è un’idea fondamentale del Mein Kampf di Hitler. L’origine del razzismo e di ogni genere di fanatismo hanno sempre come loro fondamento l’ideale della purezza etnica che esclude il pluralismo.
La battaglia per lo Ius soli è una battaglia di Civiltà dal respiro ampio. Non riflette un colore politico. Per questa ragione i numeri non dovrebbero essere tutto. I partiti che la ritengono giusta dovrebbero mantenere il loro sguardo alto. In gioco non è un semplice guadagno elettorale ma il senso stesso del mondo.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ... GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Forza Nuova organizza una nuova “marcia su Roma”
La proposta su Facebook: “Contro lo Ius soli e per fermare le violenze degli immigrati”. Pd e Possibile: “Va vietata perché è anticostituzionale”
Una nuova marcia su Roma il 28 ottobre, 95 anni dopo rispetto a quella delle camicie nere che portò al potere Mussolini. L’idea è di Forza Nuova, anche se il nome è diverso: si chiamerà “marcia dei patrioti”. Come riporta Repubblica, l’evento è stato lanciato il 3 settembre sulla pagina Facebook della formazione di estrema destra. Segno dei tempi che cambiano, c’è anche un conto PayPal, aperto per raccogliere le donazioni in sostegno della marcia.
Una marcia “per dire no allo ius soli”
Proprio sui social network di Forza Nuova le adesioni sono state entusiastiche: tanti “patrioti” hanno confermato la loro presenza, mossi dall’onda nostalgica. «Bandiere, striscioni, auto, pullman, benzina - si legge nell’annuncio su Facebook - Compatriota, la macchina organizzativa è in moto e ha bisogno del tuo sostegno concreto. Il 28 ottobre Roma ospiterà la grande marcia forzanovista contro un governo illegittimo, per dire definitivamente no allo ius soli e per fermare violenze e stupri da parte degli immigrati che hanno preso d’assalto la nostra Patria».
Le reazioni politiche
Diversi gli appelli al Viminale affinché vieti la marcia. «Non si può tollerare l’ennesima provocazione da parte dei fascisti di Forza Nuova nei confronti della capitale e della storia di questo Paese», commenta Marco Miccoli, deputato romano del Pd. Pippo Civati e Andrea Maestri di Possible sostengono che la marcia viola la Costituzione, la legge Scelba e la legge Mancino. Giulio Marcon, capogruppo dei deputati di Sinistra Italiana-Possibile presenterà un’interrogazione al Ministro dell’Interno.
La marcia del 1922
La marcia su Roma nel 1922 venne organizzata dal Partito Nazionale Fascista e guidata da Benito Mussolini. Circa 25.000 fascisti si diressero nella capitale, rivendicando la guida politica del Regno d’Italia. La manifestazione eversiva si concluse il 30 ottobre, quando il re Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare un nuovo governo.
* La Stampa, 06/09/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Messaggio di Papa Francesco: "Sì allo ius soli e allo ius culturae"
Il pontefice in un’anticipazione del messaggio che invierà per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato *
CITTÀ DEL VATICANO - Al momento della nascita "va riconosciuta e certificata" la nazionalità e a tutti i bambini "va assicurato l’accesso regolare all’istruzione primaria e secondaria". Papa Francesco, nel suo Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, che si celebrerà il prossimo 14 gennaio (tema: ’Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati’) prende esplicitamente posizione sullo ius soli e manifesta appoggio anche allo ius culturae in quanto chiede sia riconosciuto il diritto a completare il percorso formativo nel paese d’accoglienza.
Il Pontefice ricorda che la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo "offre una base giuridica universale per la protezione dei minori migranti. A essi - dice il Papa - occorre evitare ogni forma di detenzione in ragione del loro status migratorio, mentre va assicurato l’accesso regolare all’istruzione primaria e secondaria. Parimenti è necessario garantire la permanenza regolare al compimento della maggiore età e la possibilità di continuare degli studi. Per i minori non accompagnati o separati dalla loro famiglia è importante prevedere programmi di custodia temporanea o affidamento. Nel rispetto del diritto universale a una nazionalità - sottolinea Francesco -, questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita".
Ma accogliere i migranti significa offrire loro "più ampie di ingresso sicuro e legale nei paesi di destinazione", per esempio attraverso "corridoi umanitari", e "una prima sistemazione adeguata e decorosa" aggiunge papa Francesco. Occorre dunque anche "un impegno concreto affinché sia incrementata e semplificata la concessione di visti umanitari e per il ricongiungimento familiare". "Sarebbe opportuno, inoltre, prevedere visti temporanei speciali per le persone che scappano dai conflitti nei paesi confinanti. Non sono una idonea soluzione le espulsioni collettive e arbitrarie di migranti e rifugiati, soprattutto quando esse vengono eseguite verso paesi che non possono garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali".
Dietro tutto questo ci vuole però un cambio culturale, dice il Pontefice, e un’alleanza tra tutte le istituzioni. "Insisto ancora sulla necessità di favorire in ogni modo la cultura dell’incontro, moltiplicando le opportunità di scambio interculturale, documentando e diffondendo le buone pratiche di integrazione e sviluppando programmi tesi a preparare le comunità locali ai processi integrativi". "In conformità con la sua tradizione pastorale, la Chiesa è disponibile ad impegnarsi in prima persona per realizzare tutte le iniziative sopra proposte, ma per ottenere i risultati sperati è indispensabile - fa notare il pontefice - il contributo della comunità politica e della società civile, ciascuno secondo le responsabilità proprie".
Ricorda ancora papa Francesco: "Durante i miei primi anni di pontificato ho ripetutamente espresso speciale preoccupazione per la triste situazione di tanti migranti e rifugiati che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni, dai disastri naturali e dalla povertà. Si tratta indubbiamente di un ’segno dei tempi’ che ho cercato di leggere, invocando la luce dello Spirito Santo sin dalla mia visita a Lampedusa l’8 luglio 2013. Nell’istituire il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ho voluto che una sezione speciale, posta ad tempus sotto la mia diretta guida, esprimesse la sollecitudine della Chiesa verso i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le vittime della tratta".
Questo non vuol dire però abbassare la guardia sulla sicurezza, avverte Bergoglio. "Il principio della centralità della persona umana, fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI, ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale. Di conseguenza, è necessario formare adeguatamente il personale preposto ai controlli di frontiera".
Filosofi per lo ius soli. *
Ci rivolgiamo alle senatrici e ai senatori della Repubblica affinché venga approvata la legge che conceda finalmente la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati non solo per ius soli, ma anche - com’è giusto che sia - per ius culturae. È una legge di civiltà, che supera quel «diritto del sangue» che ancora prevale.
Sono tanti gli adolescenti giunti nel nostro paese che, dopo aver frequentato le scuole italiane per anni, attendono un segno concreto di ospitalità.
Occorre riconoscere i loro diritti, che sono anche i nostri. Non approvare questa legge sarebbe una sconfitta, prima ancora che per loro, per noi che ci definiamo «italiani», che veniamo dalla tradizione dell’umanismo, che non possiamo dimenticare l’esempio della «cittadinanza» romana, che vorremmo nel futuro prossimo avere più voce in Europa.
Remo Bodei, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito Alessandro Dal Lago, Michela Marzano, Mauro Bonazzi, Adriana Cavarero, Salvatore Veca, Giacomo Marramao, Paolo Flores d’Arcais, Massimo Donà, Marta Fattori, Adriano Fabris, Nicola Panichi, Eugenio Mazzarella, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Caterina Resta, Piergiorgio Donatelli, Marcello Mustè, Simona Forti, Leonardo Caffo, Elettra Stimilli, Dario Gentili, Fabio Polidori, Luca Taddio, Leonardo Amoroso, Massimo Adinolfi, Davide Tarizzo, Laura Bazzicalupo, Massimo De Carolis, Giulio Giorello, Giusy Strumiello, Gian Luigi Paltrinieri, Olivia Guaraldo.
FILOSOFIA - IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO:
CITTADINANZA E "DIRITTO DEL SOLE" ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI").
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
LA LEZIONE DI MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ.
Cittadinanza: Da 13 anni la discussione in Parlamento. Che fine ha fatto?
Ius soli in discussione in commissione Affari Costituzionali del Senato dopo l’ok della Camera oltre un anno fa
a cura di Alessandra Chini *
Si torna a discutere di cittadinanza dopo che Matteo Orfini, attuale numero uno del Pd dopo le dimissioni di Matteo Renzi, ipotizza che sulla proposta di legge che dovrebbe approdare in Aula al Senato il governo ponga la fiducia. Ipotesi respinta al mittente dai centristi che la vedono, anzi, come una provocazione atta a creare un casus belli nel governo.
Ma è da moltissimo tempo che il tema è all’ordine del giorno delle Camere e un anno e mezzo fa, a metà ottobre 2015, Montecitorio ha anche approvato un testo, finito, poi, però, nelle ’sabbie mobili’ in commissione a Palazzo Madama. A un anno dall’ok a quel testo un gruppo di giovani ha deciso di scrivere direttamente ai senatori e organizzare iniziative per porre l’accento sulla questione. Che tocca un milione di ragazzi. "Paula, Mohamed, Marwa - dice l’ex ministro Cecile Kyenge - sono i nomi dei compagni di scuola e degli amici che ogni giorno giocano con i nostri figli, crescono con loro ma non hanno i loro stessi diritti. Sono un milione, sono italiani, ma non per la legge italiana. Hanno il diritto di essere come noi, perché lo sono: italiani. Ogni giorno che passa è un giorno perso, anche per il Paese. Perché lo ius soli è un bene per il nostro Paese. Per questo deve diventare legge il più presto possibile. Ius soli subito".
La mobilitazione dei ragazzi, che hanno anche creato su Facebook un gruppo per spingere la proposta di legge li ha portati a un incontro con il presidente del Senato, Pietro Grasso che si è impegnato sul tema. "Ho incontrato i promotori della legge sulla cittadinanza - ha detto - e mi sono espresso sulla necessità che venga approvata al più presto. M’impegno a sollecitare la trattazione di questa proposta". "Purtroppo le Commissioni stabiliscono priorità - ha aggiunto Grasso - che sfuggono a quelle che possono essere le percezioni e le esigenze dei cittadini".
Approvato dalla Camera a metà ottobre del 2015, è da tempo sottoposto a vari stop and go in commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama. Intanto il 14 gennaio 2016 è stato approvato in via definitiva lo ’ius soli sportivo’. Una proposta di legge che prevede la possibilità di tesseramento in società sportive, dai 10 anni in avanti, di bimbi stranieri nati o residenti in Italia da quando sono piccoli.
E’ da tredici anni anni che in Parlamento si discute di una riforma in materia di cittadinanza.
LE TAPPE DEL PROVVEDIMENTO - Tra il 2003 e il 2004 la commissione Affari Costituzionali della Camera esamina diverse proposte parlamentari ed elabora un testo unificato che, dopo l’esame in commissione, approda in Aula ma viene rimandato in commissione il 16 maggio 2004. Nella XIV legislatura la Camera ci riprova. Se ne riparla a partire dal 3 agosto 2006 con una indagine conoscitiva. Nel gennaio 2008 per il testo sembrerebbe la ’volta buona’ dopo una discussione in commissione ma la legislatura si interrompe e l’iter deve ricominciare da capo. Anche la successiva legislatura mette all’ordine del giorno la questione ma il 12 gennaio 2010 il testo approda nuovamente in Aula e nuovamente viene rimandato in commissione per approfondimenti. Dal 14 giugno 2012 è partito un nuovo tentativo in commissione con l’esame di alcune proposte. Il 31 luglio 2012 si è concluso l’esame preliminare delle proposte di legge ma la commissione non è riuscita a elaborare un testo base e l’esame è stato interrotto l’8 novembre 2012. Dal 27 giugno del 2013 si riprende l’esame alla Camera ed è stato approvato a metà ottobre del 2015. Il provvedimento è da allora in discussione in commissione Affari Costituzionali in Senato.
ECCO COSA PREVEDE - Il testo contiene lo "Ius soli soft" che consentirà ai figli degli immigrati nati in Italia di ottenere la cittadinanza nel rispetto di alcuni paletti. In base alle nuove regole, i minori stranieri nati in Italia o residenti da anni nel Paese potranno ottenere la cittadinanza italiana, purché rispettino alcune condizioni come la frequenza scolastica o la residenza nel Paese da più anni da parte di uno dei genitori. Rispetto allo ius soli classico (quello adottato negli Usa e in molti paesi del Sudamerica che attribuisce la cittadinanza del Paese a chiunque nasce sul suolo nazionale), lo "Ius soli soft" pone alcune condizioni all’ottenimento della cittadinanza. I bambini figli di stranieri che nascono in Italia acquisiscono la cittadinanza se almeno uno dei due genitori "è residente legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno cinque anni, antecedenti alla nascita" o anche se uno dei due genitori, benché straniero, "è nato in Italia e ivi risiede legalmente, senza interruzioni, da almeno un anno". La cittadinanza italiana verrebbe assegnata automaticamente al momento dell’iscrizione alla anagrafe. I minori nati in Italia senza questi requisiti, e quelli arrivati in Italia sotto i 12 anni - in base al testo - potranno ottenere la cittadinanza se avranno "frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale". I ragazzi arrivati in Italia tra i 12 e i 18 anni, infine, potranno avere la cittadinanza dopo aver risieduto legalmente in Italia per almeno sei anni e aver frequentato "un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo".
Come si diventa italiani,
Il sangue e il suolo
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 23.10.2016)
Caro Angelucci,
Jus sanguinis è un concetto apparentemente fondato sulla convinzione che il popolo di ogni Stato abbia caratteristiche comuni, distinte da quelle di altri popoli. Appartiene alla mitologia degli Stati nazionali ed è servito a creare il sentimento della comune appartenenza a una stessa «stirpe» quando le masse stavano facendo il loro ingresso sulla scena politica. Si temeva allora che fosse pericoloso dare il voto a cittadini che non si sentissero storicamente uniti da un legame storico; e per ovviare a questo rischio fu inventato in molti Stati un passato leggendario, popolato da antichi antenati di cui tutti erano lontani nipoti. Accadde persino in grandi democrazie, come la Francia, dove nelle scuole della III Repubblica gli insegnanti spiegavano agli alunni che i francesi discendevano dai galli. Paradossalmente questo accadeva in un periodo in cui il Paese, per le esigenze della propria economia, importava mano d’opera, in particolare dall’Italia e dalla Polonia.
