ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della "barbarie ritornata"), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete):
Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra la "Ditta Renzi" di ieri (1935-1936) e la "Ditta Renzi" di oggi (1994-2014), una sintesi eccezionale della "cecità" di lunga durata delle classi "dirigenti" del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è "la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza" (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, "Introduzione" [1955], Einaudi, Torino 1978).
A mio parere, il lavoro (non solo questo! Si veda almeno anche "Paura della libertà", scritto in Francia nel 1939 - dopo il confino in Basilicata - e pubblicato nel 1946, dopo la scrittura nel 1942-1943 e la pubblicazione nel 1945 del suo capolavoro) di Carlo Levi, è ancora tutto da leggere e da rimeditare - assolutamente; è nell’ottica di una visione inaudita e inedita della storia, per molti versi (per intendersi e orientarsi) vicina a Giambattista Vico* e a Walter Benjamin*.
Al di là dei vari storicismi idealistici o materialistici, con grande consapevolezza filosofica e teologico-politica, in un passaggio sul nodo della civiltà contadina e delle sue guerre ("le sue guerre nazionali") e della storia "di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia", così scrive, contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli (come di Torino):
"La prima di esse [delle guerre nazionali] è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, la religione dello Stato. (...) Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino"; e, ancora, fino ad illuminare il suo presente storico, scrive con lucidità e spirito critico: "(...) La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli" (C. Levi, Cristo..., cit., pp. 123-125).
Detto diversamente, egli ha ben compreso - come scrive all’editore Einaudi nel 1963 - non solo "la Lucania che è in ciascuno di noi", ma anche "tutte le Lucanie di ogni angolo della terra". Nato a Torino (29 novembre 1902) e morto a Roma (4 gennaio 1975), ora riposa nel cimitero di Aliano, nella sua Terra. A suo onore e memoria, possono valere (in un senso molto prossimo) le stesse parole del "Finnegans Wake" di Joyce, riferite a Giambattista Vico (che pure aveva vissuto molti anni, a Vatolla, ai margini della grande foresta lucana, dell’"ingens sylva"): "Prima che vi fosse un uomo in Irlanda, c’era un lord in Lucania".
Come Vico e con Vico, Carlo Levi aveva capito da dove ripartire, per affrontare da esseri umani la "Paura della libertà" (cfr. Carlo Levi, Scritti politici, cit., pp. 132-209). Una lettura meditata e criticamente assimilata della vichiana "Scienza Nuova" (a partire da quella del 1725, "che tutta incominciammo - come scrive lo stesso Vico - da quel motto: A Iove principium musae, ed ora la chiudiamo con l’altra parte: Iovis omnia plena") è alla base di questo suo primo lavoro (ripetiamo: scritto dopo il confino a Grassano e ad Aliano, e prima della scrittura - cinque anni dopo - di "Cristo si è fermato ad Eboli").
Il suo omaggio a Vico non si riduce e non è riducibile solo alle allusioni già evidenti nei titoli dei capitoli (Ab Jove principium, Sacrificio, Amor sacro e profano, Schiavitù, Le muse, Sangue, Massa, Storia sacra):
Come vincere la paura della libertà, come convivere con la ingens sylva? L’incredibile è che, nel 1939, quando "un vento di morte e di oscura religione sconvolgeva gli antichi stati d’Europa" e "la bandiera tedesca fu alzata sulla torre Eiffel", Giambattista Vico è a fianco di Carlo Levi, come nel 1944, nel Lager di Wietzendorf, è a fianco di Enzo Paci - e ha aiutato entrambi a non perdere la strada e a riprendere il cammino della giustizia e della libertà.
Nel gennaio 1946, nella "Prefazione alla prima edizione" di Paura della libertà, Carlo Levi così parla (cfr. Scritti politici, cit ., pp. 218-219) della sua "confessione" (definita poi "breve poema", nel 1964, e "poema filosofico" nel 1971): "Quello che avevo scritto era all’incirca la parte introduttiva dell’opera progettata, la prefazione: ma tutti gli svolgimenti particolari che avevo avuto in animo di fare vi erano impliciti (...) mi parve che il libro contenesse già tutto quello che intendevo dire, e che non occorresse più squadernarlo esplicitamente. C’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola volta chiamato per nome; c’era una teoria dello Stato e della libertà; c’era una estetica, una teoria della religione e del peccato, ecc. Il libro rimase qual era, senza seguito. Lo portai con me nel ’41, di nascosto in Italia; e molti amici mi consigliarono di stamparlo subito (...) non ho cambiato neppure una parola della stesura primitiva (...) mi è parso che convenisse lasciare a questo piccolo libro (Così diverso dal mio Cristo si è fermato a Eboli, scritto cinque anni dopo) il suo tempo, che è forse il suo valore di espressione".
Federico La Sala (07.09.2014)
*
SUL PROBLEMA VICO, NEL SITO, SI cfr.:
SU WALTER BENJAMIN, NEL SITO, SI cfr.:
SUL TEMA, IN GENERALE, SI cfr.:
IL PROFESSOR MAGALONE E... IL MASCELLA «MUSCOLONE». «Gagliano, come l’Italia, era in quel tempo in mano ai maestri di scuola»:
«Il podestà mi riconosce e mi chiama. Un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli neri e unti che gli piovono in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe da luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e di soddisfazione. Porta gli stivaloni, un paio di brache a quadretti da cavallerizzo, una giacchetta corta, e giocherella con un frustino. È il professor Magalone Luigi: ma non è professore. È il Maestro delle scuole elementari di Gagliano, ma il suo compito principale è quello di sorvegliare i confinati del paese. In quest’opera egli pone (avrò poi modo di constatarlo) tutta la sua attività e zelo. [...] e il professore mi dà subito notizie sul paese, e sul modo con cui mi conviene comportarmi [...]»(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 1945).
FLS
Un mondo di cose più che di persone: saggi di de Martino
Antropologia. Ideata da Goffredo Fofi per e/o, la Piccola Biblioteca Morale ripropone tre saggi di Ernesto de Martino, scritti rispettivamente nel ’49, nel ’50 e nel ‘64: «Oltre Eboli», a cura di Stefano De Matteis
di Alfonso M. Iacono (il manifesto, Alias, 04.04.2021).
Nella Piccola Biblioteca Morale, ideata per e/o, Goffredo Fofi ripropone tre saggi di Ernesto de Martino, scritti rispettivamente nel ’49, nel ’50 e nel ‘64: Oltre Eboli (a cura di Stefano De Matteis, pp. 97, € 8,00). Ricercatore sul campo, teorico e, al contempo militante e dirigente politico, Ernesto de Martino (come Raniero Panzieri, per non parlare di Gramsci) sarebbe oggi un intellettuale tanto auspicabile quanto impensabile.
Richiamandosi al libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, de Martino osserva come sia intrinseco al carattere della società borghese che «Cristo non vada ‘oltre Eboli’». Cosa c’era, meglio: cosa c’è oltre Eboli? «Il mondo popolare subalterno, egli scrive, costituisce, per la società borghese un mondo di cose più che di persone, un mondo naturale che si confonde con la natura dominabile e sfruttabile.... tale mondo, per la società borghese, forma problema quasi esclusivamente (e in ogni caso fondamentalmente) per conquistatori, agenti commerciali e funzionari coloniali, per prefetti e questori».
L’oltre Eboli c’era ancora dopo la Liberazione. E oggi? La pubblicità di una nota azienda di supermercati (quanto si sarà arricchita con la pandemia?) suona, come è noto, così: «persone oltre le cose». L’oltre Eboli di oggi è tutta qui. L’umanità a buon mercato. Ciò che de Martino individuava nelle cosiddette classi subalterne, in particolare del Sud di allora, oggi si trova ovunque. Persone ridotte a cose, ma spesso attentamente truccate e esteticamente ben messe.
Nel secondo saggio, Note lucane, de Martino parla di un mondo perduto eppure incredibilmente attuale, e prova un senso di colpa, vergogna e collera di fronte a uomini trattati come bestie: «se la democrazia borghese ha permesso a me di non essere come loro, ma di nutrirmi e di vestirmi relativamente a mio agio, e di fruire delle libertà costituzionali, questo ha un’importanza trascurabile: perché non si tratta di me, del sordido me gonfio di orgoglio, ma del me concretamente vivente, che insieme a tutti nella storia sta e insieme a tutti nella storia cade...provo vergogna di aver io consentito che questa concessione immonda mi fosse fatta, di aver lasciato per lungo tempo che la società esercitasse su di me tutte le sue arti per rendermi ‘libero’ a questo prezzo, e di aver tanto poco visto l’inganno da mostrare persino di gradirlo».
L’oltre Eboli è sempre più al Sud del mondo e si è mostrato con virulenza in questa pandemia, ma il neoliberismo è riuscito a spazzare via il senso di colpa, la vergogna e la collera, al punto che la morte dei più deboli appare inevitabile mentre la logica del profitto nega la socializzazione dei brevetti dei vaccini e la vita delle persone conta meno della macabra, libera negoziazione di mercato.
De Martino vede nell’apocalisse un mondo nuovo
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 18 febbraio 2021)
Dove sarà adesso il campanile di Marcellinara? Non sarà che qualcos’altro ha preso il suo posto? Oppure non sappiamo più che farcene di punti di riferimento, di bussole e rose dei venti, di piccole patrie dalle quali è preferibile non allontanarsi? Quanto fosse importante il campanile del paese in provincia di Catanzaro lo racconta Ernesto de Martino in uno dei tre saggi ora riuniti in Oltre Eboli (e/o, pagine 100, euro 8,00). Curato da Stefano De Matteis per la “Collana di pensiero radicale” diretta da Goffredo Fofi, il volume vale da introduzione essenziale alla figura e all’opera di colui che, a buon diritto, viene considerato il principale innovatore degli storici antropologici in Italia.
Quella di de Martino (nato a Napoli nel 1909 e morto a Roma nel 1965) rimane una figura complessa, ma proprio per questo tanto più interessante per l’indagine sulla dimensione storica dell’esperienza religiosa. Crociano di formazione e militante del Partito comunista per scelta, collaborò con Cesare Pavese all’allestimento della “Collana viola” tramite la quale la casa editrice Einaudi rese disponibili nel nostro Paese testi fondamentali come Il ramo d’oro di James Frazer, il Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade, e poi gli scritti di Carl Gustav Jung, di Vladimír Propp, di Károly Kerényi.
A inaugurare la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” (questa la dicitura ufficiale) era stato nel 1948 Il mondo magico dello stesso de Martino, manifesto di un metodo nel quale, da lì in poi, confluiscono ricerca sul campo, elaborazione teorica e impegno politico. Distaccandosi dall’ortodossia marxista, che considera la religione alla stregua di una sovrastruttura della quale l’umanità è destinata a disfarsi, de Martino riconosce alle pratiche del sacro una potenziale forza di liberazione, in virtù della quale il «mondo popolare subalterno» acquisisce il diritto a intervenire nei processi storici, fino a modificarne il corso.
È questa l’ipotesi (sostenuta con rimandi all’etnologia sovietica decisamente troppo generosi e forse addirittura interessati) che de Martino formula nel primo dei saggi scelti da De Matteis, risalente al 1949 e incentrato sulla necessità di superare l’immagine, fissata dal celebre libro di Carlo Levi, di una civiltà che si sarebbe arrestata al simbolico «confine di Eboli». De Martino, al contrario, è persuaso che l’apparente «imbarbarimento» - causato dall’irrompere di «abitudini culturali» nelle quali rientra anche una «ingenua fede millenaristica» - possa aiutare a comprendere non solo «“lato oscuro” del genere umano», ma anche il «“lato oscuro” della nostra stessa anima di “occidentali” e di “moderni”». Lo conferma il secondo testo presentato in Oltre Eboli, le Note lucane del 1950 che documentano la complessità di una religiosità contadina vissuta come elemento di rivendicazione sociale.
Ma è nel terzo contributo, datato 1964 e dedicato al Problema della fine del mondo da cui furono occupati gli ultimi anni della vita di de Martino, che raggiungiamo finalmente Marcellinara. Siamo nell’entroterra calabrese, lo studioso non riesce a trovare la strada, chiede a un anziano pastore di accompagnarlo per un tratto, tanto poi sarà lui stesso a riportarlo indietro in auto. L’uomo accetta, ma appena perde di vista il campanile è preso dal panico: «per tale scomparsa - scrive de Martino - esperiva angosciosamente il crollo della sua angustissima patria culturale con l’abituale paesaggio che faceva da scenario quotidiano ai suoi spostamenti col gregge». La sua è una condizione per certi aspetti simile a quella del paranoico «contadino di Brema» sul quale, nello stesso periodo, de Martino si sofferma durante la stesura dell’incompiuto La fine del mondo, del quale è uscita nel 2019 da Einaudi una nuova edizione critica. -All’interno del medesimo progetto di articolata ripubblicazione delle opere di de Martino si aggiunge ora, sempre per Einaudi, l’imprescindibile Morte e pianto rituale (a cura di Marcello Massenzio, pagine LXXVIII+372, euro 29,00), il saggio del 1958 nel quale si stabilisce la continuità tra le forme primitive del lutto e le successive liturgie funebri per il tramite della lamentazione della Vergine ai piedi della Croce. A tratti polemico verso la Chiesa del suo tempo, de Martino ha comunque saputo cogliere un aspetto essenziale del cristianesimo, che è la consapevolezza per cui «la fine di un mondo non significherà la fine del mondo, ma, semplicemente, il mondo di domani». Oppure, come potrebbe dire un credente «il mondo che verrà» come annunciato nel Credo.
Popcorn e imbarbarimento
di Giorgio Mascitelli (Nazione Indiana, 6 Luglio 2019)
Vedendo le immagini della comandante della Sea Watch che scendeva dalla nave arrestata dagli uomini della guardia di finanza, mi è venuta in mente la battuta di Renzi dell’anno scorso sul fatto che con il nuovo governo si sarebbe seduto comodamente coi popcorn in mano a vedere cosa avrebbero combinato. Questa battuta è più profonda ed emblematica di quanto pensi il suo autore perché rappresenta non solo il suo pensiero, ancorché un certo tipo di tronfieria che la caratterizza sia tipicamente renziana, ma il coronamento o, per parlar da professorone, l’entelechia di un’intera classe dirigente. L’immagine dei popcorn suggerisce infatti sia l’idea di una politica da spettatori, senza partecipazione delle persone, sia quella che le cose che accadranno in Italia a causa di questo governo infondo non tocchino lo spettatore, come se non ne pagasse lui le conseguenze, cosa che probabilmente per le nostre classi dirigenti è vera.
Quella dei popcorn è anche un’opzione strategica che significa nessun ripensamento sul passato, ma attesa semplicemente degli errori dell’attuale governo perché la politica non è altro che amministrazione più o meno abile dell’esistente che non può essere messo in discussione. Eppure in Europa se l’imbarbarimento avanza, è anche grazie a questa idea narcisista e autolesionista delle classi dirigenti, con l’aggiunta tutta italiana dell’illusione che questo governo, o altri ancora peggiori che si profilano, finirà esattamente come finisce un film magari quando sono terminati anche i popcorn.
Si dà il caso invece che nel governo ci sia un comunicatore veramente bravo nel suo ramo che ha già spiegato che vuole governare per trent’anni, e tra l’altro i seguaci della strategia del popcorn sono anche convinti che si tratti del male minore rispetto ai cinquestelle. I risultati di questo modo di approcciarsi si vedono con il caso della Sea Watch: il ministro degli interni, in disprezzo delle norme internazionali che regolano la navigazione, costruisce un caso mediatico su una nave che ha salvato dei naufraghi per distrarre l’opinione pubblica dai tagli alla spesa che il governo deve fare per non incorrere nelle procedure d’infrazione dell’Unione dopo aver solennemente assicurato che lui dell’Europa se ne frega. I rappresentanti della strategia del popcorn, invece di smascherare il gioco illusionistico e di fare delle controproposte sulla finanziaria, mandano alcuni loro esponenti sulla nave finendo con il favorire la diffusione dell’interpretazione tendenziosa che tale nave non ha salvato delle persone, ma è inviata apposta per mettere in difficoltà il governo. Risultato, nonostante Salvini abbia sostenuto tesi prive di riscontro e sia sceso a più miti consigli nei suoi rapporti con l’Unione, guadagna consensi come l’uomo tutto d’un pezzo che non si piega ai diktat europei.
Benché l’Italia sia un paese senza prospettive economiche in cui la crisi demografica sta incidendo come durante una guerra, una parte cospicua della popolazione, potenzialmente maggioritaria, non è poi così disponibile a lasciarsi incantare da giochi illusionistici, ma non per questo è disposta ad appoggiare un’opposizione che tramite la strategia dei popcorn mostra di volere solo il ritorno al passato sentito con ragione come altrettanto minaccioso. Occorre, se si vuole contrastare quell’imbarbarimento di cui gli insulti a Carola Rackete sono un sintomo, indagare con umiltà le problematiche che affliggono le fasce medio basse della popolazione italiana e fornire proposte concrete alternative ai risarcimenti simbolici per l’impoverimento collettivo offerti con gran dovizia dal comunicatore
Almeno è che così che la vedo io, ma a me il popcorn non è mai piaciuto.
NONOSTANTE GALILEI E PASCAL (“Vous êtes embarqués”) ed EINSTEIN, a quanto pare, in Italia soprattutto il consumo di “popcorn” va fortissimo e la teorizzazione del gioco del “NAUFRAGIO CON SPETTATORE. Paradigma di una metafora dell’esistenza” (Hans Blumenberg) anche! E non si vede affatto né che si è tutti e tutte nella stessa BARCA/TERRA né per nulla che già da tempo è iniziata l’epoca dei “NAUFRAGI SENZA SPETTATORE. L’idea del progresso” (Paolo Rossi).
NOTA:
ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della “barbarie ritornata”), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che “romanzo”!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete) [...] Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra la “Ditta Renzi” di ieri (1935-1936) e la “Ditta Renzi” di oggi (1994-2014), una sintesi eccezionale della “cecità” di lunga durata delle classi “dirigenti” del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: “È significativo che l’espressione di Tertulliano: “Il cristiano è un altro Cristo”, sia diventata: “Il prete è un altro Cristo”” (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è “la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza” (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, “Introduzione” [1955], Einaudi, Torino 1978) [...] (cfr. LA LEZIONE DI CARLO LEVI - OGGI: LA “DITTA RENZI” (DI TORINO) AD ALIANO (MATERA). Un invito alla ri-lettura di “Cristo si è fermato ad Eboli”).
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA (E DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO DELL’ "UOMO SUPREMO"): INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI...
LE PAROLE, LE COSE, E LE PERSONE: "Identità. Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica". Così inizia la riflessione di Mimmo Cangiano su “Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra” ("Le parole e le cose", 10 giugno 2019).
CONSIDERATO CHE ORA COME ORA proprio perché, come scrive l’autore,
nel condividere e nell’accogliere l’invito gramsciano citato in esergo (“quando tutto sembra perduto bisogna / mettersi tranquillamente all’opera / ricominciando dall’inizio”) e, INSIEME, nel RICORDARE che FORENZA è VICINO ACERENZA, in BASILICATA (là dove fu confinato l’Autore di "Cristo si è fermato ad Eboli"),
sul problema di lunga durata del nostro presente storico, IO CONSIGLIEREI DI RIPRENDERE IL DISCORSO proprio da "CAPO", da GRAMSCI.
FORSE è TEMPO di interrogarci un po’ più radicalmente! La sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico è già "vecchia" ed uscire da uno "stato di minorità" in cui versiamo da millenni, intrappolati come siamo in una logica adamitica ("Adamo ed Eva"!) di un cieco, cainico, teologico-dialettico, edipico, molochiano, capitalistico "familismo amorale" non è un gioco da "ragazzi"!
Bisogna aprire gli occhi (non "chiudere un occhio"!) su "«chi» siamo noi in realtà e, nello stesso tempo, saper sognare il sogno di una cosa. Forse non è (ancora!) possibile?! Boh e bah...
Federico La Sala
Libro
Quella libertà che fa paura
Carlo Levi indaga il sentimento che ha generato il fascismo
di Mario Fortunato (l’Espresso, 17.06.2018)
È veramente una sorpresa leggere oggi “Paura della libertà” (Neri Pozza, pp. 154, € 15) di Carlo Levi (1902-1975), “poema filosofico”, secondo il suo stesso autore, scritto fra il 1939 e il 1940 nel nord ovest della Francia, a La Baule - mentre l’Europa cominciava quell’esercizio di autoannientamento definito Seconda guerra mondiale - ma pubblicato solo nel 1946, all’indomani del grande successo di “Cristo si è fermato a Eboli”.
La riscoperta del testo (mai più ristampato come autonomo dal 1964) si deve a Giorgio Agamben che firma un’introduzione di poche e limpide pagine, in cui racconta fra l’altro come a suo tempo il libro sia stato malinteso o forse semplicemente non capito dall’intellighenzia comunista a cui pure Levi fu legato soprattutto negli anni Sessanta.
In effetti, già nel suo tono direi sapienziale, nella scrittura misteriosa e avvolgente, Levi sembra provenire da un altro pianeta, rispetto al dibattito italiano delle idee nell’immediato dopoguerra. Né Gobetti né Gramsci sembrano presiedere a queste pagine, ma casomai (è un suggerimento di Agamben) Mauss e Durkheim. Levi individua nella “paura della libertà” - cioè nel segreto ma essenziale desiderio di schiavitù, che si annida nelle masse soprattutto metropolitane del XX secolo - il sentimento che ha dato luogo al fascismo (oggi, con la crisi del modello della democrazia rappresentativa, siamo a un passo dal medesimo clima emotivo).
Per analizzare tale paura, lo scrittore si cala nei centri nervosi da cui il suddetto sentimento origina, trasformandosi in sistema: l’opposizione tra il sacro e il religioso, l’analisi dello Stato come idolo sociale, il ruolo della guerra quale nucleo originale della massa moderna, il linguaggio e la funzione dell’arte, l’idea della morte.
Allo Stato-idolo, Levi contrappone lo “stato di libertà”: che corrisponde a una sostanziale fuoriuscita dal modello di sviluppo capitalistico che, secondo lui, non può che perpetuare «l’eterno fascismo italiano». La sua è una proposta di “libertà nelle passioni”, che mi pare oggi di un’attualità politica davvero, ma davvero sorprendente.
Storia
Manlio e Nuto, lettere in difesa degli ultimi
Trent’anni fa moriva Rossi-Doria, l’intellettuale che aveva dedicato i suoi studi alle condizioni del Mezzogiorno, condividendo con l’amico Revelli l’interesse per i “vinti”. Pubblichiamo un carteggio inedito tra i due del 1977
di Nuto Revelli e Manlio Rossi-Doria (la Repubblica. 04 Giugno 2018)
CUNEO, 14/1/ 77
Caro Manlio, mi hai sempre accompagnato in questi anni di lavoro.
Mille volte mi sarò detto: «Se ci fosse qui Manlio, chissà che cosa ne penserebbe di questo e di quest’altro problema?». Devo molto al tuo incoraggiamento. Adesso ho finito, l’ho consegnata il 15 dicembre la mia fatica di sette anni. L’introduzione è di 150 pagine, e inquadra la situazione di ieri e di oggi, il mondo dei testimoni. Poi le 450 pagine delle testimonianze.
Ti confesso che sento non poca nostalgia del lavoro di ricerca, il lavoro entusiasmante era proprio la ricerca, era quell’entrare in centinaia di case a dialogare, ascoltare, imparare. Pesante invece la traduzione dal dialetto o dal patois, ho dovuto risentire ogni registrazione almeno tre volte prima di realizzare i testi definitivi. Ogni testimonianza parlata ha una durata media di quattro ore. Sono 270 le testimonianze che ho raccolto, un materiale enorme, e a mio giudizio quasi tutto valido. Ma i 2/3 di questo materiale ho dovuto sacrificarlo. Ho salvato 85 racconti di vita contadina.
I temi. C’è la 2° emigrazione verso le Americhe (la più interessante è quella degli Stati Uniti), c’è molto dell’emigrazione verso la Francia, e la 2° Guerra Mondiale, il prefascismo (poco), il “Ventennio”, la 2° Guerra Mondiale, la pagina partigiana, e infine la realtà di ieri e di oggi.
La guerra è proprio “dentro” al mondo contadino, come la tempesta. Mi ero illuso di aver smaltito per sempre il tema “guerra”. Invece l’ho ritrovata come tema dominante: la guerra è la grande esperienza, è la ferita mal cicatrizzata che sanguina non appena la tocchi.
Sette anni di dialogo con la campagna povera del mio Cuneese. E finalmente ho capito quanto sono duri i contraccolpi di un’industrializzazione selvaggia e caotica. Ormai, nella nostra campagna povera, è saltato il tessuto sociale: ormai le forze giovani sono finite tutte in fabbrica. Manlio, quanta gente vorrei che finisse davanti ad un plotone di esecuzione, quanto sarebbe necessario un 25 aprile!
Malgrado tutto continuo a credere. Ho già in testa un altro lavoro di ricerca, non riesco a stare fermo. Adesso vorrei studiare i matrimoni contadini della campagna povera. Dimmi se sono matto o no. I soli matrimoni contadini che si sono realizzati nell’arco di questi ultimi quindici anni sono i matrimoni tra i nostri contadini anziani e le donne del meridione, le cosiddette “calabrotte”.
Nelle Langhe questi matrimoni si contano a centinaia, e il fenomeno si va estendendo alla montagna e alla pianura.
È la realtà sociale delle nostre campagne che sta cambiando, tra l’indifferenza di tutti. Far parlare questa gente, scoprire queste due Italie povere che si incontrano, questo il mio interesse di oggi.
Ho ancora l’azienda, voglio sempre chiuderla, poi rimando, ma giorno dopo giorno la ridimensiono.
Penso proprio che il 1977 sarà l’anno buono.
Nel 1978 scenderò finalmente nel meridione! Manlio, perdonami la lunga chiacchierata.
Un saluto affettuoso a Annie, ai tuoi figli.
A te un abbraccio Nuto
ROMA, 6 MARZO 1977
Caro Nuto, son quasi due mesi che ho la tua lettera, letta e riletta e molto importante e cara. Non vedo l’ora di avere tra le mani il nuovo libro, ma dalla tua lettera ne ho già compresa tutta l’importanza e la bellezza. Purtroppo questo maledetto e benedetto disturbo coronarico - che mi ha fermato da un anno e mezzo o (per meglio dire) mi ha obbligato a mettermi definitivamente su di un piano diverso di vita - è venuto a cadere nel momento nel quale speravo di avviare laggiù in alta Irpinia un lavoro di ricostruzione dal basso con gli emigrati, al quale mi ero preparato. Spero e dispero di poterlo riprendere d’estate, quando i pericoli delle mie coronarie sono minori; spero e dispero di persuadere a portarlo avanti alcuni dei miei giovani collaboratori e amici di Portici. Ma non è facile e forse non siamo ancora pronti e certo le condizioni generali non sono in favore.
Eppure sono sempre più convinto che, per uscire dal fosso dentro il quale da anni camminiamo, uno dei processi essenziali sarà quello di una rivitalizzazione delle nostre campagne attraverso processi di ricostruzione dell’agricoltura contadina nel quadro di un’economia mista decentrata agricolo-industriale. Questa sola può essere capace di far rivivere - in forme e con accenti naturalmente diversi da quelli di un tempo - molti dei valori umani e civili, ai quali non soltanto noi teniamo, ma tengono istintivamente molti altri. Le premesse tecniche ed economiche per rendere possibile questo ritorno prima mancavano. Tale mancanza ha reso inevitabile e precipitosa la fuga e ha fatto «saltare - come dici tu - il tessuto sociale». Oggi - anche se di difficile sviluppo e bisognose di essere sorrette da un vigoroso slancio civile - tali premesse ci sono. Non bisogna, quindi, disperare. C’è nell’aria e nelle cose, e c’è particolarmente in molti giovani, qualcosa che spinge in questa direzione. Fino all’ultimo fiato persone come te e me sono tenute a dare sostanza a questo che a molti appare irrealistico disegno. Il tuo lavoro - sia quello precedente sulla guerra (la grande esperienza dei contadini italiani) sia quello recente sul grande
esodo - è e sarà essenziale per dar forza ad altri per lavorare in questa direzione. Bellissimo il nuovo lavoro al quale ti accingi. Mi piacerà molto ragionarne con te ed è questa una delle ragioni per le quali mi auguro che la tua da tempo promessa visita giù sia prossima e non lontana. Se troverai il nome dei poveri di origine delle tue “calabrotte”, si potrebbe insieme e con l’aiuto di alcuni miei amici meridionali visitarli e riscoprire i legami antichi e forse cercarne di nuovi.
È mia convinzione - e oggetto di fantasiose costruzioni mentali - che tra gli esiliati all’estero o nelle grandi città dalla «industrializzazione selvaggia e caotica», la nostalgia oscura di quel che hanno perduto possa - non dico in tutti, ma in molti - trasformarsi in interessamento e fors’anche in partecipazione a razionali processi di riordino, di rimessa e di sviluppo della contrada, nelle quali hanno ancora il cuore e le radici.
Mi chiedo, quindi, per il tuo Piemonte - come per la mia Irpinia e Lucania o Calabria - se non si possa andare tra coloro che sono partiti, per rilegarli tra loro in associazioni aperte ai problemi delle valli e degli altopiani dove sono nati. Sarebbe questo lo sbocco operativo del tuo lungo lavoro; forse quello sbocco al quale - anche se non hai voluto confessarlo a te stesso - hai sempre pensato. Questi ed altri sono i pensieri che la tua lettera ha ravvivato in me, con il desiderio di parlare ancora con te, nel ricordo delle bellissime giornate passate da me e dai miei come tuoi ospiti nel Cuneese.
Aspetto il libro e aspetto la tua visita. Voglimi bene come te ne voglio. Ricordaci a tua moglie, ai figlioli.
Ti abbraccio Manlio
ALIANO, 29 E 30 MAGGIO
Sintesi dei lavori
FORUM AREE INTERNE 2017 Aliano, 29 e 30 maggio
Pag. 2
Il 29 e 30 maggio circa 200 persone si sono riunite ad Aliano: il Comune lucano, che fa parte dell’area interna della Montagna Materana, ha ospitato il ”Forum Aree Interne" 2017, giunto alla sua quarta edizione.
Tra i partecipanti, amministratori, ricercatori, il Comitato Tecnico Aree Interne e molti professionisti impegnati nella costruzione di progetti di sviluppo per le aree "remote" del Paese, quelle che, anche a causa della fragilità dei servizi offerti alla popolazione, soffrono il problema dello spopolamento.
L’appuntamento del Forum, il cui obiettivo è fare il punto sullo stato d’avanzamento della Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), è stato fondamentale per definire, secondo un orizzonte di medio-lungo periodo, i prossimi passi dell’azione del Governo, che riguarda il 60% del territorio nazionale, ben 180mila chilometri quadrati (non solo nelle zone montane delle Alpi o degli Appennini), dove vivono oltre 13 milioni di persone, quasi un quarto della popolazione del Paese.
Ad oggi, la SNAI interessa 71 aree, in tutte le Regioni e nella Provincia autonoma di Trento, selezionate utilizzando indicatori relativi all’accesso a servizi per la salute, la mobilità collettiva e l’istruzione. I Comuni coinvolti sono 1.066, e misurano il 16,7% della superficie del Paese: vi abitano circa 2,1 milioni di italiani, pari al 3,5% della popolazione del Paese.
La dotazione della Strategia Nazionale Aree Interne è pari a 190 milioni di euro, mentre le risorse complessivamente mobilitate dalla misura - che comprendono anche l’allocazione di risorse FEASR, FSE e FESR - sono stimabili per un valore tre volte superiore (cfr presentazione Coordinatore del Comitato). La due giorni di Aliano ha visto numerose tavole rotonde e otto sessioni di lavoro tematiche, da cui sono emersi gli spunti di lavoro che potete leggere nelle pagine che seguono. Le sessioni hanno toccato tutti gli ambiti di lavoro della SNAI: dall’accesso alla terra alla gestione e valorizzazione del patrimonio culturale diffuso, dall’inclusione, anche nei confronti di migranti e nuovi residenti, alla tutela e gestione attiva del territorio, in una logica di produzione di energie rinnovabili.