Anche in Italia, soprattutto in epoca fascista, fu spiegato che nelle vene degli italiani scorreva sangue latino e più tardi, nell’ultima fase del fascismo, addirittura sangue ariano. Nella realtà, tuttavia, l’Italia ha sempre adottato uno «jus sanguinis» mitigato e corretto. Il ragazzo nato in Italia da genitori stranieri diventava italiano alla maggiore età se accettava di fare il servizio militare, mentre la ragazza straniera diventava automaticamente italiana se sposava un cittadino italiano.
Da allora molte leggi sono state ritoccate e lo «jus sanguinis» è ormai un concetto colorato di razzismo che si preferisce menzionare il meno possibile. Ma negli anni Novanta è stato pur sempre applicato dal governo italiano con molta liberalità ai discendenti di emigrati soprattutto nelle Americhe. Prevale tuttavia, in linea di principio, lo «jus soli», ma non senza qualche attenuazione. L’Europa non è l’America, dove il bisogno di nuove braccia ha reso lo «jus soli» una necessità nazionale.
Nei Paesi europei il regime della naturalizzazione varia da un Paese all’altro. È particolarmente liberale in Francia dove il cittadino straniero può chiedere la cittadinanza dopo avere vissuto nel Paese per cinque anni. È più avaro in Italia dove sono necessari dieci anni e il giovane nato qui da genitori stranieri diventa italiano alla maggiore età.
Insulti alla Kyenge
Così il Senato sdogana il razzismo
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 07.02.2015)
Il razzismo è al bando in Europa. Lo vieta la nostra Costituzione, come lo vietano le dichiarazioni dei diritti fondamentali in Europa, cui anche l’Italia è legata.
La condanna del razzismo, in tutte le sue forme, fa parte del nocciolo duro dell’identità culturale e morale d’Europa. In Italia poi v’è un motivo specifico per essere ipersensibili e vigilanti, dal momento che abbiamo prodotto le non dimenticate leggi razziali. Eppure vi è molta tolleranza rispetto al razzismo.
Atteggiamenti ed espressioni razziste si vedono in situazioni di disagio sociale grave, in qualche modo connesso con la convivenza difficile con persone e gruppi di origine etnica diversa, come in certe periferie urbane. Quegli atteggiamenti sono da respingere, come quelli frutto di grossolanità e incultura che si vedono nelle curve degli stadi. Ma che dire quando il razzismo ostentato e compiaciuto, irresponsabilmente sorridente è mostrato da chi ha responsabilità politiche e un rilevante ruolo pubblico? La Costituzione e la legge condannano il razzismo, in modo che esso non rientra nella libertà di espressione. Tanto meno il razzismo è tollerabile quando chi se ne fa portavoce, per la posizione pubblica che riveste, ha influenza e eco nella società.
Il senatore Calderoli, vice presidente del Senato, nel corso di un comizio, ha paragonato a un orango Cécile Kyenge, medico italiano di origine congolese, all’epoca ministro dell’Integrazione. Un evidente insulto razzista, privo di qualunque connessione con le posizioni politiche da essa difese, che legittimamente un avversario politico poteva criticare. Un insulto per l’aspetto, il colore, la nascita: razzista, appunto.
Anche in Italia un simile insulto è punito come reato. Ma i parlamentari, come stabilisce la Costituzione, non rispondono delle opinioni espresse nell’esercizio della loro funzione. Se dunque il senatore Calderoli si fosse espresso in quei termini insultanti nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari, egli sarebbe non punibile. Ed è proprio questa la conclusione cui è arrivata la maggioranza della Giunta delle immunità del Senato, all’esito di una discussione in cui si è visto richiamato il diritto di usare espressioni anche aspre nel dibattito politico, si è menzionato il diritto di satira e perfino si è arrivati a dire che «spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose» (sen. Cucca, Pd).
E per escludere che le parole del senatore Calderoli siano offensive, si è sottolineato che non vi è una querela della vittima. La dignità personale della ministra Kyenge, che ha ritenuto che un’offesa razzista riguardi la comunità nazionale tutta e non la sua sola persona, è stata utilizzata per proteggere l’offensore. E dunque si tratterebbe di lecita critica politica.
Naturalmente questa è una decisione politica, su cui hanno pesato considerazioni di interesse politico. Infatti è stata richiamata l’importanza della funzione svolta dal senatore Calderoli (con cui evidentemente è meglio aver buoni rapporti). Ma la naturale politicità della decisione non chiude il discorso; anzi impone di chiedersi quale politica sia quella che, per esigenze di rapporti politici in Parlamento, chiude gli occhi sul razzismo.
La Giunta delle immunità avrebbe dovuto valutare se si era trattato di esercizio delle funzioni parlamentari, poiché l’insindacabilità delle opinioni dei membri del Parlamento non riguarda genericamente l’ambito della attività politica. Sia la Corte Costituzionale, sia la Corte europea dei diritti umani hanno più volte ritenuto che la prassi del Parlamento italiano di coprire ogni genere di attività politica sia esorbitante e inaccettabile rispetto alla esigenza di riconoscere i diritti altrui. E’ facile quindi che, se il Senato approverà la proposta della Giunta, la Corte Costituzionale sia chiamata ad annullarla come contraria alla Costituzione. Ma anche di questa questione la Giunta non si è data cura.
La volgarità del lessico di tanti politici è da tempo divenuta abituale in Italia. Si tratta di un abbrutimento della dialettica politica, che naturalmente non resta in patria, ma fa subito il giro del mondo, contribuendo anch’esso allo svilimento dell’opinione internazionale sull’Italia. Tanto che qualche anno fa, per certe espressioni del ministro dell’Interno Maroni contro i Rom, intervenne il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, preoccupato per l’effetto che certi discorsi, certo linguaggio tenuto da responsabili politici hanno sulla formazione dell’opinione pubblica, stimolando e legittimando atteggiamenti razzisti.
Il razzismo ostentato con ingiurie rivolte a responsabili politici, diversi dalla maggioranza per origine o colore, non è solo un fatto italiano. Ma qui è tollerato e addirittura nobilitato come legittima manifestazione della funzione parlamentare. La Francia, prima dell’Italia, ha visto ministri che sono stati insultati non per la loro posizione politica, ma per la loro origine. Ora vittima degli stessi insulti è la ministra della giustizia Christiane Toubira. Ma in Francia non si crede che l’insulto razzista rientri nella libertà di espressione. E non si fermano i giudici, poiché sono offesi i valori fondamentali della Repubblica. Che, come anche il Senato dovrebbe credere, sono gli stessi della nostra Repubblica.
Così lo ius soli ha aiutato la Germania a vincere
di Maria Luisa Colledani (Il Sole-24 Ore, 16.07.2014)
Chissà che cosa avrà pensato Helmut Kohl domenica sera davanti alla tv quando Philipp Lahm ha alzato al cielo di Rio la quarta coppa del mondo nella storia della Germania. Il cancelliere della Germania unita, sulle macerie del Muro di Berlino, perentoriamente aveva affermato: «Il nostro Paese non è e non potrà più essere in futuro terra di immigrazione».
Mai sentenza fu più fuori luogo, dopo il successo della squadra di Joachim Löw, in cui il calcio è sinfonia di un’orchestra - i giocatori - con lingue e provenienze diverse. Ci sono turchi (Mesut Özil), tunisini (Sami Khedira), ghanesi (Jérôme Boateng), polacchi (Miroslav Klose e Lukas Podolski, e lo è anche il cancelliere Merkel alla lontana), albanesi (Shkodran Mustafi), tutti vestiti di giallo-rosso-nero e tutti nati in Germania intorno al 1990, così giovani da aprire un’era calcistica.
È vero, non tutti cantano l’inno, ma questa nazionale è come quei palazzi di Potsdamer Platz che, fasciati di vetri ovunque, sono specchio fedele delle strade della capitale. Un mondo, quello tedesco, che ha lasciato il patriottismo e ha elaborato una storia drammatica per farsi modernità, frontiera del vivere globalizzato: a Berlino, la Grande Mela d’Europa, si parlano decine di lingue, la Germania nel 2013 è diventata la seconda destinazione al mondo per immigrati permanenti (dati Ocse: 400mila i nuovi arrivi soprattutto dai Paesi periferici della Ue, una persona su cinque viene da un qualche altrove).
E il Paese, come da Dna, non si è fatto trovare impreparato. Conscio dell’invecchiamento della propria popolazione (entro il 2050 spariranno 12-14 milioni di persone) si è dotato, dopo decenni trascinati fra accordi bilaterali, di una legge sull’immigrazione d’avanguardia.
In vigore dal 2005, la norma prevede che per qualsiasi tipo di permesso si deve dimostrare di essere in regola con il passaporto, di possedere mezzi di sussistenza, una situazione abitativa adeguata, di avere contributi pensionistici per almeno 60 mesi e di non avere subito condanne.
Poche regole, ben chiare, che si affiancano alla possibilità per i bambini nati dopo il 1° gennaio 2000 su suolo tedesco da genitori non tedeschi di acquisire la nazionalità se almeno uno dei due genitori ha il permesso di soggiorno permanente da tre anni (è lo ius soli, grande sogno del presidente Napolitano).
Anche nelle pieghe delle norme volute dal Bundestag nasce la Germania multietnica e vincente di Löw. Certo, la Federcalcio tedesca ci ha messo del suo: esaurita la leva calcistica di Brehme, Klinsmann e Matthäus, si è ristrutturata dall’interno: prima ha cavalcato il Mondiale in casa per ammodernare gli stadi, poi ha costruito venti centri federali e investito 600 milioni di euro in dieci anni nei vivai. Il risultato, prima o dopo, doveva arrivare, d’altra parte la Germania, nel 2009, aveva vinto tre Europei: Under 21, Under 19 e Under 17. E in quelle squadre giocavano già i vari Özil, Boateng e Khedira. Dopo tanti tiri in porta, Rio è solo il gol vincente, il risultato di un progetto, giocato di sponda fra calcio e politica, cogliendo tutte le occasioni, compresa la fame di successo, di conquista sociale che possono avere occhi non proprio teutonici.
I tempi dei Gastarbeiter, i "lavoratori ospiti" che la Germania accolse a partire dagli anni 50, sono finiti, e pure quel tipo di immigrazione. Ora a Berlino, Monaco, Francoforte e Amburgo arrivano ingegneri, web designer, artisti, attratti dai posti di lavoro, da un’economia in movimento, dalla certezza delle regole e da un melting pot avviato al successo. Che in un Paese senza passato coloniale è un triplo salto carpiato riuscito di cui i calciatori sono la fotografia che la Germania ha mostrato al mondo nella notte di Rio.
Una Nazionale non si giudica da un calcio di rigore, non ne ha neppure avuto bisogno contro un’Argentina senza troppa fame. Una Nazionale si giudica dalla fantasia, che è anche scegliere come campo per l’ultimo allenamento prima della finale non il Maracanã ma il Sâo Januário, lo stadio del Vasco da Gama, primo club brasiliano a reclutare i giocatori senza distinzione di razza e di ceto sociale. Un piccolo particolare, solo un particolare; la grandezza e la storia si costruiscono anche così. E Löw lo sa meglio di chiunque altro.
APPELLO FORUM ANTIRAZZISTA DELLA CAMPANIA IUS SOLI /DIRITTO DI CITTADINANZA
di Forum Antirazzista della Campania, p. Alex Zanotelli
Per aderire all’appello vai in fondo alla pagina *
Il Forum anti-razzista della Campania è grato alla neo-ministra dell’integrazione, Cécile Kyenge, di aver proposto all’opinione pubblica italiana il tema della cittadinanza italiana, per tutti coloro che sono nati sul suolo italiano, il cosidetto principio dello ius soli. Il Forum è fiero che , per la prima volta in un governo italiano, ci sia una ministra di origine africana, Cécile Kyenge. E’ un evento storico per il nostro paese.
Per il Forum, il principio dello ius soli è una questione di civiltà ed è uno snodo cruciale per il futuro dell’Italia. Si tratta, fra l’altro, di 600 mila ragazzi/e, nati in Italia da genitori stranieri e che vivono nel limbo dei diritti umani. E’ da vent’anni che si discute su questo tema in questo paese, senza mai arrivare a nulla!
Ci sono decine di proposte di legge che giacciono negli uffici del Parlamento. La più avanzata è quella portata avanti dalla campagna :”L’Italia sono anch’io”, sostenuta da 230 mila firme, che prevede l’applicazione del principio ius soli . Il comitato promotore “L’Italia sono anch’io” ,si è incontrato il 3 maggio scorso con la Presidente della Camera ,Laura Boldrini, che si è impegnata a calendarizzare la discussione su questa proposta di iniziativa popolare.
Per questo siamo grati alla ministra Cécile Kyenge di aver riaperto il dibattito sullo ius soli. Un dibattito che ha scatenato subito il putiferio con toni razzisti e fascistoidi da far rabbrividire. Esprimiamo totale solidarietà alla ministra Kyenge per gli attacchi razzisti di cui è stata oggetto. Purtroppo dobbiamo constatare che il razzismo è un fenomeno in crescendo nel nostro paese.
Per questo sentiamo il bisogno di rilanciare oggi un dibattito pubblico su questo tema così fondamentale: il diritto di cittadinanza italiana per chi nasce sul suolo italiano, un principio già praticato in molti altri paesi. Perché tanta difficoltà ad accettarlo in Italia?
Il Forum antirazzista vuole promuovere un largo dibattito sullo ius soli nella regione Campania e in questa città di Napoli che ospita tanti giovani nati qui , ma che non sono cittadini italiani.
Ci appelliamo al mondo universitario e della ricerca perché riprenda in mano questo tema in dibattiti pubblici e conferenze.
Ci appelliamo al mondo della cultura: scrittori, artisti, musicisti, attori perché sostengano attraverso il loro lavoro il tema dello ius soli.
Ci appelliamo al mondo della scuola perché gli insegnanti con gli studenti approfondiscano i temi della cittadinanza e dell’interculturalità.
Ci appelliamo alle Chiese e alle diverse fedi perché evidenzino che siamo tutti figli di un unico Padre.
Soprattutto chiediamo a tutti (singoli e gruppi) di mettersi insieme per fare rete e così avere più forza per pesare sulle istituzioni e sul governo.
Per questo chiediamo a tutti i cittadini campani di firmare questo appello , memori di quelle parole di Nelson Mandela:”La libertà non è solo spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri . La nostra fede nella libertà deve essere ancora provata.”
Forum Antirazzista della Campania
Napoli,7 giugno 2013
Firmatari:
Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano
IUS SOLI /DIRITTO DI CITTADINANZA
Se chiamare orango la Kyenge “fa parte del linguaggio politico”
di Michele Serra (la Repubblica, 06.02.2014)
Patetico chi pretende che rappresentare il popolo aumenti le responsabilità, elevi le ambizioni e il calibro delle parole. Al contrario, riduce responsabilità, ambizioni e calibro
LEGGERSI le due paginette con le quali la Giunta per le immunità del Senato dichiara non processabile il collega Calderoli, che diede dell’orango a Cécile Kyenge, è utile per capire quanto lo spirito corporativo vincoli tra loro gli esponenti politici, o gran parte di loro, ben al di là di quanto le idee possano dividerli. La discussa parola “casta” risuona, in casi come questo, con indiscutibile efficacia, lampante come un autoscatto.
COMPRESI gli esponenti di Giunta del Pd, che si sono arrampicati sugli specchi pur di difendere il diritto di Calderoli di dire quello che ha detto pagandone zero conseguenze; ed esclusi quelli del Movimento Cinque Stelle, che hanno votato per l’autorizzazione a procedere.
In quel breve e non elevatissimo dibattito tutto fa brodo, dal «diritto di satira» alle «battute umoristiche» alle «critiche, anche con locuzioni aspre, a un avversario politico» al «contesto meramente politico » al fatto che «le dichiarazioni sono state estrapolate da un contesto più ampio », pur di sottrarre la frase razzista del collega Calderoli ad altro giudizio che non sia quello, piccolo e conciliante, dei colleghi di Calderoli. Dare della scimmia a una donna italoafricana, in pubblico e davanti a centinaia di persone, non può essere imputabile di «diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale» perché Calderoli disse quelle cose nel pieno delle sue funzioni di parlamentare.
Non credo che la Giunta e i suoi membri si rendano conto fino in fondo di quanto quel meccanismo di difesa sputtani gravemente proprio quelle “piene funzioni parlamentari” usate come ombrello protettivo e come comodissimo alibi. Perché se ne deduce che la parola politica, proprio perché politica, può essere tranquillamente sciatta o sozza o insultante con fiduciosa irresponsabilià, tanto ci sarà sempre una Giunta di colleghi che provvede a zittire chiunque, querelante o magistrato, voglia chiederne conto. Patetico chi pretende che rappresentare il popolo e fare parte delle istituzioni aumenti le responsabilità, elevi le ambizioni e il calibro delle proprie parole. Al contrario, diminuisce responsabilità, ambizioni e calibro: perché se dai della scimmia a una persona di pelle scura da normale cittadino rischi una querela (il Papa direbbe: uno sganassone). Ma se lo fai da Calderoli, o da collega di Calderoli, puoi stare sereno, non rischi assolutamente niente. L’indimenticabile leghista Speroni, del resto, nella pausa di un dibattito televisivo di parecchi anni fa, mi disse, con ammirevole sincerità: «Guardi, io sono volgare perché rappresento elettori volgari. E questa è la democrazia ». Una visione della rappresentanza, e della politica in toto, che non avrebbe avuto molto successo ad Atene (quella di venticinque secoli fa).
Si capisce che la questione della libertà di parola, in specie della parola politica, è grande; complicata; non certo risolvibile con un paio di querele o, al contrario, con un paio di non-autorizzazioni a procedere. Ma almeno sul piano dell’esempio ci si aspetterebbe che la classe dirigente di un paese europeo pretendesse, da se stessa, un minimo sindacale di compostezza e di decenza. Quante ne bastano per capire che dare dell’orango a una donna italoafricana è una schifezza proprio perché «nel pieno esercizio delle proprie funzioni politiche». In questo senso no, la Giunta per le autorizzazioni non fa pensare alla classe dirigente di un paese europeo.
La legge sulla cittadinanza, bambini in sala d’aspetto
Risponde Sergio Romano (Corriere, 23.05.2013)
Cara Signora,
Quella dello «ius sanguinis» è una categoria piuttosto semplice. Nasce «nazionale» il bambino che viene al mondo nel Paese di cui i suoi genitori (o almeno il padre) sono cittadini; ed è «nazionale», generalmente, anche se la famiglia, in quel momento, vive in un altro Paese. Nel caso dello ius soli tutto è molto più complicato. Come ha già spiegato Gian Antonio Stella sul Corriere del 7 maggio, molti Paesi, in questi ultimi anni, hanno adottato lo ius soli e hanno riconosciuto ai bambini, in linea di principio, il diritto alla cittadinanza del Paese natale. Ma hanno disegnato percorsi che variano da uno Stato all’altro. Accanto all’articolo di Stella, il Corriere ha pubblicato uno schema da cui risultano alcuni dei criteri adottati nei Paesi dell’Unione Europea.
In Spagna è cittadino chi nasce nel Paese da genitori di cui almeno uno è nato sul posto; ma si può acquisire la cittadinanza anche dopo dieci anni di residenza o un anno dal matrimonio con un cittadino spagnolo.
In Irlanda è cittadino il figlio di genitori stranieri che risiedono nel Paese da almeno tre anni.
Nei Paesi Bassi la cittadinanza si acquista al compimento dei diciotto anni.
In Francia il bambino è immediatamente francese se nasce da genitori stranieri ma nati in Francia.
In Germania, vale a dire nel Paese che in passato fu maggiormente caratterizzato dallo ius sanguinis, il bambino è tedesco se uno dei genitori vive nel Paese da almeno otto anni e ha un permesso di soggiorno da tre.
In Italia, infine, vale la regola dei diciotto anni, come nei Paesi Bassi, ma l’apolide e il rifugiato politico possono ottenere la cittadinanza entro cinque anni e i figli di cittadini della Ue entro quattro.
Per lo Stato italiano, quindi, il problema non è quello di passare dallo ius sanguinis alla ius soli, ma di rendere quest’ultima categoria meno restrittiva di quanto sia attualmente.
Certo, come lei scrive, i problemi più urgenti del Paese sono altri. Ma non vedo perché il ministro dall’Integrazione (quando esiste, come nel caso del governo italiano) dovrebbe rinunciare ad aggiustare una legge che non risponde più alle caratteristiche di un Paese in cui la popolazione cresce ormai soltanto grazie alla presenza di una forte comunità straniera.
Ius Scholae
Oltre il diritto di sangue oltre il diritto del suolo
Diamo la cittadinanza agli stranieri che vanno a scuola
di Maurizio Ferrera (Corriere La Lettura, 10.02.2013)
Forse non sarà all’ordine del giorno nella prima riunione del nuovo governo (come promette il programma del Pd), ma è certo che la questione della cittadinanza agli immigrati dovrà essere seriamente affrontata nella prossima legislatura. In Italia risiedono stabilmente quasi tre milioni e mezzo di persone che provengono da Paesi non appartenenti all’Ue. Il nostro «tasso di naturalizzazione» si situa però al di sotto della media Ue ed è pari alla metà di quello francese o britannico. Siamo in altre parole fra i Paesi più avari nel concedere la cittadinanza agli immigrati, e in particolare ai loro figli, anche se nati in ospedali italiani. Si tratta di 650 mila minori in tutto, 75 mila nuove registrazioni all’anno. Questi ragazzi parlano la nostra lingua, guardano la televisione, vanno a scuola, dove studiano storia, geografia e letteratura italiana. Ma sono considerati «extracomunitari» o semplicemente «stranieri».
L’acquisizione della nazionalità è attualmente disciplinata dalla legge 91 del 1992. È automaticamente cittadino chi nasce da genitori italiani o possa vantare una discendenza diretta da cittadini italiani, anche senza essere nato nel nostro Paese. Per chi non possiede questi requisiti la naturalizzazione è un percorso a ostacoli. Bisogna prima ottenere un permesso e poi una carta di soggiorno. Le norme che disciplinano queste tappe dovrebbero essere allineate a una direttiva del 2004, ma purtroppo non è così. Le procedure sono più lunghe, macchinose e restrittive di quanto previsto dalla direttiva.
Dopo dieci anni di residenza legale, si può chiedere la cittadinanza. La media degli altri Paesi è di cinque anni e, paradossalmente, era così anche in Italia prima della legge del 1992. La nazionalità si può successivamente trasmettere ai figli, come un’eredità. Se ciò non avviene, questi ultimi restano stranieri residenti. Dopo i 18 anni, possono, sì, chiedere la cittadinanza, ma solo se risultano nati sul suolo italiano, sono stati immediatamente registrati all’anagrafe (cosa che non avviene se i genitori sono o erano irregolari) e hanno soggiornato senza interruzioni in Italia per diciotto anni (molti figli di immigrati trascorrono lunghi periodi con i parenti nel Paese di origine).
Un sistema anacronistico, che stride con le migliori pratiche internazionali, ingiustamente punitivo oltre che irragionevole sul piano economico, politico e sociale. Il nostro Paese deve urgentemente modernizzare la propria «politica della cittadinanza»: senza massimalismi, ma con coraggio e nel rispetto della cornice europea. Quali direzioni seguire?
Nel corso del XX secolo, la naturalizzazione degli stranieri è stata collegata al cosiddetto ius sanguinis (presenza di genitori o antenati già «nazionali»: caso tipico la Germania) oppure allo ius soli (nascita nel territorio nazionale: casi tipici gli Stati Uniti e la Francia).
I due criteri riflettevano concezioni filosofiche profondamente diverse di ciò che deve fondare l’appartenenza a una comunità politica: una concezione «oggettiva», basata su sangue e stirpe, contrapposta a una «soggettiva», basata sulla condivisione di valori, diritti e doveri. Fichte contro Renan, in altre parole: nazione-popolo versus nazione-repubblica. Sulla scia degli imponenti flussi migratori degli ultimi due decenni, questi criteri non tengono più nella loro forma pura.
Che senso ha concedere la cittadinanza per «legami di sangue» a chi è nato e risiede all’estero e non ha magari nessun rapporto con la madrepatria? Perché negare la nazionalità (o farla sospirare per un tempo quasi infinito) a uno straniero che non è nato in loco ma si è bene integrato nel Paese di immigrazione? Oppure concederla per «legami di suolo» a chi è nato in un dato Paese solo per caso, senza poi vivervi stabilmente?
Una seria politica della cittadinanza va oggi imperniata su nuovi criteri: essenzialmente la residenza (ius domicilii), accompagnata da «filtri» che attestino la disponibilità e la misura dell’integrazione (frequenza scolastica, lavoro regolare, conoscenza della lingua e così via). La naturalizzazione non deve essere più vista come un passaggio «puntuale», un salto di status irreversibile disciplinato da criteri molto generali e automatici. Va piuttosto vista come un processo graduale, accompagnato da incentivi premiali e corsie preferenziali. Ciò vale soprattutto per i minori, ai quali dovrebbe applicarsi una combinazione di ius domicilii e ius scholae (il ministro Riccardi ha recentemente usato l’espressione di ius culturae). Nel linguaggio degli esperti, questo canale è definito socialization-based acquisition: la naturalizzazione è condizionata alla frequenza scolastica e/o ad altre esperienze formative. La giustificazione di questa posizione è quasi intuitiva. Chi è stato socializzato alla cultura e alla lingua di un dato Paese ha più alte probabilità di condividerne i valori o quanto meno di rispettare il pacchetto di diritti e doveri vigente in quel Paese.
Come sosteneva Ernest Renan, dopo tutto la cittadinanza è un «plebiscito quotidiano»: ogni giorno i membri della comunità politica «scelgono» di ubbidire alla legge. D’altra parte, chi diventa cittadino ha un incentivo ulteriore a seguire le norme del proprio Paese: si origina in altre parole un vero e proprio circolo virtuoso. In Francia (dove è stato ormai abbandonato lo ius soli) un minore che abbia seguito un percorso d’istruzione per almeno cinque anni ha automaticamente diritto alla cittadinanza. In Danimarca e Finlandia il diritto scatta anch’esso automaticamente con la frequenza scolastica, a partire dai 15 anni (purché non ci siano state condanne penali che prevedano il carcere).
A partire dal 2009 si è finalmente aperto anche in Italia un dibattito sulle regole di naturalizzazione. Nel novembre 2011 il presidente della Repubblica ha parlato esplicitamente delle gravi manchevolezze del vigente sistema. Nel suo discorso di fine anno, lo scorso 31 dicembre, Napolitano è tornato a denunciare la situazione dei minori extracomunitari e delle loro difficoltà di integrazione. In Parlamento giacciono diversi progetti di legge che puntano in direzione europea: rimandare ancora la riforma sarebbe un peccato grave.
La cornice europea invita a riflettere non solo sui percorsi di acquisizione, ma anche sulla definizione stessa di cittadinanza. Anche qui sembra opportuno superare la giustapposizione secca cittadino/straniero e prevedere forme intermedie di «quasi-cittadinanza». I paralleli storici rischiano di essere fuorvianti. Ma ricordiamo che, per gestire la convivenza civile di un vasto impero multietnico, il diritto romano distingueva fra cives romani optimo iure (detentori di tutti i tipi di diritti, compresi quelli politici), cives latini (che potevano fruire di un pacchetto base di diritti, soprattutto di natura economico-sociale), e peregrini, ai quali si applicava unicamente lo ius gentium.
Anche un impero più recente, quello britannico, introdusse forme di cittadinanza differenziata che sono in parte ancora in vigore all’interno del Commonwealth, raggruppate sotto il nome di denizenship (un termine di origine anglo-romanza: le prerogative di chi si trova «de dans», ossia «dentro»). I diritti conferiti da queste forme sono raccordati con quelli del Paese di origine (soprattutto in campo previdenziale e sanitario), promuovendo così anche forme di «migrazione pendolare» (pensiamo a un medico indiano che voglia lavorare sei mesi l’anno in un ospedale britannico).
L’istituto della cittadinanza Ue (introdotto dal Trattato di Maastricht nel 1992 e via via rafforzato) può già essere considerato una forma di denizenship: si tratta infatti di uno status che conferisce ai nazionali di ciascun Paese membro alcuni diritti che possono essere esercitati entro tutto il territorio dell’Unione.