Nel suo intervento introduttivo, il ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti, ha ricordato l’importanza di una manifestazione svolta in un luogo così emblematico “per ciò che rappresenta Aliano”, borgo del confino dello scrittore, intellettuale e parlamentare Carlo Levi, e “perché siamo in Basilicata, che è un esempio importante delle potenzialità del nostro Mezzogiorno”. De Vincenti ha evidenziato nel suo intervento l’obiettivo dei due "perni" della strategia nazionale, ovvero un miglioramento nell’accesso ai servizi per i cittadini e un coordinamento ampio, ad ogni livello, dei Comuni: secondo De Vincenti - riporta una nota dell’agenzia ANSA - in Italia vi sono aree interne "che hanno subito un divario che si è andato allargando in termini economici, di popolazione, rispetto alle aree più sviluppate, ma che hanno reagito e fatto da attrazione, come è avvenuto qui ad Aliano". Il ministro ha ricordato come fossero (a fine maggio) “undici le strategie d’area già approvate, tre quelle in corso di approvazione".
Accanto a De Vincenti sul palco di Aliano sedeva l’onorevole Enrico Borghi, consigliere della Presidenza del Consiglio per l’attuazione della SNAI. “Con la Strategia Nazionale Aree Interne - ha spiegato - non stiamo svolgendo un’azione di sviluppo tradizionale, che punta a dare una risposta particolare a specifici problemi di carattere localistico: stiamo costruendo una risposta partendo dal basso che sia funzionale ad obiettivi di ricostruzione dell’identità nazionale e al rilancio produttivo del Paese. Siamo consapevoli che oggi l’innovazione passa per quelle aree che, in un vecchio ’schema di gioco’, venivano viste come marginali e periferiche. Siamo dentro una metamorfosi culturale. Ci aspettiamo molto dalla Strategia Nazionale Aree Interne e dalla ’Comunità delle Aree Interne’, che è la più votata a costruire e declinare le opportunità che sono date dalla SNAI, ma che possiamo ritrovare anche in altre norme di recente adozione, come quelle sulla green community, la previsione del pagamento per i servizi ecosistemi e la valorizzazione dei borghi nell’ottica di un’offerta turistica nazionale”.
INDICE
SESSIONE COME FAVORIRE LA DOMANDA INNOVATIVA DI ACCESSO ALLA TERRA NELLE AREE INTERNE
.............................................................................................................................................4
SESSIONE SERVIZI ECOSISTEMICI E GREEN COMMUNITIES ......................................................6
BOX L’ASSOCIAZIONISMO COMUNALE: UNO DEI PILASTRI DELLA SNAI..........................8
SESSIONE FORMAZIONE, INNOVAZIONE E ZOOTECNIA SOSTENIBILE NELLE AREE INTERNE....9
SESSIONE PREVENZIONE SISMICA, TUTELA E GESTIONE ATTIVA DEL TERRITORIO..................11
SESSIONE COME SCOPRIRE QUALI RISULTATI OTTENIAMO? VALUTAZIONE “PER” E “DELLE” POLITICHE -PER
LE AREE INTERNE .................................................................................................................13
SESSIONE GESTIONE E VALORIZZAZIONE DEL PATRIMONIO DIFFUSO: LA DOMANDA CULTURALE E
TURISTICA DA OPPORTUNITÀ A REALTÀ ..............................................................................16
SESSIONE SVILUPPARE COMPETENZE PER L’INNOVAZIONE. CREATIVITÀ E INNOVAZIONE PER UNA
CRESCITA INTELLIGENTE DEI GIOVANI DELLE AREE INTERNE ..................................................18
BOX LA STRATEGIA NAZIONALE AREE INTERNE: UNA RISPOSTA ALLE DISUGUAGLIANZE E ALLA
“FAGLIA” CENTRO-PERIFERIA............................................................................................19
SESSIONE MIGRANTI E MIGRAZIONI IN AREE INTERNE. MICRO ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE PER
NUOVI RESIDENTI E CITTADINI ..............................................................................................20
continua -> qui
Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa
di Mario Avagliano (Nuovo Monitore Napoletano, 11 Marzo 2017)
Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti.
Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti.
Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia.
Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni.
Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.
Mario Avagliano
SUL TEMA, NEL SI SITO, SI CFR.:
“MADDALENA SANTORO E -- "Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano" (S. Urso).
Mance elettorali Renzi copia Lauro
Renzismo. Si avvicina una elezione (o un referendum) e scatta il "laurenzismo", il regalo nell’urna. Dopo gli 80 euro, dopo le decontribuzioni agli imprenditori per truccare le statistiche sull’occupazione, adesso si va verso il dono elettorale ai pensionati. Naturalmente poi Renzi si riprende tutto con nuove tasse
di Michele Prospero (il manifesto, 21.09.2016)
La ragione vera del mistero non ancora svelato della data del referendum costituzionale è presto scovata. Il governo, per la comunicazione tenuta segreta sino al 26 settembre, aspetta il tempo necessario per mettere in finanziaria una mancetta e darla in pasto ai pensionati. I numeri dell’economia sono disperati, la crescita è un miraggio, la deflazione è un dato inoppugnabile e per questo molto forte è il rischio che scattino le fastidiose clausole di salvaguardia (innalzamento dell’Iva). Non importa.
Occorre comunque annunciare un regalo di Natale, e per imprimerlo bene nella memoria labile dei cittadini bisogna ricorrere ad acrobazie procedurali per farlo riscuotere in prossimità del voto, anche se lo sfizio si paga con due miliardi di tagli alla sanità.
Da responsabile del collasso sempre più palpabile dell’economia, il governo cerca di tramutarsi in gran benefattore che consegna ai pensionati il miraggio di avvicinarsi ad una miniera d’oro. In prossimità delle feste Renzi spera che il suo dono in moneta trovi una ricompensa alle urne, dove “basta un sì” per salvarlo dal diluvio. Il rottamatore, che si è fatto strada con una posa giovanilista assunta come la sola identità, vista la carenza di pensiero, invoca il soccorso dei vecchietti, con pensioni al minimo da pura fame, senza la comprensione dei quali è condannato a convivere con il fantasma di moti spontanei di ribellione che lo accompagnano in ogni luogo d’Italia.
Con una figura retorica, il “laurenzismo”, si può cogliere lo stile del potere odierno. È la combinazione di due tipologie di governo, quella di un lupo di mare, “’o Comandante” di Napoli, e quella del caporale di Rignano, la caricatura dell’uomo solo al comando. Come il comandante, che con elargizioni, cronoprogrammi miracolistici e annunci avveniristici regnava su Napoli, così il sindaco d’Italia predilige la pioggia di annunci e l’offerta di mance in cambio del voto. Con la semplice benedizione dell’America, della Germania e di ogni potere finanziario ed economico, non riesce a trovare la fiducia del popolo e per questo sforna incentivi, bonus, regali, promesse.
Con le sue pratiche deteriori di scambio, il laurenzismo è la causa della rovina, non certo l’ultimo ramo cui aggrapparsi per non sprofondare. Con gli 80 euro in busta paga ha inguaiato l’Inps, e tolto le coperture pensionistiche e contributive. Con le decontribuzioni per le assunzioni ha accollato alla fiscalità generale, e quindi alla contrazione delle politiche pubbliche, i costi di una liquidità concessa per le imprese, che hanno benedetto le nuove tipologie contrattuali solo per regolarizzare rapporti di lavoro già in essere ottenendo in cambio soldi. Lo sforzo di elargire doni in autonomia, che sono preferiti alla decisione di sbloccare i contratti fermi da anni, serve al governo della narrazione per abbattere il ruolo del sindacato, destituire di senso l’azione collettiva e spegnere le politiche pubbliche.
Lauro e Renzi, insieme definiscono un leader ambiguo, un “laurenzi” insidioso. Il mozzo divenuto grande armatore a capo di una flotta, produttore cinematografico con amori da rotocalco, sindaco e parlamentare era un ricco imprenditore che si era fatto da sé. Ermanno Rea presentava però la prigionia a Padula come l’occasione per i servizi segreti americani di fabbricare in laboratorio un loro uomo. Il ricco che si dedica alla cosa pubblica solo per sacrificio, e promette di gestirla come una azienda volta a mirabili profitti che piovono su tutti, anticipa l’immaginario eroico della seconda repubblica.
Vicino alla settantina ma con un fisico asciutto, sempre abbronzato, con una insistita ricercatezza nel vestire, Lauro coniugava l’autoritarismo del padrone, che non a caso dichiarava guerra agli ambulanti, e la generosità del ricco premuroso verso i suoi poveri subalterni, sedotti con fantasiose pratiche clientelari e con la simbologia del denaro che accende l’illusione dei disperati. Anche lui parlava sempre di “bellezza” e di valori e, specialista ante litteram di annunci, prometteva di rendere Napoli il “giardino d’Europa” sul mare, una “perla”.
Le ingannevoli luci di Piedigrotta, e le parabole dell’immaginario che inseguivano i miti di una Napoli milionaria, si accompagnavano però a scelte di governo dal volto distruttivo. Ad alcune aree del centro, in effetti aggiustate con dei tratti regali, con pavimentazioni di velluto, giusto per soddisfare le regole della politica simbolica, corrispondevano zone immense di degrado e abbandono. Il primo atto della sua amministrazione fu l’abolizione del piano regolatore, con il risultato che la città fu abbandonata alla proliferazione di grattacieli abusivi, a sopraelevate, a privatizzazioni di ville e beni pubblici.
L’armatore, che per i democristiani negli anni cinquanta era una variante di Verdini, pronto a giravolte e abboccamenti con il governo centrista, con i voti raccolti dal suo movimento monarchico-clericale diede comunque un dispiacere ai padri ispiratori di Renzi, cioè a De Gasperi e Scelba che imposero la legge truffa a colpi di fiducia, come è accaduto con l’Italicum, per vederla rigettata dal popolo alle urne. A Renzi il comandante lascia però una eredita: l’annuncio, il cronoprogramma, l’uso dei simboli come arte del governo. E soprattutto consegna l’uso politico delle mance in una città che annusava l’oro e precipitava nel fango.
In cambio del voto, un dettagliante napoletano si vedeva abbonato il debito mensile verso il grossista che gli forniva la merce. In caso di vittoria, i galoppini restituivano agli smercisti le cambiali firmate per avere la roba. Ad altri elettori venivano recapitate scarpe spaiate che si appaiavano solo a voto incassato. Lauro dava una scarpa, la seconda la consegnava a votazione conclusa. Renzi dà la mancia e poi però se la riprende con nuove tasse, tagli alla sanità, ai servizi, ai trasporti, all’assistenza.
Renzi non stuzzica l’immaginario riscaldato invece dal comandante napoletano perché è percepito come un arrogante, un arrampicatore che, con la cricca al seguito, si appropria dei simboli del potere. Lo iato tra la responsabilità del potere e la effettiva levatura del ceto politico chiamato a ricoprirlo è poi così accentuato che i regalini non producono consenso.
Il laurismo due punto zero non funziona come pratica di governo e frana anche come veicolo di costruzione di un consenso durevole. Gli effetti dei bonus sono così labili che durano solo il giorno del voto per poi dileguarsi come palliativi inutili. Ecco il giorno del voto, quando ci sarà la data certa? Il referendum sarà celebrato quando i pensionati riscuotono l’assegno di dicembre e un bonus del governo precipita come un timbro sul loro certificato elettorale. La politica-panettone è però la miseria svelata del nuovismo dei rottamatori che prepara un disastro.
Sassi che sanno vivere
Io dico grazie a Matera
Una città rimasta se stessa per secoli è la dimostrazione che l’uomo resiste a tutto pur di non soccombere
di Michael Cunningham (Corriere della Sera, 04.07.2016)
In Giappone, i seguaci dello shintoismo distruggono i propri templi ogni vent’anni e li ricostruiscono nel medesimo luogo, per ricordare a se stessi che tutto è transitorio ma anche che tutto ciclicamente ritorna.
A Barcellona prosegue da oltre un secolo la costruzione della basilica della Sagrada Família, lasciata incompiuta nel 1926 alla morte improvvisa di Gaudí. L’opera è tuttavia ostacolata sia dalla perdita dei progetti originali nell’incendio che distrusse il laboratorio dell’architetto catalano, sia dalle stridenti sculture «astratte» aggiunte alla facciata ovest negli scorsi anni Sessanta e Settanta, sia ancora da una perdurante carenza di risorse economiche (le due fontane di mercurio che nelle intenzioni di Gaudí avrebbero dovuto affiancare la facciata principale probabilmente non saranno realizzate, quanto meno non in tempi brevi). La Sagrada Família perennemente incompiuta ci ricorda che le chiese che immaginiamo possono sempre essere più sontuose di qualsiasi edificio finito. Aspetto essenziale per la loro sacralità: noi non onoriamo infatti soltanto la chiesa in sé ma l’idea stessa di una chiesa più favolosa, che quella esistente si limita a simboleggiare.
Matera ospita ogni anno i festeggiamenti in onore della Madonna della Bruna, protettrice della città: fra le varie processioni e sfilate si svolge quella del carro trionfale di cartapesta che, dopo aver attraversato le strade della città lucana e raggiunto una delle piazze del centro, viene preso d’assalto dalla folla dei fedeli e letteralmente fatto a pezzi, finché non ne resta più niente.
Questo rito collettivo ricorda ai materani che qualsiasi creazione umana, dalle chiese ai carri trionfali, potrebbe essere migliore di quella che è. Ogni anno viene costruito un carro più bello, e ogni anno esso viene distrutto, perché la perfezione sfugge sempre agli sforzi dell’uomo, a prescindere dalle capacità e dall’ispirazione.
Matera conosce la perseveranza. Conosce l’impulso a completare ciò che non potrà mai essere completato.
Matera è una delle più antiche - forse addirittura la più antica - fra le città del mondo abitate senza soluzione di continuità fin dalla fondazione. Sebbene sia impossibile determinarne con esattezza l’età, risale di certo al Paleolitico, il periodo in cui gli esseri umani cominciarono a realizzare utensili di pietra. Con l’avvento dell’Età del Bronzo, Matera era già una città consolidata e fiorente, scavata nel corso del tempo in uno sperone di roccia calcarea che si erge sulla campagna circostante come un gigantesco pugno fuoriuscito dalle viscere della terra.
Molte delle abitazioni di Matera sono grotte e molti dei suoi edifici - o meglio, quelli che sembrano edifici - sono semplici facciate, dietro le quali si scoprono ancora delle grotte. Matera è come un enorme alveare, apparentemente solido dall’esterno, ma in realtà costituito per lo più da gallerie, cunicoli e grotte, talvolta poste una sull’altra a formare un’unica abitazione. Se la gran parte delle grandi città aspira oggi a costruire edifici sempre più alti, a testimonianza dei nostri tentativi di avvicinarci al cielo, Matera evoca un bisogno più primordiale, quello di scavare nella terra, di trovarvi abbraccio e protezione.
Matera - le sue rocce, le sue strade, le sue strutture - è sostanzialmente di un solo colore, un biancastro simile a quello di un osso spolpato e abbandonato al sole e alla pioggia del deserto.
Non ci sono alberi. Non c’è erba. Come se ogni cosa fragile, cedevole, fosse stata spazzata via dal vento millenni fa. Matera è composta soltanto da quanto è in grado di resistere a una forza sconquassante. Matera è ciò che resta dopo gli uragani. Visitandola di persona, ho capito che è proprio questo l’unico modo per comprenderla davvero. Le foto sono suggestive, indubbiamente, ma non riescono a trasmetterti la sensazione - palpabile nel momento in cui metti piede in città - di essere fragile a tua volta, di pattinare sulla superficie rocciosa della mortalità.
Tu sei caduco. Matera no.
È nelle viuzze dei Sassi che più è tangibile una presenza spettrale, ma di spiriti dipartiti talmente tanto tempo fa da aver perso qualsiasi tratto umano. A Matera la presenza spettrale è quella dell’umanità stessa: umanità dilavata dal tempo, umanità nella forma più pura ed essenziale, spogliata delle proprie inclinazioni e battaglie, delle proprie paure e desideri. I suoi fantasmi sono ciò che resterebbe di noi se ci venisse tolto tutto ciò che ai nostri occhi ci rende quello che siamo.
Camminando per Matera è possibile scorgerne i fantasmi originari, magari anche solo per un istante. Quell’essenza umana antica, quel fremito di inquietudine che attraversa una piazza altrimenti immobile... no, peccato, l’hai perso. Aspetta, eccolo di nuovo, scivolare davanti al portale di una chiesa... niente, è sparito ancora. Forse l’hai soltanto immaginato.
Matera è un luogo che suscita visioni e insieme dubbi sulle proprie visioni.
Niente di tutto questo si vede dalle fotografie.
Così come non si vedono, al di là del burrone che separa la città vivente da quella estinta, dalle grotte non più abitate, i trogloditi del Paleolitico che vi trovavano rifugio e che sembrano guardarti a loro volta dall’estremità opposta del continuum spaziotemporale, incuriositi quanto te da questo sogno reciproco che state facendo.
Altrettanto impossibile da fotografare è la strana, sepolcrale pulizia della città, una sobria e spietata pulizia buddhista della quale non si stupirebbero gli shintoisti che distruggono e ricostruiscono i loro templi ogni venti anni...
E, ancora, il momento in cui, all’imbrunire, il cielo si riempie di uccelli che in lontananza sembrano rondoni o usignoli e che invece, guardando più da vicino, si rivelano essere piccoli falchi, con la loro testa da predatore e i freddi occhi assassini. I falchi rappresentano l’aspra indistruttibilità di Matera, una città che in un certo senso è predatrice del tempo. Tempo che infatti divora quasi tutto, e tuttavia sembra non riuscire a divorare questa città.
Non che Matera divori il tempo: semplicemente non se ne preoccupa, proprio come un falco non si preoccupa del cielo.
Voglio tornare ancora sulla storia di Matera perché Matera è Storia, in costante collisione con il presente. Potremmo dire che
Matera è l’illustrazione vivente di come la nostra storia crei il nostro presente e il presente il futuro, di come questo processo vada avanti, nanosecondo dopo nanosecondo, sin dalla formazione della Terra.
Come la maggior parte delle città, anche quelle di mille anni più giovani, Matera ha avuto i suoi alti e bassi. Per oltre duecento anni capoluogo della Basilicata, ha ricevuto in visita imperatori e arcivescovi. Ma ci sono stati anche periodi storici più difficili.
All’inizio degli scorsi anni Cinquanta, a fronte delle cattive condizioni di vita, con la maggioranza degli abitanti che vivevano ancora nelle grotte, senza corrente elettrica e fognature, una legge nazionale stabilì lo sfollamento dei Sassi e la costruzione, su colline ricche di verde, di nuovi e più confortevoli quartieri residenziali.
I materani, tuttavia, non erano ben disposti a trasferirsi. Preferivano i (dis)agi delle loro vecchie case, come generalmente è sempre stato nella storia dell’uomo: a quanto pare preferiamo il consueto all’inconsueto, anche se quest’ultimo costituisce tecnicamente un passo avanti.
Date le difficoltà di vita, non stupisce che Matera tenda alla devozione religiosa. La città ospita oltre centocinquanta chiese, molte delle quali rupestri: sì, ricavate anch’esse all’interno di grotte. Molte sono decorate da affreschi realizzati da anonimi pittori cinquecento e passa anni prima della nascita di Giotto.
La religiosità di Matera ha conosciuto una svolta per così dire più moderna nel 1963, quando Pasolini vi ha girato il suo Vangelo secondo Matteo. Da allora sono stati girati nel capoluogo lucano almeno una dozzina di film sulla vita di Gesù, visto che la Matera di oggi somiglia alla Gerusalemme di Cristo più di Gerusalemme stessa. Tra i più recenti, La passione di Cristo di Mel Gibson, nel 2004.
Sono molti i materani che hanno aneddoti da raccontare dopo aver lavorato come comparse nella pellicola: uno, in particolare, mi ha informato con orgoglio che in una delle scene si vede il suo dito (ma soltanto il dito) puntato in segno di sfida. Un altro mi ha mostrato qualcosa di prezioso che conservava dal set, un frammento della croce al quale era stato appeso l’attore che interpretava Gesù. Gli ho fatto i dovuti complimenti, evitando per cortesia di fargli notare che non era un frammento della Vera Croce, ma un pezzo di arredo scenico made in Hollywood . Non credo però che la differenza importasse granché al possessore di quel pezzo di legno vecchio di dodici anni. Tutto sommato comprensibile, in una città che esisteva già migliaia di anni prima della nascita di Cristo. Non voglio essere blasfemo - né di certo c’è questa intenzione nei materani - quando dico che Matera ha una tale abitudine a ricevere imperatori ed ecclesiastici che Pasolini e Gibson sembrano quasi gli esempi più recenti di una catena ininterrotta di personaggi illustri venuti qui in visita, magari non i più eminenti, ma nemmeno trascurabili.
Negli ultimi anni le fortune di Matera sono in costante ascesa, non solo dopo le riprese del film di Gibson, ma anche da quando la città, nel 1993, è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dell’Unesco e, qualche tempo fa, designata capitale europea della cultura per il 2019.
In previsione dei flussi turistici che fra tre anni conosceranno senza dubbio un ragguardevole picco, già oggi a Matera sono stati aperti hotel a cinque stelle e ristoranti di livello mondiale, molti proprio all’interno di grotte impeccabilmente tinteggiate di bianco e dotate di ogni comfort. Resta, tuttavia, la forte sensazione che, a prescindere dal destino di queste strutture di lusso, la città non subirà cambiamenti, almeno non in senso profondo e duraturo. Camminando lungo le sue stradine, si percepisce chiaramente la certezza che Matera sopravviverà a tutto ciò di effimero - vuoi l’indigenza, vuoi gli alberghi a cinque stelle - che il vento spazza via.
Per chiudere, vorrei tornare brevemente sul carro trionfale che tutti gli anni, a luglio, viene distrutto in occasione della festa della Madonna della Bruna. La tradizione risale agli inizi del Cinquecento, quando Matera era governata da un conte particolarmente dissoluto che, per far fronte ai debiti personali, era arrivato a raddoppiare e addirittura triplicare le tasse.
La sua ultima, intollerabile decisione fu di ordinare per la festa della Bruna un carro trionfale sgangherato, dalla fattura scadente, beffardo taglio delle spese da parte di un uomo che per sé aveva costruito regge sfarzose e che in una sola notte era capace di sperperare al gioco più di quanto qualsiasi materano guadagnasse in un intero anno di lavoro. Quando comparve lungo le strade di Matera, il patetico carro fu fatto a pezzi da cittadini che, molto semplicemente, ne avevano avuto abbastanza. Il tiranno subì un agguato mortale all’uscita dal duomo: i suoi uccisori non vennero mai individuati, nonostante uno di loro avesse, poco prima dell’assalto, inciso sulla colonnina di una chiesa una confessione anonima che si conserva ancora oggi.
Da allora, Matera distrugge il carro nel giorno di festa, a prescindere da quanto sia grandioso, da quanto sia bello. Assistendo alla festa puoi notare che i più irruenti nel dare l’assalto al carro e cercare di conquistarsene un pezzo - l’ala di un angioletto, la base di una colonna - sono quasi sempre i giovani. E se ci parli, mentre se ne tornano a casa con i loro trofei di cartapesta, scopri che pochi di loro sono consapevoli di mettere in scena l’antica rivolta contro un avido tiranno morto poco più di cinquecento anni fa. Eppure, il rito si svolge fedelmente ogni anno e non sembra fare molta differenza se le persone che vi partecipano conoscono il significato del proprio gesto o sono soltanto felici per l’annuale occasione di poter impunemente fare a pezzi qualcosa (un impulso che chiunque può capire, no?).
In fondo siamo a Matera, città che racchiude innumerevoli storie e che ha accolto innumerevoli generazioni di abitanti, alcune ricordate, altre dimenticate, altre ancora documentate negli archivi, ma per lo più sconosciute a chi ci vive oggi.
Matera, dove il frammento di una croce prodotta a Hollywood per crocifiggerci un attore può essere venerato semplicemente perché appartiene a una Storia ininterrotta, nella quale c’è posto sia per la vita dei santi sia per la realizzazione di un film.
Non è che le storie con la «s» minuscola, e le generazioni, non contino, ma Matera è, anzitutto, una ininterrotta dimostrazione di sopravvivenza, della capacità umana di continuare a esistere, persino a prezzo di grandi sacrifici, e dell’impulso a vivere dove vivevano i nostri antenati. Anche se è un posto aspro e inospitale, anche se la terra è dura e scarse le risorse d’acqua... be’, questo posto appartiene a noi e noi a esso.
L’uomo è, quanto meno, una specie ben determinata. Siamo sopravvissuti a tanti ostacoli. Stando così le cose, gli shintoisti continueranno a distruggere e a ricostruire i loro templi ogni venti anni. Un giorno, forse, a Barcellona la Sagrada Família sarà completata: ma che questo succeda o no, più importante della basilica in sé sarà sempre la visione che Antoni Gaudí ha concepito di essa.
Matera, ancora vivissima, brulla e scarna, di una bellezza anomala, resiste da millenni e potrebbe resistere per millenni a venire. Quegli stessi millenni che, con il loro silenzio, dicono a noi uomini che possiamo continuare a esistere, che molto probabilmente esisteremo ancora, persino in un mondo che talvolta appare fin troppo pronto a liberarsi di noi. Non saremo granché, come specie - se guardiamo alla nostra storia, alle guerre, all’abitudine di ricompensare i ricchi e spogliare i poveri - eppure possediamo una tenacia, una spinta profonda e inesauribile ad andare semplicemente avanti... che sfiora la genialità.
(traduzione di Carlo Prosperi )
Ciò che si nasconde DAVVERO sotto le trivelle (e che quasi nessuno dice)
Da Cetri Staff (cetri-tires.org/ - 23/03/2016)
Ciò che si nasconde DAVVERO sotto le trivelle (e che quasi nessuno dice)
Il governo italiano, con una scelta discutibile, ha fissato al 17 aprile la data del referendum abrogativo sulle piattaforme petrolifere promosso da 9 regioni italiane.
L’oggetto del referendum è la norma introdotta con l’ultima finanziaria che consente alle società concessionarie del diritto di coltivazione dei giacimenti petroliferi a mare entro le 12 miglia marine di poter sfruttare i giacimenti fino al loro esaurimento, anche se entro le 12 miglia resta vietata la concessione di nuove concessioni di ricerca e coltivazione.
Per i fautori del no questa norma è logica in quanto per loro non ha senso “tappare” il foro mentre c’è ancora gas e petrolio da estrarre e inoltre dicono che una vittoria dei si sarebbe pericolosa in quanto bloccherebbe un settore in cui siamo all’avanguardia e si creerebbero migliaia di disoccupati. Insomma nulla di nuovo. Quando si tratta delle fonti fossili, ogni modifica che non piace ai signori del petrolio viene immediatamente bloccato un settore in cui siamo all’avanguardia, produce migliaia di disoccupati, genera piaghe bibliche e catastrofi galattiche.... Il solito ricatto contro lavoro, ambiente e salute.
Altri argomenti citati dai fautori del no riguardano l’aumento delle importazioni dall’estero con il conseguente incremento del numero di petroliere che circolano sui nostri mari e approdano sui nostri porti. In pratica sostengono che gli effetti sull’ambiente provocati dallo stop alle piattaforme entro le 12 miglia marine sarebbero peggiori di quelli che produrrebbero delle piattaforme vecchie di 40 o 50 anni che pompano gas e petrolio dal fondo del mare.
Inoltre i fautori del no ricordano che la vittoria del si al referendum non comporterebbe un divieto alle trivelle e nemmeno alle piattaforme oltre le 12 miglia marine. Per questo accusano i comitati No Triv di truffare gli elettori.
Ma è veramente così?
Assolutamente NO!
Intanto i signori del no devono mettersi d’accordo con loro stessi. Infatti da una parte sostengono che questo referendum è inutile e non produrrà uno stop alle piattaforme e alle trivelle e che quindi presentarlo in questo modo è falso e truffaldino, mentre dall’altra parte dicono che una vittoria dei SI produrrebbe una catastrofe nazionale. Insomma devono spiegare come può essere che un referendum inutile e che non stoppa affatto piattaforme e trivelle, possa bloccare l’intero settore, far scappare tutte le società petrolifere dall’Italia, far perdere miliardi di investimenti, migliaia di posti di lavoro, aumentare le importazioni di petrolio e gas dall’estero e produrre un incremento dei costi della bolletta energetica?Kerkenna1
In pratica è come se dicessero che un moscerino che si posa su un grattacielo ne provoca il crollo.
Inoltre i signori del no sostengono che dalle piattaforme si estrae prevalentemente gas, ma poi dicono che la vittoria del si producendo uno stop immediato alle estrazioni, farebbe si che aumenti il traffico di petroliere. Tutto questo è puro allarmismo verbale. Innanzitutto vorrei ricordare che il gas non arriva con le petroliere, ma con i gasdotti, e (in rarissimi casi) con le navi gasiere in forma di Gas Naturale Liquido (LNG). Quindi non si vede che ci azzeccano le petroliere. Diciamo che i fautori del no sono un tantino confusi. In secondo luogo in caso di vittoria dei SI gli impianti non verrebbero bloccati immediatamente ma a termine, con l’arrivo a scadenza delle concessioni.
Ma allora perché i signori del no raccontano queste falsità? E cosa si nasconde veramente sotto il loro desiderio di procrastinare le concessioni?
Intanto è bene chiarire subito che il referendum interesserà in modo diretto solo diciassette concessioni da cui si estrae il 2,1 % dei consumi nazionali di gas e lo 0,8 % dei consumi nazionali di petrolio gas. Bruscolini che anche se dovessero venire a mancare da un giorno all’altro, come sostengono i signori del no, (ma, ripetiamo, NON è così) non succederebbe nulla di grave e al calo di estrazioni si potrebbe benissimo fare fronte con un minimo di risparmio energetico (quindi incentivando un comportamento virtuoso. Certo se invece vogliamo continuare a sprecare energia prodotta con fonti fossili, allora non basteranno tutti i giacimenti del mondo a coprire il fabbisogno.
milazzoMa, come detto, la vittoria del si non comporterà uno stop immediato delle piattaforme che, purtroppo, continueranno a restare al loro posto fino alla scadenza della concessione e quindi non c’è alcun pericolo per il fabbisogno nazionale e nessuna perdita di posti di lavoro, che sono pochissimi, spesso di tecnici specializzati stranieri, e che scadrebbero al termine del contratto.
Quindi si ritorna alla domanda posta in precedenza: cosa temono i fautori del no?
Temono due cose.
Primo, che passi il messaggio che possiamo fare a meno del petrolio e che possiamo produrci l’energia di cui abbiamo bisogno in altro modo senza continuare a dare soldi ai petrolieri.
Secondo, che passi un altro principio, ben più importante per loro, quello per cui le concessioni scadono.
Infatti ci sono alcune cose che i signori del no ci tengono nascoste tentando di distogliere l’attenzione da esse per puntarla verso la catastrofe prodotta dalla vittoria del si e la perdita di migliaia di posti di lavoro.
Le paroline magiche che non pronunciano mai i signori del no sono due: royalty e franchigia.
Cosa sono le royalty?
Sono delle quote in denaro che le compagnie petrolifere versano ogni anno allo stato, alle regioni e ai comuni per lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Infatti in Italia le risorse petrolifere sono un bene indisponibile dello Stato, questo vuol dire che il petrolio e il gas dei giacimenti è di proprietà pubblica: tutti noi siamo proprietari di una quota di petrolio e di gas stoccati nei giacimenti.