Per ora la cittadinanza Ue è di «secondo ordine» rispetto a quella nazionale: può solo aggiungersi, ma non precedere o sostituire la cittadinanza di un Paese membro. Ma nulla impedisce (soprattutto dopo il trattato di Lisbona) di utilizzarla come status alternativo o preparatorio alla cittadinanza nazionale per gli immigrati extracomunitari che soddisfano certi requisiti di nascita e/o di «merito» (conoscenza della lingua, istruzione, lavoro regolare, possesso di particolari competenze e così via).
All’interno di una cornice così articolata, potrebbero trovare collocazione anche la questione delle «corsie preferenziali» (soprattutto, come si è detto, per i minori) e quella ancora più delicata della possibile revoca della cittadinanza per chi commette reati gravi e ripetuti. La «buona condotta» potrebbe diventare uno dei più elementari filtri selettivi, rimanendo eventualmente operativo anche per un certo lasso di tempo dopo la piena naturalizzazione.
Come ben sappiamo, l’immigrazione è oggi uno dei temi politicamente più scottanti. Secondo i sondaggi in molti Paesi la maggioranza degli elettori si dichiara preoccupata e insicura. In Italia il 51 per cento degli elettori ritiene che ci siano «troppi immigrati extracomunitari», il doppio di Francia e Germania. L’80 per cento esprime forte preoccupazione soprattutto nei confronti dell’immigrazione clandestina: una delle percentuali più alte d’Europa.
Nelle ultime elezioni europee i partiti xenofobi hanno ovunque guadagnato voti ed è prevedibile che il sostegno per tali formazioni aumenti ancora in occasione del prossimo rinnovo del Parlamento di Strasburgo, l’anno prossimo. C’è il rischio di una spirale di polarizzazione ideologica, non solo da parte dei nazionali, ma anche da parte degli «stranieri» (come sta già avvenendo in Francia).
Sappiamo che le economie e i welfare europei non possono più fare a meno degli immigrati. Pensiamo per un momento alle pensioni. Come in tutti i Paesi Ue, il sistema pensionistico italiano si basa sulla cosiddetta «ripartizione»: le prestazioni in pagamento vengono finanziate dal flusso dei versamenti contributivi di chi lavora, senza accantonamenti. Come si potrebbero mantenere adeguati flussi di contribuzione se venisse a mancare anche solo una parte dei lavoratori extracomunitari regolari?
Sappiamo che la grande maggioranza di questi lavoratori (con un numero crescente di figli) si sono perfettamente inseriti nella nostra società. L’integrazione è non solo possibile ma anche vantaggiosa per tutti. Una nuova politica della cittadinanza può far molto per facilitare ulteriormente questo processo e contenere i rischi di pericolose radicalizzazioni.
Ius soli, l’Italia ha già scelto
di Andrea Olivero (“Europa”, 16 marzo 2012)
Sono 109.268 le firme raccolte per concedere la cittadinanza ai figli degli immigrati che nascono in Italia (da almeno un genitore legalmente residente da 1 anno), 106.329 quelle per estendere il diritto di voto nelle elezioni amministrative agli stranieri residenti da almeno 5 anni.
In tutto, oltre 200mila firme per i diritti di cittadinanza consegnate nei giorni scorsi alla camera dei deputati. Sono i risultati conclusivi della campagna “L’Italia sono anch’io” promossa dalle Acli con altre 18 organizzazioni della società civile, di area laica e religiosa, di orientamenti anche diversi: dall’Arci alla Caritas, dalla Cgil all’Ugl, dalla fondazione Migrantes della Cei alla Federazione delle evangeliche in Italia.
Un risultato straordinario e per certi versi inatteso, su un tema difficile e delicato, destinato necessariamente a riaprire il dibattito politico sull’immigrazione e la cittadinanza, rilanciato in maniera autorevole e incalzante, all’inizio di quest’anno, dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano.
Un dibattito incappato recentemente in uno spiacevole incidente di percorso, di cui Europa ha dato opportunamente conto, che ha coinvolto persino un leader di sicuro profilo riformista come Francesco Rutelli. Nessuna delle proposte in campo prevede la concessione automatica della cittadinanza italiana “a chiunque nasca, magari casualmente, sul nostro territorio nazionale”. Tutti i progetti di riforma presentati in parlamento, compresa la proposta della campagna “L’Italia sono anch’io”, prevedono - quale più, quale meno - il requisito della stabilità di residenza di uno o di entrambi i genitori.
Il dibattito va dunque sgomberato da equivoci e falsità, soprattutto in questa nuova stagione politica che chiede a tutti un di più di responsabilità e lungimiranza, la capacità di guardare al futuro con uno sguardo aperto alle grandi trasformazioni che stanno attraversando il paese. Forse la spinta dal basso da parte dei cittadini italiani, rappresentata da questa campagna di sensibilizzazione, può offrire la chiave di volta per orientare la discussione sul giusto binario.
Si registra da più parti, nel paese, il bisogno di aprire una nuova fase di segno riformista, orientata al riconoscimento del diritto di ogni donna e di ogni uomo di sentirsi appieno cittadino italiano. Il bisogno e l’attesa di una ripartenza sui grandi temi, non solo economici, che interrogano il futuro dell’Italia. Tra cui, appunto, il tema dell’immigrazione.
Se esiste una via di uscita dalla grave crisi che stiamo attraversando, non può che passare dalla valorizzazione delle spinte innovative, creative e anche imprenditoriali presenti nel nostro paese e provenienti da culture diverse. È la promozione del valore aggiunto dei cittadini di origine straniera presenti in Italia, che già oggi contribuiscono alla sua crescita economica e sociale, che con i loro figli - le cosiddette seconde generazione - contribuiscono alla sua crescita umana e culturale.
Per questo crediamo che la discriminante del diritto di cittadinanza non può più essere solamente la
condizione di nascita (lo ius sanguinis), ma deve essere la condivisione e l’accettazione di un
comune patto etico e sociale. Qualcosa di più anche del semplice ius soli, che è forse lo ius culturae
di cui parla il ministro Andrea Riccardi. Il paese è pronto per questo cambio di passo. Oggi più di
ieri ci sono le condizioni per cui il parlamento sia all’altezza delle attese dei suoi cittadini.
La legge sulla cittadinanza ha 20 anni esatti di vita. È giunto il tempo di cambiarla, con lo sguardo
rivolto al futuro.
Le differenze tra antichi greci e latini
Le due patrie dei romani
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 02.02.2012)
Quando Romolo fondò Roma, accogliendo nel celebre asylum gente di ogni provenienza e condizione, non si limitò a scavare un solco destinato a segnare il perimetro delle mura. Al centro del tracciato aprì infatti una fossa, affinché ciascuno degli stranieri potesse gettarvi dentro una zolla della propria terra d’origine. In questo modo il suolo della futura Città risultò da una vera e propria mistione di terre, quella del Lazio e quella nativa di ciascun cittadino.
Il significato di questo mito balza agli occhi se solo lo si confronta con il modo in cui immaginavano le proprie origini gli Ateniesi. Essi raccontavano infatti che i primi re - Cecrope ed Erittonio - erano venuti su direttamente dalla terra, e che erano addirittura per metà serpenti, le creature più terrestri che esistano. Conformemente a ciò gli Ateniesi consideravano anche se stessi autochthones, ossia (ancora una volta) "venuti su dalla terra". Il contrasto non potrebbe essere più evidente: se ad Atene è la terra che produce gli uomini, a Roma sono gli uomini che producono la terra.
Questi due miti rispecchiano due modi contrapposti di immaginare l’appartenenza civica. Ad Atene terra e sangue fanno tutt’uno, questa città di "autoctoni" accetta, come cittadini, solo coloro che sono figli a loro volta di cittadini ateniesi. Al contrario Roma costituisce una comunità della quale, indipendentemente dal proprio sangue, si può acquisire il diritto di far parte - ma sempre (per dir così) portando con sé una zolla della terra d’origine. In che modo? Ce lo spiega Cicerone, dialogando con Attico nelle Leggi.
Tutti coloro che vivono nei municipi - diceva - hanno due patrie, una di natura, l’altra di cittadinanza; una che riguarda il luogo, l’altra il diritto. Anche lui del resto aveva due patrie: da una parte Arpino, il municipio da cui proveniva la sua famiglia; dall’altra Roma. Ma come, si stupiva Attico, dunque non pensava che era Roma la sua patria? Certo, rispondeva Cicerone, e per la Città egli avrebbe dato anche la vita, secondo il dovere di ogni buon cittadino. Questo però non gli impediva di avere anche un’altra patria, non di cittadinanza ma di natura, non di ius ma di locus.
Per comprendere il significato di queste singolari affermazioni dell’Arpinate (ecco perché lo hanno sempre chiamato così), bisogna ricordare che dopo la fine delle guerre sociali, all’inizio del primo secolo a. C., i Romani avevano inaugurato una politica della cittadinanza che, in qualche modo, traduceva in legge quella famosa zolla di terra. Ai cittadini veniva infatti attribuita una origo, ossia un "luogo originario", città, colonia o municipio che fosse.
Tale origo connetteva ciascuno a una comunità i cui appartenenti avevano ricevuto collettivamente la cittadinanza romana. Questa "patria di luogo", come la chiamava Cicerone, che si trasmetteva di padre in figlio, poteva essere in Italia, però anche in Spagna o sulle coste del Mediterraneo. Di conseguenza gran parte dei cittadini romani erano tali proprio in quanto e perché avevano una "origine" non romana. Altro non ci si sarebbe potuti aspettare, del resto, da un popolo che immaginava in questo modo perfino i propri dèi e il proprio mitico antenato.
I Penati della Città, divinità civiche per eccellenza, i Romani li avevano infatti collocati non a Roma ma altrove, a Lavinio, dove si sosteneva che essi avessero (al solito) la propria origo; mentre come capostipite si erano notoriamente scelti un troiano, Enea, che in quanto tale aveva un’ origo ben lontana dal Lazio. Il fatto è che i cittadini di Roma avevano fatto una scoperta preziosa: come sentirsi se stessi non a dispetto dell’essere altri, ma proprio grazie a questo.
Il diritto del sangue, la lezione dell’antica Roma di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 26.01.2012)
Di fronte alle proposte di modifica delle regole in vigore sul diritto di cittadinanza e alle reazioni suscitate, credo sia tutt’altro che inutile tornare indietro nel tempo e chiedersi che soluzione diedero, al problema, i nostri più lontani antenati. Back to the Romans, quindi, torniamo ai romani. Per i quali la soluzione era chiara: la cittadinanza si acquistava iure sanguinis. Come scriveva il giurista Gaio, nel II secolo d. C., nel suo celebre manuale di Istituzioni, erano cittadini romani i figli legittimi di un cittadino, ovvero quelli naturali di una cittadina.
La regola, infatti, voleva che i figli nati da un matrimonio legittimo seguissero la condizione del padre al momento del concepimento, e che quelli nati fuori del matrimonio seguissero la condizione della madre al momento della nascita. E regola analoga era in vigore in Grecia dove, peraltro, a opera di un famoso decreto di Pericle (451 a. C.) il diritto di cittadinanza venne ulteriormente ristretto. A partire da quel momento infatti non bastava essere figlio di padre ateniese, come fino ad allora: era necessario che anche la madre fosse tale.
La nostra tradizione giuridica, dunque, privilegia la soluzione del sangue. E la tradizione è certamente importante nel determinare l’atteggiamento verso un problema come questo, tra l’altro fortemente legato a quello della cosiddetta identità nazionale. Ma a prescindere dal fatto che esistono altri fattori che contribuiscono a modificare questo atteggiamento, tra i quali ovviamente i flussi migratori (e lasciando comunque questo aspetto del problema a chi ne ha più competenza), torniamo alla tradizione romana.
Certamente, come dicevo, legata al principio del sangue. Ma dir questo non basta, bisogna anche vedere il modo in cui questo principio venne declinato. E qui le sorprese non mancano: a differenza che in Grecia, infatti, a Roma il principio del ius sanguinis fu sempre aperto, sin dalle origini, alla possibilità di molte inclusioni. L’identità greca, come ben noto, era delineata dalla totale esclusione dell’altro. Un esempio per tutti: alla sopravvivenza dell’economia ateniese, che si basava sullo scambio marittimo, era fondamentale la presenza in città di stranieri chiamati «meteci», che come dice il loro nome (da metoikein, vivere insieme) risiedevano nella città. Ma erano e rimasero sempre privi dei diritti politici, non potevano possedere terra, non potevano sposare una donna ateniese, non potevano partecipare ai processi senza l’assistenza di un cittadino che garantisse per loro (il prostates).
I romani, invece (come il mito delle origini troiane della fondazione di Roma ricordava), riconoscevano che la loro comunità nasceva come un’unione di genti diverse, da un incrocio di mondi e culture. Già all’età di Romolo - scrive Dionigi di Alicarnasso (I,9,4) - i romani tendevano ad assimilare altre genti, nonché gli schiavi ai quali veniva concessa la libertà, (che acquistavano automaticamente la cittadinanza). Polibio scrive che essi erano più pronti di ogni altro popolo a cambiare i loro costumi, adottando i migliori (VI,25,11). Simmaco ricorda che avevano adottato le armi dei Sanniti, le insegne dagli Etruschi, e le leggi dei greci Licurgo e Solone (Sym., Ep, III,11,3). E nel corso dei secoli concessero la cittadinanza ai popoli conquistati con generosità pari alla lungimiranza politica. Alle nostre spalle, insomma, sta una declinazione del ius sanguinis che dovrebbe farci riflettere: e, io credo, pure vergognarci di quel che a volte accade di sentir dire. Conoscere il passato può essere utile anche per questo.
Pesaro anticipa la legge
"Qui i figli di immigrati saranno cittadini onorari"
E Napolitano: è un esempio da imitare
Il presidente della Provincia ha ideato l’iniziativa. "Grillo? Parla alla pancia, non al cervello"
Attestato ai 4.536 bambini nati negli ultimi dieci anni
Con il Tricolore e la Costituzione
di Jenner Meletti (la Repubblica, 26.01.2012)
PESARO - Piange come un disperato, Marhio, nato 3 mesi fa. Aspetta la poppata, non gliene importa nulla di diventare «cittadino onorario» di questa città sul mare. Ma sarà invitato anche lui, assieme al papà e alla mamma romeni, alla festa che si terrà presto, forse al palazzo dello sport. A 4.536 bambine e bambini nati nel pesarese negli ultimi dieci anni verranno consegnati un «attestato» che dichiara la loro cittadinanza italiana, una bandiera, una copia della Costituzione e anche una maglietta della Nazionale di calcio. L’attestato non sarà purtroppo un documento ufficiale, perché quel «ius soli» che negli Stati Uniti e in Francia dà diritto di cittadinanza a chi viene alla luce in quelle terre, in Italia viene annullato dallo «ius sanguinis». Ma è un passo avanti, è la firma di un impegno.