Lo stato però non si occupa direttamente di estrarre queste risorse e “concede” dei titoli di sfruttamento di tali risorse a dei soggetti privati, i quali sostengono i costi per la ricerca e per la costruzione delle infrastruture necessarie alla loro estrazione. In cambio pagano ai “proprietari” delle risorse, noi tutti, una quota percentuale del valore di quanto estratto.
Il problema riguarda la percentuale che viene pagata. Tale percentuale, come si può vedere dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico, è pari al 7% per l’estrazione di gas e di olio a terra e del 4% per l’estrazione di olio in mare, a cui sommare una quota del 3% da destinare al fondo per la riduzione del prezzo dei prodotti petroliferi se la risorsa è estratta sulla terraferma o per la sicurezza e l’ambiente se estratti in mare. (http://unmig.mise.gov.it/dgsaie/royalties/indicazioni_destinazione.asp)
Se si pensa che in altri Paesi le royalty difficilmente scendono al di sotto del 30%, si capisce benissimo il grande regalo che noi facciamo ogni anno ai petrolieri.
La seconda parolina magica, come detto, è franchigia.
Che cos’è?
La franchigia è una quota annua di gas e petrolio estratti da ogni giacimento sulla quale non si calcolano royalty.
Sempre dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico si evince che le franchigie sono pari a:
20.000 t di petrolio estratto a terra
50.000 t di petrolio estratto in mare
25 Milioni di mc di gas estratto a terra
80 Milioni di mc di gas estratto in mare
Questo significa che se i titolari delle concessioni ogni anno e da ogni giacimento estraggono un quantitativo di gas e di petrolio pari o inferiore alle franchigie non versano nessuna royalty allo stato.
E naturalmente l’interesse dei titolari delle concessioni è quello di pagare meno royalty possibile. Ecco perché dando loro la possibilità di prorogare la durata delle concessioni fino all’esaurimento dei giacimenti, non si fa altro che dir loro: “estraete meno che potete e non versate nemmeno un Euro di royalty, tanto avete tutto il tempo che volete per sfruttare il giacimento”.
A tutto questo, come se non bastasse, bisogna aggiungere il fatto che in pratica a comunicare le quantità di petrolio e gas estratte sono gli stessi concessionari con un’autocertificazione che nessuno controlla.
Non a caso nel 2010 la Cygam Energy, una società petrolifera canadese, in un suo dossier raccomandava di investire in Italia perché “la struttura italiana delle royalty è una delle migliori al mondo”. Tradotto: “Andiamo a trivellare in Italia perché gli italiani sono degli idioti!”
golfo-del-messico-HalliburtonDa quanto detto si capisce come questa norma sia tutta a favore dei titolari delle concessioni e poco della collettività che oltre a incassare poco o nulla dallo sfruttamento di un bene indisponibile dovrà subire tutte le conseguenze derivanti dalle attività di estrazione, incidenti compresi.
Altro che benessere per la collettività.
Ecco cosa si nasconde veramente sotto le trivelle ed ecco il motivo per cui il 17 aprile bisogna andare a votare e votare SI!
Nell’Italia del sud le ferrovie sono ancora un miraggio
di Angelo Mastrandrea (Internazionale, 26 Mar 2016)
Ascoltate dal piazzale della trattoria ’O camionista di Sicignano degli Alburni, in provincia di Salerno, le parole di Matteo Renzi sembrano arrivare da un altro pianeta. A Mormanno, cuore del Pollino calabrese, il presidente del consiglio ha parafrasato Carlo Levi: “Cristo si è fermato a Eboli e l’alta velocità si ferma a Salerno”. Per poi chiosare: “Bisogna che arrivi a Reggio Calabria”. Il titolare del luogo di ristoro e del vicino distributore di benzina non pare curarsene più di tanto e racconta di aver investito una cifra imprecisata tra i trecento e i quattrocentomila euro per allargare il parcheggio e farne un terminal bus, con tanto di pensiline e biglietteria “sistemata”, che in gergo locale vuol dire “ben fatta” ma pure “in regola”.
Tra gli autobus che dovranno far scalo in questa terra di nessuno allo svincolo dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria ci sono quelli delle autolinee private che collegano il Mezzogiorno senza binari al Norditalia e alle mete dell’emigrazione storica, da Francoforte a Zurigo. Il proprietario del ristorante ha le idee chiare: finiti i lavori, noleggerà i posti del parcheggio alle compagnie e il business sarà servito. È sicuro che il treno, da quelle parti, non passerà mai più. Anzi, nella sua area di sosta fermeranno, come d’altronde già accade, pure i mezzi di Bus Italia rail service, la compagnia del gruppo Ferrovie dello stato che gestisce il servizio sostitutivo dei treni verso sud.
Rocco Panetta, presidente onorario del Comitato per la riattivazione della linea Sicignano-Lagonegro, è sconcertato: “Siamo arrivati alla privatizzazione delle stazioni”. Convinto di vivere, ferroviariamente parlando, in una “situazione da terzo mondo”, enumera come una filastrocca tutte le fermate private di Trenitalia a sud di Salerno: la trattoria ’O camionista, appunto, e poi un benzinaio Eni ad Atena Lucana, un’altra fermata lungo la Statale 19 a Casalbuono e poi a Casaletto Spartano e sul valico del Fortino, davanti alla trattoria che il 29 giugno 1857 ospitò Carlo Pisacane prima della disfatta raccontata in versi nella Spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini (“eran trecento, eran giovani e forti e sono morti”), e tre anni dopo, il 4 settembre 1860, Giuseppe Garibaldi insieme ad alcuni generali e al giornalista del Times di Londra Antonio Gallenga.
A Lagonegro c’è tempo per una sosta davanti a un hotel e a Padula si viene scaricati davanti a un anonimo distributore di benzina sulla statale, a chilometri di distanza dalla splendida Certosa, dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità, dall’ossario dei trecento di Pisacane, dal Museo della Lucania occidentale, che ospita le anfore villanoviane della prima età del ferro, e dalla casa-museo del superpoliziotto Joe Petrosino, che agli inizi del novecento perseguitò la “mano nera” a New York e finì ucciso da cosa nostra.
Nella vecchia stazione vicina alla zona turistica, tra porte e finestre sfasciate, la biglietteria distrutta e la sala d’attesa piena di calcinacci, al binario 1 rimane immacolata una madonnina sotto la quale sopravvive la scritta: “Fermati o passegger, il capo inchina alla Madre di Dio del ciel Regina”. Ma di passeggeri non c’è ombra.
La linea sospesa
Nel frattempo la linea ferroviaria che da Battipaglia, sempre in Campania, porta fino alla cittadina lucana, chiusa nel 1987 per lavori di elettrificazione, rimane sospesa in vista di una riapertura che non pare imminente.
Dell’ultima corsa, un convoglio straordinario partito da Atena Lucana nel maggio del 1987 e fermatosi a Polla, pochissimi chilometri più avanti, rimane una locomotiva abbandonata al capolinea. La si può ammirare come un cimelio d’altri tempi, restaurata e messa in mostra davanti alla stazione recuperata dalla Pro loco insieme al comitato per la riattivazione della ferrovia, che hanno aperto un punto d’informazione turistica nella sala d’attesa.
Pur volendo, oggi non potrebbe neppure rimettersi in viaggio, poiché i binari sono stati ricoperti da un manto d’asfalto. “È la dimostrazione che pensano solo al trasporto su gomma e non c’è la reale volontà di riaprire il servizio”, dice Panetta, accusando i politici locali e regionali di essere sotto scacco della potente “lobby dei proprietari di bus privati” che si spartiscono le tratte nella provincia di Salerno.
Tutti hanno fatto come se il treno non dovesse più tornare: le stazioni sono state abbandonate
Eppure, il treno in direzione Lagonegro non è mai stato soppresso. La “linea fantasma” non rientra neppure tra i 1.189 chilometri di strada ferrata che l’Italia ha perduto e che il 6 marzo sono stati celebrati nella Giornata nazionale delle ferrovie dimenticate (le iniziative dureranno fino al 6 aprile). Si può usare al suo posto un servizio di bus sostitutivi, regolarmente annunciati sui display come un qualsiasi Frecciarossa, intercity o regionale alle stazioni di Napoli centrale, Salerno o Battipaglia.
Ma poiché, come scriveva Ennio Flaiano, in Italia “non c’è nulla di più definitivo del provvisorio”, tutti hanno fatto come se il treno non dovesse più tornare: le stazioni sono state abbandonate e consegnate all’incuria, alcuni sindaci hanno fatto ricoprire di bitume i binari, la Rete ferroviaria italiana (Rfi) ha fatto smontare gli scambi ancora funzionanti per riciclarli altrove, i titolari di autolinee locali hanno fiutato il business e occupato ogni spazio. I terminal bus, non luoghi che farebbero invidia all’antropologo della modernità Marc Augè, cominciano a sorgere come funghi, di solito dove c’è un distributore di benzina o una locanda per viandanti, il più vicino possibile alle uscite autostradali.
Il treno c’è ma a volte tira dritto
La vecchia stazione ferroviaria di Sicignano degli Alburni si trova in fondo a una gola, incastrata tra un costone roccioso e un torrente, circondata da una fitta vegetazione. Dal terminal bus di ’O camionista sono quattro chilometri di tornanti, mentre il paese si trova sulla montagna. Da lì scendono ancora un paio di bus sostitutivi delle Fs, gli altri invece fanno sosta davanti alla trattoria. Il bar ha chiuso da qualche anno per mancanza di clienti, gli ingressi sono sbarrati e a un muro è ancora affisso un calendario del 2002. Un “progetto finanziato con i fondi dell’Unione europea”, come recita una tabella, ha consentito di rifare la banchina e di metterci pure una panchina nuova di zecca.
Fino a qualche tempo fa, qui fermava l’Eurostar Taranto-Roma, che nel tratto lucano viaggiava a velocità ridotta, non più di 60 chilometri orari e biglietto dimezzato come un qualsiasi trenino locale. Ora, da una galleria a binario unico sbucano a passo d’uomo due carrozze malridotte, simili a uno dei convogli andini descritti nelle Ultime notizie dal sud di Luis Sepúlveda. È quel che rimane della linea che porta da Salerno a Potenza, che ora sarà potenziata grazie all’acquisto di quattro nuovissimi treni Atr 220 Swing (uno dei quali pagato dalla regione Basilicata con fondi europei). Non tutte le corse fanno scalo qui a Sicignano: in genere bisogna prendere un altro bus sostitutivo fino alla stazione successiva di Buccino.
Vedendolo arrivare, non si può fare a meno di pensare a quanto accadde in un’altra galleria, pochi chilometri più avanti, il 3 marzo del 1944: una locomotiva, a vapore e non ancora diesel come quella dell’ultimo viaggio nella stazione di Polla, era partita poco dopo le 18 dalla stazione di Salerno, piena all’inverosimile di viaggiatori “clandestini” stremati dalla guerra che andavano nel potentino per scambiare sigarette e caffè americani con prodotti della terra.
Nella galleria tra Balvano e Bella, 1.692 metri con una pendenza media del 12,8 per cento, il treno prese a slittare per l’eccessivo carico e per l’umidità, e si bloccò. Il monossido di carbonio e l’anidride carbonica fecero il resto: si salvarono il fuochista e il frenatore del carro di coda, tutti gli altri morirono asfissiati. I cadaveri furono allineati lungo la banchina della stazione di Balvano, come anime in attesa del loro Caronte, e poi sepolte in quattro fosse comuni. Fu archiviata così, senza funerali e neppure una conta precisa delle vittime - poco più di 500, forse addirittura 600 - la più grande strage ferroviaria della storia italiana.
Si arriva prima a Roma che in provincia
Alla presentazione del dossier Pendolaria di Legambiente, il 21 gennaio, nel palazzo delle Arti a Napoli, era presente un solo comitato: quello per la riattivazione della Sicignano-Lagonegro. L’associazione ambientalista, anticipando il presidente del consiglio Matteo Renzi, ha parafrasato a sua volta Carlo Levi: “L’alta velocità si è fermata a Salerno”. Il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini ha parlato di una “questione meridionale visibile nel trasporto, frutto di scarsi investimenti, e di un ritardo storico”. Poi è intervenuto Rocco Panetta, che ha spostato l’attenzione su un altro aspetto, non secondario, della sospensione della ferrovia: “Invalidi, diversamente abili e ciechi non possono viaggiare perché gli autobus sostitutivi non sono adatti”. Il presidente del comitato lo ripete ancora oggi: “Da queste parti può viaggiare solo chi sta bene”.
Il risultato è che il servizio sostitutivo, scomodo e disincentivato in ogni modo, lo prende solo chi non può farne a meno e Trenitalia non investe in una tratta che non garantisce grandi guadagni, anzi taglia sempre più le corse, ormai ridotte ai livelli del 1903. Ma è proprio vero che il treno-bus lo prendono in pochi? Al comitato ribattono: “Se la linea fosse efficiente, le cifre sarebbero diverse”. Per esempio, a Sicignano non c’è alcuna coincidenza tra i rari bus e gli altrettanto sporadici treni che non tirano dritto, le stazioni sono impraticabili, senza panchine né illuminazione e nella gran parte dei casi isolate o lontane dai paesi.
Non va meglio nei casi in cui il pullman ferma dal benzinaio, come a Padula, o nel piazzale di una trattoria. Inoltre, spiega Panetta, i dati sono falsati perché su questa linea si può viaggiare legalmente da “abusivi”. Dal primo gennaio Trenitalia ha infatti abolito i biglietti a fasce chilometriche, nelle stazioni dismesse non esistono biglietterie automatiche né rivenditori e il conducente a bordo non può più venderli. L’unico modo per far pagare il biglietto è quello di mettere un capotreno a bordo, dotato di un computer che emetta ticket elettronici. Ma questo vorrebbe dire raddoppiare il personale e dunque i costi. Per cui tutto è affidato al “buon cuore dei cittadini”: chi non arriva in stazione già munito di biglietto viaggia da “illegale legalizzato”.
Da Salerno si arriva prima a Roma che in provincia, ripetono tutti
Il Comitato per la riattivazione della Sicignano-Lagonegro ha tenuto la contabilità dei soldi spesi in trent’anni per la “ferrovia sospesa”: cinque miliardi stanziati nel 1997 dal Cipe per uno studio di fattibilità sul ripristino della tratta, 722mila euro dei lavori sulla Salerno-Reggio Calabria destinati dall’Anas alla risistemazione dei binari e per mettere in sicurezza alcune gallerie, 15 milioni di eurostanziati da una legge del 2003 e mai spesi.
Ma loro non si arrendono e, a dispetto delle evidenze, insistono perché un giorno i treni riprendano a circolare. “La linea è integra, basterebbe un disboscamento e la pulizia dai rifiuti che purtroppo negli anni si sono accumulati”, sostengono. Secondo loro, “il Genio ferrovieri potrebbe rimetterla in sesto con una spesa contenuta”: non più di cento cento milioni di euro, che potrebbero arrivare da fondi europei, dal governo e dalle regioni interessate, la Campania e la Basilicata.
Per il momento, avanzano una proposta minima, a costo zero: arruolare capre e pecore per brucare le erbacce lungo tutta la tratta. In fondo, la Sicignano-Lagonegro è l’unica ferrovia in Italia a poter vantare una stazione costruita apposta, dopo la fine della prima guerra mondiale, per contadini e pastori: è quella di Pertosa, raggiungibile solo attraverso un sentiero tra i boschi.
Nel 1903, quando l’autostrada non esisteva ancora, i tre convogli giornalieri impiegavano tre ore ad andare da un capo all’altro. Oggi il numero di corse è invariato e con i bus si arriva a destinazione nello stesso tempo, cantieri e code permettendo. Al Comitato fanno presente che, da quando c’è l’alta velocità verso nord, “da Salerno si arriva prima a Roma che in provincia”.
Ernesto de Martino, un’unica storia
di Fabio Moliterni (alfapiù, 29 febbraio 2016)
Esiste un elemento di continuità nel lungo, contraddittorio e turbolento percorso di de Martino (nel 2015 ricorreva il cinquantenario della morte), a partire almeno dallo studio incipitario Il mondo magico (1948) e passando dalle risultanze sulle «spedizioni» compiute nei Sud d’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta - Sud e magia del 1959, di cui Donzelli pubblica una nuova edizione che recupera anche materiali sparsi del «cantiere» lucano, e due anni dopo La terra del rimorso sul fenomeno del tarantismo nel Salento -, per approdare infine al postumo La fine del mondo (1977 e 2002), che lo occupò negli ultimi anni di vita.
Questa direttrice convoca e implica una serie di problematiche interne alla storia sociale della cultura nel secondo Novecento, con tangenze che riguardano non soltanto lo specifico degli studi etno-antropologici in Italia, ma più radicalmente lo statuto e le forme di legittimazione del sapere scientifico e filosofico, i rapporti tra teoria e prassi, tra storia delle religioni, impegno politico e psicoanalisi, cultura popolare e pensiero gramsciano, esistenzialismo, fenomenologia e filosofia della storia; ed è rappresentata, mi pare, dalle ricerche pluri-prospettiche e «molecolari» che de Martino, rinnovando di volta in volta strumenti metodologici e campi di studi, ha condotto sin dalla genesi della sua storia intellettuale intorno allo «scandalo» (σκάνδαλον, «ostacolo») del mito e dell’arcaico, l’autentico rimosso nell’epoca del lungo tramonto e della secolarizzazione dell’Occidente (secondo Leopardi l’epoca della tentata «geometrizzazione» della vita).
Si tratta più precisamente di un pensiero ibrido che vive all’incrocio tra revisione dell’idealismo crociano e marxismo critico, sospeso tra fascino dell’irrazionale e bisogno di militanza politica, ragione illuminista e tensione libertaria o progressista, che insisteva nell’indagare le latenze e la persistenza nel Moderno di un sottofondo «altro», antico e «oscuro», irriducibile alle categorie del pensiero tradizionale (normativo e «immunitario»): i «residui» della cultura popolare e subalterna, la sopravvivenza e il perpetuarsi di forme del passato arcaico così come si ripresentano in contesti sociali concreti e nel fondo della coscienza umana, nelle vesti di pratiche magico-rituali o simboliche attivate per rispondere alla condizione di «miseria psicologica» e sociale, alla perdita e alla «crisi della presenza». Dal magismo alle fascinazioni lucane, dal lamento funebre al tarantismo pugliese fino alle antiche e nuove forme di disagio e «apocalissi culturali» da intendere, scriverà nella Terra del rimorso, come «relitti folklorico-religiosi [che] diventano documenti di un’unica storia».
Se continuiamo ad adoperare quest’ottica strabica e telescopica, per ragionare oggi sull’eredità del suo pensiero, è evidente che la scoperta sul campo del meridione italiano «escluso dalla storia» nei primi anni Cinquanta, complici e mallevadori Carlo Levi e Rocco Scotellaro, si configurava in Sud e magia come terreno d’incontro decisivo di questi saperi eterogenei e di una pratica politica non ortodossa, in linea con lo spirito anti-normativo (anti-accademico) e «indisciplinato», non solo interdisciplinare, che informa il lavoro di de Martino.
In quello studio a tratti geniale, ma anche ricco di contraddizioni interne e aporie metodologiche messe opportunamente in rilievo da Fabio Dei e Antonio Fanelli nell’introduzione a questa nuova edizione, confluivano un’eterodossa teoria e pratica etnologica ad usum sui, maturata in un tormentato dialogo con lo storicismo crociano e con gli studiosi delle religioni primitive come Pettazzoni e Marchioro, e un impegno meridionalista a sua volta non allineato e sostanzialmente isolato rispetto alle traiettorie politiche e ideologiche del tempo, nonostante la militanza «ufficiale» nelle fila del Partito Comunista. Ad esempio nei confronti dell’uso e della ricezione di certe scritture di Gramsci sui ceti subalterni (le «plebi rustiche del Mezzogiorno»), la storia delle religioni all’interno dei discorsi su consenso ed egemonia, i rapporti tra intellettuali, masse e cultura popolare - un Gramsci riletto al di qua delle strategie riformiste e dei posizionamenti politici del fronte socialista e comunista, ben oltre lo «scientismo ecumenico» del PCI tra anni Cinquanta e Sessanta a suo tempo stigmatizzato da Cesare Cases.
Provare a «storicizzare l’intemporale», secondo la formula decisiva di Carlo Ginzburg - la dimensione cioè socialmente situata, materiale e corporea dei riti popolari del mezzogiorno, e insieme il sottofondo mitico e metastorico che li attraversa -, voleva dire per de Martino riprendere una tensione dialettica e dinamica di marca gramsciana: tra alto e basso (struttura e sovrastruttura), sacro e quotidiano, politico e trascendente, sentimento e conoscenza, teoria e prassi. Significava intendere le forme arcaiche della cultura popolare, à la Bourdieu, non in quanto patrimonio sepolto e intangibile, terreno inerte o neutrale di sedimentazioni e «rottami» folclorici, ma come campo instabile e conflittuale attraversato da precisi rapporti di forza e di potere, e soprattutto come risultato di fratture, sincretismi e interazioni, le più varie, tra le élites, i ceti dominanti e quelli subalterni.
Lo dimostra la seconda parte di Sud e magia, quella forse meno letta e considerata, intitolata non per caso Magia, cattolicesimo e alta cultura, nella quale de Martino conduce - nelle volute di uno storicismo paradossale - un’analisi delle insorgenze di rituali magico-protettivi come la jettatura non più nel contesto della cultura popolare e arcaica, ma nel cuore del côté avanzato e democratico dell’illuminismo napoletano di fine Settecento, a partire da Vico, il quale «era per suo conto andato oltre la stessa ragione illuminista e si era sollevato al concetto di una provvidenza immanente nella storia umana» («Tanto più merita attenzione il fatto che [...] sorse e si diffuse in circoli non indotti, e comunque guadagnati al moto illuministico, una sorta di riscaldamento per l’argomento della jettatura, col risultato di dare origine ad una nuova formazione mentale e di costume»).
Resta da dire qualcosa sulla natura conflittuale e irrisolta, e per questo vitale o vivente, del pensiero complessivo e dell’impegno politico di de Martino, soffermandoci prima di concludere sull’Epilogo di Sud e magia, un finale ripreso anche nel documento che oggi chiude il cantiere con scritti rari e dispersi allestito in appendice all’edizione Donzelli, Miseria psicologica e magia in Lucania (un saggio-resoconto sulla spedizione lucana pubblicato su rivista nel 1958).
A colpire sono i toni profetico-allusivi e in qualche modo teleologici di un «segnalatore d’incendi» che, proprio come Benjamin, aveva attraversato da giovane la crisi di civiltà, il periodo dei totalitarismi e della «religione della morte» professata dai fascismi nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, e ora cercava di riguadagnare a una «possibile storia civile» il portato di sofferenza e oppressione, «l’esistenza ingrata» dei Sud del mondo: «Anche per le genti meridionali si tratta di abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia, e di dischiudersi a un destino eroico più alto e moderno di quello che pur fu loro nel passato: un destino che non sia una fantastica città del sole da fondare tra le montagne di Calabria, ma una civile città terrena unicamente affidata all’ethos dell’opera umana, e cospirante con le altre città terrene di cui è disseminata questa vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è figlio. Nella misura in cui questo avverrà sarà ricacciato nei suoi confini il regno delle tenebre e delle ombre».
Ma come per un estremo paradosso che ci consegna questa esperienza intellettuale, l’approdo finale o «tardo» delle ricerche di de Martino si situerà, come è noto, proprio sul rovescio di quella «autentica luce della ragione» con la quale terminava Sud e magia: ancora una volta insistendo a esplorare con un altro cantiere in fieri, quello della Fine del mondo, il lato oscuro e «notturno» del progresso, i rischi di ogni metafisica identitaria, il carattere mortale dell’esperienza individuale e collettiva, i sentimenti apocalittici e le forme simboliche dell’angoscia esistenziale e del disagio sociale e psichico che provengono dalla sparizione di antichi sistemi culturali e dalle difficoltà di «appaesamento» al mondo, e che più o meno segretamente intaccano e turbano, dagli anni Sessanta fino a oggi, tra storia e micro-storie, il destino europeo e occidentale.
C’è chi ha capito che il Sud è una risorsa
di Gianfranco Viesti (il mulino, 25 gennaio 2016])
Le notizie sugli investimenti di Cisco e Apple in Campania giungono a proposito, per confermare una convinzione e sfatare un luogo comune.
La convinzione è che il futuro del Mezzogiorno debba essere disegnato anche intorno a un grande, nuovo processo di industrializzazione. Dove per industria vanno intese sia l’Ilva sia la Apple: sia attività manifatturiere, fisiche, più tradizionali, sia attività creative e immateriali. Le accomuna essere “industria”: la possibilità di vendere i propri prodotti e servizi fuori dall’area di insediamento; un rilevante contenuto di innovazione di prodotto e di processo come fattore determinante della competitività; l’attivazione di altri posti di lavoro nelle attività di contorno. Nell’industria più avanzata un nuovo posto di lavoro ne genera, come effetto indotto, da quattro a cinque altri, come mostrano lavori di ricerca condotti negli Stati Uniti e in Europa. L’esempio della Germania Est è di tutta evidenza: reddito e occupazione lì crescono visibilmente come frutto, diretto e indiretto, di nuova capacità industriale.
Il luogo comune è che tutto questo non possa avvenire al Sud. Nessuno vuole nascondere i potenti fattori che ostacolano l’attività industriale nel Mezzogiorno, ancor più che nel resto del Paese. Immateriali, come una giustizia lentissima e farraginosa, che fa sì che la possibilità di veder riconosciuti i propri diritti sia molto, ma molto, più aleatoria che nel resto d’Europa; e che si possa essere oggetto di iniziative non poche volte estemporanee. Fattori materiali, come lo stato deplorevole delle infrastrutture e di servizi di trasporto (su cui Legambiente nel suo Rapporto Pendolaria ha diffuso analisi di grande interesse, su cui converrà tornare), che fanno sì che il costo per arrivare ai mercati - già geograficamente distanti - sia dal Sud particolarmente alto. È evidente che i costi logistici e di trasporto rappresentano un potente freno allo sviluppo internazionale dell’agroalimentare del Sud. Questi ostacoli purtroppo permangono inalterati. In alcuni casi si aggravano. Le politiche che dovrebbero ridurli sono sempre più impalpabili, ormai quasi inesistenti.
Ma ciononostante la filiera automotive del Sud genera 5 miliardi di export; 2,2 la filiera aereonautica; 4,4 quella alimentare e 2,2 quella della moda. Il segreto del loro successo non sta più, come tanto tempo fa, in costi del lavoro e della produzione particolarmente ridotti: basta attraversare l’Adriatico e andare un po’ verso Nord per trovare luoghi rispetto ai quali il Sud non potrà mai essere competitivo sui costi. Chi puntava solo su bassi costi, bassi prezzi è ormai da tempo fuori mercato. Certo, il fatto che il costo del lavoro sia mediamente del 20% più basso che al Nord (per la composizione per qualifiche e la minore contrattazione integrativa), e ancor più rispetto alla Germania, aiuta. Ma non spiega.
Le filiere industriali del Sud hanno successo perché incorporano sempre più “conoscenza”. Nei processi, grazie a qualità delle strutture produttive e impianti moderni; ma soprattutto grazie ad una forza lavoro scolarizzata, qualificata, flessibile. Gli operai di Melfi fanno scuola nel mondo sul world class manufacturing; i prodotti dei sarti e dei calzaturieri napoletani riempiono le vetrine dei negozi più costosi del mondo. E hanno successo perché costruiscono relazioni virtuose con i «saperi» che sono disponibili sul territorio, in primis con le università e con i centri di ricerca; ma anche con i vecchi saperi artigiani, agrari. Il boom del vino è il caso di scuola. Dove più e meglio che a Napoli le multinazionali americane possono trovare una forza lavoro giovane, istruita e creativa, ad un costo ragionevole e in un ambiente urbano che - pur con tutto le sue enormi criticità - è straordinariamente stimolante e ricco di culture profonde, da valorizzare?
Nonostante le grandissime difficoltà dei contesti meridionali, la partita dell’industria non è assolutamente persa. Tanti fattori non aiutano, ma quello più importante non manca. Manca, invece, da troppo tempo la convinzione che valorizzare l’enorme bacino di lavoro potenziale del Sud sia il tassello fondamentale per una politica di rilancio dell’Italia. E le politiche ne sono conseguenza. Invece di potenziarli, in quantità e qualità, sulle università e sui centri di ricerca del Sud piovono tagli drastici, spesso immotivati. La crescente emigrazione dei cervelli (studenti, laureati, ricercatori) viene vissuta come un dato di fatto e non come un fenomeno da contrastare con vigore; anche attraendo cervelli dal Sud del mondo. Da troppo tempo non vi è traccia di una politica industriale, basata sui fattori di competitività di oggi, e non di ieri, che miri a costruire nuova industria e nuovo sviluppo. Sembra facile retorica, ma è realtà dell’economia: i disoccupati del Sud sono la soluzione, non il problema, dell’Italia. Chissà che anche gli americani non aiutino le classi dirigenti di questo Paese a rendersene conto; e a darsi, finalmente, una mossa per valorizzarli.
[Questo articolo è uscito su «Il Mattino» il 22 gennaio]
La questione meridionale dell’università: il sud è già condannato alla resa
di Alberto Baccini *
Articolo pubblicato sulla prima pagina de Il Mattino di Napoli il 7 dicembre 2015.
C’è una questione meridionale nell’università italiana? Se lo chiede Mauro Fiorentino in un libro La questione meridionale dell’Università, appena pubblicato per ESI, Napoli. La questione c’è. Ed è il risultato di una complicata combinazione di fattori che stanno svuotando le università del Sud di studenti, professori e finanziamenti. Una combinazione di fattori che non è stata decisa esplicitamente dai governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni; né tantomeno dal parlamento. Ma è il risultato dell’adozione generalizzata di strumenti premiali adottati in un contesto di progressiva e continua riduzione dei finanziamenti, che hanno spostato risorse dalle università del Sud a quelle del Nord.
Pochi giorni fa sul sito www.roars.it è uscita la notizia che finalmente l’Italia ce l’ha fatta: siamo ultimi nella classifica per la quota di laureati nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Si è realizzato l’obiettivo di quanti in questi anni hanno sostenuto sulla grande stampa nazionale che i laureati non servono, che con un miliardo e quattrocento milioni di cinesi che vogliono venire in Italia a fare le vacanze non abbiamo bisogno delle università, che in effetti di università l’Italia ne ha anche troppe. L’OCSE (Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica) ha calcolato che in Italia ci sono 24 laureati ogni cento giovani, contro i 41 della media OCSE, certificando così la nostra ultima posizione in classifica. Fino all’anno scorso eravamo penultimi a pari merito col Cile e davanti alla Turchia, due nazioni che quest’anno ci hanno superato.
E’ da sottolineare che non è a causa dell’inefficienza del sistema universitario o dello spreco di risorse che abbiamo ottenuto questo risultato. Almalaurea stima, sulla base di dati OCSE, che in Italia far laureare uno studente costa in media la metà che in Germania; il 60% che in Francia e Spagna. Questo risultato lo abbiamo ottenuto perché in questi anni abbiamo ridotto le risorse destinate all’università. Siamo infatti al penultimo posto nella classifica della spesa pubblica per istruzione universitaria in rapporto al PIL. Spendiamo lo 0,9% contro una media OCSE dell’1,6%; peggio di noi percentualmente fa solo il Lussemburgo.
L’università e la ricerca (con la scuola) sono i settori che pagato il prezzo più alto in termini di riduzione della spesa pubblica. Ed il taglio è stato fortemente selettivo dal punto di vista territoriale. Secondo i calcoli di Fiorentino, la riduzione del fondo complessivo per il funzionamento delle università nel periodo 2009-2014 è stata a carico per il 50% degli atenei del mezzogiorno, lasciando in media invariato il finanziamento delle università del Nord.
Veniamo ora alla questione degli studenti. L’Italia ha perso tra il 2010, anno dell’entrata in vigore della legge Gelmini, ed il 2015, oltre 27mila immatricolati, pari ad una riduzione media del 9%. Nel 2010, ogni 10 studenti che avevano conseguito la maturità, se ne iscrivevano all’università circa 7; Dopo cinque anni il loro numero si è ridotto a 6. Anche in questo caso i dati OCSE danno all’Italia un triste primato: solo Messico e Sud-Africa hanno una quota di iscrizioni all’università più basse di quelle fatte registrare dall’Italia. Ed anche in questo caso le diversità territoriali sono impressionanti: perdono oltre un quarto degli immatricolati Basilicata (-33%), Abruzzo (-30%), Sicilia (-25%), Molise (-25%), Calabria (-23%). Solo le università campane si attestano sulla perdita media nazionale. Perché sta accadendo questo?
Principalmente per due ragioni. La prima è che l’università italiana costa troppo agli studenti: nella classifica OCSE, dopo Regno Unito e Olanda, l’Italia è terza in Europa per costo delle tasse universitarie. La seconda è che abbiamo un problema enorme per quanto riguarda gli interventi per il diritto allo studio. Una cosa di cui non dovremmo meravigliarci, visto che ascoltati consiglieri dei governi di centro destra e di centro sinistra hanno sostenuto esplicitamente che il diritto allo studio non riguarda l’università, perché “l’università pubblica dovrebbe essere pagata autonomamente da chi la frequenta (così come ogni cittadino si paga il ristorante, il cinema e l’automobile)”. Ed infatti l’Italia ha un altro primato di cui non dovremmo vantarci: siamo gli unici ad avere la figura dello studente che ha diritto alla borsa di studio, ma che non la riceve, il cosiddetto “idoneo non beneficiario”. Nel 2013/14, erano 46mila studenti su 186mila aventi diritto: in media in Italia uno studente su quattro ha diritto alla borsa, ma non la riceve. La disparità territoriale è impressionante: nelle regioni del Sud uno studente idoneo su due è nella condizione di “idoneo non beneficiario”. Questo significa che circa l’80% degli idonei non beneficiari è concentrato nelle regini del Sud, con la Sicilia che ha da sola quasi un terzo degli idonei non beneficiari italiani.
Sarebbe troppo lungo e tecnicamente complesso mostrare che questo rapido e progressivo abbandono delle università e degli studenti del sud dell’Italia è il risultato non solo della riduzione delle risorse, ma dell’adozione di meccanismi premiali distorti per la loro distribuzione. E’ utile però notare che su un punto non si sono risparmiate risorse, costituendo una costosissima agenzia, l’ANVUR, cui è stato dato il compito di produrre “dati oggettivi” al fine di premiare la didattica e la ricerca. Questo ha permesso ai governi di nascondere dietro la presunta oggettività dei numeri scelte politiche che, se fossero state esplicitate, non avrebbero trovato un facile consenso nell’opinione pubblica. La retorica del merito e dei parametri oggettivi sta realizzando il piano che proprio uno dei membri dell’ANVUR dichiarò ad un giornale nel febbraio 2012: “Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra research university (università di Serie A, ndr) e teaching university (università di serie B, ndr). Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa.” Quello che l’ANVUR non disse - ma era così difficile capirlo? - era che le università di serie B e le chiusure si sarebbero concentrate selettivamente proprio nelle regioni meridionali.
* http://www.roars.it/online/la-questione-meridionale-delluniversita-il-sud-e-gia-condannato-alla-resa/, 14 dicembre 2015 (ri presa parziale).
Il ponte
Se torna il trasformismo, antica piaga della storia italiana
Saltano fuori progetti che si speravano sepolti come il Ponte sullo Stretto
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 5.11.2015)
La politica dovrebbe essere l’arte del necessario, non del possibile, com’è luogo comune dire. Una chimera, oggi più che mai. La mediazione, essa sì, è utile se esercitata pulitamente per metter d’accordo opinioni e bisogni differenti di una comunità. Adesso? Par di vivere in un garbuglio autoritario dove la cancellazione delle regole è diventata la norma.
L’ultimo episodio riguarda la bagarre sul sindaco Marino, probabilmente indifendibile, anche se bisognerebbe approfondire il disturbo che ha dato agli speculatori la sua politica urbanistica. Le modalità con cui è stato tolto di mezzo non fanno onore a una democrazia. Il notaio che ha raccolto le adesioni dei 26 consiglieri richiamati alle armi per evitare, con la loro firma, una libera discussione in aula rammenta una commedia con Peppino De Filippo più che il V° secolo di Pericle. Di che cosa si è avuto paura?
Si avverte un senso di disagio. In un solo giorno si aggrovigliano senza imbarazzo dichiarazioni e smentite. Via le tasse, ripristinate le tasse; i castelli non pagheranno l’Imu, la pagheranno. Il canone della Rai-Tv verrà inserito nella bolletta dell’energia elettrica? Lo dovrà pagare anche chi non possiede il televisore? Non è chiaro. Si aprono i tavoli.
Tutti parlano, parlano. Che bisogno ha avuto Raffaele Cantone, il presidente dell’Anticorruzione, una persona seria, di definire Milano «capitale morale del Paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere gli anticorpi necessari»? Non si pretende che conosca il torbido passato prossimo milanese, Sindona, Calvi, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, Mani pulite, Don Verzé, Ligresti, ma ha dimenticato che il vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani è a San Vittore? Ha cancellato dalla mente il gran giro di mazzette sugli appalti scoperto pochi mesi prima dell’inaugurazione dell’Expo e le inchieste in corso su corruzione, peculato, truffa? Anche il presidente Giuseppe Sala non si accorse di nulla. Chissà che sia più vigile se sarà eletto sindaco di Milano come desidererebbe Renzi.
Poi ci sono i problemi più gravi di cui si preferisce parlar poco. Come quello che riguarda la soglia per l’uso dei contanti salita a 3000 euro. Le proteste motivate sono state e sono numerose. Si sono detti contrari, tra gli altri, il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti: «Favorisce l’evasione fiscale, la circolazione del “nero” e danneggia la lotta al riciclaggio frutto di reato». Anche il senatore a vita Mario Monti che da presidente del Consiglio portò la soglia del contante da 2500 a 1000 euro è dissenziente. Ed è in corso una campagna digitale - Riparte il futuro - promossa da Libera e dal Gruppo Abele che ha già superato le 35 mila adesioni.
Nessuna retromarcia, i 3000 euro non si toccano, guai ai gufi, ai rosiconi, ai moralisti: Renzi si è impuntato come un bambino cui viene tolta la nutella.
Ci fu in passato un suo predecessore che mostrava «stizza e insofferenza verso chi lo criticava o anche solo non condivideva le sue valutazioni e le sue decisioni e le voleva discutere». (Fonte ineccepibile, Renzo De Felice, Mussolini il duce . Lo Stato totalitario, pag.284)
È d’obbligo il consenso, la fiducia nella crescita, l’ottimismo, sullo sfondo di campane a festa e di trombe squillanti. È tornata di moda la parola disfattismo, residuo di tempi tristi, viene considerato nemico chi vuole semplicemente dire la sua, discutere le inadeguatezze della politica governante, sottolinearne l’incompetenza, la presunzione, il dilettantismo giovanilistico, smascherare le bugie quotidiane.
Saltano fuori come misirizzi antichi progetti che si speravano sepolti. È rispuntata l’idea del Ponte sullo Stretto, per la letizia delle imprese d’appalto e di subappalto in mano alla mafia. L’opera stava molto a cuore a Berlusconi: fu la prima cosa che disse - promise - quando nel 2008 ridivenne presidente del Consiglio. Non c’è ora un ispettore fuori dai giochi del potere che vada in Sicilia a vedere come, tra crolli, frane e smottamenti, (non) funzionano strade e ferrovie che vanno messe in ordine prima di pensare al ponte faraonico di dubbia utilità?
Il ponte è un favore che Renzi deve rendere all’alleato Angelino Alfano, nativo della Trinacria, o a Denis Verdini, il plurinquisito alleato di riserva? Non teme i giudizi degli elettori o ex elettori del Pd? Crede davvero che distruggendo valori e principi della sinistra, o di quella che fu tale, di guadagnare consensi a destra? Non sembra, con qualche eccezione. Continua invece a perdere parlamentari del suo partito e ha sul collo i fiati dei Cinque Stelle.
Di nuovo protagonista il trasformismo, antica piaga. Padrino Agostino Depretis (1883), tutore Benedetto Croce che nella sua Storia d’Italia (1927) lo definì un semplice strumento di azione politica, nient’altro che un processo fisiologico, non certo patologico.
E oggi? Che cosa può succedere nel gran pastone dei trasformisti quotidiani?
Cristo dimenticato a Eboli.
La rimozione di Carlo Levi. Nell’oblio i 40 anni dalla morte e i 70 del celebre romanzo
di Massimo Novelli (il Fatto Quotidiano, sabato 7 novembre 2015)
Da tempo i giornali, così come le televisioni, propinano con un’abbondanza esagerata i ricordi, per questo o quell’anniversario, di personaggi della cultura, della storia (ma un po’ meno: forse la storia fa riflettere troppo sul presente), della politica, dello spettacolo e dello sport.
Si dà conto del quindicennale della morte o del secolo dalla nascita, dei 500 anni o dei mille; e si organizzano “eventi” non sempre seri e rispettosi, sovente mercificati. In questo mare magnum non tutto fa brodo, per parafrasare un vecchio spot della vecchia tv.
È il caso di Carlo Levi (Torino, 1902 - Roma, 1975), uno dei protagonisti di rilievo della cultura del Novecento. Del pittore, romanziere, saggista e militante dell’antifascismo, ricorrevano nel 2015 tre anniversari significativi: i quarant’anni dalla scomparsa; i settanta dall’uscita da Einaudi nel 1945 di Cristo si è fermato a Eboli; gli ottanta dal confino di polizia che il regime fascista gli impose tra i calanchi di Aliano, in Basilicata, e che fu all’origine della sua scoperta del Mezzogiorno e della scrittura del Cristo. La sua riproposizione, tra l’altro, sarebbe stata più che giustificata dal dibattito apertosi, sia pure per poco, sui disastri del nostro Sud, che Levi comprese, amò e per cui si batté.
Invece né la sua Torino, né Roma, e tantomeno la Lucania e Matera futura capitale della cultura, se ne sono rammentati, perlomeno seriamente. Ci sono state delle eccezioni, alcune positive e meritorie, altre contestate. Tra le prime vanno menzionate quelle del comune di Aliano, dove Levi è sepolto e ricordato con varie iniziative, e una serata a Matera promossa dal Circolo Carlo Levi e dal giornalista Rocco Brancati.
Polemiche e richieste di chiarimenti dal Movimento 5 Stelle hanno accompagnato la scelta del Consiglio regionale del Piemonte di acquistare, per oltre 32 mila euro, le copie di un volume fatto stampare dalla Fondazione Giorgio Amendola di Torino (che ha pure promosso due convegni di scarsa risonanza). Intitolato Il Telero: da Torino un viaggio nella questione meridionale, è stato voluto, dicono, per celebrare il quarantennale della scomparsa di Levi. Forse sarebbe stato più utile, e non troppo costoso, regalare alle scuole i libri di Levi.
A mettere in risalto l’oblio di uno scrittore che, con il Cristo e L’Orologio, ha dato alla letteratura italiana due capolavori, e che ha fatto guardare al Meridione con occhi nuovi, è stato per primo Nicola Filazzola, un artista lucano di valore, che incontrò Levi durante il suo ultimo viaggio ad Aliano.
Sulla rivista Il Colle di Matera ha pubblicato un articolo amaro e critico, poi parzialmente ripreso dalla Gazzetta del Mezzogiorno, in cui sottolinea che in un “clima di così sfacciata irriconoscenza, per l’uomo che scelse di intrecciare la propria esistenza con quella dei contadini di Basilicata, non mi sorprende che, in occasione del quarantesimo anniversario della sua morte, istituzioni come il Polo Museale della Basilicata e la stessa Rai lucana non abbiano preparato un evento, fornito un servizio degni dell’importanza che Levi occupò nella storia della nostra regione”. Filazzola ha proposto di organizzare, per celebrare Levi, “un incontro di tutti i Presidenti delle regioni meridionali, per una riflessione sullo stato del Mezzogiorno a settant’anni dalla pubblicazione del Cristo”. Sta aspettando che qualcuno, nei “Palazzi” del Sud, si faccia vivo.
Se la Lucania delle istituzioni tace, altrettanto fa Torino, la città in cui Levi, oltre a cospirare contro il fascismo e a disegnare la copertina di America primo amore di Mario Soldati, animò il gruppo dei “Sei di Torino”, che, alla fine degli anni Venti, mise assieme pittrici e pittori come Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci. La casa editrice Einaudi, è vero, ha ristampato lodevolmente L’Orologio e Quaderno a cancelli, ma in un sostanziale silenzio dei più, lo stesso che ha contraddistinto i libri editi da Donzelli. E Marco Rossi-Doria su La Stampa del 2 agosto ha invitato “a raccontare le cose del Mezzogiorno di adesso nello spirito con il quale Carlo Levi lo fece allora con acume analitico, parole scelte e ferme e civile passione”. Nessuno, naturalmente, ha raccolto l’invito.
Carlo Levi è stato rimosso dalla memoria della nazione. Lo rammentava Federica Montevecchi già nel 2012, su L’Unità, scrivendo che “non ha meritato un Meridiano (neppure un Antimeridiano)”, “proprio ora che c’è bisogno di lui”, come titolava il giornale. Una rimozione che sembra inconcepibile, assurda, se si pensa all’importanza di Levi nella letteratura, nell’arte figurativa, nel pensiero meridionalista e nell’antifascismo giellista e azionista.
Tuttavia l’oblio si può spiegare benissimo: oltre che con quell’eterno presente che predomina le istituzioni culturali italiane, con il fatto che l’opera dell’autore di Paura della libertà è innervata da valori di giustizia e di libertà, dalla passione civile, dall’impegno per i senza storia, per gli umiliati e offesi, per il riscatto del Mezzogiorno, che sono stati cancellati dalle agende politiche e culturali.
Le parole, per Levi, “sono pietre”; oggi sono di polvere. Per citare il suo Orologio, “mi pareva di essere tornato in un villaggio della Lucania, e di ascoltare i Signori conversare dei loro odî eterni e della eterna noia, seduti sul muretto della piazza, sopra il burrone, davanti alla distesa delle argille coperte”.
Società
Sud: al tavolo di un bar a parlare di servilismo con Gramsci e Salvemini
di Alessandro Cannavale (Il Fatto, 1 novembre 2015)
Seduto al tavolo di un bar, in un pomeriggio di tiepido sole autunnale. Leggevo la cronaca da un quotidiano, riflettendo sul concetto di ascarismo. I veri ascari (la parola in arabo significa soldati) furono militi indigeni nelle ex-colonie italiane che si distinsero in molte battaglie e morirono a migliaia sotto il comando dei nostri generali.
Gramsci usò il termine per parlare dei deputati delle maggioranze privi di un preciso programma o indirizzo politico: “In Parlamento diventò uno dei tanti ascari taciturni, una macchina per votare”.
Riflettevo su quel concetto, quando irruppe un personaggio con una folta e bruna capigliatura, e mi chiese: “Cosa legge? Le interessa l’ascarismo in politica? Ne avrei da dire...”.
Lo invitai a sedersi. L’uomo di mezza età scostò la sedia vuota per accomodarsi con garbo. Poi riprese il discorso: “Nel Mezzogiorno predomina ancora il tipo del ‘paglietta’, che pone a contatto la massa contadina con quella dei proprietari e con l’apparato statale. [...] Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto ‘disciplinato’ con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini; misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli ‘intellettuali’ o paglietta, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali...”.
Mi permisi di interrompere l’uomo, “direi che dai tempi di Giolitti il numero dei “paglietta”, come lei li chiama, è aumentato: siamo pieni di meridionali che per dimostrare emancipazione culturale ed accreditarsi nelle sfere del potere, cantano come juke-box litanie antimeridionali...”
Annuì, e riprese, con un sorriso amaro: “Lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata. Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni, esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come sfera di polizia giudiziaria”.
Quelle parole mi dicevano qualcosa. Lo interruppi: “Ma lo sa che lei mi ricorda...”.
Riprese senza darmi tempo di proseguire: “Non bisogna dimenticare il fattore politico-morale della campagna di intimidazione che si faceva contro ogni anche obbiettivissima constatazione di motivi di contrasto tra Nord e Sud”.
Ero sul punto di forzare il suo discorso, pur interessantissimo, quando giunse un altro uomo dal viso inspiegabilmente noto. Salutò calorosamente l’uomo che mi stava parlando delle ragioni sociali dell’arretratezza meridionale: “Ciao Antò”. “u’ Gaetà, come stai? Accomodati!”.
Cominciavo a decriptare la straordinaria esperienza che stavo vivendo, e mi misi incredulo a guardare quella scena gustosissima: “Di che parlavate?”. Tacqui, involontariamente scortese, guardando inebetito il signor Gaetano, soffermandomi mentalmente sul suo accento molfettese. Prima che l’altro rispondesse, cercai di riassumere: “...del servilismo prezzolato del ceto intellettuale meridionale, che frena lo sviluppo di questo territorio da decenni”.
“Ah...” poi riprese: “Come mai i deputati meridionali - che non sono certo minchioni - han lasciato per quarant’anni rovinare il loro paese? Come mai fu proprio un meridionale, il Crispi, a introdurre, nel 1887, le tariffe protezionistiche, rovinando l’agricoltura del Sud a vantaggio delle industrie del Nord? Come mai il Sud, che in grazia specialmente delle spese militari vede emigrare la sua ricchezza al Nord, manda alla Camera deputati militaristi?”.
“Considerazioni attualissime, per analogia... poi abbiamo la criminalità, altro problema”, mi lasciai sfuggire.
“I moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi del Sud per opprimere i partiti democratici del Nord; i camorristi del Sud hanno bisogno dei moderati del Nord per opprimere le plebi del Sud”...
“Ormai la criminalità organizzata è transnazionale e poi, insomma, la colpa è di noi elettori...”
“Naturalmente, i deputati eletti da queste clientele fameliche non hanno bisogno di essere né uomini di ingegno, né uomini onesti, né figure politiche nettamente determinate. Tutt’altro. Per rispondere ai bisogni degli elettori bastano, anzi occorrono, degli sbriga-faccende qualunque, senza scrupoli, senza convinzioni personali e senza dignità. [...] La sola domanda che il piccolo-borghese intellettuale e affamato si propone nell’atto di votare è “Il mio candidato è in grado di procurarmi l’impiego?” Oppure: quale tra i due candidati può ottenere il trasferimento per il commesso catastale, fidanzato di mia sorella, in modo che io mi possa sbarazzare al più presto di quest’altra mangiapane? [...] La corruzione il Governo la fa, non solo permettendo la compera dei voti, ma distribuendo per mezzo del deputato ministeriale, impieghi, porti d’arme, grazie sovrane, condoni di imposte, sviamenti di processi etc.”
Ormai certo, venni allo scoperto: “Mi scusi, queste frasi le conosco bene. Le ho lette. Anzi, lei è Gaetano Sal...”. Avevo abbassato lo sguardo per prendere un blocco note dalla borsa e quando lo rialzai erano entrambi svaniti nel nulla. Erano loro: Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini. Due amanti del Sud e della verità sul Sud. Anche quella dura e scomoda...
Nota bene:
IN ITALIA
Ambiente
L’enciclica del papa si è fermata ad Eboli
di MAURIZIO BOLOGNETTI*
Il cuore delle attività di coltivazione idrocarburi in Basilicata è rappresentato dal Cova (Centro olio Val d’Agri), un insediamento industriale classificato, in base alle direttive Seveso, a rischio incidente rilevante, che occupa una superficie di 180mila mq nell’area industriale di Viggiano, piccolo centro della provincia di Potenza.
Presso il Cova vengono trattati ogni giorno i circa 84mila barili di greggio che la Joint-Venture Eni-Shell estrae dai 27 pozzi attivi della concessione Val d’Agri.
L’impatto esercitato dal Cova sulle matrici ambientali e sulla salute umana è indubitabile se consideriamo che quotidianamente esso immette in atmosfera un micidiale cocktail di sostanze inquinanti, quali cov, cot, biossido d’azoto, biossido di zolfo, H2S, idrocarburi non metano, ecc.
E proprio perché l’impatto non può essere negato, suona come uno sberleffo la decisione di Eni di inserire nel “Local Report” 2014 - la pubblicazione con la quale il cane a sei zampe offre una sintesi delle attività svolte in Basilicata - alcune pagine dedicate ai corretti stili di vita.
L’immagine dello scarpone che prende a calci una sigaretta è fin troppo eloquente: per Eni ad inquinare le matrici ambientali della Val d’Agri sono i fumatori e non le tonnellate di veleni immesse ogni anno in atmosfera dal Centro olio.
Altrettanto eloquente la decisione della Conferenza episcopale di Basilicata, che ha organizzato il 17 ottobre, proprio a Viggiano, un convegno regionale intitolato “Quale futuro per la Basilicata: tra progresso sostenibile e responsabilità verso le nuove generazioni”.
Un convegno blindato, dove è previsto l’intervento di un paio di docenti universitari che vantano numerose collaborazioni con la Fondazione Eni Enrico Mattei e che non vede invece tra i relatori nessun medico dell’Isde (Associazione Medici per l’ambiente), nessun geologo che non sia devoto alla “teologia della trivellazione”, nessun “sovversivo”.
Va montando la sgradevole sensazione che l’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco si sia fermata ad Eboli e che l’obiettivo di una parte della Conferenza episcopale lucana sia soprattutto quello di sterilizzare e depotenziare il dirompente messaggio del pontefice.
Non me ne vogliano i vescovi di Basilicata se oso citare un brano molto interessante dell’enciclica papale: «Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura della natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro (...). Il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine». Azioni di marketing e di immagine come quelle contenute nel “Local report” Eni o in certa cinematografia lucana finanziata dalle compagnie petrolifere.
Dopo aver letto la Laudato si’, dico che nell’importante lavoro del papa trovo l’eco di quel “The Limits to Growth”(I limiti della crescita), un documento scritto nel 1972 da alcuni ricercatori del Mit di Boston su commissione del Club di Roma, che ha aperto la discussione sulle conseguenze teoriche e pratiche di un modello di sviluppo basato sul mito della crescita infinita. Io credo che il papa si interroghi e ci interroghi sul conflitto in atto tra tecnosfera ed ecosfera, che sta producendo un ecocidio planetario. Il pontefice ci sta indicando una rotta: occorre abbandonare il paradigma meccanicistariduzionista che ha dominato l’era dell’antropocene ed abbracciare un paradigma organico-olistico, consapevole dei “limiti dello sviluppo”.
Non può produrre vero progresso un sistema che avvelena sistematicamente tutte le matrici ambientali, che distrugge interi ecosistemi, che costringe centinaia di milioni di persone a vivere nella più nera miseria. Stiamo soffocando, stretti nella morsa rappresentata dalla tenaglia “capitalismo reale/democrazia reale”.
E ha ancora una volta ragione il papa quando scrive che «semplicemente si tratta di ridefinire il progresso » e che «uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità della vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso».
Pensando al dibattito che non ci sarà a Viggiano, verrebbe voglia di citare il Vangelo di Marco e quella domanda: «Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?». Già, a che giova?
* Segretario lucano dei Radicali, giornalista, autore di “Le mani nel petrolio”, Reality book (v. Adista Notizie n. 33/15)
* Adista-Segni Nuovi 24 OTTOBRE 2015 • N. 36
Il neopopulismo di governo
Un "Renzime" democratico. Il nostro paese si sta trasformando in un deserto nel quale crescono solo varietà diverse di una stessa pianta, tutte germogliate da un ceppo originario, il berlusconismo, che sta malinconicamente rinsecchendosi
di Aldo Carra (l manifesto, 08.10.2015)
Il paesaggio politico italiano si sta ridisegnando sempre di più attorno alla figura del presidente del Consiglio. Più che parlare di regime autoritario si potrebbe parlare di renzime democratico, una forma nuova di integrazione tra populismo, comunicazione e governo che supera la tradizionale distinzione tra destra e sinistra, ma conservando uno zoccolo duro nel popolo di sinistra da cui nasce, un populismo di nuova generazione che rimodella sistema politico e competitors.
Di populismi ne abbiamo avuti e ne abbiamo tanti oggi in Europa.
In genere essi si collocano a destra dall’opposizione e a questo modello si ispira la Lega. Ma in Italia ne abbiamo partoriti altri.
Anche il M5S si è affermato grazie a un forte populismo antisistema, ma con alcune novità importanti: una forte attrazione nel popolo di sinistra su temi come la partecipazione, l’ambiente, la moralizzazione della politica, una innovativa capacità di comunicazione e di spettacolarizzazione della politica e del rapporto con i cittadini.
M5S e Lega nascono, comunque, come forze antisistema ed esterne al sistema dei partiti storici.
Il neopopulismo renziano si presenta, invece, con due peculiarità:
nasce come forza di governo, anzi solo per governare (non potrebbe esistere senza); nasce come rottura/evoluzione/trasformazione dall’interno di un partito, anzi dell’ultima forza politica storica organizzata.
Adesso che, a metà legislatura e col completamento delle riforme, si sta concludendo la prima fase di questa esperienza, può essere utile analizzare i principali filoni che ne hanno ispirato l’azione. Il filone anticasta
Dopo quanto emerso a partire dall’omonimo libro, la lotta contro la casta era stata il principale cavallo di battaglia del M5S. Un tema così pregnante non poteva non essere cavalcato e così è stato: due tra le più importanti modifiche del nostro assetto istituzionale - Province e Senato - sono state affrontate utilizzando come motivazione principale la necessità di ridurre gli eletti, la casta.
Non si è compiuta una analisi delle funzioni e dei livelli istituzionali proliferati, dai municipi delle grandi città, ai comuni, alle comunità montane, alle province, alle regioni, per ristrutturarli in un disegno organico, ma si è scelta la via della semplificazione eliminando gli organi elettivi e dando vita in ambedue i casi ad organismi pasticciati e pressoché inutili.
La chiave contro la casta e i costi della politica è stata fondamentale ed è servita a accrescere la concentrazione dei poteri nell’esecutivo.
Il filone governabilità
Strettamente connesso a questo processo è il modello elettorale delineato con lo slogan «sapere la sera delle elezioni chi ha vinto», problema appena sentito dall’opinione pubblica ed esasperato volutamente per far passare un modello che cozza con la nostra cultura costituzionale e con l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.
Si è nascosta, così, dietro al messaggio della governabilità, la sostanza di accentramento nelle mani di una sola persona dei poteri decisionali e di nomina senza contrappesi.
Una scelta gravissima e carica di rischi futuri che assegnerà il 55% dei seggi a un partito che avrà il consenso del 30% dei votanti e del 15% degli elettori passata col consenso della minoranza di sinistra che, di fronte a tanta gravità, si trastullava con le preferenze.
Il filone antiprivilegi
Anche la lotta ai privilegi non poteva non essere un cavallo di battaglia del neopopulismo. Spostando il concetto di privilegio dagli strati sociali ricchi a tutti coloro che stanno meglio degli ultimi, si è arrivati ad additare come privilegiati quelli che hanno un lavoro tutelato a fronte dei tanti precari e disoccupati. Tutto questo per arrivare a colmare l’ingiustizia eliminando l’articolo 18 a vita per i nuovi assunti. Un caso esemplare di eliminazione di una ingiustizia per alcuni eliminando la giustizia per tutti.
Il filone antiburocrazia
A questo filone, anch’esso molto sentito dalla popolazione, si è ispirata la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione, che ha partorito finora solo slogan e banalità elevati a principi, ma tanto basta per far sfogare sui fannulloni il malessere dei cittadini.
Anche la riforma della scuola con la concentrazione di poteri nei presidi promossi a manager per decreto, si colloca in questo filone.
Il filone antisprechi
E’ stata cavalcata con nomine e contronomine la riduzione della spesa pubblica ed enti locali e sanità sono stati additati come i responsabili da dare in pasto all’opinione pubblica. Conseguenze immediate: gli enti locali deperiscono e tassano di più i cittadini. Conseguenze future: alcune analisi saranno rese più difficili a meno di non pagarsele, chi può.
Il filone distributivo
Casta, privilegi, burocrazia, sprechi: fin qui niente di diverso dagli altri populismi. Ma trattandosi di neopopulismo di governo si sono potuti attivare anche altri canali.
Uno in chiave compensativa nella scuola: a condizione che accettassero sedi lontane e la nuova organizzazione si è offerta la sistemazione a una parte dei precari.
Altri in chiave distributiva: gli 80 euro, i consistenti finanziamenti alle imprese che trasformano i precari in stabili per tre anni e adesso la promessa di detassare le prime case rientrano in questo filone. Giocati al momento opportuno per far passare provvedimenti indigesti e soprattutto nei tempi giusti, essi costituiscono l’altra faccia delle politiche renziane.
Naturalmente non si tratta di una redistribuzione volta a ridurre le disuguaglianze: se gli 80 euro sono andati ai redditi medio bassi, gli incentivi sono andati alle imprese e la detassazione della casa favorirà i ricchi. Gli effetti economici concreti saranno difficili da calcolare, ma i consensi elettorali facili da raccogliere.
Da questa schematica rivisitazione delle politiche del governo emerge una strategia che ha una sua organicità e che risponde a una visione.
In queste condizioni ambientali stiamo svolgendo un dibattito ampio sulla sinistra e sul suo futuro.
In presenza di due populismi di opposizione e di uno di governo il compito non è affatto facile. E forte può essere la tentazione di importare le piante che crescono in altri paesi, o provare a ripiantare i semi originari.
Ma se questa è la situazione occorre ben altro. Dovremo scavare in profondità, arrivare alla sorgente, rigenerare il terreno, creare le condizioni perché nuove piante attecchiscano e crescano.
E’ probabile che incassate le riforme la prima fase analizzata si chiuda e se ne apra un’altra.
Essa dovrà fare i conti con una ripresa tanto strombazzata quanto inferiore a quella, pur fragile, dell’Europa. I problemi finanziari ed economici non potranno sempre essere rinviati e molto dipenderà dalla capacità di sinistre e sindacati di rimetterli al centro dell’agenda politica.
Se posso permettermi una sollecitazione forse, dopo questa prima fase del nostro dibattito, dovremmo avviarne un’altra.
Potremo seguire anche noi un filone referendario per tentare di cancellare alcune leggi e dovremmo farlo insieme, convincendo e costruendo unità e consensi.
Ma non possiamo limitarci a questo. Penso che dovremmo aprire una nuova fase di discussione incentrata fortemente sui contenuti, per mettere a punto un preciso programma di governo rivolto a quella parte ampia della popolazione che sta pagando il prezzo della crisi e soprattutto alle nuove generazioni.
Qui forse abbiamo qualcosa da riprendere da quanto si muove in Spagna, in Grecia, in Gran Bretagna: in questi paesi le forze di sinistra sono impegnate ad affrontare il problema del governare e di come gestire da sinistra una fuoriuscita dalle politiche di austerità.
Questo sì che sarebbe un metodo di lavoro da importare per dare un nostro contributo ad una battaglia che non può che essere europea.
IN ITALIA
Renzismo e berlusconismo
La vera “riforma epocale”
di MICHELE DI SCHIENA*
Gli sviluppi della politica italiana dimostrano come il renzismo non sia altro che la riedizione, rinfrescata e emendata da certi eccessi, del berlusconismo dal quale ha mutuato anche quel modus operandi fatto di annunci spettacolari che puntano tutto sul futuro per distogliere l’attenzione dal presente, di allettanti promesse e di un ostentato ottimismo che non è “ottimismo della ragione” e neppure “della volontà”, ma lo strumento di una spiccata abilità comunicativa inteso ad alimentare una perenne “fata morgana”.