«Quando ho proposto questa iniziativa - dice Matteo Ricci, 37 anni, presidente della Provincia di Pesaro - ho utilizzato le stesse parole del Presidente: "Chi nasce in Italia è italiano". E dal Quirinale adesso è arrivata una risposta che ci spinge ad andare avanti». «La vostra - questo il messaggio di Giorgio Napolitano - è una iniziativa di grande valore simbolico. C’è da augurarsi che questo esempio possa essere seguito anche da altre realtà territoriali».
Certe idee, come le piante, nascono solo se il terreno è quello giusto. «Mio nonno Luciano - racconta il presidente della Provincia - ha lavorato per otto anni nelle miniere di carbone del Belgio. Quasi tutta la periferia di Pesaro è stata costruita da emigranti partiti subito dopo la guerra per lavorare in Svizzera e in Germania e poi tornati a casa quando qui si è avviata l’industria del mobile. Operai che sabato e domenica diventavano muratori e pagavano pietre e cemento con i soldi guadagnati negli anni dell’emigrazione. Come i romeni, gli albanesi, i marocchini di oggi».
Ci sono 34.700 residenti stranieri su 360.000 abitanti, in questa provincia. Impegnati alla Scavolini e alla Berloni e anche nell’edilizia. «Ma quest’ ultima è quasi ferma - dice Ricci - e tanti albanesi e romeni sono tornati a costruire case nella loro terra. Non è un caso che il Presidente abbia pronunciato quella frase così netta mentre stava aprendo la strada al nuovo governo. Dare la cittadinanza a chi nasce in Italia è una questione di civiltà - e con la nostra iniziativa faremo pressioni sul Parlamento - ma anche un segnale contro la crisi. Da questa si può uscire con più egoismo e solitudine oppure con più giustizia e solidarietà. Bisogna puntare sui valori, non solo sui numeri».
Si aspetta il ministro Andrea Riccardi, al grande incontro con i nuovi piccoli italiani. «L’altro giorno siamo stati assieme ai senegalesi, per un abbraccio dopo la strage di Firenze. Alla fine una bimba senegalese, avrà avuto cinque o sei anni, ha cantato "Fratelli d’Italia", e conosceva tutte le parole. Meglio dei miei due figli, Camilla e Giovanni. Come puoi dire, a quella bambina, che non è italiana? Come può, un Beppe Grillo, negare il "ius soli" a un milione di bimbi che sono nati nel nostro Paese? E’ solo un populista che parla alla pancia degli italiani, non al cervello e al cuore».
Marhio non piange più, nella sua casa di via Agostini, vicino al mare. Di fronte a lui abita Jurghen - nome tedesco perché suo papà Ardian, partito dall’Albania, ha lavorato anche in Germania - che è nato a Pesaro, frequenta la quinta elementare e dice subito che l’idea della cittadinanza onoraria gli piace molto. «E’ una cosa giusta - dice pesando le parole come se scrivesse un tema a scuola - anche perché io sono italiano. E anche albanese. Ho fatto l’asilo, la materna, il prossimo anno comincerò le medie. Con i miei compagni parlo anche in dialetto, e nessuno mi ha mai detto "albanese" come fosse un insulto». Il papà e la mamma Valbona, operaio e aiuto cuoca, raccontano che Jurghen «faceva ridere» i nonni, quando d’estate tornava a Tirana. «Provava a parlare albanese e nessuno capiva». «Ma adesso sono più bravo. Ogni tanto guardo la televisione dell’Albania, e anche i dvd con i cartoni animati, così imparo nuove parole. E poi sono ancora giovane, imparo presto. Quando vado dai nonni, dopo un paio di settimane riesco a parlare quasi come gli altri, e non li faccio più ridere». Una bandierina con l’aquila nera su fondo rosso in cucina, una grappa albanese da offrire agli ospiti. «Ma noi in casa parliamo italiano - dicono Valbona e Ardian - perché questo è il nostro Paese. Nostra figlia più grande sta facendo l’università a Urbino».
La cittadinanza per i figli dovrebbe essere «una cosa naturale». «Vorremmo che i nostri figli fossero considerati una ricchezza, non un problema. Andando a scuola con loro si potrebbero imparare tante lingue, che al giorno d’oggi sono così utili per trovare lavoro». Solo qualche volta, nell’appartamento di via Agostini, si ascoltano parole arrivate dall’altra parte dell’Adriatico. «Quando mi arrabbio con Jurghen, lo sgrido in albanese. "Riurtè, mjaft", stai fermo, basta. E lui ride, fa finta di non capire».
In Sala rossa ordine del giorno a favore di una nuova legge sulla cittadinanza
Una bimba marocchina torinese ad honorem
Per sostenere l’appello di Napolitano a introdurre lo “ius soli”
Il consigliere Tricarico: «Il 35% dei neonati ha genitori non italiani»
di Maria Teresa Martinengo (La Stampa/Torino, 24.01.2012)
Stranieri i primi nati del 2012 A Torino, come in molte altre città italiane, i primi bambini nati nel 2012 sono risultati figli di immigrati stranieri o di persone di origine straniera che hanno acquisito la cittadinanza
Una cittadina onoraria piccola piccola, come segno, come riconoscimento simbolico delle migliaia di bambini figli di immigrati che, nati in Italia, aspettano di diventare italiani. La bimba che potrà diventare torinese ad honorem, una volta che il Consiglio comunale avrà attivato la procedura prevista dall’articolo 7 dello Statuto, è Laila Abdane, figlia di genitori marocchini, nata il primo gennaio all’1,52 in un ospedale torinese.
La richiesta al sindaco Piero Fassino di conferire la cittadinanza onoraria ad una bimba in fasce è stata avanzata da Roberto Tricarico, responsabile Diritti del gruppo Pd in Sala Rossa, al termine dell’intervento con cui ha illustrato un ordine del giorno, poi approvato dal Consiglio. Il documento, presentato da Tricarico e da Marta Levi, presidente della Commissione Pari Opportunità, e sottoscritto da tutto il gruppo Pd, impegna il sindaco a farsi portavoce affinché non cada nel vuoto l’appello del presidente Napolitano, che ha esortato il Parlamento a legiferare per riconoscere la cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati.
«In Senato è stato depositato un disegno di legge con 114 firme di senatori per modificare la legge sulla cittadinanza e sancire il passaggio dallo “ius sanguinis” allo “ius solis” - ricorda Tricarico -, inoltre è in corso fino a febbraio la raccolta di firme a sostegno della legge di iniziativa popolare nell’ambito della campagna “L’Italia sono anch’io”. Che il Consiglio comunale affronti questo tema, pur nei grandi limiti delle sue prerogative, mi pare fondamentale come segno di attenzione verso quel 15% di popolazione di origine straniera residente in città e verso i suoi figli, che contribuiscono a disegnare la città del futuro».
E il futuro, a leggere le cifre dei nati nel 2011, è già qui: i nati da due genitori italiani sono stati 4918, i nati da almeno un genitore straniero 3067. Impensabile immaginare la città - la più vecchia d’Italia - senza questo secondo numero. Nella fascia zerodue anni, poi, i bimbi non italiani residenti sono 6940, oltre un quarto del totale. I minori stranieri sono in tutto 28.887. Tra loro, dunque, la piccola Laila, uno tra i primi nati a Torino nel 2012. La prima assoluta, Takwa, ha nome straniero ma è cittadina italiana in quanto figlia di genitori italiani di origine tunisina.
L’ordine del giorno ha incontrato l’opposizione della Lega. Il consigliere Fabrizio Ricca, nel ribadire che «i bambini stranieri che nascono qui hanno già gli stessi diritti degli italiani», ha poi evocato lo spauracchio di «madri straniere incinte che arrivano in Sicilia per partorire». Ne è seguito un animato botta e risposta con il sindaco, interrotto più volte anche dal consigliere Pdl Maurizio Marrone.
«L’immigrazione è un tema strategico per la vita della nostra città e del Paese. La modificazione strutturale della popolazione è in relazione alle nuove dinamiche economiche», ha rimarcato Fassino. E a chi tentava di interromperlo: «Il sindaco leghista di Treviso vanta i livelli di integrazione raggiunti nella sua città perché si rende conto che il fenomeno va governato e gestito, e non con la paura». Fassino si è detto disponibile ad aderire alla richiesta di conferimento della cittadinanza onoraria alla piccola Laila se il Consiglio attiverà la procedura.
Quando Bossi sbarcò in America
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 23 novembre 2011)
L’emigrante Napolitano Giorgio sbarcò ad Ellis Island nel 1922, tredici anni dopo Bossi Umberto. Cinque anni dopo erano americani. I loro omonimi attuali, però, la pensano assai diversamente sulla cittadinanza agli immigrati. E se il presidente della Repubblica è convinto che debba essere riconosciuto come italiano ogni bambino che nasce in Italia, il Senatur e la Lega restano bellicosamente ostili.
Nei registri monitorati dalla «Fondazione Agnelli» diretta da Maddalena Tirabassi, di immigrati che di cognome facevano Napolitano, dal 1892 al 1924, ne sbarcarono a Ellis Island esattamente 2.613. Altri 1.882 Napolitano sbarcarono dal 1882 al 1960 in Argentina. Altri ancora si sparpagliarono per il Brasile, la Francia, il Belgio, la Germania... E tutti i loro figli (come tutti i figli dei Bossi e dei Maroni e dei Castelli emigrati) sono diventati americani, argentini, brasiliani, francesi, belgi, tedeschi...
Il capo lo Stato non lo dimentica. E dopo avere qualche giorno fa ricordato l’importanza dei ragazzi nati in Italia durante l’incontro con la Nazionale italiana e in particolare il bresciano di pelle nera Mario Balotelli, è tornato ieri sul tema sottolineando come sia ormai maturo il passaggio dallo «ius sanguinis» allo «ius soli». Vale a dire dal diritto al passaporto legato alla nazionalità dei genitori a quello legato al luogo di nascita: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità».
Immediata rivolta a destra. A partire da Maurizio Gasparri («Ma si vuole facilitare o complicare la vita del nuovo governo? Noi lo sosteniamo con lealtà, ma se si mettessero in agenda temi come la modifica della legge sulla cittadinanza...») fino a Roberto Calderoli, che minaccia barricate: «La vera follia sarebbe quella di concedere la cittadinanza basandosi sullo ius soli e non sullo ius sanguinis. Non vorrei che questa idea altro non sia che il “cavallo di Troia” che, utilizzando l’immagine dei “poveri bambini”, punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge».
Un’obiezione antica. Nata dalla convinzione che gli immigrati siano tendenzialmente portati a votare «a sinistra». E che dunque un’irruzione di voti freschi possa aiutare chi oggi sta con Bersani, Di Pietro e soprattutto Vendola. Chi studia l’emigrazione, in realtà, sa che generalmente succede l’esatto contrario. L’immigrato che si è inserito tende spesso a essere conservatore e più rigido verso i nuovi immigrati che non i cittadini originari. Perché li vede come possibili «concorrenti». Perché teme che possano destabilizzare la situazione in cui loro sono già inseriti. Perché via via si sono immedesimati nella nuova realtà al punto che desiderano dimostrare a tutti gli altri di essere diventati «dei loro».
È sempre andata così. In America, in Australia, in Francia... Chi riesce a togliersi dall’ultimo gradino della scala sociale trova spesso naturale voltarsi indietro appena è salito sul penultimo per sputare su chi ha preso sotto il suo posto. I nostri nonni hanno fatto le spese di tutto questo: pochi sono stati razzisti con gli italiani quanto gli irlandesi che fino a poco prima erano stati discriminati. E al linciaggio di undici siciliani a New Orleans, il 15 marzo 1891, non a caso parteciparono migliaia di neri. Volevano affermare un principio: noi siamo più americani di voi.
Al di là di queste polemiche e dei ruoli diversi che spettano al governo Monti, chiamato a risanare i conti, e al Parlamento (dove 133 senatori democratici, dipietristi e del Terzo polo trascinati da Ignazio Marino hanno presentato una proposta per dare il passaporto italiano a ogni bimbo nato qui a prescindere da quello dei genitori), il tema della cittadinanza si è fatto ormai ineludibile.
Basti dire che ogni anno, come spiegano nel loro libro Cose da non credere l’economista Guglielmo Weber e il demografo Gianpiero Dalla Zuanna, nascono in Italia circa 100.000 bambini che hanno almeno un genitore straniero. Di più, nel loro saggio Una classe a colori Vinicio Ongini e ClaudiaNosenghi dicono che già un paio di anni fa su circa 58.000 scuole quasi 15.000 avevano più di un alunno su 10 straniero, in 500 la percentuale superava il 50% e in 24 toccava o oltrepassava l’80%. Come al plesso scolastico «Pestalozzi», nella zona Monte Rosa, a Torino. Dove nel 2010 gli scolari con il cognome straniero sono stati 118 contro 65 italiani. Ma fino a che punto quei bambini sono «stranieri», se ben 105 sono nati a Torino o comunque in Italia, tifano Juventus o Milan, crescono guardando i cartoni animati della «Valle incantata» e studiano sui sussidiari le avventure di Giuseppe Garibaldi? Ha senso ospitare centinaia di migliaia di bambini e di ragazzi che si sentono italiani, si vestono come i loro coetanei italiani, parlano fra di loro in italiano, fanno soffrire i loro genitori legati al Paese di provenienza rivendicando la loro italianità; ha senso tutto questo senza riconoscere loro il diritto al passaporto italiano?
Quei bambini di cognome straniero ma nati a Torino, se fossero nati in Francia sarebbero francesi, negli States statunitensi, in Brasile brasiliani, in Argentina argentini, in Germania tedeschi. Proprio perché in quei Paesi da un paio di secoli, o più di recente, si sono resi conto di un punto centrale: è difficile chiedere alle persone di essere dei buoni cittadini se non sono pienamente cittadini.