Il patto del Nazareno è quindi destinato a sopravvivere a tutte le sue morti apparenti perché Renzi non ha in alcun modo “cambiato verso” alla politica del nostro Paese ma sta facendo il “verso” dell’ex Cavaliere con le sue riforme istituzionali ed elettorali che rischiano di alterare i connotati della nostra democrazia, con una politica in materia di lavoro (Jobs act e art. 18) che precarizza ulteriormente il lavoro stesso senza promuovere una vera lotta alla disoccupazione, con la nuova legge sulla scuola che accresce a dismisura i poteri dei vertici dirigenziali e riduce quello degli organi collegiali e con le riforme della Rai e della PA anch’esse guidate dall’idea che occorre accentrare le funzioni di comando a scapito delle forme di partecipazione di base.
In linea con il berlusconismo si palesa anche l’inadeguatezza della lotta alla corruzione e all’evasione fiscale; talune scelte rivelatrici dell’insofferenza al controllo di legalità della Magistratura e certi ricorrenti tentativi di mettere a freno il controllo sociale dei sindacati e quello democratico
degli organi di informazione. Per non parlare poi del grande annuncio della riduzione delle tasse, la cui compatibilità con le disponibilità finanziarie e i vincoli di bilancio è tutta da verificare, mentre il Senato ha già approvato pesanti tagli della spesa sanitaria tali da mettere a rischio ricoveri ospedalieri ed esami strumentali necessari con un grave ridimensionamento della prevenzione. E ciò mentre nulla si muove per la lotta alla povertà. Né può sfuggire che le affinità tra l’ex Cavaliere e Renzi investono anche la politica estera: in Europa la supina giocosità berlusconiana ha ceduto il posto alla non meno accondiscendente seriosità renziana baldanzosa solo a uso interno.
Renzismo e berlusconismo sono quindi due facce della stessa medaglia ma il fatto è che le maggiori forze di opposizione non si dimostrano in grado di elaborare credibili progetti alternativi improntati a criteri di giustizia e di equità: una considerazione che nulla toglie ai meriti di alcune battaglie del movimento pentastellato centrate su problemi specifici e scandalose vicende.
Le sensibilità alternative al patto del Nazareno (che Berlusconi sembra intenzionato a risuscitare anche formalmente in vista dell’ipotizzato Partito della Nazione) premono indubbiamente a sinistra dentro e fuori il Pd ma non sembrano in grado di svolgere un ruolo di rilievo nell’interesse dei ceti sociali più deboli e soprattutto della nostra zoppa democrazia che rischia di languire nell’angosciante recinto degli equilibri consolidati e degli squilibri accettati. Occorre quindi il risveglio di una sinistra che, ispirandosi alla cultura socialista e al solidarismo cristiano, ponga al primo posto, nella politica economica, non la generica “crescita” ma una lotta senza quartiere alle inaccettabili disuguaglianze sociali.
Ma occorre che facciano la loro parte anche le forze di tradizione illuminista e di cultura liberal-progressista che nei momenti difficili hanno sempre contribuito al rilancio della democrazia.
È necessario insomma il concorso di tutte quelle espressioni politiche e di quei movimenti che si riconoscono, per dirla con il grande giornalista Jan Daniel, nei valori universali che sono «il dato comune tra la saggezza greca, la cultura romana, il messaggio dei 10 comandamenti, il sermone della montagna, l’eredità delle rivoluzioni americana e francese, la morale universale di Kant, la dichiarazione dei diritti dell’Uomo e la Carta delle Nazioni Unite». E, non ultima, l’esortazione del papa che nell’Evangelii Gaudium denuncia le iniquità del modello economico dominante e della cultura dello «scarto» che lo sostiene affermando che non si tratta più del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione ma di qualcosa di nuovo, perché con l’esclusione resta colpita l’appartenenza alla società in cui si vive.
Abbiamo quindi un inestimabile patrimonio di valori che hanno anche ispirato e dato corpo alla nostra Costituzione la quale ha saputo tradurli in istituzioni democratiche, modelli di comportamento, direttive politiche e precetti volti a fare del nostro Paese una “grande potenza” di solidarietà, di giustizia e di pace. Un tesoro di saggezza al quale si fa riferimento solo in occasione di talune ricorrenze o per sostenere questa o quella tesi ovvero questa o quella polemica senza mai ricorrere ad esso per farne la stella polare di progetti il cui metodo sia la partecipazione democratica e gli obiettivi la tutela della dignità della persona, la promozione del diritto al lavoro e una economia indirizzata a fini sociali.
* Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione
* Adista/Segni nuovi, 12 SETTEMBRE 2015 • N. 30
Basilicata tra le Regioni più povere d’Italia. Il petrolio arricchisce solo gli altri
di Maria Rita D’Orsogna
Fisico, docente universitario, attivista ambientale *
Come sempre, i numeri non possono mentire. Il rapporto Istat sulla povertà in Italia, pubblicato il 15 luglio 2015 con i dati relativi al 2014, vede in cima alla lista la Calabria con il 26,9% delle famiglie in stato di povertà. Seguono la Basilicata con l’indice di povertà familiare al 25,5% e la Sicilia al 25,2%.
Ma come può essere? La Basilicata, la regione petrolizzata per antonomasia da quasi venti anni, è una delle più povere d’Italia? Ma, non doveva il petrolio portare ricchezza e benessere e sviluppo? E dove sono andati a finire?
Analizzando tutte le annate messe in rete dall’Istat dal 2003 al 2014, viene fuori che ad eccetto che nel 2012, la Basilicata è sempre stata fra le prime tre regioni più povere d’Italia, alternandosi con Sicilia e Calabria. In più tranne che nel 2011, la Basilicata è sempre stata più povera della media delle altre regioni del sud Italia. Per la serie: il petrolio porta ricchezza agli altri.
Nel 2010 addirittura, la Caritas, nel suo rapporto “Povertà ed esclusione” scriveva: “La situazione appare particolarmente negativa in Basilicata”. Segno che il più grande giacimento petrolifero d’Europa tutta questa ricchezza non l’ha portata e non la porterà.
E così, nonostante le trivelle abbiano ingoiato buona parte del territorio lucano, nonostante le roboanti promesse di royalties, progesso e sviluppo che l’Istituto Luce non potrebbe far meglio, nonostante addirittura la scuola del petrolio Assoil - “Advanced Skills for Services in Oil and Gas” - un quarto dei lucani vive in povertà. Secondo l’Istat e non secondo la D’Orsogna. Ecco qui, tutti i dati dai rapporti Istat online dal 2003 ad oggi. Il numero in parentesi indica il posto nella classifica delle regioni.
2003: Basilicata (1): 25.6% - Sud-Italia: 21.6%
2004: Basilicata (2): 28.5% - Sud-Italia: 25.0%
2005: Basilicata (3): 24.5% - Sud-Italia: 24.0%
2006: Basilicata (3): 23.0% - Sud-Italia: 22.6%
2007: Basilicata (2): 26.3% - Sud-Italia: 22.5%
2008: Basilicata (1): 28.8% - Sud Italia: 23.8%
2009: Basilicata (2): 25.1% - Sud-Italia: 22.7%
2010: Basilicata (1): 28.3% - Sud-Italia: 23.0%
2011: Basilicata (3): 23.3% - Sud-Italia: 23.3%
2012: Basilicata (5): 24.5% - Sud Italia: 26.2%
2013: Basilicata (2): 24.3% - Sud-Italia: 21.4%
2014: Basilicata (2): 25.5% - Sud Italia: 21.1%
La media nazionale è del 10,3% di famiglie in povertà. In Basilicata siamo a più del doppio. Proprio il Texas d’Italia.
Chissà se il governatore Marcello Pittella voglia prendere atto di questi dati, chiedere scusa e chiedersi se continuare a fare buchi, centro oli, oleodotti e raddoppi sia proprio la cosa saggia per la sua gente. Ammesso che gli interessi la sua gente.
Qui Assoil, la scuola del petrolio, per addolcire la pillola ai lucani
*
di Maria Rita D’Orsogna (Il Fatto, 16 luglio 2015 - ripresa parziale)
Il messaggio del regista: torniamo all’essenziale, basta con gli inganni
Ermano Olmi e l’Expo: «Ci salverà il mondo contadino»
Dobbiamo proteggere le piante, dosare l’acqua, rispettare la terra. «Prima viene l’onestà di chi produce, poi c’è il mercato», dice leggendo l’Apocalisse
di Giangiacomo Schiavi *
Ermanno Olmi dice che l’unica speranza per il futuro è il ritorno alla terra. Ai contadini. Anche per questo ha difeso Expo quando tutti l’attaccavano. Il cibo, l’acqua, il rispetto della natura, l’onesta relazione tra chi produce e chi consuma sono l’occasione unica per un cambio di passo, forse un nuovo inizio, la capacità di dare senso a ciò che conta veramente separandolo dal superfluo, dall’inutile che condiziona la vita oggi.
L’esposizione di Milano è carica di significati simbolici ma anche di contraddizioni: si parla di valori e spuntano favori, appalti sporchi, collusioni. Olmi vorrebbe picchiare un pugno sul tavolo per scoraggiare ogni misero e spregevole interesse davanti a un tema così grande: nutrire il pianeta, lotta alle diseguaglianze, onesto utilizzo delle risorse. Nella sua casa di Asiago monta e rimonta il filmato che di Expo dovrà essere il filo conduttore, un vademecum anche morale per una società senza squilibri e ingiustizie alimentari. E si interroga su quello che il mondo si aspetta da noi, da Milano, dall’Italia, su quell’anima di Expo che si fatica ancora a trovare: «Siamo nella fase in cui dopo aver consultato le mappe si mollano gli ormeggi e bisogna avere una rotta. O sai dove andare o vai verso un dove in cui il dove non sai dov’è...».
La rotta di Olmi è chiara, nitida, anche se intorno c’è un grande buio: è la civiltà contadina che abbiamo perso, l’onesta relazione tra chi produce e chi consuma, la sacralità del cibo che non si deve alterare, perché da lì discende la correttezza dei nostri comportamenti, il rapporto di fiducia tra produttore e consumatore, l’equilibrio e l’armonia del creato. «La priorità dell’Expo deve essere la sincerità del prodotto», spiega il grande regista, «bisogna salvaguardare il rapporto naturale tra l’uomo e la terra e fare di questo la garanzia della qualità. Dobbiamo imparare dai contadini a proteggere le piante, a dosare l’acqua, a rispettare la terra per garantire un futuro a chi verrà dopo di noi». A Olmi non piace chi bara sulle risorse e specula sui prodotti, la fame e la malnutrizione sono questioni che l’Expo deve porre senza spot ingannevoli, «perché prima viene l’onestà di chi produce, poi c’è il mercato», dice mentre legge le parole dell’Apocalisse di San Giovanni («...Fuori i cani, gli impostori, gli immondi, i depravati, gli omicidi, gli idolatri e tutti coloro che praticano la menzogna...»).
Ad Asiago con la neve e il tempo che sembra immobile, Olmi dice che si ritrova l’esatto trascorrere del giorno e della notte e ogni alba porta una speranza. Si sente un profumo d’infanzia e di sogno nelle sue parole. «I bambini ci regalano le emozioni più belle davanti alla natura, ma purtroppo noi abbiamo sostituito lo spazio della loro fantasia con qualcosa di predefinito, di artificiale... Ma possiamo ancora riscattarci, tornando all’essenziale, a quel che vale veramente e rischiamo di perdere». È quasi un testamento spirituale il suo contributo alla discussione sulla Carta di Milano, un videoframmento di poche parole sussurrate e registrate in questi giorni di lunga convalescenza: «...Se potessi ricominciare da capo/cercherei di capire meglio gli animali/gli alberi/le stagioni/il giorno e la notte/perché gli uomini resteranno sempre un enigma...». La sacralità del cibo non si può indagare né definire, dice ancora Olmi, mentre sullo schermo appare una pagnotta, il pane di ieri che ci riporta a quel che bastava un tempo per sfamare, alla giusta misura che il mondo oggi non ha.
Ai protagonisti dei tavoli tematici di Expo che si ritrovano il 7 febbraio a Milano ricorda che non è ammesso l’inganno: «I posteri ci giudicheranno e vedranno quel poco di buono o meno buono che abbiamo fatto, ma non ci perdoneranno di non aver fatto quello che potevamo fare». Al premier Renzi («che ha dei meriti ma a volte non lo vedi più, era qui e adesso dove va?...») suggerisce di insistere con la scuola, pietra angolare di tutto: «È lì che si formano gli uomini, che si diventa compratori consapevoli». E al commissario Sala («che stimo perché tiene il timone dritto con coraggio») offre leale collaborazione, mettendolo in guardia dalle derive, che sono business, predazioni ed egoismi.
Credibilità è una parola che Olmi usa spesso per Expo, credibilità, qualità e contagio dell’esempio, insieme ai valori calpestati della condivisione e della saggezza, possono fare miracoli. Se poi si mette anche papa Francesco dalla sua parte, c’è un motivo in più per avere fiducia nella battaglia per ridurre le disparità e le ingiustizie legate all’alimentazione: «Per me lo sviluppo è quando tutti ricevono quel che gli spetta, mentre spreco è quello che nasce dall’interesse di qualcuno a vendere di più». È difficile dire se la spinta di sognatori come lui accenderà qualche passione nuova attorno a un evento che è apparso troppo a lungo freddo e lontano dai cittadini, ma certamente se Expo deve avere un’anima non può che essere quella indicata da Olmi e Carlin Petrini, l’ideatore di Slow food: l’anima calda della creatività, del vivere solidale, del buon uso delle risorse, l’anima dei contadini, degli artigiani, di chi tiene viva la creazione e rispetta la natura. Possono farcela l’Expo, Milano e l’Italia a determinare un cambiamento in questa direzione? Olmi concede un credito: «Nonostante i nostri difetti e i nostri inganni io non ho perso la speranza: sarà la terra a salvarci».
*
Carlo Levi e i nemici che non l’hanno letto
di Giovanni Caserta (HB HYPERBROS, lunedì, 15 luglio, 2013)
Carlo Levidi Giovanni Caserta - Parlare di Carlo Levi senza averlo letto o avendone letto solo una parte, come qualcuno confessa, è da imprudenti; ma demolirlo, credendo di averlo capito senza averlo letto, è da temerari. E’ quello che si è potuto constatare in alcuni interventi recenti, fermi alla convinzione che Carlo Levi abbia dato della Lucania una immagine avvilente, cioè di terra immobile e sonnacchiosa, passiva e senz’anima.
A suo tempo contro Levi si mossero i “luigini” alianesi e lucani, benpensanti, feriti nella loro presuntuosa vanità, che di fatto si traduceva in disprezzo per i contadini, i quali, anche per questo, amavano Levi. Se ne risentirono alcuni “compagni” comunisti di quegli anni, che poi avrebbero avuto Carlo Levi nelle loro file, perché, secondo loro - vedi Alicata, e in parte anche Muscetta e Asor Rosa, - Carlo Levi avrebbe visto la salvezza della Lucania nella immutabilità della condizione contadina, cioè nell’isolamento, quasi che intorno alla regione egli volesse erigere una barriera da riserva indiana, che ne avrebbe impedito qualunque contaminazione.
Al massimo gli si concedeva un po’ di populismo. Naturalmente, paradossalmente, ci furono anche di quelli che querelarono Levi, ritrovandosi in alcuni personaggi esposti al ridicolo e alla denunzia. E’ poi accaduto, nei decenni successivi, un po’ ciclicamente, che, secredenti intellettuali, scrittori e poeti in particolare, ansiosi dei liberarsi del padre, pensarono di ammazzarlo. E’ quanto mi sembra stia accadendo in questi giorni.
Tra le accuse che gli si muovono, sempre non nuove, non è la faziosità, che per un intellettuale è sempre un vanto, avendo egli il diritto e il dovere della faziosità. Lo si accusa, invece, di superficialità, genericità e falso. Di fatto, Carlo Levi avrebbe rappresentato una Lucania immaginaria, assai di maniera, colorita, ma pur sempre falsa. Insomma, la sua sarebbe una Lucania fatta a propria immagine e somiglianza. Il che è vero; ma in tutt’altro senso. Lo si capirà, purché si abbia la pazienza di fermarsi a considerare chi era Levi, quali erano i suoi studi e qual era il suo pensiero, prima filosofico, poi politico e poi di poetica. Agli ultimi epigoni dell’antilevismo, di fatto, desiderosi di apparire diversi e coraggiosi, da cui non è assente una ovvia malattia di protagonismo, sfuggono alcuni dati essenziali.
Sfugge che, tra la Lucania di Carlo Levi e la Basilicata di “rimborsopoli” e dei “basilischi”, passano quasi ottant’anni, che sono quasi un secolo. Sfugge che la Lucania, descritta da Carlo Levi nel 1935-36, era la Lucania vera conosciuta da Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti, da Tommaso Claps e Carolina Rispoli, da Giovanni Russo e dai numerosi viaggiatori italiani e stranieri a cavallo della seconda guerra mondiale (quali Friedmann, Tentori, Norman Douglas, Peck, Banfield, Olivetti, ecc. ecc.). Era, peraltro, la stessa Lucania del sempre decantato Leonardo Sinisgalli e, naturalmente, di Rocco Scotellaro. Ma sfuggono soprattutto il pensiero e la personalità di Carlo Levi, rispetto al quale, tra gli scrittori, pittori e poeti venuti dopo, nessuno potrebbe stargli a confronto.
Si ignora, innanzitutto, che Carlo Levi, non partiva col “Cristo si è fermato a Eboli”, che, invece, era preceduto da un lungo processo culturale, artistico, politico e civile, avviato in famiglia e continuato nell’ambiente illuminato, se non illuminista, di Torino, tra artisti, socialisti alla Claudio Treves, comunisti alla Gramsci, liberal-democatici quali furono i fratelli Rosselli, e, soprattutto, Piero Gobetti; sfugge che egli visse a contatto col comitato di redazione della rivista “Rivoluzione liberale” e col movimento di “Giustizia e libertà”; si ignora, anche, che, tra le letture e le meditazioni di Carlo Levi, c’erano Spinoza e Cartesio, Croce e Vico, Gioberti e Rosmini, Bergson e Schelling, Freud e Jung, la dottrina cattolica e quella ebraica... I suoi detrattori di oggi, infine, come spesso quelli di ieri, ignorano un libro fondamentale quanto difficile, qual è “Paura della libertà” (1939), in cui si gettano le basi di un pensiero filosofico, che si può anche condividere e non condividere, ma che è premessa ad una vita vissuta coraggiosamente, in difesa sempre della libertà e della giustizia, della giustizia e della libertà, e quindi, degli innocenti umiliati e offesi, dovunque esistessero, in Lucania, come in Vietnam, negli Stati Uniti come in India o in Sudafrica. E gli innocenti, buoni, sono, per antonomasia, i contadini, che si badi bene, non è detto siano necessariamente gli zappaterra ignoranti e analfabeti.
“Contadini”, infatti, sono tutti i “buoni” che hanno fatto una scelta di vita per la giustizia e la libertà. “Contadini”, perciò, furono e sono, Gramsci e Amendola, Pertini e Nenni, Gandhi e Maria Teresa di Calcutta, Martin Luther King e, oggi, papa Francesco Bergoglio, che ha avuto il coraggio di andare a Lampedusa e non ha esitato a stendere la sua mano ai derelitti della ingiustizia e della non libertà. Insomma, in “Paura della libertà”, condannando la paura della libertà, radice del fascismo e del nazismo (oltre che del franchismo), Carlo Levi proponeva a tutti, e soprattutto agli intellettuali, il “coraggio” della libertà
Sarebbe perciò il caso che i moderni nemici di Levi leggano della concezione che della storia egli ebbe, vista come frutto dell’incontro-scontro dialettico tra lo Jin e lo Jen, tra la massa indifferenziata, fondo di bontà naturale di tipo rousseauviano e di ascendenza ebraica, e l’individualismo sfrenato della civiltà borghese, ovverosia “luigina”. Si apprenderebbe che le due forze agenti nella storia, in sé considerate, sono condannate e condannabili, perché ambedue portatrici della dittatura la prima, dell’anarchia la seconda, che altro non sono se non due estremi che si toccano. Per entrare nello specifico della Lucania storica, nei contadini lucani Levi leggeva la bontà naturale o massa, che chiedeva fosse salvata sotto qualunque forma di civiltà, perché, qualora questa fosse privata dalla “substantia” contadina, sarebbe barbarie anche nell’epoca della più alta civiltà tecnologica. Per dirla in altre parole, nella Lucania degli anni 1935-36, c’era massa indifferenziata, cioè l’umanità allo stato di natura, ma mancava l’individuo-uomo, a vantaggio, purtroppo, dell’individualismo o egoismo, rappresentato dai “luigini” (medicaciucci, avvocaticchi e podestà che fossero).
Come dovrebbero sapere i recenti detrattori, Carlo Levi ebbe sempre a ripetere che la “Lucania è in ognuno di noi”, e andrebbe difesa, dovunque essa sia. Si vuol dire che essa non solo non va esclusa dalla storia, come, purtroppo spesso è accaduto, ma va portata e travasata nella storia, a lievito della stessa. A Matera, nel 1967, commemorando Gramsci, e rispondendo idealmente a quanti lo avevano accusato di aver teorizzato l’immobilismo e l’isolamento lucano, gridò: “Se abbiamo narrato quel mondo immobile, era perché si muovesse”. Il “Cristo si è fermato a Eboli”, di fatto, nelle intenzioni di Levi, ebbe il suo seguito nel romanzo-cronaca “Le parole sono pietre”, in cui il mondo siciliano trovava nel Partito Comunista il suo intellettuale organico e nel sindacalista Salvatore Cardinale, ucciso dalla mafia, il martire che ogni religione richiede.
Suo obiettivo finale, in definitiva, era quello di un mondo in cui, sia pure in forme necessariamente diverse, trovassero il giusto equilibrio la massa e l’individuo, la legge e la libertà, il passato e il futuro. Come ebbe felicemente a precisare, con espressione che sarebbe rimasta proverbiale, suo obiettivo fu quello di costruire un “futuro dal cuore antico” (titolo di altro suo romanzo-cronaca), quale gli parve si fosse realizzato in Unione Sovietica, dove era avvenuta la “rivoluzione nella tradizione”, ovvero la “rivoluzione del sentimento”. In altre parole, si trattava di costruire un mondo in cui il singolo mai dimenticasse di appartenere agli altri, in un clima di generosa fratellanza, amore e solidarietà. Era una prospettiva che echeggiava l’attesa messianica dell’ebraismo e, contemporaneamente, il mito del socialismo, “sole dell’avvenire”. Non è meraviglia, perciò, che, precorrendo tutti i tempi, durante un viaggio nella Germania divisa, egli, pur vicino al PCI e poi indipendente nelle sue liste, sentisse la anomalia ed enormità di quella divisione, che era come voler dividere le pecore di uno stesso gregge. Di qui il suo invito alla riunificazione tedesca. Nacque così il libro-cronaca “La doppia notte dei tigli”(1959), ove si auspicava che la unione avvenisse nel giusto equilibrio tra la Germania socialista e quella liberal-capitalista.
Se, dunque, si segue o si è ben seguito il senso del discorso fin qui fatto, necessariamente sintetico, si capisce anche perché Carlo Levi, definitosi “uomo che dipinge e scrive” fu per un’arte “invenzione”, e non fantastica, cioè di rinvenimento e scoperta della verità e della giustizia, pedagogica in senso lato, così come, nella pittura, fu per la figura. E si capisce perché definì sé stesso esponente dell’arte ”contadina”, contrapposta all’arte “luigina”, che, non essendo “umana”, è falsa, cioè non arte. “Contadino” era infatti una metafora, come lo era la Lucania, “anima mundi”. Ed è notevole il fatto che, schierato sempre per gli oppressi e con i paria di tutto il mondo, fallita la rivoluzione meridionale da lui auspicata sulle orme di Gobetti e di Guido Dorso, quando si avviò l’emigrazione di massa, vero e proprio esodo, fu allora che Levi, nel 1967, fondò la FILEF (Federazione Italiana Lavoratori Emigrati e Famiglie”), avendo a fianco a sé, oltre che Giorgio Amendola, anche il generoso Paolo Cinanni, calabrese emigrato a Torino, alunno di Cesare Pavese e partigiano.
Così coerente col suo concetto di vita, etica e storia, a dispetto dei suoi errori di valutazione che pure compì (circa, per esempio, il “comune rurale autonomo”, il PCI e l’Unione Sovietica), anche oggi Carlo Levi saprebbe con chi stare. Starebbe là dove sta papa Francesco. Lo si dice, naturalmente, per esemplificazione, non per ostentazione. Quanto agli intellettuali lucani che oggi vorrebbero ucciderlo, raccomanderebbe di essere “contadini” e non “luigini”. Oggi, del resto, per loro è molto più facile di quanto lo fosse per Levi. Sicuramente non rischierebbero né la prigione né il confino; al massimo avrebbero qualche premio in meno, qualche recensione osannante in meno, o, in meno, qualche invito a sedere al fianco del presidente del Consiglio o della Giunta regionale, peraltro di Basilicata, e non di Lucania.
RISCOPERTE
Aliano, spunta un inedito di Levi
Dalla famiglia Saba passa al Comune
Raffaella Acetoso, a cui Linuccia Saba (figlia del grande poeta Umberto e per oltre 30 anni compagna di Levi) ha affidato la preziosa eredità dell’archivio dell’intellettuale torinese, ha ceduto al Comune di Aliano la copia originale in suo possesso di “Paura della libertà” e i relativi diritti d’autore
di MARGHERITA AGATA *
PRIMA delle cartoline “coast to coast” di Rocco Papaleo, dalla Basilicata ci sono arrivate quelle di una terra senza dolcezza di Carlo Levi, scrittore e pittore torinese che, per aver svolto attività antifascista, nel 1935 fu confinato in Lucania. Ma è proprio nelle condizioni più difficili che nascono gli amori più grandi, come fu quello di Levi verso Aliano. Un amore profondo e ricambiato, al punto che il piccolo centro, adagiato tra i calanchi, ha deciso di far suo il manoscritto di “Paura della libertà”, la prima opera dell’intellettuale torinese, scritta nel 1939 e pubblicata nel gennaio del 1946, per curarne la ristampa anastatica. Il volume, in fase di editing, sarà pubblicato a novembre con il contributo decisivo della Regione Basilicata. «Solo con i nostri mezzi - spiega il sindaco di Aliano Luigi De Lorenzo - l’impresa non sarebbe stata possibile».
Ma un mezzo miracolo il Comune del materano che ha legato il suo nome indissolubilmente a quello dell’autore del “Cristo si è fermato a Eboli”, lo ha già compiuto convincendo a cedere ad Aliano la copia originale in suo possesso dello scritto e i relativi diritti d’autore, Raffaella Acetoso, a cui Linuccia Saba (figlia del grande poeta Umberto e per oltre 30 anni compagna di Levi) ha affidato la preziosa eredità dell’archivio dell’intellettuale torinese.
L’adesione al progetto di recupero della prima pubblicazione di Carlo Levi, portato avanti dal Comune e dal Parco Letterario di Aliano, da parte di Raffaella Acetoso è stata immediata e totale, tanto che l’erede universale dell’immenso patrimonio letterario e artistico di Levi ha voluto curare personalmente la prefazione alla ristampa anastatica del prezioso saggio leviano che è un invito al coraggio della libertà e una ferma condanna verso ogni forma di totalitarismo o dittatura.
Quello di Raffaella Acetoso è un atto d’amore verso Levi ma ancora di più verso Aliano.
«Quando visitai per la prima volta la terra che accolse Carlo Levi nel suo confino- scrive nella prefazione a “Paura della libertà”- con lo stupore di un adolescente, rimasi colpita dalla bellezza e dal fascino di una natura selvaggia in netto contrasto dalla riservata gentilezza della sua gente. Il riproporre questo testo in copia anastatica è perché il binomio coraggio e libertà furono per Levi convincimento di vita. (...) Desidero portare la mia testimonianza con grande umiltà. Il mio vuol essere il ricordo di chi ha avuto la fortuna di vivere in quella che fu la sua ultima casa vicina al cielo: lettere, odori, oggetti che furono suoi. La casa dove si accavallavano le voci, le mille voci del novecento, l’ odore del sigaro, l’odore delle vernici e dei pennelli mescolati al suo profumo.(...) Questo il mio ringraziamento alla terra lucana e alla sua gente per l’amore che seppero donargli e che ancora generosamente gli tributano».
Il più bel riconoscimento alla terra che Carlo Levi, dopo l’esperienza del confino, ha scelto come sua ultima casa da uomo libero.
La rievocazione di Giovanni Russo.
L’avversarono crociani e comunisti
di Nello Ajello [2001]*
Un omaggio rivolto a un amico di anni lontani. E’ questo, in primo luogo, la Lettera a Carlo Levi che Giovanni Russo ha appena pubblicato presso gli Editori Riuniti (pagg. 102, lire 18.000). L’ autore di Cristo si è fermato a Eboli diventa, per Russo, una sorta di testimone autobiografico, quasi una metafora della gioventù. S’ affacciano nel libro tanti luoghi deputati del dopoguerra italiano (e soprattutto romano) che evocano la presenza di Carlo Levi, tante persone che il mittente della Lettera ha conosciuto per suo tramite: da Giulio Einaudi a Italo Calvino, da Natalia Ginzburg a Linuccia Saba (e a suo padre, Umberto), da Cesare Pavese ad Anna Magnani. L’ abitazione romana di Levi in palazzo Altieri e i «rifugi» di villa StrohlFern e poi di via del Vantaggio, dove egli collocò nel tempo il suo studio di pittore, erano sempre aperti ai visitatori. Russo li rivede, su quello sfondo di lieve elegia che assumono i ricordi.
Ma la Lettera a Carlo Levi non è soltanto questo. Vi si rivendica un’ intera eredità di pensiero. Si mira a sottrarre il «levismo» - cioè una interpretazione eterodossa della questione meridionale - all’ incomprensione di cui in origine soffrì, e che ancora oggi potrebbe appannarne il valore.
L’ autore difende Levi dalle accuse sia dei comunisti, sia di quei «crociani» che vedevano nell’ apoteosi della civiltà contadina del Sud il pretesto per diffondere una favola estetizzante e un po’ narcisistica. Per Russo, nella personalità di Levi il poeta e il riformatore convergono. Intuizione artistica e impegno politico coincidono. Quel letterato-pittore appartiene in pieno alla tradizione liberale. Ha letto Salvemini, Fortunato, Gramsci, Nitti, Gobetti.
E’ «molto concreto», scrive l’ amico biografo, «e, se così si può dire, molto torinese». Opponendo il mondo contadino alla mentalità «piccolo-borghese dei proprietari e dei galantuomini» egli ha creato, più che una mitologia, una scuola: il nome di Rocco Scotellaro - il giovane sindaco socialista di Tricarico, poeta, antropologo e narratore del Sud che fu molto caro a uno studioso di economia agraria del rango di Manlio Rossi Doria - s’ intreccia, in queste pagine, a quello di Carlo Levi. L’ ideale di un’ autonomia della civiltà contadina, che si esprime nel «borgo», presentava dei punti di contatto non illusori con la dottrina comunitaria di un Adriano Olivetti.
Lo scetticismo che lo scrittore torinese opponeva a ogni soluzione tecnico-economica dei problemi del Sud parve a suo tempo rientrare in un’ utopia letteraria, sia pure nobile e suggestiva. In parte almeno, quell’ impressione rimane. Ma oggi che il meridionalismo è in coma (e i passati interventi di industrializzazione del Sud assumono, quale più, quale meno, il sapore d’ una scommessa perduta), la passione con la quale Giovanni Russo racconta il "suo" Carlo Levi non corre certo il rischio di sembrare eccessiva.
Nello Ajello
* Fonte: la Repubblica, 02 marzo 2001
Torino 1934, gli ebrei antifascisti nella grande retata
Ottant’anni fa Leone Ginzburg, Carlo Levi e altri dodici catturati dall’Ovra: l’operazione mise in ginocchio GL
di Chiara Colombini (La Stampa, 09.12.2014)
Ponte Tresa, 11 marzo 1934. Alla frontiera con la Svizzera si ferma un’auto per il controllo di routine. Alla guida è Sion Segre Amar, studente universitario; accanto a lui Mario Levi, dirigente della Olivetti. Sono stati a Lugano per conto del movimento antifascista Giustizia e Libertà. I finanzieri in servizio pensano di avere intercettato dei contrabbandieri e li perquisiscono. Addosso a Levi viene trovata una copia del settimanale della Concentrazione antifascista, La libertà, e copie di volantini che incitano a votare no alle elezioni del 25 marzo (è un plebiscito, si può solo accettare con un sì o respingere con un no la lista presentata). Nell’auto si trovano copie dei Quaderni di Giustizia e Libertà, la rivista che il movimento stampa dal gennaio 1932. Nel tragitto verso il commissariato di polizia del confine, Levi si getta nel Tresa e nuota verso l’altra sponda del lago di Lugano. La Guardia federale svizzera lo trae in salvo. Segre è fermato e trasferito alla Questura di Varese, dove viene malmenato.
Nei giorni successivi cominciano gli arresti, poi confermati per 14 persone: Leone Ginzburg, Carlo Levi e suo fratello Riccardo, Gino e Giuseppe Levi (fratello e padre di Mario), Barbara Allason, Carlo Mussa Ivaldi, Giovanni Guaita, Giuliana Segre, Marco Segre, Attilio Segre, Cesare Colombo, Leo Levi, Camillo Pasquali. Non tutti sono militanti di GL, e non tutti avranno la stessa sorte giudiziaria. A quell’episodio di 80 anni fa è dedicato l’incontro che si terrà questa sera alla Comunità ebraica di Torino.
La rete torinese del movimento è stata lacerata una prima volta tra il dicembre 1931 e il gennaio 1932. È stato Ginzburg, con Carlo Levi, a ritessere la tela. All’inizio del 1932 Ginzburg si è recato a Parigi e ha preso contatto con Carlo Rosselli e il gruppo dirigente di GL. Di origine russa, Ginzburg ha ottenuto la cittadinanza italiana nell’ottobre del 1931: da sempre antifascista, ha aspettato questo momento per passare all’azione, per affermare un’idea di patria alternativa a quella fascista. Nasce una rete clandestina che pesca in ambienti non coincidenti ma con molti punti di intersezione, che hanno a che fare con rapporti di amicizia, di parentela, con affinità culturali e sociali: il liceo D’Azeglio in cui cresce una generazione di antifascisti; il salotto di Barbara Allason che ospita serate di discussioni culturali e cospirazione; la cerchia di intellettuali da cui poco più tardi nascerà la casa editrice Einaudi; la Olivetti di Ivrea. E c’è l’origine ebraica di un buon numero dei giellisti torinesi, la quasi totalità se si guarda agli arrestati del 1934.
Su questo elemento si scatena la speculazione. Riprendendo il comunicato Stefani, i giornali raccontano che Levi, una volta in salvo, ha gridato: «Cani italiani! Vigliacchi!». Non è vero. Urla, sì, però dice: «Viva la libertà! Abbasso il fascismo!». Ma quel «cani italiani» è funzionale a presentare gli arrestati come antifascisti perché antitaliani, e antitaliani perché ebrei. In realtà, come ha osservato Alberto Cavaglion, nel rapporto tra antifascismo ed ebraismo in quella fase era il primo a prevalere: «Prima di tutto si era antifascisti, il “problema dell’appartenenza” passava in secondo piano».
Lo smantellamento della rete torinese è un duro colpo per GL. In quel momento è pressoché l’unico nucleo del movimento attivo in Italia, capace per di più di dare un contributo fondamentale di idee: prima degli arresti del 1934 scrivono sui Quaderni Ginzburg, Carlo Levi, Vittorio Foa, Renzo e Michele Giua, Riccardo Levi, Mario Levi, Sion Segre, Augusto Monti.
Paradossalmente, l’incidente di Ponte Tresa è una bella seccatura anche per la polizia. Da mesi ha arruolato come spia l’ingegnere francese René Odin che, millantando la necessità di viaggi commerciali in Italia, appare perfetto al centro parigino di GL per tenere i collegamenti con i militanti interni. Il fermo alla frontiera costringe ad anticipare gli arresti, mentre la polizia avrebbe voluto attendere per individuare il numero maggiore possibile di cospiratori. Inoltre, agli arrestati non si può chiedere conto di quanto si è scoperto su di loro attraverso Odin, con il rischio di «bruciarlo».
Le ammissioni che la polizia riesce a strappare non sono che uno specchio deformante, confermano cose che gli inquirenti già sanno. Saranno deferiti al Tribunale speciale soltanto Sion Segre e Leone Ginzburg, condannati rispettivamente a 3 e 4 anni di detenzione (poi ridotti grazie a due anni di condono). Giungeranno 5 assegnazioni al confino per Guaita, Mussa Ivaldi, Cesare Colombo, Attilio e Marco Segre. Saranno i militanti già attivi scampati alla polizia nel 1934, in primo luogo Vittorio Foa e Michele Giua, a ricostruire a Torino una nuova cospirazione di GL.
Renzi paga i conti con 4 miliardi destinati al Sud
3,5 coprono lo sgravio Irap, 500 milioni fanno contenta la Ue sul deficit
di Marco Palombi (il Fatto, 31.10.2014)
Ora che la manovra di Matteo Renzi è in Parlamento e comincia a essere analizzata nel dettaglio, si scoprono una serie di cosette non proprio commendevoli. Lo Svimez, per dire, ha appena parlato del deserto industriale e persino della natalità che è il volto della crisi nel Mezzogiorno e dalla legge di Stabilità viene fuori che il governo ha appena scippato al Sud 4 miliardi di euro per pagare i suoi conti: “Si rispettano le regole di bilancio Ue coi soldi del Mezzogiorno - ha dichiarato ieri Francesco Boccia, deputato Pd pugliese che siede nella non secondaria poltrona di presidente della commissione Bilancio - Dicevano che il Sud non avrebbe perso un euro, invece sono saltati 4 miliardi: difendo le misure redistributive con i denti, dalla diminuzione dell’Irap agli 80 euro, ma dobbiamo capire chi paga che cosa e come”.
ECCO, IL TAGLIO dell’Irap sulla componente lavoro - di cui beneficeranno per ovvie ragioni soprattutto le imprese del Centro-Nord - lo paga il Sud: 3,5 miliardi in tre anni, infatti, sono “distratti” proprio dai fondi destinati alle aree svantaggiate. Un altro mezzo miliardo, invece, servirà a placare la sete di austerità del commissario europeo Jyrki Katainen: fa parte di quei 4 miliardi e mezzo che dovranno portare il rapporto deficit-Pil al 2,6% dal 2,9 inizialmente previsto. Ancora Boccia: “Mi pare un’idea creativa, nella migliore delle ipotesi, della redistribuzione delle risorse necessarie al rilancio degli investimenti pubblici”. Tutto questo al netto della decisione di ridurre dal 50 al 25% la quota di cofinanziamento dello Stato rispetto ai fondi comunitari, che decurta a monte la cifra disponibile per il prossimo ciclo di programmazione. Curioso, infine, che in questo contesto si tenti di infilare nella manovra il contributo da 100 milioni per i lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo: la classica mancia per tenere sotto controllo i territori (meglio, la loro rabbia), che però è stata stralciata ieri alla Camera perché incompatibile con l’impostazione macro che dovrebbe avere una legge di Bilancio.
Oltre allo scippo, peraltro, bisogna registrare pure una sorta di beffa. Dai fondi europei 2007-2014, che vanno spesi entrol’anno prossimo, ai tempi dei governi Berlusconi-Monti si decise di dirottare la bellezza di 12 miliardi (su 60 totali programmati) verso una cosa chiamata “Piano di azione coesione”. L’idea era che, se regioni e enti locali erano troppo lente o incapaci di spendere bene i soldi, sarebbe stata l’amministrazione centrale ad aiutarli e indirizzarli. Ottima idea, ma i risultati sono pessimi: secondo la Ragioneria generale dello Stato, a oggi, di questi 12 miliardi sono stati effettivamente spesi solo 656 mila euro. È appena il caso di ricordare che negli ultimi due governi, compreso questo, la delega sulla materia è stata dell’attuale sottosegretario Graziano Delrio. Questo, però, non ha impedito la sottrazione di risorse. Torniamo al deputato pd Boccia: “La favola per la quale si dice che è colpa delle Regioni incapaci non regge più. Servono nomi e cognomi. Sanzioni e azioni conseguenti. Ma i soldi devono andare a quei territori. Qui utilizzando l’incapacità di alcune classi dirigenti, si nasconde la sottrazione di risorse al Sud”.
IERI, PERÒ, è stata anche la giornata in cui ha cominciato a scricchiolare una delle colonne propagandistiche che Renzi e il Pd (tranne rare eccezioni) hanno eretto a difesa della legge di Stabilità: questa manovra è espansiva, cioè dà ai cittadini più di quanto gli tolga (poi chi paga e chi prende, dentro il corpo sociale, è un’altra questione). Falso. Lo dice, con le cautele del caso, una fonte assai autorevole: Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una sorta di autorità di controllo sui conti pubblici. Così Pisauro, in audizione in commissione Bilancio, ha risposto a una domanda sul tema: “Dal punto di vista economico questa manovra è restrittiva perché migliora il saldo strutturale. Convenzionalmente stiamo ragionando rispetto al tendenziale e rispetto a quello è espansiva”. Tradotto: di fatto il deficit scende (dal 3 di quest’anno al 2,6% del 2015), quindi la manovra è recessiva; il governo parla di manovra espansiva rispetto agli impegni che aveva assunto Enrico Letta in Europa e confermati da Renzi in aprile (cioè un deficit-Pil al 2,2% l’anno prossimo). La verità, dunque, è che questa manovra è recessiva, ma meno di quanto avrebbe dovuto essere se avessimo dato retta a Bruxelles. Ricorda quella vecchia battuta su Achille Occhetto: “Lei non sa chi sarei stato io”.
1938 TORINO Ditta Umberto RENZI Chioschi latrine lavatoi *Opuscolo ILLUSTRATO
DATA: 1938
LUOGO: TORINO
TITOLO: UMBERTO RENZI - CHIOSCHI SMONTABILI IN PIETRA ARTIFICIALE E FERRO
DESCRIZIONE: Opuscolo pubblicitario d’epoca, con numerosissime illustrazioni nel testo raffiguranti chioschi, latrine e lavatoi.
PAGINE: 8
FORMATO: cm 17 x 24
CONDIZIONI: buone.
Documento d’epoca, originale, autentico.
Artista : -
Luogo di produzione : -
Datazione : 1938
Stato di conservazione : buono
Numero di pagine : -
Dimensioni : 17 x 24 cm
Il pagamento dell’oggetto andrà effettuato entro 7 (sette) giorni dall’aggiudicazione. Termini di pagamento più lunghi andranno concordati prima dell’acquisto.
Si accetta: Paypal, Vaglia Postale, Bonifico bancario.
Le spese di spedizione sono già comprensive dell’imballo (busta imbottita + bustina in plastica di protezione).
SPESE DI SPEDIZIONE:
Spedizione internazionale : 8.0 Euro
Posta raccomandata : 6.0 Euro
NOTA BENE:
In caso di spedizioni combinate per più oggetti, i costi di spedizione equivalgono al costo della spedizione per l’oggetto di maggiori dimensioni. Per ogni oggetto acquistato (in aggiunta al primo) non vi è nessun aggravio nelle spese di spedizione. In pratica, dal secondo oggetto in avanti, la spedizione è gratuita. In caso di spedizione per posta ordinaria l’oggetto viaggia a rischio dell’acquirente mentre in caso di spedizione per posta raccomandata l’oggetto viaggia a rischio del venditore.
Per qualsiasi acquisto vale la formula: "Soddisfatti o rimborsati". Qualora non siate soddisfatti dell’acquisto, rispediteci l’oggetto entro 10 giorni dal ricevimento e provvederemo al rimborso.
Visionate anche le altre inserzioni presenti nel nostro Negozio: trattiamo esclusivamente materiale originale e autentico. Tutto materiale di provenienza certa, verificata e verificabile.
Per ulteriori informazioni, ragguagli, suggerimenti, non esitate a contattarci (oggetto rif. C-139700 ).
Tutta la verità sul caso Piegari profeta gramsciano umiliato dal Pci
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 26.10.2014)
Nel suo gran libro, Mistero napoletano , Ermanno Rea l’aveva lasciata volutamente nella penna, almeno in parte, la tragica storia di Guido Piegari, uomo di genio, vittima dello stalinismo del Pci degli anni Cinquanta. Ai tempi di quel romanzo-verità pubblicato nel 1995, vincitore l’anno seguente del Premio Viareggio, allora sotto la guida di Cesare Garboli, Piegari era ancora vivo: morì nel 2007 e fu l’umana pietà, il rispetto del dolore, a trattenere lo scrittore dal raccontare compiutamente la vita di quell’uomo di alta qualità intellettuale umiliato e offeso, espulso dal Pci di Togliatti pressato da Giorgio Amendola.
Piegari aveva creato a Napoli il gruppo Gramsci che di potere ne possedeva poco, ma di idee molte, dissonanti da quelle del partito e le discuteva nell’affollata aula IV della facoltà di Lettere dell’Università. Davano noia, o meglio erano considerate eversive, pericolose, frazioniste perché contestavano la linea amendoliana di stampo salveminiano che puntava soprattutto sull’alleanza con le forze locali. Piegari e il suo gruppo, nemici di ogni compromissione, nella patria di tutti i trasformismi, erano invece fedeli alla lezione di Gramsci: la Questione meridionale è questione nazionale fondata sulla saldatura tra la classe operaia del Nord e i contadini e i sottoproletari del Sud. Fuori da quei principi si favoriva soltanto la disunità d’Italia. . Com’è rispuntato nella mente e nel cuore di Ermanno Rea il fantasma di Guido Piegari? È stata la scoperta di un quaderno nero, con gli angoli e il dorso di tela rosso fiamma - cinese? - ritrovato nella libreria di casa, pieno di appunti scritti al tempo del suo famoso romanzo, a risvegliare passioni e anche tormenti. E ne è nato un nuovo libro, una lucertola che riannoda la sua coda spezzata: Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta (Feltrinelli). Il libro può anche esser letto come una lezione in quella famosa aula IV: l’attualità cui accenna il sottotitolo è acclarata in questo mezzo secolo e più trascorso da allora, dal localismo compromissorio stalinista al migliorismo, alla compiaciuta attenzione alle pratiche craxiane, alle larghe intese del berlusconismo di oggi. Non fu una sconfitta, si può dire, quella del profetico gruppo Gramsci.
Chi era Guido Piegari? Laureato in Medicina, biologo, stimato scienziato dell’oncologia, uditore dell’Istituto di studi storici del Croce che ammirava molto la sua intelligenza, marxista ventenne alla ricerca di una nuova visione della Storia, tra l’Europa delle rivoluzioni ottocentesche e del Romanticismo e il Risorgimento italiano. Il fascino del personaggio, la sua capacità di proselitismo erano riconosciuti nell’appassionata Napoli del secondo dopoguerra, avida di saperi, di voglia di capire e di discutere, in misura persino maggiore alla naturale vocazione al ragionamento dei napoletani.
Il lunedì sera, in quegli anni, era sommo il fervore nel seguire all’Università le varie relazioni: tra le tante, la Rivoluzione del 1799, l’Unità politica, l’Italia del primo Novecento. I temi si incastravano l’uno nell’altro, ma era il presente, sempre, a far da protagonista - la contemporaneità - anche se gli argomenti parevano lontani. L’autoritarismo, l’ansia di libertà, i sistemi usati dallo stalinismo affioravano di continuo nell’evocare il passato. In quegli anni cupi della Guerra fredda i nodi col Pci vennero rapidamente al pettine. Con brutalità. Non fu neppure concessa una libera discussione coi dissenzienti.
Rea racconta quel che allora accadde. Piegari non fu solo espulso dal partito - evento che tacque nel Mistero napoletano - fu insultato, ferito a morte. Commenta ora lo scrittore: «L’eretico va delegittimato, calunniato, vilipeso. Soprattutto va dichiarato pazzo. Piegari è pazzo, dissero infatti gli agit prop della potente macchina da guerra ortodossa. E tanto dissero finché il povero Piegari sentì effettivamente vacillare il proprio equilibrio, scoprendo gli incubi della mania di persecuzione».
C’è un’altra storia dolorante nel libro di Rea che provoca accoramento in chi legge. Quella di Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto italiano per gli studi filosofici che fu al fianco di Guido Piegari. Ermanno Rea descrive in belle pagine il volto scavato, l’aria affranta, la grande malinconia dell’amico. Avvocato amministrativista di grande talento e successo, finita l’avventura del Gruppo Gramsci, ha dedicato la vita a creare una biblioteca famosa in tutto il mondo di trecentomila volumi, una sorta di ponte culturale con il mai dimenticato Gruppo Gramsci. Si è svenato negli anni, l’avvocato Marotta, a comprar libri (dieci miliardi di lire, secondo i più illustri biblioteconomi). Carlo Azeglio Ciampi, colto presidente del Consiglio, destinò finanziamenti notevoli e necessari all’Istituto, il governo Berlusconi li bloccò del tutto. I libri, che nel Palazzo Serra di Cassano davano lustro e vanto a Napoli e all’intero Paese, sono ora ammucchiati in un capannone di periferia.
È «una tragedia antropologica» quella che si consuma sotto i nostri occhi, scrive Ermanno Rea. Una vergogna nazionale, un simbolo dell’irrilevanza della cultura, della memoria, della Storia spazzato via da una furia iconoclasta.
Tra i Sassi
La terra dove Cultura fa rima con Petrolio
Matera diventa Capitale europea nel 2019
Ma con lo sblocca Italia il governo ha dato l’ok alle trivellazioni selvagge
E se fosse uno scambio?
di Antonello Caporale (il Fatto, 19.10.2014)
Pasolini e le trivelle, Carlo Levi e le discariche, Mel Gibson e l’acqua avvelenata. La Lucania di oggi, così perduta agli occhi, piange e ride insieme. I Sassi hanno appena ricevuto la fiducia del mondo: Matera sarà la capitale europea della Cultura nel 2019. Titolo strameritato. Ma i Sassi, questo incavo di pietre, anfiteatro di una umanità dolente, poverissima, dove uomini e capre si scambiavano umori e necessità, questo scheletro meraviglioso a cielo aperto rimasto quasi intatto per merito di chi lì vive e ha vissuto, tutelando anzitutto la dignità della memoria, sarà tombato, sigillato nell’area vasta degli scavi petroliferi, degli oli combustibili, dei fumi d’arrosto da kerosene.
Matteo Renzi accompagna i Sassi nel petrolio, e punta, come sa fare bene, a conquistare tutti. Gli ambientalisti e gli industriali dell’oro nero, poeti e commercianti, pensatori e asfaltatori. Ad agosto si domanda: “Con tutto il petrolio che abbiamo in Basilicata e Sicilia, dobbiamo acquistarlo altrove? ”. E via col decreto Sblocca Italia che permetterà ai trivellatori di trivellare immediatamente, superando ostacoli, controlli, impatti ambientali e proteste. Tetragono, il premier dice: “Perderemo qualche voto, ce ne faremo una ragione”. Forse nemmeno più qualche voto, avendo oggi Matera conquistato il primato europeo. Panem et circensens dunque?
Così appare. Senza voler far torto alla qualità della candidatura, sembra che le opere pie siano mischiate alle cattive intenzioni di molti lupi mannari. Lo scambio, è accusa senza prove però, sarebbe: tu mi fai bucare e io ti premio.
Certo è che la classe dirigente che governa la Regione non è stata mai - dai tempi di Emilio Colombo, un dominus democristiano che per un trentennio interpretò le istanze di quella terra remota - così vicina al cuore del potere. La famiglia Pittella ha messo radici a Strasburgo, dove con Gianni guida il gruppo parlamentare europeo, e a Potenza domina la regione con il fratello minore Marcello. Due sere fa Pittella jr a Radio24 si è esibito in una enfatica dichiarazione di fedeltà e un entusiasmo senza pari nel commentare i tagli del Governo che lo avrebbero penalizzato, entusiasmo irrintracciabile tra i suoi colleghi governatori.
Nell’esuberanza del momento, forse perchè coinvolto nei festeggiamenti per la vittoria di Matera, è parso che Pittella non aspettasse altro che tagliare e che i soldi a sua disposizione sono così tanti da non sapere come impiegarli.
LA BASILICATA, ma forse Pittella jr non lo ha ancora chiaro, è terra di continua emigrazione. Dire a chi è costretto a fare le valigie che, senza i tagli di Renzi, in Regione continuerebbero a fregarsene del suo destino, sprecando ancora qualcosina è un atto politicamente suicida, un manifesto di totale imprevidenza. Ma forse quelle parole così avventate erano frutto dell’entusiasmo (o figlie del debito da saldare).
Ma la Basilicata a Roma gode di altri sponsor eccellenti: due ex governatori oggi al governo (De Filippo alla Salute, Bubbico all’Interno) e poi, distanziato negli affetti del leader, il capogruppo alla Camera del Pd Roberto Speranza. La Lucania è anche la terra di Banfield, la culla dove lo studioso americano ha tenuto a battesimo la sua teoria del familismo amorale. Ed è così piccina che le famiglie che contano ancora oggi si tramandano poteri e doveri, onori e nomine. In una filiera conosciuta e riverita.
E oggi quella terra diviene teatro del pendolo renziano. Nella filosofia concretista del premier, sempre contratta verso il presente, ambiente e cemento sono valori turnari, cointeressi che si espangono e si restringono a seconda dei bisogni. E le parole d’ordine divengono cangianti, legate al bisogno, misteriosamente interscambiabili.
L’AMBIENTE è il nostro futuro, il turismo la nostra economia, e quindi i Sassi il bene supremo. Ma anche con le trivelle si fanno soldi. Sporcano? Distruggono? Chi lo dice? Se c’è il petrolio lì, lì si scava e poi si vede. Infatti la legge prevede il primato dell’opera su ogni altra tutela. Vicino ad Aliano, il paese di Carlo Levi, ora si discute dell’arrivo di una discarica. Lì ci sono i calanchi, nuvole di pietra, voragini che resistono anche alla meraviglia. In Lucania tutto si tiene: lo scrittore dà una mano all’asfaltatore, il bosco al cemento, le ginestre al petrolio.
Matera è la Capitale europea della Cultura 2019
Festa in piazza, nel centro storico della Città dei Sassi, all’annuncio della designazione
di Redazione *
È Matera la città italiana designata come capitale europea della cultura per il 2019.
"La designazione di Matera è un esempio di civiltà e riscatto che da Matera e dal Sud arriva all’Europa". Così il sindaco di Matera Salvatore Adduce. "Non stiamo più a pietire, ma a dare un contributo su come la cultura possa trasformare un territorio - ha detto visibilmente emozionato -. Non era un esito scontato, ma l’abbiamo raggiunto grazie al lavoro di tutti".
L’annuncio della designazione ha fatto esplodere la festa in piazza San Giovanni, nel pieno centro storico della Città dei Sassi, dove in migliaia si sono ritrovati davanti al maxischermo per assistere in diretta al verdetto. In tanti si stanno abbracciando e stanno sventolando le bandiere con il logo "Matera 2019".
Matera è stata designata Capitale europea della cultura per il 2019, con sette voti su tredici. Il titolo, oltre all’Italia, sarà assegnato anche a Plovdiv in Bulgaria. Il verdetto è stato comunicato da Steve Green, presidente della Giuria di selezione composta da 13 membri (6 italiani e 7 stranieri) al Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini, che ha dato l’annuncio.
Non vince solo Matera, capitale europea della cultura 2019: le cinque città finaliste ’perdenti’, Siena, Ravenna, Lecce, Perugia-Assisi e Cagliari saranno capitali italiane della cultura nel 2015 e nel 2016. E’ l’orientamento - a quanto si apprende - emerso dalla riunione tra il ministro Franceschini e i sindaci delle diverse città al Collegio Romano prima della proclamazione. Un’ipotesi di lavoro - dovrà confermarla il Consiglio dei ministri - che punta a non disperdere il patrimonio costruito in questi mesi.
LA DELUSIONE DELLE ALTRE CANDIDATE - Matera ha avuto la meglio su una rosa di sei candidate che comprendeva anche Cagliari, Perugia-Assisi, Siena, Lecce e Ravenna. L’annuncio è stato fatto dal ministro Franceschini nella sede del dicastero di via del Collegio Romano assediata da delegazioni, giornalisti e fotografi.
Grande delusione a Siena per le 400 persone che hanno atteso il verdetto per la Capitale Europea della cultura 2019. Al momento dell’annuncio, seguito in diretta da Roma con un maxi schermo, in molti hanno abbandonato subito la piazza. I pochi rimasti si sono lasciati andare anche alle lacrime. Presenti anche alcuni studenti materani che hanno esultato per la vittoria della loro città, invitando Siena a "non arrendersi".
Qualche lacrima nella sede della Fondazione che ha sostenuto la candidatura di Perugia a Capitale europea della cultura dopo l’annuncio della scelta di Matera. A Roma i vertici dell’organismo, diversi di coloro che hanno lavorato al progetto si sono ritrovati negli uffici nel centro del capoluogo umbro (dove è cominciata Eurochocolate, con le strade già affollate di turisti). Hanno seguito dai computer in streaming l’annuncio della città scelta. Alcuni si sono abbracciati mentre altri hanno preferito isolarsi davanti ai computer. Dopo l’annuncio i volti sono apparsi delusi. Alcuni hanno anche pianto. Nessuno ha voluto comunque commentare la scelta.
Quando il ministro della Cultura ha pronunciato la parola Matera, tra gli oltre duecento che stavano seguendo in streaming la lettura del verdetto alla Galleria comunale, in fondo ai Giardini Pubblici di Cagliari, è calato il gelo. Durato quasi una frazione di secondo. Perché l’assessore comunale alla Cultura, Enrica Puggioni, ha subito lanciato l’invito a un lungo applauso. Anche a Matera, la "rivale" che in un attimo ha mandato in frantumi i sogni cagliaritani di Capitale della cultura 2019. Ed è stata sempre Puggioni a consolare chi in lacrime si avvicinava per abbracciarla: "Basta facce depresse - ha urlato - abbiamo fatto un ottimo lavoro. E continueremo a farlo per dimostrare che in Europa nel 2019 ci siamo anche noi. Abbiamo tantissimi progetti, questa città è comunque viva". E poi i complimenti ed i ringraziamenti quasi a uno a uno per chi ha partecipato alla lettura del verdetto in diretta. "Bravi i cittadini - ha detto Puggioni - l’Università, i Comuni che ci hanno aiutato. Siamo un territorio che cresce, un patrimonio inaudito. È stata l’esperienza più bella della mia vita. I sardi ci hanno sostenuto in massa nei sondaggi". Matera? Nessuna polemica. "Sta lavorando a questo risultato- ha detto l’assessore - da sette anni. Complimenti a Matera".
Confindustria Ravenna ringrazia lo staff di Ravenna 2019, battuta da Matera come capitale della cultura, e chi ha sostenuto il lavora per la candidatura, improntati a una progettualità condivisa. Ma il Sindaco Fabrizio Matteucci dice: "Inutile girarci intorno, dirlo è compito mio: prevale la delusione per aver mancato l’obiettivo di un soffio. Ma possiamo essere sereni perché abbiamo fatto il nostro dovere. Il progetto ci ha fatto arrivare nella rosa delle finaliste: un successo".
* © Copyright ANSA 17 ottobre 2014 (ripresa parziale).
Tra i Sassi di Matera il filo della città futura
Diventati dopo gli Anni Cinquanta sinonimo di degrado sono in realtà un modello abitativo sostenibile e comunitario
di Pietro Laureano (La Stampa, 23/02/2014)
I Sassi di Matera furono completamente spopolati dagli abitanti, costretti a spostarsi in nuovi quartieri negli Anni Cinquanta e Sessanta, e le case grotta e il sistema di habitat trogloditico furono dichiarati una vergogna per la nazione italiana. L’intera comunità, con la sua identità e il suo passato, fu decretata inadeguata e posta ai margini della storia. Era estranea ai modi, ai tempi e alle necessità dello sviluppo - maschera del volto truce dell’emigrazione e della speculazione edilizia. Matera costituiva un modello scandaloso perché, basata sul risparmio delle risorse, sul continuo riciclo e sull’autoproduzione, era una minaccia per la società dei consumi.
Negli Anni Ottanta, dopo l’esodo urbano, matura la volontà di recupero, ma il dibattito oscilla tra la sacralizzazione estetica di un mondo perduto e le proposte di risanamento basate sulla concezione che si trattasse di adeguare miseri quartieri dismessi. Così i Sassi di Matera rischiavano o la museificazione, condannandoli al degrado per l’impossibilità di gestione, o un riuso realizzato tramite omologazioni distruttive con la progettazione di affacci, sventramenti e nuove volumetrie. L’unica soluzione possibile era il ritorno degli abitanti con interventi di restauro compatibili con la preservazione dei valori.
La cosa non era facile sia perché la gran parte dei cittadini di Matera non voleva riabitare i Sassi, ferita ancora aperta per il marchio subìto della vergogna e l’imposizione di nuovi modelli, sia perché, per stabilire codici di salvaguardia, è necessario prima interpretare i luoghi e stabilirne i valori e significati. Occorreva quindi compiere una nuova lettura e una nuova narrazione da far vivere nella memoria, negli interessi e nelle passioni dei cittadini; e anche sostenere le associazioni, gli appassionati e gli intellettuali già operanti in questa direzione con un’iniziativa che stimolasse la volontà e l’orgoglio della comunità; diffondere questa immagine come elemento di promozione e di riscatto culturale ed economico.
Tutto questo è stato ottenuto con l’iscrizione nella lista del patrimonio mondiale Unesco realizzata nel 1993 come primo sito del Sud dell’Italia. Il riconoscimento fu dovuto all’interpretazione del sistema geniale di gestione dell’acqua e dell’energia, dell’organizzazione sociale e comunitaria degli spazi e dei percorsi urbani, delle caratteristiche uniche del modo di abitare e di proteggere l’ecosistema come modello di sostenibilità per la città del futuro. L’iscrizione di Matera diede impulso, in Italia, a nuove candidature; a livello internazionale, all’apprezzamento delle località popolari e non auliche; e, sul piano teorico, all’evoluzione effettuata dall’Unesco della concezione del patrimonio dal monumento al paesaggio, alle conoscenze e alle persone che l’hanno prodotto.
Matera, abbarbicata sui gradoni scoscesi dell’altopiano calcareo delle Murge, lungo il bordo del profondo canyon della Gravina, ha una compenetrazione totale con il paesaggio: non è costruita sulle rocce, vi è scolpita; non è edificata, è scavata; non è realizzata con la pietra, è la pietra stessa. È il rovescio delle categorie consuete. Qui le antiche cronache recitano: «i morti sono sopra i vivi», perché, abitando il sottosuolo, si seppellisce sui giardini pensili posti al di sopra; le strade sono i tetti delle abitazioni sottostanti, e gli opposti coesistono: vuoto e pieno, antro e giardino pensile, luce e tenebra. Reliquia preistorica e ipotesi per futuri alternativi, Matera, come una divinità primordiale, pone interrogativi e sfide con l’enigma dei suoi labirinti di luce e i mille volti di pietra.