Proprio a proposito dei figli, vale la pena di ricordare cosa risposero le autorità scolastiche di Boston alla giornalista e sociologa italoamericana Amy Bernardy che nel 1909, compiendo un’inchiesta sugli emigrati italiani negli Stati Uniti, aveva chiesto di sapere quanti fossero gli scolari del Massachusetts di origine italiana. La replica fu secca. Spiacenti, ma nessun dato: «Noi siamo del parere che in questo Paese tutti sono americani e non desideriamo incoraggiare alcuna ricerca tendente a differenziare gli americani di una discendenza, dagli americani di discendenza diversa». Del resto, 2.200 anni fa, in Cina, il celeberrimo Libro del Maestro di Huainan spiegava già tutto: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. (...) Ma prendete un bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà neanche quali costumi esistono nella sua patria...».
Cinque anni: la chiave per la cittadinanza
di Giovanna Zincone (La Stampa, 24 novembre 2011)
Quando si litiga sarebbe meglio sapere perché. Si sta invece scatenando un’intempestiva tempesta: materia del contendere è lo ius soli, un istituto che riguarda il riconoscimento della cittadinanza ai figli di stranieri nati sul territorio. Ma la materia appare poco chiara agli stessi contendenti. È bene cominciare con il chiarire che in Italia lo ius soli c’è già. I nati in Italia ottengono la cittadinanza attraverso una procedura semplificata al compimento del 18esimo anno di età, anche quando i loro genitori siano tuttora stranieri. Il fatto è che questa via di accesso alla cittadinanza tramite ius soli è la più severa tra quelle adottate dalle grandi democrazie europee. In altri Paesi l’acquisizione della cittadinanza può avvenire immediatamente alla nascita, anche se con diverse condizioni richieste: ad esempio le recenti riforme greca e portoghese prevedono una residenza del genitore di almeno 5 anni, quella tedesca di almeno 8. Peraltro, nella gran parte degli Stati europei godono di un accesso privilegiato alla cittadinanza, cioè possono averla prima della maggiore età, quei nati sul territorio del Paese di immigrazione che abbiano accumulato un certo numero di anni di residenza o completato un ciclo scolastico. Questa corsia privilegiata per i minori riguarda quasi ovunque anche i bambini non nati nel paese di immigrazione, ma che ci sono arrivati da piccoli, purché vi abbiano studiato o vi siano vissuti per un certo periodo.
Dal momento che l’acquisizione della cittadinanza nazionale determina automaticamente anche quella europea, un po’ più di sintonia dell’Italia con gli altri partner dell’Unione in questa materia non guasterebbe. Tuttavia, forzare la mano oggi non gioverebbe al governo Monti, visto che sul tema non si è ancora trovata una convergenza all’interno della maggioranza che lo sostiene.
Nulla vieta però che questo sia (e sarebbe bene che fosse) materia di riflessione in sede parlamentare, come ha invitato a fare il Presidente Napolitano. Questo governo, proprio perché ha come priorità il risanamento e la crescita economica del Paese, lascia per sua natura maggiore spazio all’azione e al dibattito parlamentare su temi di ampio respiro che non abbiano carattere di emergenza. In Parlamento, almeno quanti fanno parte dell’attuale maggioranza dovrebbero cogliere l’occasione per affrontare questioni serie abbandonando toni forti e giudizi frettolosi, dimenticando vecchi tic di destra e di sinistra. Solo così si potrebbe riuscire finalmente a portare a termine qualche riforma di stampo europeo, persino nella spinosa materia della cittadinanza.
Questa è infatti una di quelle riforme che ogni tanto tornano a galla, e non arrivano mai in porto. O meglio, per ora, in porto qualcosa è arrivato, ma si tratta soltanto di un provvedimento restrittivo: il contrasto delle unioni di comodo tramite l’innalzamento da 6 mesi a 2 anni del tempo di residenza dopo il matrimonio richiesto per trasmettere la cittadinanza ai coniugi stranieri. L’introduzione di ulteriori requisiti per accedere alle naturalizzazioni (quali la conoscenza linguistica e l’accettazione della carta dei valori civici condivisi) era contemplata anche da molti progetti di stampo liberale.
Ma è poi sfumata con il resto delle proposte e dei disegni di legge che la contenevano. Di fatto, però, criteri simili presidiano le tappe che precedono l’acquisizione della cittadinanza: sia il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno secondo il recente Accordo di integrazione, sia la concessione della carta di soggiorno permanente. Non voglio sostenere che tutti questi requisiti restrittivi siano errati in sé, ma certo hanno squilibrato ulteriormente la nostra normativa sulla cittadinanza che già era, e resta, tra le più severe d’Europa. È mancato finora il necessario riequilibrio sul versante dell’apertura.
Il primo importante tentativo serio di riformare la cittadinanza in senso più liberale fu fatto nel 1999 da Livia Turco, quando era ministro degli Affari Sociali. Da allora sono state presentate altreproposte simili, di iniziativa sia governativa che parlamentare. Quelle più sensate e che sono giunte più vicine all’approvazione riproducono i modelli europei anche rispetto al trattamento dei minori.
La chiave è il numero 5: cinque anni è considerato un tempo di residenza necessario e sufficiente a dimostrare che gli immigrati e le loro famiglie sono ormai radicate e destinate a far parte della popolazione italiana. I bambini dei genitori residenti da 5 anni potrebbero ottenere la cittadinanza alla nascita. Ma anche per chi non fosse nato in Italia, e ci fosse arrivato da piccolo, 5 anni di residenza o il compimento di un ciclo scolastico sarebbero sufficienti per poter fare domanda di cittadinanza. L’inclusione tempestiva dei bambini potrebbe avvenire anche seguendo altre vie, praticate all’estero e proposte nei vari progetti italiani di stampo liberale.
Tali progetti non hanno riguardato solo l’acquisizione da parte dei minori, ma una più generale riforma della cittadinanza, e sono stati spesso affiancati dall’estensione del diritto di voto locale anche agli immigrati non comunitari. Ricordiamo che, in base al Trattato di Maastricht (entrato in vigore nel 1993), i comunitari, inclusi i romeni che in Italia sono la prima minoranza, hanno già questo diritto, anche se ne fanno un uso fin troppo modesto.
Le due proposte di legge di iniziativa popolare, lanciate con la campagna «L’Italia sono anch’io», promossa da numerose organizzazioni della società civile, riguardano anche esse la cittadinanza nel suo insieme e il voto locale. Ma dal momento che oggi si discute soprattutto di minori e che sui minori, in linea teorica, dovrebbe essere meno arduo trovare una convergenza, limitiamoci a questo argomento. Si tratta di un problema importante e di vaste dimensioni. I nati e residenti in Italia, ancora stranieri al primo gennaio 2009, erano quasi 600.000, cioè il 13,5% del totale degli stranieri residenti. Alla stessa data, i minori stranieri residenti in Italia erano circa un milione, cioè quasi il 22% dei minori residenti nel nostro paese. Nel 2010 sono nati in Italia circa 78.000 bambini stranieri cioè quasi il 14% delle nascite. Pensare che la popolazione italiana non sia anche questo significa rimuovere la realtà.
La proposta di iniziativa popolare di «L’Italia sono anch’io» sulla cittadinanza richiede, per attribuirla alla nascita, il requisito di un solo anno di soggiorno legale in Italia da parte di uno dei genitori. Si tratta di un requisito piuttosto leggero: si colloca infatti ben al di sotto della media europea, che si aggira intorno ai soliti cinque anni. La scelta di un requisito troppo leggero non è esente da rischi, perché può trasformare in cittadini anche i figli di quegli immigrati che non danno garanzie di volersi stabilire nel nostro paese. Sarebbe meglio far dipendere questa opportunità dalla condizione di titolare di carta di soggiorno di almeno un genitore.
Per la concessione della cittadinanza ai figli di immigrati privi della carta di soggiorno al momento della nascita o ai bambini arrivati in Italia da piccoli, di nuovo si possono imitare i modelli europei e chiedere un congruo numero di anni di residenza o di frequenza nelle nostre scuole. Mediando tra proposte forse troppo generose, e chiusure certo troppo severe, e soprattutto estranee al contesto giuridico europeo, si possono trovare soluzioni mediane e meditate. Purché si prendano le grandi questioni sul serio e si abbandoni il fastidioso meccanismo automatico delle azioni e reazioni di parte.
Napolitano: follia negare la cittadinanza ai figli di immigrati
di Umberto Rosso (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Occorre dare, fin dalla nascita, la cittadinanza ai figli degli immigrati stranieri nati in Italia. Non farlo «non so se definirla un’autentica follia, un’assurdità». È l’affondo del presidente della Repubblica Napolitano. Dura la replica della Lega: pronti alle barricate. Per il Pdl il governo è a rischio.
«Non so come definirla, un’autentica follia, un’assurdità. Questo è il non concedere la cittadinanza ai bambini figli di immigrati che sono nati in Italia ma che non diventano italiani». Per la seconda volta, nel giro di pochi giorni, Giorgio Napolitano torna a invocare la nuova legge sul diritto di cittadinanza. E al Quirinale, incontrando le chiese evangeliche, ha tirato fuori stavolta toni decisi e fuori ordinanza proprio per «inchiodare» i partiti alla necessità urgente di una riforma che introduca lo «ius soli», il diritto acquisito in base al luogo di nascita e non al paese di origine dei genitori.
Obiettivo centrato, perché la sollecitazione ha rimesso all’ordine del giorno la questione, ma con la neo maggioranza di governo che si spacca sul da farsi. Tanto che arrivano perfino minacce di rappresaglia sulle sorti del governo Monti da parte del centrodestra. Il Pd invece accoglie in pieno il richiamo di Napolitano, «un’esigenza di civiltà che noi siamo pronti ad approvare entro Natale» garantisce il capogruppo Franceschini. Già depositato dai democratici un disegno di legge firmato da 113 parlamentari. Così come totalmente d’accordo con il capo dello Stato si dicono Terzo Polo e Idv. «Lasciamo da parte le contingenze elettorali su questioni come queste», propone Casini. Sì dal ministro Riccardi: «I nuovi nati sono cittadini italiani».
Al contrario, reazioni rabbiose contro il capo dello Stato della Lega, pronta «alle barricate» per non far passare una legge che «stravolgerebbe la Costituzione», sostiene l’ex ministro Maroni. «Napolitano sta esagerando», accusa l’eurodeputato Salvini. E l’altro ex ministro del Carroccio, Calderoli, replica che vera follia sarebbe non applicare più lo «ius sanguinis», e legge perfino nelle parole di Napolitano un mero espediente per dare la caccia ai voti degli immigrati: «Non vorrei che questa idea altro non sia che il cavallo di Troia che, utilizzando l’immagine dei «poveri bambini», punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge».
Ma, al di là delle battutacce leghiste, resta il Pdl il nodo sensibile per la tenuta delle larghe intese. E qui echeggiano, pur fra differenti posizioni (l’ex ministro Carfagna per esempio è possibilista) e altolà perentori, e si agita il fantasma della crisi di governo se la riforma della cittadinanza non dovesse restare fuori dal programma. «Se qualcuno vuol fare cadere il governo e andare alle elezioni anticipate - minaccia La Russa, coordinatore del Pdl - ha trovato la strada giusta». E Gasparri, capogruppo al Senato: «Questa è una spallata. Il governo Monti è nato solo per occuparsi dell’emergenza economica, Lasci stare il resto».
La replica arriva dal presidente della Camera Fini («Mi pare un modo originale di porre la questione»), che chiede invece di affrontare l’argomento alle Camere: «Sono temi che stanno nell’agenda politica e del Parlamento, spero che il mutato clima che si sta vivendo renda possibile lavorare su questo». Ma con la richiesta del presidente Napolitano si schierano anche molte associazioni, dalla Caritas all’Anci, da Telefono azzurro alle Acli, e i sindacati. Concedere la cittadinanza ai nati nel nostro paese, ha spiegato il capo dello Stato, «dovrebbe corrispondere ad una visione della nostra nazione di acquisire nuove energie per una società invecchiata, se non sclerotizzata». E per Napolitano la nomina di Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, a ministro per la Cooperazione e l’Integrazione, segnala «la possibilità di riprendere le politiche di integrazione che hanno uno sviluppo ormai lontano». Ovvero, quella riforma del ‘98 che porta proprio, insieme a Livia Turco, la firma dell’attuale presidente della Repubblica.
Quei ragazzi nel limbo
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Instancabilmente il presidente Giorgio Napolitano richiama la classe politica al dovere della responsabilità in tutti i settori cruciali per il futuro del Paese, quindi necessariamente anche per le condizioni in cui si trovano a crescere e operare le nuove generazioni, inclusi i bambini e adolescenti legalmente stranieri. Stranieri ma di fatto italianissimi per autoidentificazione ed esperienza quotidiana. A due riprese nel giro di pochi giorni, il Presidente ne ha denunciato con nettezza lo status di cittadini dimezzati, che li colloca in una sorta di limbo del diritto, di persone senza territorio e senza appartenenza.
I minori nati in Italia da genitori entrambi stranieri e residenti nel nostro Paese sono oltre mezzo milione. Il loro numero è raddoppiato dal 2000, quando erano 277 mila. Costituiscono ormai quasi il 14% dei bambini che nascono ogni anno in Italia. In un Paese che invecchia rapidamente a causa della bassissima fecondità, si tratta di numeri importanti e di una risorsa umana preziosa. Tuttavia il nostro ordinamento continua a considerarli con indifferenza, quando non ostilità. Insieme ai bambini e ragazzi che sono nati altrove, ma stanno vivendo tutta la loro infanzia e adolescenza nel nostro Paese, condividendo lingua e abitudini con i loro coetanei autoctoni, i minori "stranieri" nati in Italia, infatti, vivono in una sorta di condizione sospesa per quanto riguarda la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. La legge italiana li costringe in uno statuto di apolidi di fatto, se non di principio, con tutte le restrizioni che questo comporta. Se per qualche motivo i loro genitori perdono il diritto di soggiorno, ne seguono il destino, anche se l’Italia è l’unico paese che conoscono e in cui sono cresciuti. Ed è meglio che non passino lunghi periodi fuori Italia, per uno stage formativo o per stare con parenti rimasti nel paese d’origine, se non vogliono rischiare di perdere il diritto a chiedere la cittadinanza. Mentre a un giovane nato e cresciuto all’estero da genitori italiani che magari non hanno mai vissuto in Italia bastano due anni di soggiorno ininterrotto in Italia per ottenere la cittadinanza, ne occorrono diciotto ad uno figlio di stranieri nato e vissuto nel nostro paese, di cui ha frequentato le scuole, conosce la lingua e acquisito lo stile di vita e le norme di convivenza sociale.