La scarsità delle risorse, la necessità di farne un uso appropriato e collettivo, l’economia della terra e dell’energia e la produzione e la gestione dell’acqua sono alla base della realizzazione dei Sassi di Matera. Sull’altopiano, scavati nella fragile roccia calcarea, sono ancora visibili i primi villaggi del Neolitico risalenti al VI millennio a.C. circondati da fossati organizzati con canalette e cisterne dalla perfetta forma a parabola, filtri e tumuli di pietra che, captando il vento, condensano l’umidità.
La linea tra il piano e il burrone è soglia simbolica e luogo fondamentale per la captazione delle acque. Seguendo gli strati del calcare tenero, si scavano cavità semiorizzontali su più piani sfruttando la parete verticale e i gradoni naturali della sponda del canyon. Durante le piogge, terrazzamenti proteggono i pendii dall’erosione e convogliano per gravità le acque nelle grotte. Nella stagione secca, le cavità aspirano l’umidità atmosferica che si condensa nella cisterna terminale degli ipogei. Lo scavo è effettuato con un’inclinazione precisa per permettere al sole in inverno, quando è più basso a mezzogiorno, di penetrare fino in fondo. In estate, il sole più vicino allo zenit colpisce solo gli ingressi delle grotte lasciandole fresche e umide. Il processo ha una funzione pratica, garantendo la climatizzazione costante, e un significato simbolico. L’unione del Sole con la Terra, attraverso la condensazione del vapore sulla roccia più fredda, crea il miracolo dell’acqua e della vita.
Nel tempo, sviluppando le originarie tecniche preistoriche, si realizza un sistema di habitat adattato e complesso. Con gli stessi blocchi di pietra ricavati scavando le grotte, sono fatti gli ambienti costruiti che chiudono a ferro di cavallo la radura terrazzata determinando uno spazio centrale protetto. Il modulo dell’abitazione è la volta a botte, il lamione, estroflessione delle stesse grotte che rimangono dietro le facciate costruite. Quelli che erano l’orto irrigato e l’aia pastorale davanti alle grotte si trasformano nella corte, luogo delle attività della famiglia allargata; l’insieme di affacci su spazi più grandi forma l’agglomerato principale delle relazioni sociali: il vicinato. Qui una grande cisterna comune raccoglie le acque che provengono ora dai tetti, mentre il gradone sovrastante si trasforma in giardino pensile. Le linee di scorrimento idrico divengono le scale e i percorsi del complesso urbano. La forma e la trama viaria assecondano la struttura e le asperità del terreno seguendo le linee di gravità per le necessità di raccolta e di gestione dell’acqua.
L’intera città sembra essere stata concepita non per un attraversamento rapido ma proprio per fermarsi, imbattersi in qualcuno, lasciarsi coinvolgere nei rapporti sociali e di vicinato. Ne risulta una struttura spaziale allo stesso tempo corporea e geometricamente rigorosa; una geometria non ortogonale e regolare, ma caotica e frammentata, non pianificata ma autoprodotta, non euclidea ma frattale. Semplici regole, iscritte nella natura e nella coscienza di ognuno, ripetendosi costantemente, determinano risultati sublimi.
Così, con l’applicazione pigra, lenta, costante e tenace dello stesso processo si attua l’intensificazione senza perdita di varietà e complessità. Si conciliano la cuspide e la curva, la regolarità e la sinuosità, il minerale e il biologico. È una geometria organica, la stessa preposta alla crescita di una foglia, allo sviluppo di una conchiglia e alla formazione dei fiocchi di neve, i cristalli, fino alle galassie. È la geometria organica espressa nelle incisioni di Cornelius Escher che in uno spazio limitato sa disegnare l’infinito e in un’architettura impossibile il ripetersi dell’eterno.
* Estratto dell’articolo dell’architetto e urbanista
Pietro Laureano, tratto dal n. 118
di Lettera Internazionale,
in libreria con il titolo
Corpo umano, corpo urbano
Uscire dalla crisi
Il modello Usa ha rovinato l’impresa: torniamo a Olivetti
di Marco Vitale (il Fatto, 10.10.2014)
L’ecatombe di imprese italiane o il loro passaggio a gruppi internazionali, sia di maggiori che di minori dimensioni, è stato, negli ultimi trent’anni, impressionante.
Il fenomeno è talmente ingente e significativo da non poter essere spiegato solo con la cattiva politica economica o con l’inesistente politica industriale o con il sindacato culturalmente e politicamente più arretrato del mondo conosciuto, o con la crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008. Esso è anche testimonianza di una concezione dell’impresa e del suo ruolo nella società, del tutto inadeguata e di una classe imprenditoriale-manageriale estremamente mediocre.
È vero che esiste e resiste un gruppo di imprese medie eccellenti e ben guidate (chiamate il IV Capitalismo), ma si tratta di un nucleo esiguo e insufficiente. Lasciato solo finirà per soccombere. Bisogna allargarlo, rinforzarlo e, quindi, ricominciare. È un’operazione di lungo respiro, di natura innanzitutto culturale, quella di cui abbiamo bisogno, che ci porta a ripensare e rifondare il concetto stesso di impresa e del suo ruolo e collocazione nella società e nel modello di sviluppo.
Nel suo primo viaggio di studio in America, a 25 anni, Adriano Olivetti, pur nell’ambito di una grande ammirazione per la vitalità, creatività e capacità organizzativa del sistema produttivo statunitense, identificò due grossi difetti: un dominio della visione e prospettiva finanziaria e una super specializzazione esasperata dei tecnici e dei manager che rendeva difficile avere una visione integrata e globale dell’impresa nella società. Questi difetti si sono andati esasperando nel tempo e negli ultimi trent’anni, soprattutto il primo, sono diventati un vero e proprio cancro.
MA NOI, nelle nostre imprese e nelle nostre università non ce ne siamo accorti e siamo rimasti appiattiti sul modello americano e anzi sulla degenerazione dello stesso. Invano Giorgio Fuà, più di vent’anni fa, si chiedeva se fosse obbligatorio che l’Italia seguisse supinamente l’America, e invano Sylos Labini, nel 2003, preannunciava, con forza e chiarezza, il prossimo collasso del sistema americano.
Abbiamo così rinunciato a dare un nostro contributo che si basasse sulle nostre caratteristiche e si ricollegasse alle nostre radici, ai mirabili imprenditori toscani e lombardi, che dal 1200 al 1500 hanno creato, con le loro imprese, vero e autentico sviluppo e hanno, al contempo, costruito meravigliose e civilissime città come Firenze, Siena, Venezia; al grande pensiero dell’illuminismo lombardo (da Verri a Cattaneo) e napoletano; ai nostri grandi imprenditori (da Giuseppe Colombo a Giovanni Pirelli, a Adriano Olivetti a Enrico Mattei) ai nostri grandi economisti contemporanei (da Giorgio Fua a Sylos La-bini a Stefano Zamagni) e aziendalisti (da Coda a Dioguardi).
Chiudendo il suo libro più importante (del 1954), Peter Drucker ammoniva che il manager del futuro non sarebbe stato caratterizzato soprattutto dal suo livello di competenza, ma piuttosto dal suo carattere, indipendenza e dirittura morale. Sotto questo profilo, pur con tante luminose eccezioni, il management italiano, nel suo insieme come gruppo professionale, è fallito. Messosi al supino servizio della deleteria concezione della finanziarizzazione dell’economia, e dalla copiatura acritica dei modelli americani, ha favorito la crescita di tante “imprese irresponsabili”, secondo l’efficace definizione di Luciano Gallino. E molte di queste sono state spazzate via dalla crisi.
Per ricominciare non è più sufficiente un appello alla moralità personale dei manager, come fece Drucker nel 1954. È necessario ricostruire la visione di una economia civile, anche rivalutando le migliori tradizioni italiane, nell’ambito delle quali l’impresa si collochi come soggetto responsabile e creatore di sviluppo collettivo, e questo sia riconosciuto come il compito principale dei manager, piuttosto che quello di incrementare in qualche modo e in ogni modo, lo shareholder value degli azionisti. Come ha sostenuto negli ultimi trent’anni, una sciagurata e dominante teoria proveniente dagli Usa e da noi supinamente accettata e divulgata anche da cattedre importanti.
Si tratta di un compito esaltante che indichiamo alle nuove generazioni.
Giovina Volponi
L’assistente di Olivetti: “Il premier lasci stare Adriano”
“Renzi getta via i diritti come mele marce” Intervista di Sandra Amurri (il Fatto, 12.10.2014)
"Ripristiniamo la regola di un grande italiano, Adriano Olivetti, un esempio per l’Italia di oggi, al quale sono affezionato: il manager non può guadagnare più di dieci volte il salario di chi, in quell’azienda, prende meno di tutti”. Scatta l’applauso. Citazione renziana per vincere facile onde poi elogiare e andare a braccetto con Sergio Marchionne, l’anti Olivetti per antonomasia.
La signora Giovina Jannello in Volponi, donna colta, delicata e discreta, una vita tra Adriano Olivetti - di cui è stata assistente personale - e Paolo Volponi - di cui è stata moglie e da cui ha avuto due figli -, si dice indignata.
“Questa, poi, mi era sfuggita! Ma come si fa a mettere a confronto due persone di questo genere, non lo trovo giusto, è un’assurdità! (ride tra il serio e il faceto, ndr) Renzi mi sembra un fiorentino di quelli supponenti. Io mi baso sulla prima impressione visiva, sulla fisiognomica, quel suo musetto da uccellino che becca di qua e di là non mi convince affatto e il suo comportamento è coerente con questa sua apparenza. Mi sembra che abbia il senso del comico, ma non del ridicolo. Posso sbagliarmi, posso peccare io di supponenza, ma lo trovo insopportabile. Mi indigna profondamente.
Dovrebbero spiegargli chi era Adriano Olivetti, la sua idea di profitto intelligente non come fine ma come mezzo per arricchire la collettività. L’incontro tra cultura e impresa, indispensabile per sostenere il progresso industriale e per trasformare la fabbrica in luogo di elevazione materiale, culturale e sociale di quanti vi lavorano, che sente sulle spalle la responsabilità di mettere a disposizione del territorio lavoro, servizi, cultura. Adriano si dedicava agli asili, alle colonie, alle case, alla mensa, all’assistenza medica.
Se non sbaglio, Renzi le fabbriche lascia che vengano chiuse gettando in strada migliaia di famiglie, snobba i sindacati, getta via i diritti come fossero mele marce, va a braccetto con Marchionne che io trovo repellente. Adriano era un unicum molto particolare. Di lui ho un ricordo intenso e nitido, della sua applicazione del capitalismo umano. I suoi collaboratori, dirigenti o operai, erano parte dello stesso progetto. Renzi dice di ispirarsi a Olivetti, non mi sembra che lui si sia scelto collaboratori forti, equipaggiati, ma piuttosto che si astengano dalla critica per evitare complicazioni e mantenere la poltrona. Penso che questa sia una crisi aggravata dall’assenza di competenze e merito.
Però ha svecchiato la politica e portato molte donne al governo.
Magari fosse un problema di età. Andrebbe benissimo se ci fosse un allevamento di giovani fatto con serietà e giudizio. C’è una incompetenza, una sottocultura dominante, è evidente a chiunque, basta ascoltare certi discorsi. Pensi solo a chi siede in Parlamento, sembra incredibile, persone che mai avresti immaginato potessero rappresentarti, incolte, volgari e pure disoneste. Come è stato possibile che un Paese di antica civiltà e cultura sia caduto cosi in basso, che sia prevalsa la furbizia sull’ intelligenza? Donne, ma che donne! Non giudico se sono belle o brutte ma ti domandi che ci stanno a fare. Il guaio è che vengono mischiate ad altre superficialità e vanità. Ricoprono ruoli vitali per la vita democratica senza averne i titoli. Le ascolti e capisci che sono esperte di generiche banalità.
Nata a Tunisi da madre greca e padre italiano. Dopo aver vissuto in Algeria e Grecia, a Firenze, Arezzo e Trieste, si è laureata in giurisprudenza a Torino. Una borsa di studio di due anni ad Harward. Come ha conosciuto Olivetti?
Avevo 26 anni. Era il 1956. Rientrata dagli Stati Uniti, accettai di dirigere l’ufficio legale della Rai a Roma, ma prima di partire andai a salutare il professore Bruno Leoni, di cui ero stata assistente. Mi disse: ‘Giovina, fai una sciocchezza, lascia che parli di te al mio amico Adriano’. Olivetti mi convocò nel suo ufficio. Mi lasciò parlare per oltre un’ora poi mi propose la direzione dell’ufficio culturale in Piazza Castello. E dopo un mese mi ha chiesto di diventare la sua assistente personale a Ivrea. Lo stesso giorno venne assunto, come direttore sociale Paolo Volponi che sposai tre anni dopo.
Da Milano è tornata a vivere a casa Volponi dentro le antiche mura di Urbino. Nelle Marche dell’imprenditore Diego Della Valle che ha sferrato un attacco durissimo al governo Renzi.
Non lo conosco personalmente ma lo stimo. Mi sembra un imprenditore intelligente su cui riporre buone speranze. Ma sa cos’è che mi rattrista di più? Vedere che nel Paese ha trionfato la sottocultura, la cosa più grave e pericolosa. Meglio l’ignoranza intelligente che la sottocultura supponente. Berlusconi ha aperto la strada, ha determinato il disastro però si deve anche rivedere la propria opinione sul proprio Paese che lo ha permesso.
Torna in mente “Il leone e la volpe”: “Le società modernizzate sono basate sull’esaltazione dell’individuo... e concepiscono solo l’etica edonistica e tecnologica, col successo individuale sulla natura e sugli altri uomini”. Suo marito, uno dei più grandi e complessi scrittori “un uomo integro del Novecento” come lo definì Stajano, di sé disse: “Ho servito, ma non ho obbedito”, che nel’75 venne licenziato dalla Fondazione Agnelli in seguito alla sua dichiarazione di voto per il Pci e quando il Partito comunista ottenne un risultato storico, non accettò la richiesta di Agnelli di tornarvi. Pensa mai a come si sentirebbe oggi in questo deserto della sinistra?
Ci penso eccome. Continuerebbe a essere una voce fuori dal coro. Ne soffrirebbe molto. Ripeterebbe quel verso del suo fraterno amico Pasolini come nell’intervista a Gian Carlo Ferretti: “Sono comunista per spirito di conservazione spiegando di voler conservare il mondo, la bellezza della natura, l’onestà, per camminare in armonia e sviluppare una felicità includente”. E ripeterebbe che la politica capisce poco dell’industria che si sviluppa per conto suo senza percezione dei suoi errori, quando invece va guidata, programmata dalla politica.
Grazie davvero, signora Giovina anche perché questa è la sua unica intervista.
Grazie a voi che vi interessano le opinioni di una signora di 84 anni.
Gesù Cristo non si è fermato a Eboli, ma davanti all’articolo 18
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 12.10.2014)
L’ALTRO giorno sono accaduti al Senato alcuni fatti assai rilevanti e tutt’altro che positivi. Giornali e televisioni li hanno diffusi ampiamente ma a me non sembra che ne abbiano messo in rilievo il vero significato. Cercherò di farlo qui sforzandomi d’essere obiettivo nel racconto e ovviamente soggettivo nel giudizio il quale riguarda soltanto me e chi come me ne dà identica valutazione. Tralasciamo le risse ostruzionistiche che hanno avuto come provocatori i senatori grillini con qualche più limitata interruzione da parte della Lega. Quando nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama gli animi si scaldano parte la spinta e il ceffone. È sempre stato così, fin dai tempi di Almirante e di Giancarlo Pajetta e dunque non è questo il punto.
Partirei dalle parole di Mario Draghi di tre giorni fa al Brookings Institute di Washington sulla crisi economica che coinvolge il mondo intero, l’Europa più degli altri e l’Italia in particolare. Non è entrato nel dettaglio, il presidente della Bce, l’aveva già fatto in molte altre occasioni. Ma una cosa assai importante l’ha detta e ci riguarda da vicino. Posso virgolettarla perché tutti i “media” l’hanno riferita con le medesime parole: «Il problema non è quello di licenziare; il problema è quello che nei modi possibili si creino nuovi posti di lavoro aumentando la produttività del sistema delle imprese, la formazione dei giovani e un sostegno che mantenga l’equità duramente toccata dai sacrifici che la situazione impone».
Queste parole sono estremamente chiare: il problema non è licenziare ma aumentare la produttività.
AVETE capito bene? Spero di sì, spero che l’opinione pubblica comprenda il senso di quelle parole dette da Draghi il quale ha anche aggiunto che la Banca centrale europea non farà mancare (e già lo sta facendo) il sostegno della sua liquidità ma non è solo questo lo strumento. Se la produttività non aumenta nelle imprese la liquidità resta inerte nelle banche, nei fondi e perfino nelle famiglie; non aumenta la produzione, non aumentano gli investimenti, non aumentano i consumi. Da questo punto di vista gli 80 euro distribuiti ai ceti meno abbienti sono stati un “flop” di proporzioni inusitate.
Ho cominciato da Draghi perché la sua è una delle voci più importanti d’Europa e una delle poche che si batte per una politica della crescita nei fatti e non soltanto nelle parole. Ma ce ne sono altri, di fatti, ancora più importanti e gravi, il primo dei quali riguarda la legge delega trasformata in una sorta di decreto sottoposto al voto di fiducia. È stata votata da una solida maggioranza poiché i dissenzienti del Pd di fronte alla situazione che si era creata hanno votato tutti a favore con la sola eccezione d’un paio di astenuti contro i quali Renzi manifesta il desiderio di sottoporli alla commissione di disciplina proponendone l’espulsione dal partito. Non sappiamo se il gruppo dei dissidenti del Pd nella Camera dei deputati si comporterà come i colleghi del Senato oppure darà un voto contrario o un’astensione, ma se anche questo accadesse la maggioranza alla Camera è molto più forte che al Senato e quindi nulla di drammatico accadrebbe al governo. È così accaduto che laddove il gruppo dei dissenzienti senatori avesse votato contro forse il governo sarebbe stato battuto sulla delega, mentre se votasse contro alla Camera ciò non avverrebbe e quindi sarebbe una manifestazione del tutto inutile.
* * *
Dunque la delega, passata al Senato e poi alla Camera diventerà legge dello Stato. La logica vorrebbe che sulle leggi di delega la fiducia non fosse mai messa: il governo chiede infatti al Parlamento di poter eccezionalmente acquisire poteri legislativi. Di solito ciò avviene quando esiste un’urgenza di intervento riconosciuta dal Capo dello Stato che deve comunque essere approvata e convertita in legge dalle Camere entro 60 giorni; ma non avviene per le deleghe. La fiducia sulla delega è comunque avvenuta negli ultimi 25 anni più d’una volta. Non so se questo fatto che non sollevò obiezioni quando accadde, sia diventato parte di una Costituzione materiale ma non credo che ciò sia possibile senza che rappresenti un vulnus per la divisione tra i poteri dello Stato così come i principi dello Stato di diritto impongono.
Tutto qui? No, c’è ben altro di cui parlare e comincio con una notizia. Da ricerche fatte dopo il voto sulla delega al Senato e dopo che Berlusconi e i colonnelli di Forza Italia si erano sgolati a dichiarare che avrebbero votato contro la delega cui veniva apposta la fiducia, risulta che ben 51 senatori di Forza Italia non erano presenti in aula al momento del voto. Un’assenza di 51 significa di fatto un consenso di 26 voti a favore della maggioranza quindi quand’anche una ventina di dissenzienti del Pd avessero votato contro la legge sulla delega sarebbe in ogni caso stata approvata.
Si discute spesso di che cosa contenga realmente il patto del Nazareno e se esista un documento scritto che ne indichi i confini. Ma non è così, il patto del Nazareno è un accordo sostanziale tra Renzi e Berlusconi affinché procuri vantaggi concreti all’uno e all’altro. Tutto questo avverrà anche, anzi soprattutto, quando Napolitano deciderà tra qualche mese di dimettersi dalla sua carica come ha più volte manifestato e le Camere dovranno eleggere chi lo sostituisca, nelle prime otto votazioni con maggioranza qualificata ma alla nona con voto del 50,1 degli aventi diritto.
Che cosa dovrà fare quando sarà stato eletto, il neo presidente? È evidente: dovrà emettere quell’atto di clemenza che Berlusconi non si stanca di chiedere e di ricordare alla memoria di tutti e che è la sola cosa di cui ha veramente bisogno. Denari ne ha in quantità, le aziende funzionano e comunque se vuole può anche venderle, gli serve soltanto la clemenza dello Stato che tanto più secondo lui gli è dovuta in quanto è totalmente innocente da ogni illegittimità. E poi vuole rientrare in possesso del passaporto che in questo momento non possiede e gli rende impossibile di muoversi per il mondo per risiedere dove più gli piace. Questo è il prezzo vero dell’accordo.
Per il resto avrà Renzi come figlio nel senso che ha sempre detto e previsto: il “figlio buono” che potrà prendere il suo posto per altri vent’anni e così probabilmente sarà. La democrazia intesa in senso vasto, comprende anche questo. Non sarà più chiamata parlamentare ma sarà comunque una democrazia nel senso che gli italiani saranno liberi di fare ciò che vogliono purché non intralcino l’esercizio del potere politico ed economico e sociale. Questo fa parte della storia d’Italia anche molto prima che ci fosse lo Stato unitario. Io l’ho scritto più volte e non desidero ripetermi: ricordo soltanto il vecchio motto “o Franza o Spagna purché se magna”. Non è una visione molto brillante di questo Paese ma purtroppo è abbastanza confermata dalla realtà della storia ed anche dall’attualità.
* * *
Eppure non siamo ancora al centro del problema. Nel suo discorso al Senato il buon ministro del Lavoro ha fatto capire che la delega prevede l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; analoghe dichiarazioni aveva già fatto il capogruppo dei senatori del Pd, Luigi Zanda, ma nella legge l’articolo 18 non è mai menzionato. Si parla genericamente del lavoro e di alcune misure che lo concernono, del precariato, dei possibili indennizzi. E basta.
Le modifiche dell’articolo 18 a quanto lo stesso ministro del Lavoro ha dichiarato e Zanda confermato e Renzi a sua volta più volte indicato, saranno contenute in uno dei decreti attuativi nella legge delega. I decreti attuativi vengono discussi dal governo previo parere di un comitato parlamentare appositamente eletto dalle commissioni competenti. Ma il comitato si limita ad emettere un parere non vincolante dopodiché i decreti vengono emessi e diventano immediatamente esecutivi, non passano più attraverso le Camere. Conclusione: l’articolo 18 sarà abolito per decreto non soggetto al visto del Parlamento.
Giova ricordare per chi l’avesse dimenticato in che cosa consiste l’articolo 18. Fu introdotto nella legislazione italiana nella prima metà degli anni Sessanta dell’altro secolo dall’allora ministro del lavoro socialista Giacomo Brodolini e stabiliva che i licenziamenti potessero avvenire soltanto se esisteva una “giusta causa” a motivarli. Naturalmente questo non avveniva quando un’impresa era in un tale dissesto prefallimentare da dover ristrutturare interamente il proprio modo di produrre e la manodopera addetta. Ma questa era un’altra questione e non riguardava il licenziamento individuale protetto invece dalla giusta causa che poteva essere invocata dal licenziato attraverso un ricorso sul quale interveniva il giudice del lavoro che dava ragione all’una o all’altra parte; se la giusta causa non emergeva pienamente il lavoratore veniva reinserito nella stessa mansione che fino a quel momento aveva praticato.
Allo stato attuale questa situazione è tuttora in piedi con leggeri indebolimenti introdotti qualche anno fa dalla Fornero che però lasciano intatto il principio. I padroni dalle belle brache bianche da quando Brodolini intervenne quelle brache non le hanno più potute mettere. Ma adesso se vogliono potranno rifarlo dopo l’abolizione dell’articolo 18. È possibile che i tempi in cui viviamo rendano necessari questi mutamenti ancorché estremamente dolorosi. Ma consentite che io mi rifaccia alle parole di Draghi che certamente di questi argomenti se ne intende forse più dei nostri politici. Draghi ci ricorda che il problema non è di licenziare ma di creare nuovi posti di lavoro e aumentare la produttività del sistema.
Questo è il punto. Licenziare non serve a niente o meglio serve ad accattivarsi quei padroni che vogliono rimettersi le brache bianche. A me non sembra una motivazione sufficiente. Nei prossimi giorni il sindacato Cgil, la sua segretaria Camusso e il segretario della Fiom Landini guideranno un corteo di lavoratori. Quelli protetti tuttora dall’articolo 18 ammontano a 6 milioni che con l’indotto e le relative famiglie salgono di un bel po’. Vedremo qual è l’umore che emanerà da quel corteo e le decisioni successive del sindacato. Ma il sindacato purtroppo (o per fortuna) non fa politica, ha il solo compito di tutelare gli interessi dei lavoratori e dei pensionati che rappresenta.
Resta dunque il problema dei politici. Che cosa faranno? Si intestardiranno nell’abolizione di un articolo la cui esistenza non interessa nessuno salvo i diretti danneggiati? Non interessa l’Europa, non interessa la Germania e neppure la Francia. In alcuni Paesi quella protezione esiste, in molti altri no perché è più facile che i licenziati trovino altri posti di lavoro. Qui da noi questo non sta avvenendo o è molto difficile. Certo l’abolizione dell’articolo 18 è un profondo cambiamento ma verso il vecchio non verso il nuovo. Personalmente amerei che si cambiasse verso il nuovo. Se avviene il contrario non credo che questo Paese avrà un bel futuro.
Vedi alla parola “rivoluzione”
risponde Furio Colombo (il Fatto, 05.10.2014)
SE CI SI PENSA BENE, la parola non è fuori posto né per Renzi, che l’ha detta e ripetuta nei discorsi del viaggio in America, né per Berlusconi che dice “rivoluzione” per annunciare e poi celebrare il suo ritorno alla rilevanza nazionale dopo la condanna, l’espulsione dal Senato, l’interdizione dai pubblici uffici.
Infatti rivoluzione significa “cambiamento immediato della organizzazione sociale”.
Le prove:
1- La elezione a Camere riunite del Capo dello Stato, imposta dalla scadenza dell’attuale titolare della carica, non ha avuto luogo. La sequenza di votazioni è stata interrotta dopo due tentativi, ed è stata decisa la rielezione del Presidente in carica, benché la Costituzione non lo preveda.
2 - Maggioranza e opposizione sono state abolite, introducendo la formula, senza precedenti, nel mondo democratico, delle “larghe intese” (tutto il Pd più tutto il Popolo delle Libertà) al fine di realizzare insieme (ovvero contro o al di fuori delle indicazioni degli elettori) le cosiddette “riforme strutturali”. La strana formula delle larghe intese si è poi evoluta attraverso un curioso camuffamento: una parte del Popolo delle Libertà si è riorganizzato in una vecchia-nuova aggregazione politica detta Forza Italia, e ha finto di passare all’opposizione. Un’altra parte si è organizzata in “Nuova Destra”, ed è diventata socia di governo con ministeri importanti, e sostiene il governo in Parlamento. Berlusconi controlla direttamente una parte (la finta opposizione) ma è il leader storico anche dell’altra, che sta trattando per rientrare.
3 - È stato chiamato a fare il primo ministro un cittadino noto e apprezzato come sindaco di Firenze, ma senza rapporti con il Parlamento. Si è deciso di scambiare la sua vittoria interna alle Primarie del Pd per elezione a capo del Governo e la sua vittoria a elezioni europee intese a decidere se restare in Europa o uscirne, come un plebiscito su di lui in quanto premier. Allo stesso tempo uno dei partiti di “maggioranza”, il Pd, lo ha eletto segretario. In questa doppia veste di eletto - non eletto, e di vincitore di elezioni nazionali che non ci sono state, guida il governo sulla base di un sostegno automatico preventivo.
4 - Il capo del Governo così eletto e così sostenuto è tenuto a consultarsi a stretti intervalli, e nelle forme più vistose, con il capo della presunta opposizione (Berlusconi) che però garantisce i suoi voti in tutti i casi che dovessero essere difficili o delicati o simbolici. Evidentemente non è importante che il capo della presunta opposizione sia un condannato a pena definitiva per crimine rilevante, e arrivi scortato e in gran cerimoniale a Palazzo Chigi, benché interdetto dai pubblici uffici. Il suo assenso è indispensabile alle decisioni chiave del governo. Si può parlare o no di rivoluzione?
Falsificazioni progressive
di Gianni Ferrara (il manifesto, 30.09.2014)
Mercoledì 24 settembre il direttore del «giornale della borghesia italiana» ha voluto informarci che Renzi quella borghesia non la rappresenta. La notizia, al di là di quello che non esplicita e potrebbe preannunciare (vedi Vincenzo Comito sul manifesto del 26 settembre) solleva comunque una questione di sicura rilevanza. Quella di chi, di cosa rappresenti Renzi. Mi riferisco, prima ancora che a quella parlamentare, a quella rappresentanza che si acquisisce mediante l’attività di governo e risultante come consenso all’indirizzo e al prodotto dell’azione governativa.
La risposta non può essere certo data da Renzi maestro indiscutibile di comunicazione e manipolazione politica. Può risultare solo da un’analisi obiettiva dell’orientamento espresso nei suoi confronti delle forze organizzate ed istituzionalizzate. Abbiamo saputo che la borghesia italiana della finanza e dell’industria non sente che i suoi interessi siano rappresentati nell’azione del governo.
All’editoriale di Ferruccio de Bortoli si sono aggiunti i giudizi espressi da autorevoli esponenti dell’imprenditoria italiana (De Benedetti, Della Valle). La Confindustria, da parte sua, non sembra particolarmente entusiasta di questo governo pur se arruolatasi come portabandiera degli abrogatori dell’articolo 18.
Notizie di tal tipo dovrebbero allietarci se, per converso, ad essere rappresentati nell’azione di governo fossero gli interessi dei lavoratori. Il che proprio non è. A dimostrarlo è l’opposizione dei sindacati, iniziata in contemporanea alla costituzione del governo Renzi e provocata dallo stesso Renzi con le dichiarazioni sprezzanti e programmaticamente antisindacali che pronunziò. Opposizione divenuta via via più acuta e oggi durissima con la mobilitazione della Cgil e della Fiom, e non solo, a difesa almeno di quel che resta dell’articolo 18 della Legge 300 del 1970, mobilitazione che potrebbe condurre a uno sciopero generale. Alla critica al governo si è aggiunta anche la Cei che chiede a Renzi di «ridisegnare l’agenda politica» e di non ridursi agli slogan.
Non è poco. Perché non è da niente la sottoposizione, l’asservimento, il ricatto continuato cui una lavoratrice o un lavoratore sarebbe assoggettato dalla decisione di Renzi di abrogare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Su quale rappresentanza dunque può poggiare Renzi ? Se non gli interessi di quanti dimostrano di avergliela revocata, Renzi rivendicherebbe quella del 40,81 per cento dei cittadini italiani. Una rappresentanza che invece non ha. Non ha per almeno tre ragioni.
Perché questa rappresentanza del 41 per cento è quella ottenuta per l’elezione del parlamento europeo in sede, in forma e ai fini che nulla hanno a che fare con l’indirizzo politico di governo, con la maggioranza parlamentare, con la legislazione italiana e con i diritti dei cittadini della Repubblica. Una maggioranza che non lo legittima affatto in sede nazionale. L’irrilevanza di quel voto per il governo la aveva affermata più volte lui stesso prima dei risultati elettorali.
Una maggioranza che tanto meno potrebbe rivendicare nel caso specifico della modifica dell’articolo 18. È del tutto evidente che a comporre quel 41 per cento dei votanti per il Parlamento europeo abbia contribuito, in misura determinante e maggioritaria, il 25 per cento degli elettori che votarono per il Pd nelle elezioni politiche del 2013. Sottraendo al 41 per cento il 25 dei voti che ottenne il Pd nel 2013, la quota rappresentativa di Renzi si riduce al 16 per cento. Se ne deve dedurre che Renzi dispone perciò solo di questa quota di consenso elettorale. È quindi del tutto evidente che, con la divisione determinatasi nel Pd sulla questione dell’articolo 18, a rappresentare gli elettori del Pd sia la minoranza, non la maggioranza attuale della Direzione di quel partito. Quella minoranza che, tra l’altro, ottenne proprio quei voti che consentono a Renzi di governare.