Sono i paradossi dello jus sanguinis, che concepisce la nazionalità come una sorta di gene che si trasmette per via ereditaria e non per partecipazione quotidiana ad una società. Sospesi tra due mondi, i bambini e adolescenti stranieri che nascono e crescono nel nostro Paese non appartengono a nessuno dei due: uno non lo conoscono, l’altro non li riconosce. L’esperienza di essere straniero nel loro caso è estrema; perché non c’è patria cui si possano sentire pienamente appartenenti. Si tratta di un’esperienza difficile anche per un adulto, ma che per una persona impegnata nella definizione della propria identità e nella individuazione del proprio posto nel mondo costituisce un handicap inutilmente gravoso. Può anche innescare processi di rifiuto, di estremizzazione difensiva della propria non appartenenza, con grave danno per tutti.
Sono ormai anni che si discute di una riforma della legge del 1992 sulla cittadinanza, in particolare, anche se non esclusivamente, per quanto riguarda chi è nato in Italia o comunque vi ha frequentato le scuole. Chissà se il Parlamento, liberato dalla necessità di discutere di provvedimenti di legge ad personam, troverà il tempo e il senso di responsabilità per approvare finalmente norme più civili e lungimiranti nei confronti dei ragazzi che crescono tra noi e con noi e che, con i nostri, sono il presente e il futuro del Paese. Solo se smettiamo di considerarli stranieri di passaggio, e anzi investiamo su di loro e sul loro desiderio di appartenenza, possiamo aspettarci da loro, come da tutti, che si impegnino lealmente per il nostro comune Paese. A differenza di quanto fanno i leghisti, per i quali l’appartenenza nazionale è solo un’arma da giocare contro gli immigrati, ma da rifiutare per tutto il resto.
FRATELLI d’Italia?
di Alberto Mario Banti (il manifesto, 17 marzo 2011)
Il 17 marzo ispira sentimenti patriottici. E invita a interrogarsi su cosa sia la patria, e, nello specifico, che cosa sia la patria italiana. Una risposta potrebbe essere questa: ubi bene, ibi patria: dove stai bene, quella è la tua patria. Il detto latino è piaciuto a Voltaire, che non aveva una grande opinione del patriottismo esclusivo. E infatti osservava: «È triste che spesso, per essere un buon patriota, si sia il nemico del resto degli uomini». E come correttivo a questa negativa valutazione, invitava ad alti pensieri: «Chi volesse che la sua patria non fosse mai né più grande né più piccola, né più ricca né più povera, sarebbe cittadino del mondo».
Dinamiche primarie
Molti anni dopo, in ben altro contesto, lo scrittore inglese E. M. Forster ha detto: «Se fossi posto davanti alla scelta se tradire il mio paese o tradire un amico, spero di avere il fegato di tradire il mio paese». Amorale? Anti-etico? George Steiner, che cita quella frase in un articolo per il «New Yorker», non la pensa così, e spiega perché: «Non c’è niente di più brutalmente assurdo della propensione degli esseri umani a distruggersi l’un l’altro o a massacrarsi sotto l’effetto del puerile incantesimo di una bandiera. La cittadinanza è un accordo bilaterale che è o dovrebbe essere sempre sottoposto a un esame critico. Dubito che l’animale uomo possa sopravvivere se non impara a fare a meno di frontiere e passaporti, se non riesce a capire che siamo tutti ospiti l’uno dell’altro, come lo siamo di questa terra ferita e avvelenata».
Visioni utopistiche? Forse. Il fatto è che, comunque sia, i nazionalismi ottocenteschi le hanno cancellate o rese impossibili, rovesciando il principio contenuto nel detto latino che piaceva a Voltaire, che per i nazionalisti funziona così: ubi patria, ibi bene: dov’è la tua patria, lì stai bene. Ma dov’è la patria di una persona? Per il nazionalismo ottocentesco l’appartenenza nazionale, e il necessario sentimento patriottico che ne deriva, scaturisce dal nascere: è sulla base di questa dinamica primaria che l’ideologia nazionale attribuisce la cittadinanza. È cittadino di uno Stato nazione chi è figlio di nazionali; o chi nasce sul territorio patrio. Ius sanguinis; e ius soli. Cioè «diritto di sangue» e «diritto di suolo». Questi sono i due dispositivi giuridici fondamentali. Ai quali altri si aggiungono, ma solo in forma sussidiaria. Il nesso tra nazione e cittadinanza, così formulato, attrae anche il concetto di patria. E così patria, con tutte le locuzioni che si trascina con sé («amare la patria», «morire per la patria», «tradire la patria») diventa un termine che indica il rapporto che un individuo ha e deve avere con la propria comunità nazionale e con le istituzioni che la rappresentano. In questa forma il patriottismo diventa inscindibile dal nazionalismo. E la relazione affettiva che il termine patria implica nei confronti della propria comunità si dispone su una catena che funziona in questo modo: si nasce dentro una nazione; si è tenuti ad amare quella nazione e le sue istituzioni in modo esclusivo; si è tenuti, dunque, a un sentimento patriottico che non ammette deroghe. Right or wrong, my country.
Il sentimento d’amore per la propria patria deriva dunque, per il nazionalismo, da un fondamentale automatismo etero-diretto: il nascere. Che, com’è chiaro, è un evento che non comporta scelta: non si sceglie né da chi nascere, né dove nascere.
Può sembrare strano, ma questa concezione automaticamente naturalistica, intimamente biopolitica, imposta dal nazionalismo ottocentesco, e condivisa dal nazional-patriottismo risorgimentale, presiede ancora oggi all’attribuzione della cittadinanza della Repubblica italiana.
Il fallimento della scuola
Secondo la legge che disciplina il conferimento della cittadinanza italiana, si è automaticamente nazionali se si è figli di nazionali; o se si nasce sul suolo patrio da genitori ignoti o apolidi. Tutti gli altri meccanismi per diventare italiani prevedono procedure più complesse e, in qualche caso, anche irte di ostacoli.
Come che sia, gli italiani per «diritto di sangue» o per «diritto di suolo» dispongono automaticamente della piena cittadinanza italiana sin dalla nascita. Dopodiché, chi possiede questa piena cittadinanza, al raggiungimento della maggiore età acquisisce anche i pieni diritti civili e politici in forma altrettanto automatica. Non c’è bisogno che sia consapevole di quali sono i suoi diritti. Né c’è bisogno che sappia quali sono i valori o i meccanismi fondamentali che regolano la vita pubblica.
Basta essere italiano e, una volta maggiorenne, si ottiene una piena cittadinanza politica. Che - a pensarci bene - è un meccanismo abbastanza impressionante nella sua stranezza. Sarebbe come se a un certo punto si dicesse: siccome un giovane è figlio di nazionali, al raggiungimento della maggiore età diamogli la patente di guida automaticamente, senza chiedergli neanche mezz’ora di scuola guida o uno straccio di esame di verifica. Se lo merita, no? È figlio di nazionali! Anzi, facciamo di più: se uno è figlio di nazionali, diamogli anche la maturità, senza nemmeno un giorno di scuola. Se lo merita, no? È figlio di nazionali! Anzi, vogliamo essere veramente generosi? E allora diamogli anche una laurea in medicina e chirurgia senza chiedergli neanche un giorno di università, e poi mandiamolo su un tavolo operatorio ad operare il primo paziente che passa: se lo merita, no? È figlio di nazionali!
Sarebbe assurdo, non è vero? E però, se giustamente chiediamo conoscenze, competenze, verifiche per cose anche banali - come la licenza di guida -, o per cose ben più complesse - come un diploma abilitante -, perché non chiediamo a tutti i cittadini una seria e rigorosa conoscenza dei valori e delle norme che regolano la vita collettiva?
Ricorrenze durature
La scuola è sempre stata tristemente fallimentare in questo compito: né l’educazione civica, né l’educazione alla cittadinanza, né altre denominazioni della stessa materia, sono mai state prese sul serio; e meno per colpa dei professori che dell’evidente scarso rilievo che a questo tipo di conoscenza è sempre stato attribuito dalle élite di governo.
Il testo che raccoglie i valori fondamentali e le regole essenziali che disciplinano la vita pubblica è la Costituzione. I diritti politici che adesso si acquisiscono automaticamente sono enunciati lì. Quello è il patto fondamentale che ci fa italiani. Non importa che uno sia di lingua e cultura italiana, di lingua e cultura francese, di lingua e cultura tedesca: se vive nei confini della Repubblica italiana trova lì le sue garanzie, lì i suoi diritti. Lì, in un testo molto bello, scritto da un’assemblea eletta liberamente a suffragio universale. Un testo che dal 1948 a oggi ha garantito la libertà di tutti, qualunque fosse il credo politico individuale.
È un testo che festeggiamo implicitamente il 25 aprile e il 2 giugno, ricorrenze festive che giustamente non durano per un anno soltanto come il 17 marzo, perché ricordano la vera origine della nostra Repubblica. È nel rispetto e nella lealtà a quel testo che potremmo riconquistare un nuovo patriottismo, che non sia quello inquinato dall’ideologia nazionalista. È il patriottismo costituzionale, sul quale più volte Jürgen Habermas ha riflettuto.
Ma come può alimentarsi concretamente un patriottismo costituzionale? Per rendere vivo quel sentimento politico è necessario considerare che la Costituzione è in effetti il patto collettivo che ci tiene insieme. E in quanto patto collettivo dovrebbe essere non solo conosciuto, ma anche sottoscritto da tutti i cittadini.
Adesso non è così. Solo alcune categorie di individui sono chiamate a giurare lealtà alla Costituzione: le alte cariche dello Stato; i militari; e gli stranieri che acquistano la cittadinanza italiana. E perché tutti gli altri no? Perché gli italiani e le italiane per «diritto di sangue» o per «diritto di suolo» no?
La festa del 2 giugno
È difficile che un sano sentimento di italianità possa scaturire dalla primitiva automaticità del «diritto di sangue» o del «diritto di suolo». Com’è difficile che un sano patriottismo possa scaturire dal revival di dubbie o controverse memorie storiche. E invece un’italianità non nazionalista e un caldo patriottismo costituzionale potrebbero ricevere nuova energia se li si facesse derivare da un consapevole rito di passaggio, un rito che trasformasse un giovane in un cittadino perfettamente consapevole dei suoi diritti e dei valori fondamentali che lo legano a tutti gli altri.
Un rito che, per esempio, festeggiasse il 2 giugno in ogni comune con una cerimonia seria e festosa, in cui le ragazze e i ragazzi che nel corso dell’anno precedente hanno raggiunto la maggiore età giurassero lealtà alla Costituzione. E sarebbe giusto che questo rito di passaggio, consapevolmente vissuto, diventasse l’atto necessario per il pieno esercizio dei diritti politici.
Fantasie? Quasi sicuramente sì. Eppure son convinto che sarebbe un rituale bellissimo; son convinto che tutti prenderebbero con impegno e serietà la cosa; e che così il garrire delle bandiere e il risuonare di inni non evocherebbe più vacue e inquietanti immagini di lontani eventi bellici, ma una realtà attuale e cara: la tavola dei valori su cui concordiamo e che disciplina la nostra vita in comune.
E la scienza ammise: la data di nascita influenza il carattere
I test americani sui topolini di laboratorio svolti in diversi mesi dell’anno
L’oroscopo della scienza
"Carattere deciso dal sole"
di Elena Dusi (la Repubblica, o6.12.2010
IL MESE di nascita influenza il carattere. Era ovvio per l’astrologia, ora lo è anche per la scienza. Ma lungi dal dare il suo avallo alla lettura degli astri, la ricerca della Vanderbilt University ottiene l’effetto contrario. In uno studio su Nature Neuroscience i ricercatori dimostrano che la quantità di luce assorbita nelle prime settimane di vita produce effetti indelebili sui neuroni ancora vergini dei bebè.
La lunghezza delle giornate che è diversa in estate e in inverno si imprime sul cervello dei bambini appena nati, influenzando per sempre il loro ritmo circadiano e producendo effetti futuri - deboli ma misurabili - su umore, propensione alla depressione e alla schizofrenia.
Gli esperimenti americani sono stati condotti sui topolini in laboratorio, regolando la durata dell’illuminazione artificiale. Ma il fatto che le prove siano state ripetute in diversi mesi dell’anno, e che test simili sull’uomo in passato si siano svolti contemporaneamente nell’emisfero nord e in quello sud (dove agli stessi mesi corrisponde un livello di illuminazione capovolto), dimostrano che è la quantità di luce, non la data di nascita a influenzare il carattere. E che l’unico astro la cui posizione in cielo conti per il nostro futuro è il Sole.
«Ci teniamo a dirlo, anche se il nostro lavoro assomiglia all’astrologia, non lo è affatto. Si tratta di biologia stagionale» precisa Doug McMahon che ha condotto lo studio. La ricerca Usa si è concentrata sugli effetti della luce su una piccola area del cervello ribattezzata "orologio biologico". È questo grappolo di neuroni situato dietro agli occhi a dettare all’organismo i ritmi circadiani, regolando sonno, veglia, appetito, pressione sanguigna, voglia di quiete, movimento e molto altro. Nei topolini vissuti per le prime 4 settimane a un ritmo di 16 ore di luce per 8 di buio, l’orologio biologico si è tarato sul regime estivo, e su questo è rimasto tutta la vita. Il contrario è accaduto ai topolini tenuti al buio per 16 ore al giorno. «Questi ultimi - spiega McMahon - hanno dimostrato di risentire molto dei cambiamenti stagionali. Questo spiega come mai gli uomini nati in inverno siano più spesso affetti da depressione invernale», causata dalla riduzione delle ore di luce.
Gli effetti di questo imprinting riguardano ritmi circadiani e tono dell’umore, ma non solo. «Il mese di nascita influenza anche la tendenza a diventare gufi o allodole» spiega Vincenzo Natale, docente di ritmi del comportamento e ciclo veglia-sonno all’università di Bologna, che da anni si dedica a questo campo di studi. «Per chi è nato in estate le giornate non finirebbero mai. Ecco da dove nasce la tendenza a diventare gufi. I nati in inverno sono invece mattutini doc. Ovviamente si tratta di statistiche e all’interno dei vari gruppi le differenze sono grandi». Nessun risultato invece è stato mai ottenuto dai ricercatori che si sono sforzati di legare data di nascita a tratti della personalità più complessi, come estroversione, socievolezza o addirittura livello di intelligenza.
Il Cicap e le stelle "L’astrologia? Un fallimento a contare è il sole"
Ma non sono gli astri ad essere determinanti, piuttosto la quantità di luce assorbita dai neuroni del neonato Secondo una ricerca su "Nature Neuroscience" la diversa lunghezza delle giornate condiziona il cervello
di E. D. (la Repubblica, 06.12.2010)
ROMA - «La luce ha sicuramente un effetto sul cervello e sulla personalità, ed è interessante che la scienza indaghi il loro rapporto. Ma questo cosa c’entra con l’influenza che possono avere gli astri in cielo?». Secondo Massimo Polidoro, segretario del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), uno studio come quello di Nature Neuroscience non aggiunge proprio nulla alla validità dell’astrologia.
Lasciamo stare l’oroscopo del giorno. Ma forse l’astrologia ha qualcosa da dire nella descrizione della personalità dei segni zodiacali?
«Se prendiamo due persone nate nel nord Europa e in un paese del Mediterraneo notiamo la differenza. Tant’è che per gli individui allegri ed espansivi abbiamo coniato la definizione di "carattere solare". Questo vuol dire che è soprattutto l’esposizione alla luce ad avere importanza, non la posizione degli astri al momento della nascita».
Può darsi che l’astrologia avesse colto per via indiretta delle intuizioni che oggi la scienza riesce a confermare.
«Molti test sono stati condotti su questa ipotesi. Agli astrologi è stato chiesto di definire i tratti della personalità di un individuo senza avere nulla a disposizione se non la data di nascita. I risultati sono stati sempre fallimentari. Mai nessuno è riuscito a confermare la validità delle conclusioni dell’astrologia. Teniamo distinta la scienza da questa disciplina». (e.d.)
POLONIA
Copernico sepolto con onore
Tregua tra Chiesa e Scienza
L’astronomo che sfidò l’autorità ecclesiastica sepolto nella cattedrale di Frombork. I resti individuati con il Dna di ossa scoperte nella cattedrale confrontati con frammenti di capelli trovati nei libri dello scienziato *
Niccolò Copernico, l’astronomo polacco che nel XVI secolo ebbe il coraggio di sfidare la Chiesa sul dogma della centralità della Terra - e quindi dell’Uomo - nell’universo, è stato sepolto oggi tra grandi onori nella cattedrale di Frombork, a nord della Polonia, dove per secoli le sue spoglie hanno giaciuto nell’anonimato. Se le autorità vaticane avevano già riabilitato l’opera di Copernico, come avvenuto per quella del nostro Galileo, la sepoltura dignitosa dei resti dell’eretico studioso dei cieli si deve alla riuscita collaborazione tra la volontà ecclesiastica e l’azione della sua compagna di una vita: la scienza.
LE FOTO Copernico sepolto con onore
La chiave di volta della vicenda, ancora una volta, è racchiusa in una sigla di tre lettere: dna. Copernico fu sepolto nella cattedrale di Frombork nel 1543, in una tomba priva di un nome o di un qualsiasi segno che potesse segnalare dietro la pietra le spoglie del padre dell’Eliocentrismo, il sole al centro del sistema solare e della vita. Su richiesta del vescovo locale, gli scienziati hanno iniziato le ricerche della tomba di Copernico nel 2004, scoprendo le ossa e il cranio di un uomo deceduto all’età approssimativa di 70 anni. Quella che Copernico aveva il giorno della sua morte, quando prima di spirare gli fu consegnata una copia del De Revolutionibus Orbium Coelestium, il suo trattato "sulla rivoluzione delle sfere celesti", appena pubblicato.
Da quelle ossa, dai denti in particolare, è stato tratto il Dna da confrontare con quello di alcuni frammenti di capelli ritrovati nei libri che appartennero all’astronomo, matematico e medico polacco. Il codice genetico era lo stesso, di qui la conclusione che le spoglie dello scienziato erano finalmente uscite dall’oblio della storia. Così, 467 anni dopo la sua morte, i resti di Niccolò Copernico sono stati nuovamente inumati nella cattedrale di Frombork. Ma questa volta ai piedi di una tomba nuova di granito nero, con incisa la rappresentazione di un modello del sistema solare. Nel corso della cerimonia religiosa che ha accompagnato l’evento, l’arcivescovo Jozef Zycinski, nuovo primate polacco, ha deplorato gli "eccessi di zelo dei difensori della Chiesa" e ha ricordato la condanna dell’opera dell’astronomo da parte di Papa Paolo V nel 1616.
Il ricordo di tanto oscurantismo non poteva essere cancellato in un giorno. Così, prima della solenne sepoltura, una bara di legno contenente i resti di Copernico ha viaggiato per alcune settimane attraverso la Polonia, è stata esposta a Olsztyn e nelle città con cui ebbe legami nella sua vita. E Wojciech Ziemba, arcivescovo della regione di Frombork, ha finalmente detto che la Chiesa cattolica è fiera che Copernico abbia lasciato alla regione l’eredità del suo "duro lavoro, della sua devozione e soprattutto del suo genio scientifico".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
Anche il sangue è doc?
di Igiaba Scego (l’Unità, 05.05.2010)
Il ministro degli Interni Maroni si è dichiarato contrario allo “ius soli”, ossia alla concessione della cittadinanza ai figli di migranti che nascono in Italia. Maroni è ministro dello Stato italiano però il suo partito, la Lega, fa un po’ a pugni con questa parola “Italia”. Preferiscono definirsi padani. Governano in Italia, ma di questa Italia non si sentono parte. Infatti il leader della Lega Umberto Bossi interpellato sulla festa per i 150 anni dell’unità del Paese ha definito la ricorrenza inutile e molti membri della Lega hanno dichiarato che «non parteciperanno alla festa per l’unità». Alla luce di queste dichiarazioni mi chiedo: l’Italia è di chi ci nasce, di chi la ama o di chi fortuitamente si è ritrovato con una goccia di sangue italiano nelle vene?
E come si fa a capire qual è il sangue italiano doc? Va ad annate come il vino? Nel sangue italiano ci sono le tracce di tutti i popoli che si sono avvicendati nella penisola: come si fa a capire quale sangue è doc e quale non lo è? Vale di meno il sangue che porta le tracce africane delle truppe di Annibale? E quello mischiato con il sangue arabo e il sangue ebreo? È più italiano un uomo nato a Buenos Aires con trisavolo del Friuli che non sa nulla dell’Italia? O un giovane di origine cinese nato, svezzato e cresciuto in provincia di Varese? In politica c’è chi è miope su questa situazione dei figli dei migranti, ma c’è anche chi riflette e fa battaglie.
Il finiano Fabio Granata del Pdl e il cattolico del Pd Andrea Sarubbi hanno presentato un testo che propone tra le tante cose il passaggio dallo “ius sanguinis” allo “ius soli” per i figli di genitori residenti in Italia da cinque anni. Il testo porta in calce il nome di cinquanta parlamentari di tutti i gruppi, salvo la Lega. Stanno cercando di portare i nuovi italiani al centro del dibattito politico. La demografia è dalla parte degli onorevoli Sarubbi e Granata. E anche il buon senso.
Mafia e preti, un libro di Isaia Sales racconta come siano «vicini»
di Massimiliano Amato (l’Unità, 4 marzo 2010)
«Non si smette mai di essere preti. Né mafiosi», ripeteva spesso Giovanni Falcone, sottolineando come lo specifico criminale che da un secolo e mezzo marchia a fuoco la vita, l’economia e la società di quattro regioni italiane sia in realtà una religione, che dal cattolicesimo prende in prestito i riti, il linguaggio, l’espressività liturgica. E tuttavia, il legame non è fatto solo di simboli: Cosa Nostra si richiama ai Beati Paoli, la camorra alla Guarduna, confraternita esistente a Toledo sin dal XV secolo, la ‘ndrangheta ai tre arcangeli della tradizione. No, c’è di più, qualcosa che va oltre la sintassi dell’esteriorità, nel rapporto, mai investigato a sufficienza, tra Chiesa e grandi organizzazioni criminali.
Nel suo documentatissimo «I preti e i mafiosi», Isaia Sales, tra i più lucidi studiosi dei fenomeni mafiosi, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia al Suor Orsola Benincasa di Napoli, mette subito le cose in chiaro. Innanzitutto, sostiene Sales, c’è una gravissima condotta omissiva, addebitabile ad un «giusnaturalismo di sangue», che la cultura cattolica mutua da quella mafiosa (e viceversa: l’esistenza di altre Giustizie oltre a quella dei Tribunali) in opposizione al positivismo del diritto statuale. La Chiesa, è la tesi di fondo del libro, non ha mai alzato un argine - né dottrinale, né teologico, né morale - contro il proliferare delle mafie. Ne ha anzi tollerato (quando non fiancheggiato) il radicamento, concimandolo talvolta con una sconcertante sintonia valoriale: le comuni posizioni in materia di morale sessuale, o in politica, dove l’anticomunismo è consustanziale.
La carica antistatuale della Chiesa e quella delle organizzazioni criminali hanno finito spesso col convergere. Al punto che dal martirologio cristiano sono espunti gli eroismi, in nome della fede e di un credo fondato sull’anti-violenza (l’esatto opposto, in teoria, dell’ethos mafioso), di decine di preti uccisi dalle mafie, di cui poco o punto si sa. Solo recentemente, con i sacrifici di don Pino Puglisi, fatto ammazzare come un cane a Brancaccio dai fratelli Graviano, e di don Peppe Diana, eliminato a Casal di Principe dai sicari di Sandokan, è emersa una coscienza nuova, tuttavia confinata a pochi casi isolati di preti - coraggio. Le eccezioni. E così, nel paese degli atei devoti, l’archetipo mafioso è quello del fervido credente criminale efferato, che si fa il segno della croce prima di ordinare un omicidio o di premere il grilletto: i covi dei superlatitanti sono sempre zeppi di immagini e testi sacri, dalla Bibbia al Vangelo, i boss vengono maritati in chiesa, confessati, comunicati e, se muoiono nel loro letto, ricevono l’estrema unzione.
La parte più suggestiva del saggio è quella in cui Sales ipotizza, non senza riferimenti «alti», una sorta di «complementarietà» tra il fenomeno mafioso e l’affermazione di alcuni precetti cristiani: dalla teoria della Confessione di Sant’Alfonso, a quella del criminale pecorella smarrita, un filo sottile tiene insieme il comportamento deviante e l’esigenza cattolica della «redenzione», in cui il valore della dissociazione prevale su quello del pentimento. Anche in questo caso, i due antiStato s’incontrano.
Il vuoto della politica
di Enzo Mazzi (il manifesto, 15 gennaio 2010)
Vale anche per i fatti di Rosarno l’affermazione di Luigi Pintor richiamata domenica da Valentino Parlato: la sinistra «non deve vincere domani, ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Non bastano le denunce e i fiumi di lacrime versate da politici, media, chiese e associazioni. Bisogna «reinventare la vita».
I fatti di Rosarno sono il sintomo di un malessere profondo che soffoca la società ormai a livello mondiale, sono quasi l’ecografia del cancro che divora la vita di tutti noi nell’intimo.
La moderna schiavitù senza regole, lo sfruttamento bestiale degli immigrati e le condizioni inumane di vita che sono loro riservate, il dominio sempre più invadente delle mafie, il nuovo squadrismo in salsa leghista, la politica dominate che fomenta le paure e le xenofobie degli autoctoni, sono realtà da denunciare e contrastare con tutte le poche forze che ci restano in questo sfascio della sinistra di rappresentanza. Ma non basta. Il tema che deve emergere con forza è la reinvenzione della vita, della politica, della economia, della cultura e perché no della religione.
Dall’inferno di Rosarno alla palingenesi? È un sogno impossibile che ci distoglie dalle cose possibili? E quali sono le cose possibili? Non avvertite tutta l’impotenza di denunce, manifestazioni e lacrime? E il vuoto della politica? Non c’è che ripartire dal quotidiano, dall’operare ogni giorno, dall’invasione di campo.
Ormai siamo tutti stranieri a noi stessi. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro siamo tutti neri. È il danaro, nuova divinità, che si è impossessato delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha privato della nostra vita e della stessa terra.
La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata. Ma è una illusione alzar mura, installare body scanner, e rovesciar barconi. Il nemico che ci assedia non è l’immigrazione. Siamo noi nemici a noi stessi. La crisi è dentro la struttura stessa della città. Un nuovo umanesimo s’impone. Ma il suo centro non è più la città. Anzi presuppone il crollo delle mura e lo prepara. È la vendetta del sangue di Remo. Il fondamento di un nuovo patto non può che trovarsi nell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal luogo di nascita e dal colore della pelle. Il risveglio di una tale consapevolezza non è né facile né indolore. Ed è qui che si apre uno spazio significativo e caratterizzante non solo per la politica ma per il volontariato e più in generale per l’associazionismo. Purtroppo la strada più facile è quella dell’assistenzialismo. Ma è una strada scivolosa. L’assistenzialismo, comunque rivestito, non crea parità di diritti.
Chi ha a cuore l’obbiettivo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza per tutti, come diritto pieno, comprensivo dei diritti sociali, e come diritto inalienabile della persona, non può fare a meno di impegnarsi sia sui tempi brevi della mediazione politica, per raggiungere il raggiungibile, qui e ora, sia sui tempi lunghi della trasformazione culturale, in mezzo alla gente, facendo cose concrete.
E direi che l’associazionismo più che tappar buchi e metter toppe, dovrebbe imboccare più decisamente proprio la strada della trasformazione culturale. Tendere a smontare i paradigmi culturali, ideologici e anche religiosi, che sono all’origine della discriminazione. Con pazienza infinita e con umiltà, senza tirare la pianticella per lo stelo. Ma anche con tanta coerenza e fermezza. Senza vendere mai tutto sul mercato dell’emergenza e senza sacrificare mai tutto sull’altare della mediazione politica. Ha ragione ancora una volta il nostro Pintor: l’utopia della palingenesi è l’unica realtà possibile e la stella polare di un cammino che abbia senso e che dia senso ad ogni più piccolo passo.