C’è una terza ragione, prioritaria, fondamentale che non andrebbe mai dimenticata, elusa, disconosciuta. La composizione delle due camere del Parlamento italiano è illegittima. Lo ha riconosciuto e sancito la Corte costituzionale come tutti sanno. In un paese civile una sentenza del genere avrebbe comportato almeno lo scioglimento delle due Camere. In Italia dovrebbe impedire o almeno condizionare presidente del consiglio, governo, parlamento.
Ma l’Italia è il Paese in cui con 1.895.332 voti su 2.814. 881 alle primarie di un partito, voti quanto mai occasionali e media-dipendenti, si ottiene la leadership di tale partito che, con 8.646.343 voti su 35.270.096 votanti, quindi col 25,42 per cento dei consensi alle elezioni politiche, conquista la maggioranza dei seggi (assoluta alla Camera, relativa al Senato).
Un sistema quindi delle falsificazioni progressive. E che, pur dopo la declaratoria della incostituzionalità del meccanismo che costituisce la rappresentanza e la maggioranza che ne deriva, permette che, acquisita la leadership di partito, si possa disporre del potere di far strame della Costituzione, dei principi della democrazia, dei diritti dei cittadini.
Matera
I Sassi capitale della cultura
La città senza treni vuol volare in Europa
di Silvano Rubino (il Fatto, 22.09.2014)
Un appartamento nel cuore della Civita, il quartiere “alto” che domina lo strapiombo dei Sassi. Affollato tutto il giorno di giovani, davanti a computer e tablet, ma che non disdegnano una pausa a base della pasta che prepara la vicina di casa, la signora Maria, smagliante materese doc di 87 anni. Casa Netural (con la E, non è un errore, ma un richiamo a “net”, “rete”) è un po’ la sintesi della Matera di oggi, quella che si è candidata a diventare capitale europea della cultura nel 2019.
Una sintesi di vecchio e nuovo. O meglio, un grande laboratorio del cambiamento possibile. Andrea Paoletti, il fondatore, un giovane architetto biellese che ha deciso di trasferirsi in Basilicata, lo chiama “un incubatore di sogni”: “Casa Netural è uno spazio di co-working destinato ai cittadini che hanno sogni professionali nel cassetto e spesso non osano metterli in pratica. Noi mettiamo a disposizione uno spazio di socializzazione e collaborazione, ma non solo, insegniamo anche come trasformare i sogni in realtà, a creare un modello di business e mettiamo le persone in contatto con la nostra rete in Italia e in Europa”. Paoletti ha scelto la Basilicata in quanto “terra inesplorata, quindi perfetta per sperimentare”.
OGGI SI TROVA a vivere in una città che potrebbe diventare, da qui a 5 anni, cuore pulsante della cultura europea. “Un’eventuale vittoria sarà l’accelerazione di un caos. E dal caos nasce sempre un mutamento”. Paolo Verri, direttore della candidatura, torinese, già direttore del Salone del Libro e del Comitato per i 150 anni dell’Unità d’Italia, chiamato a coordinare il lavoro del comitato (con qualche malumore cittadino per la scelta di un “forestiero” per quel ruolo) è molto più ottimista, ovviamente. Matera ce la farà, sostiene, perché il dossier presentato è frutto di un lungo lavoro: l’Associazione Matera 2019 è nata nel 2009 da un gruppo di giovani locali. “In questi anni abbiamo convinto le istituzioni che si può lavorare sulla cultura, incrociata con l’innovazione tecnologica, che si può guardare al futuro investendo nelle persone e nei cervelli”. Matera 2019, nelle intenzioni dei promotori, non sarà solo una vetrina per begli eventi culturali. Come spiega il sindaco del Pd Salvatore Adduce “il dossier è il più importante programma politico di cambiamento della città, della Basilicata e di tutto il Mezzogiorno”.
L’idea di fondo, infatti, è qualcosa di più del rendere Matera attrattiva per i turisti di tutto il mondo, ma di farne una capitale della creatività, del design, delle professioni creative. “Vogliamo che Matera”, spiega Verri, “diventi una città che attrae persone che ci vengono a vivere”.
In questo senso si capisce perché il dossier punti molto su due progetti “centrali”: l’Istituto demoetnoantropologico (I-Dea), una sorta di grande archivio degli archivi a disposizione di chi vuole farne uso per progetti creativi, e l’Open Design school, che già a partire dal 2015 punta a creare una nuova generazione di designer che poi saranno le menti del cartellone di Matera 2019, fatto di oltre 100 eventi.
E chi paga? È già stata costituita una Fondazione, dotata di 20 milioni di patrimonio, in larga parte provenienti da fondi regionali di origine europea. Se Matera vincerà, se ne spenderanno altri 23 (10 di provenienza statale, altri 9 dagli sponsor, 4 da biglietti e merchandinsing). Ma se non vincerà, assicura Verri, molti dei progetti andranno avanti ugualmente, grazie alla Fondazione.
Anche perché, spiega Raffaele Vitulli, fondatore di Matera Hub, consorzio nato proprio con l’obiettivo di costruire progetti di innovazione, il terreno da queste parti è fertile: “Matera sforna idee per contest nazionali e internazionali. L’incubatore Sviluppo Basilicata ha avviato 5 start up nel settore del videomaking, della bioedilizia, della grafica. Certo, questa è una città dove molti giovani non hanno ben chiaro il progetto di vita quindi se ne vanno. Ma il processo di candidatura può diventare un’eco internazionale, per cui Matera diventa attrattiva per investitori e giovani menti”.
Tuttavia la realtà impietosa dei numeri è un’altra: nel 2013 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) era alla cifra record del 52,9%, il tasso migratorio ampiamente negativo, il distretto del divano, uno dei motori economici di questa zona, in picchiata (-10,25% aziende nel triennio 2009-2012, il gap infrastrutturale (unico capoluogo di provincia senza Ferrovie dello Stato) invariato. “Problemi veri che vengono nascosti sotto il tappeto della candidatura”, dice una voce fuori dal coro di quasi unanime consenso alla candidatura, che però preferisce restare anonima. È quella del fondatore e animatore di www. materato wn.net , sito dei “fuorisede di Matera”, che usa la satira, l’indiscrezione, la polemica, per evidenziare i problemi della città e per fustigarne la classe dirigente.
“SIAMO DI FRONTE ad un’operazione che finora ha portato vantaggi ai "soliti noti", con alle spalle un triste codazzo ossequioso che spera un giorno anch’esso di poter ottenere un posto al sole”. Con un italianissimo corollario di opportunismi e conflitti di interesse: “Angelo Tosto”, racconta il responsabile di Matera Town, “imprenditore televisivo competitor del sindaco alle elezioni, era uno dei più fieri avversari della candidatura. Oggi ne è diventato uno dei più fervidi sostenitori, tanto da creare un canale tv tematico ad hoc. E l’azienda di cui sua figlia è vicepresidente ha avuto l’incarico di realizzare un sondaggio sul gradimento della candidatura tra i cittadini... ”.
“I problemi di Matera li conosciamo, sono i problemi di un intero sistema paese, che certo una candidatura, da sola, non può risolvere”, replica Verri. “Ma Matera, che dopo lo sfollamento dei Sassi poteva diventare solo un sito archeologico com Machu Picchu, può proseguire il suo cambiamento costruendo un diverso modello: la differenza tra il dire e il fare è proprio il fare”.
Da ogni dove, in cammino per Matera 2019
16 Settembre 2014
L’idea è nata sulla community, nella tarda primavera, e ha sonnecchiato lì per un po’. Poi qualcuno l’ha ripresa. O l’ha semplicemente pensata, perchè quando si ama camminare fra i boschi e sui tratturi e su e giù da colline e calanchi, l’idea viene.
Andare a piedi fino a Matera.
L’Associazione Al Parco ha progettato un percorso: da Satriano di Lucania a Matera in 7 tappe. -L’Associazione Scouting For ne ha progettato un altro: da Potenza a Matera in 4 tappe. -L’Associazione Al Varco ne ha progettato un terzo: dalla Val d’Agri a Matera in 7 tappe passando per Aliano, il paese di Carlo Levi, e Craco, il paese fantasma nel quale sono nascoste tutte le nostre paure. E poi si sono uniti Fiab Matera, CEA Montescaglioso, l’Associazione Il Falco Naumanni, l’AsD Basilicat Extreme, Il Ranch El(e)Dorado, la Coop. Nuova Atlantide, la Compagnia della Varroccia, il CAI.
Trekkers e scout, persone a cavallo, disabili con hand bike. Lucani che fanno tutto il percorso, o ne fanno una tappa, mezza, un pezzetto. Il Forum Regionale del volontariato si anima e offre supporto nei comuni sede di tappa dove arriveranno a sera i Camminanti, più o meno stremati. Cibo, ospitalità. Uno spazio comune nel quale dormire, una doccia. Si mette in moto tutto il gigantesco macchinario della solidarietà ed ospitalità lucana, semplice e senza fronzoli, che ti chiede solo chi sei e da dove vieni, ma prima ti da da mangiare. Una ospitalità silenziosa e profonda, così cara a chi vive - suo malgrado - fuori di qui.
E dove vanno tutti costoro?
Tutti a Matera. Vogliono arrivare lì il 7 Ottobre, quando a Matera ci sarà la commissione esaminatrice, venuta per capire che aria tira in città, e se Matera merita davvero il titolo di Capitale Europea della Cultura per il 2019. Ed in città, in quelle stesse ore, arriverà un fiume di lucani, da ogni punto della Basilicata, portando in dono la propria fatica millenaria di contadini, che calcano da sempre quegli stessi sentieri, quegli stessi boschi, quegli stessi calanchi.
"Il sogno è che parta una carovana da ogni paese della Basilicata. Che ogni paese porti in spalla e a piedi una delle proprie peculiarità culturali. Una fatica collettiva, di tutta la Regione, per esprimere con il passo lento che è proprio di questa Terra tutto quello che la Basilicata può dare a Matera 2019."
Tutte le info per partecipare ed iscriversi sono sul sito dell’Associazione Al Parco.
Anche i lucani fuori sede potranno partecipare: ovunque essi si trovino, possono fare un pezzo di camminata simbolica, per partecipare col cuore (ma anche coi muscoli) alla epica camminata di Ottobre 2014. E poi testimoniarlo, fotografandosi con questo cartello, nel quale scrivere il proprio nome, e il percorso fatto, e postando la foto su Twitter o Instagram, con l’hashtag #incamminoperMatera2019.
Già una volta abbiamo dimostrato di poter essere un unico popolo, 100.000 che hanno marciato "contro" Stavolta proviamo ad essere un unico popolo, 100.000 che marciano "pro".
(la bellissima mappa interattiva è opera di Piero Paolicelli -> Visualizza schermo intero)
anniversari
Nel nome di Carlo Levi
Quarant’anni fa moriva a Roma lo scrittore torinese, confinato ad Aliano
Quest’anno ricorre anche il settantesimo della pubblicazione del “Cristo si è fermato a Eboli”
di GIOVANNI ROSA *
ALIANO - Il 2015 appena iniziato può considerarsi l’anno “leviano”. E non solo perchè oggi ricorre il quarantesimo anniversario della morte dello scrittore torinese. Ottanta anni fa Carlo Levi fu confinato nel piccolo paese di Aliano. Dieci anni più tardi, correva l’anno 1945, uscì il suo capolavoro letterario: “Cristo si è fermato a Eboli”. Tre “circostanze” che, nel tempo, hanno legato indissolubilmente la vita e l’estetica del pittore scrittore, originario di Torino, alla terra di Basilicata. E basta passeggiare nel borgo di Aliano per “respirare” una presenza custodita gelosamente e offerta con discrezione e orgoglio a chi vuole “abitare” l’ambiente leviano.
Un paradosso se si pensa che il borgo lucano è stato per lo scrittore il “luogo” che più di tutti ha rappresentato la “lontananza” dagli affetti e, in un certo senso dalla cultura. Il confino fascista del resto doveva rappresentare tutto questo. Aveva il compito di “punire” gli oppositori cercando di creare un solco fisico e morale tra il confinato e il mondo.
Per Carlo Levi, invece, Aliano diventa una sorta di musa ispiratrice. Un luogo dell’anima da cui ripartire. Non a caso lo scelse per esservi seppellito. Una sorta di epitaffio ante litteram per sottolineare a perenne memoria un legame consolidato tra il 1935 e il 1936 e continuato nel tempo fino al suo “ultimo” viaggio, quello della sepoltura nel cimitero.
Ma il Comune ha voluto fare di più e non solo promuovendo i luoghi della memoria. Ha acquistato i mobili originali e parecchio materiale cartaceo che di certo contribuiranno sempre di più a far conoscere l’artista torinese. «Carlo Levi - ha detto il professor Angelo Lucano Larotonda - rappresenta un pezzo importante della nostra storia. Dobbiamo uscire però dallo stereotipo che la Basilicata, ancora adesso, sia quella descritta dallo scrittore. Ovviamente non è colpa di Levi, ma dei leviani che continuano a sostenere che la nostra regione non si è evoluta. Pertanto il suo pensiero non può ritenersi attuale perchè la sua visione è semplicemente stata superata dalla storia perchè sono cambiate le condizioni sociali. L’ “a-temporalità” dei contadini, il mondo statico da lui tanto celebrato, non c’è più. Il mondo - ha concluso - non è più statico e i contadini sono entrati nella storia».
Interessante, infine, il contributo del lucano Giuseppe Lupo che sulle pagine di “Avvenire”, ha ricordato l’attualità dello scrittore torinese. «Prima del Cristo la Lucania non era che un’occasione di poesia individuale. Dopo sarebbe diventata un orizzonte di narrazioni fertili e contraddittorie, in cui la condizione infernale facilmente conviveva con l’annuncio del paradiso. È stato Levi a compiere il miracolo e paradossalmente, ragionando proprio di un Cristo assente, ne è stato il suo precursore, colui che si è assunto il compito di invocarne la presenza».
«Chiediamoci - continua Lupo - come avrebbe reagito di fronte ai pozzi di estrazione che oggi puntellano le dune dei calanchi intorno ad Aliano e paiono draghi nelle notti stellate. Credo - conclude - con lo sguardo degli antenati che vedono un mondo modificarsi rapidamente sotto i loro occhi, assistono a un presente che li spaventa e li disorienta, in cui forse nemmeno più riconoscersi, ma non distolgono lo sguardo, non smettono di pensare che, anche grazie alla loro avventura, si è infranto il sonno profondo della non-storia».
Abbiamo visto con il segretario della Cgil il film di Negrin sul padre del sindacalismo italiano e dirigente del Pci
Epifani: "Giuseppe Di Vittorio nostro maestro di solidarietà"
di SILVIA FUMAROLA *
"Tutti i valori della Cgil di oggi risiedono nelle scelte di Giuseppe Di Vittorio, aveva la capacità di fare progetto e stare in mezzo alle persone. Ecco, questo senso della solidarietà a me pare importante in una società sempre più egoista". Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani è il primo spettatore entusiasta di "una storia che ci riguarda tutti. Pane e libertà è emozionante".
Nel suo studio affacciato su Villa Borghese è appeso il ritratto dipinto da Carlo Levi del "compagno sbagliato" Giuseppe Di Vittorio, il padre del sindacato che conosceva a memoria le poesie di Leopardi e si oppose a Togliatti. "Ce n’è anche un altro, ma a Di Vittorio non piaceva: sembrava che la cravatta lo strozzasse".
Nelle prime scene di Pane e libertà, la fiction di Alberto Negrin dedicata alla vita di Di Vittorio (domenica e lunedì su RaiUno), sembra che il Quarto Stato, il quadro di Pellizza da Volpedo, prenda vita. Nei giorni della crisi, in pieno braccio di ferro col governo sui licenziamenti, è di grande attualità: sarà presentato domani alla Camera, su invito di Gianfranco Fini (alla presenza di Baldina Di Vittorio e Silvia Berti, figlia e nipote di Di Vittorio), mentre venerdì Epifani sarà ricevuto dal presidente della Repubblica Napolitano.
"Le parole ti insegnano la dignità, e se uno tiene la dignità tiene anche il rispetto" dice Peppino Di Vittorio. Per comprare il libro "con le parole del mondo", che costa tre soldi, dà in cambio le scarpe; ha visto morire il padre sui campi, anche lui, che è solo un bambino, lavora "da sole a sole". Nelle pagine di quel dizionario troverà le parole per spiegare che "nessuno dovrà più morire di lavoro". I cafoni combattono per due gocce di olio sul pane e l’acqua; il barone che li sfrutta non cede: "Dovranno imparare che il padrone può sempre resistere un giorno di più di un qualsiasi cafone". Il lavoro continua a uccidere nelle fabbriche e nei cantieri, in tempi di antipolitica la battaglia per i diritti di Di Vittorio, nato a Cerignola nel 1892 - nelle case di mezza Puglia c’era la sua immagine accanto a quella della Madonna - è una lezione morale.
Epifani riflette a voce alta: "È una lezione anche la scena in cui si presenta in Parlamento, perché ha rispetto del luogo che lo ospita. Pierfrancesco Favino è bravissimo e ha una faccia vera, restituisce tutta la fatica e la passione. La fiction racconta com’è nato il sindacato, le condizioni disumane dei lavoratori, l’arroganza dei proprietari terrieri. La nuova generazione non è cosciente del fatto che i diritti sono stati conquistati a costo di sacrifici enormi".
La figura di Di Vittorio è epica: autodidatta, un solo cappotto tutta la vita, guida i contadini pugliesi, si lega ai socialisti, è vittima dei fascisti, conosce la galera, combatte in Spagna. "Ci sono tanti mondi nel racconto della sua vita" continua Epifani "lo sfruttamento e il riscatto, gli ideali e la sconfitta: c’è la politica e il privato, Dickens e De Amicis. È l’ultimo a fianco degli ultimi, non dimenticherà mai da dove viene". Un uomo forte come un albero, con la faccia larga, che recita A Silvia al figlio malato e risponde al barone in Parlamento ("Pure i cafoni vengono qui"): "Questo titolo mi onora. Se sono qui lo devo ai miei braccianti analfabeti che hanno mangiato pane e olio. Il padrone è uguale dappertutto".
Epifani annuisce: "I braccianti di oggi sono gli emigrati sfruttati nel Sud, calpestati nella dignità e nei diritti... C’è ancora da fare".
Di Vittorio dice: "Quando i lavoratori si dividono perdono sempre".
"È così", sospira il segretario della Cgil "la tecnica, da parte del governo, è sempre la stessa, dividendo può gestire meglio".
In una scena Togliatti rimprovera il sindacalista ("Non farti condizionare dai sentimenti"), e nel 1956 Di Vittorio viene censurato perché contesta l’invasione dell’Ungheria: "Si sta con il partito anche quando questo sbaglia".
È così, Epifani? "Quello era il grande partito-chiesa che aveva il primato della verità, è una stagione che non c’è più, perché non c’è più quel partito".
Cos’è rimasto della lezione di Di Vittorio? "I suoi valori sono i nostri. Di Vittorio è stato il grande difensore degli sfruttati, ha ridato voce agli esclusi. La memoria è un valore, siamo molto contenti che la Rai abbia accettato di farlo conoscere. È la prova di quello che può fare la tv pubblica: se ne dice sempre male, ma sa parlare alle generazioni future".
CARLO LEVI E LA QUESTIONE MERIDIONALE
di Nicola Tranfaglia *
1. Formazione e giovinezza
Per capire il posto che Carlo Levi occupa nella storia della questione meridionale e del meridionalismo democratico, è necessario ricordare, sia pure in maniera sintetica, quale sia stata la sua formazione culturale, prima ancora che politica, nella Torino dei primi anni del Novecento, quell’autentico laboratorio culturale e politico in cui emersero tra la guerra e il dopoguerra le grandi personalità di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci.
Tra i due, il liberale rivoluzionario e il comunista, Carlo Levi scelse il primo ma, come il suo maestro, non restò sordo a istanze e esigenze che venivano, attraverso l’ordine nuovo, da quella classe operaia che costituiva la classe più interessante dell’ex capitale subalpina negli anni venti, caratterizzati dallo sviluppo impetuoso dell’industria meccanica e automobilistica.
Puntarono, insomma, su Piero Gobetti come un riferimento Levi e i suoi più giovani amici, senza perdere di vista la classe operaia e con un pregiudizio, naturalmente sfavorevole, nei confronti di quella borghesia, sia agraria che urbana, che secondo i giudizi di Gobetti, come di Gramsci, avevano ceduto al fascismo, pensando di poterlo usare contro il pericolo della rivoluzione bolscevica e poi abbandonarlo e ritornare al potere.
“Dovremo diventare una generazione di storici” scrisse, proprio Gobetti, di fronte a quella marcia verso il potere del movimento fascista che fu di fatto una controrivoluzione preventiva rispetto a una rivoluzione proletaria che non ci fu.
In un articolo apparso nei mesi che precedono il delitto Matteotti , nella primavera del 1924, sulla Rivoluzione liberale e dedicato ai “Torinesi di Carlo Felice”, possiamo verificare .il giudizio nettamente negativo di Carlo Levi nei confronti di quei borghesi che difendono in ogni caso la situazione esistente della società anche quando è contraria alla giustizia come alla libertà.
O ancora nel ritratto, sempre apparso sulla rivista di Gobetti che riguarda la figura dell’ex presidente del consiglio e leader della destra liberale Antonio Salandra: qui Levi critica con forza non soltanto il ruolo di aiuto ai fascisti svolto da Salandra ma anche la sua mentalità conservatrice, l’assenza di qualsiasi interesse per le masse popolari e per i contadini.
Ma è soprattutto negli articoli che scrive successivamente nel primo (e ultimo) numero del giornale clandestino “Voci di officina “ che esce nel 1930 e nei “Quaderni di G. e L.” pubblicati a Parigi da Carlo Rosselli che il giovane medico- pittore torinese espone le sue idee di fondo sulla politica e sul futuro dell’Italia e dell’Europa.
In termini sintetici possiamo dire che Carlo Levi insiste, da una parte, sulla centralità di un metodo liberale rivoluzionario contro la dittatura fascista e, dall’altra parte, sulla necessità di ripartire dai valori fondamentali che si sono affermati con le grandi rivoluzioni del Settecento.
C’è in Carlo Levi la speranza della possibilità di un rinnovamento profondo della politica e dei partiti, la scelta per un movimento come quello di Giustizia e Libertà che esordisce invitando tutti ad archiviare le tessere dei partiti e intende costruire qualcosa di innovativo e di rivoluzionario come la strada unica per battere l’oppressione fascista.
Tra il 1939 e il 1940, durante la fase ambigua della sospensione della guerra , prima della grande avanzata nazista in Occidente, Carlo Levi scrive un saggio di grande impegno e originalità intitolato PAURA DELLA LIBERTA’ pubblicato da Einaudi nel 1945 e ristampato l’anno scorso negli “Scritti politici” a cura di David Bidussa sempre editi da Einaudi che a me pare decisivo per capire la maturazione politica del torinese e gli scritti del periodo successivo tra cui è centrale il romanzo -saggio CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI uscito nello stesso anno e destinato a un grande e duraturo successo tra i lettori di tutto il mondo.
In “ PAURA DELLA LIBERTA’”, Levi, influenzato più ancora che da Ortega e Battaille, dei grandi autori della psicoanalisi Freud e Jung, interpreta l’oppressione totalitaria degli anni trenta e quaranta come l’espressione di pulsioni costanti o ricorrenti delle comunità umane, che nascono non soltanto dal passato dell’uomo ma anche della contrapposizione tra il senso sacro della politica e la tendenza umana a una visione più volgare della società.
Lui cerca di interpretare le origini di queste pulsioni e scrive pagine di grande lucidità sulle difficoltà mai superate degli esseri umani di uscire dalla fase primitiva e animale e di affrontare la sfida della libertà interna nel senso più ampio dell’espressione.
Libertà come autonomia, come rischio, come capacità di affrontare quel che non si conosce e che, forse in parte, non si può conoscere.
2. CRISTO e il suo significato
Con questa formazione culturale, con questi interrogativi di fondo, Carlo Levi scrive di getto tra Roma e Firenze, nel 1943-1944 il romanzo che è anche saggio e memoriale sugli anni di confino in Lucania destinato a dargli una fama mondiale come scrittore, lui che aveva cominciato e continuerà a dedicarsi alla pittura, oltre che alla scrittura.
Dal punto di vista storico, che è quello che sto seguendo,il “CRISTO” segna una profonda rottura nella tradizione saggistica e letteraria sul Mezzogiorno e non soltanto, o particolarmente, perché non è scritto da un meridionale .
Soprattutto perché guarda alla società contadina del mezzogiorno , e della Basilicata in specie, con occhi nuovi da più di un punto di vista.
Con occhi di pittore che guarda i volti, il paesaggio, le figure, con una straordinaria fedeltà e immediatezza.
Con occhi di intellettuale che guarda qualcosa che non immaginava potesse esistere nell’Italia del Novecento.
Occhi che assomigliano a quelli di un antropologo particolarmente partecipe e appassionato.
Ma anche occhi di politico nel senso più nobile della parola, cioè di quei politici che credono alla possibilità del cambiamento attraverso la lotta democratica.
Il “CRISTO” è un classico nella misura in cui utilizzando le parole e la letteratura riesce a comunicare ai lettori, anche quelli non particolarmente agguerriti, nello stesso tempo il lamento e la necessità di riscatto della società contadina meridionale.
Non a caso è lui a identificare nei saggi di Rocco Scotellaro l’opera che meglio va avanti sulla strada indicata dal suo romanzo .
Egli ha un’altra intuizione che svilupperà in opere successive dedicate al Mezzogiorno come “Le parole sono Pietre” ed è quella di vedere, prima di altri scrittori, il conflitto destinato ad estendersi e ad esplodere negli ultimi decenni del secolo tra i paesi sviluppati e quelli del sottosviluppo, tra il Nord e i tanti Sud del mondo.
Questo è uno, ma non il solo, dei motivi di attualità dell’opera di Carlo Levi, ed è sorprendente che la sua opera completa non sia riproposta ai lettori e molti suoi libri siano addirittura da tempo esauriti.
Levi ha capito con grande chiarezza il valore emblematico della questione meridionale e anche negli ultimi anni della sua vita la vedrà sempre di più come il simbolo di una questione destinata a rimanere tale nell’era della globalizzazione economica e culturale.
Nicola Tranfaglia
* Fonte: http://www.proteofaresapere.it/contributi/questione.htm
Luciano Gallino
“Se i politici conoscessero Roosevelt...”
intervista di Sa. Ca. (il Fatto, 16.09.2014)
"Dopo decenni di politiche che hanno soffocato i diritti e le conquiste del lavoro, alla fine il risultato non può essere che questo: lavoratori di 88 anni o imprenditori che vanno fuori di testa”. Il professor Luciano Gallino è netto nella diagnosi sul mondo del lavoro che sfocia nella cronaca nera, espressione di una realtà che non collima con le “riforme”.
“Uno dei modi - continua Gallino - con cui è stata camuffata la rimozione di quei diritti, è stato proprio quello di utilizzare, scorrettamente, il termine ‘riforma’. Un’impresa a cui hanno contribuito attivamente le varie socialdemocrazie”.
Tra i riformatori della prima ora viene indicata la Germania del socialdemocratico Schröder. Agenda 2010 dell’ex cancelliere è l’esempio più limpido. Viene indicata come la riforma madre eppure il suo scopo è stato semplicemente quello di ridurre il più possibile i diritti e di mettere in discussione il contratto nazionale di lavoro. Eppure, proprio grazie a Schröder e alle sue riforme, la Germania guida l’Unione europea
Chi fa questo discorso non ha la minima idea di quello che succede in Germania. Il successo delle esportazioni tedesche non ha restituito un euro ai lavoratori di quel paese. Gli aumenti di produttività degli ultimi 14 anni sono stati tutti incassati dalle imprese e i salari sono rimasti fermi a 14 anni fa. La Germania ha venduto grazie a questa politica. Inoltre, in quel paese ci sono circa 7,5 milioni di mini-jobs a 450 euro al mese con lavoratori che devono cumularne almeno due per sopravvivere. I lavoratori tedeschi hanno pagato salato i successi della Germania anche con i tagli al welfare, alla sanità, alla scuola.
Lei parla di una serie di guasti accumulati nel tempo. Perché si prosegue su questa strada?
Mi sembra che si viva in una fase forgiata dal credo neo-liberale. Che in realtà si traduce nell’assoluta libertà delle aziende e nella rimozione di qualsiasi ostacolo provenga dai lavoratori. Questo credo, però, ha prodotto un controsenso evidente: si è lavorato per comprimere seccamente i salari che, al tempo stesso, costituiscono circa il 60-65% della domanda complessiva. Una politica che equivale a spararsi sui piedi perché danneggiare i salari equivale a danneggiare la domanda.
Qual è il suo giudizio sul Jobs act di Renzi?
Intanto va detto che ci sono due versioni del progetto: la seconda, di questi giorni, peggiora la precedente. In ogni caso, il contratto a tutele crescenti significa una precarietà perenne perché nessun imprenditore rinnoverà il contratto al termine dei tre anni.
Una misura immediata secondo lei efficace?
Se c’è qualche soldo, magari quelli utilizzati per gli 80 euro, bisognerebbe concentrarsi su un Piano di opere pubbliche assumendo uno, due o tre milioni di lavoratori, mettendoli direttamente al lavoro. È una lezione di Roosvelt ma, ahimé, nessuno sa più chi sia.
Giuseppe Di Vittorio e il New Deal per l’Italia
Con una breve premessa pubblichiamo un testo che abbiamo pescato nel sito della CGIL, lì inserito il 24 gennaio 2013. Il “piano del lavoro” proposto dal bracciante pugliese divenuto, dopo anni di antifascismo militante, segretario generale del sindacato dei lavoratori italiani è un atto culturale e politico che va ricordato oggi, che al Lavoro si vogliono continuare a faro pagare i prezzi della crisi provocata dai servi sciocchi del Capitale.
Premessa
Due circostanze ci hanno spinti a cercare e riprendere proprio in questi giorni agostani questo testo, pubblicato sul sito della CGIL .
1. Integrare l’articolo che l’amico Giorgio Nebbia ci ha inviato e che abbiamo, come al solito, pubblicato nelle “opinioni”;
2. ricordare il bracciante pugliese di cui ricorreva recentemente l’anniversario della nascita (13 agosto 1898) proprio nei giorni in cui i quotidiani ci raccontano degli ulteriori tentativi delle forze che sorreggono il governo Renzi di far pagare ancora più duramente al lavoro la crisi provocata dalla più recente (e letale) incarnazione del capitalismo.
Non è la prima volta che ricordiamo su eddyburg il significato che ebbe quella proposta scaturita dal mondo del lavoro. Che essa non sia stata riaccolta in quegli anni e rapidamente dimenticata dalla stessa politica e cultura della sinistra italiana è un triste segno dei tempi. Che essa sia stata ripresa dalla lista “l’altra Europa con Tsipras” e sia al centro del dibattito per una nuova sinistra italiana ed europea è un segno di speranza per il futuro.
IL PIANO DEL LAVORO 1949-50
Nel 1949, anno in cui, in ottobre, al Congresso nazionale di Genova Giuseppe Di Vittorio presenta la proposta di un “piano economico e costruttivo per la rinascita dell’economia nazionale”, l’Italia è ancora tutta alle prese con gli effetti disastrosi della Seconda Guerra mondiale. I senza lavoro sono due milioni, concentrati per gran parte al Sud, un milione di lavoratori sono ad orario ridotto e più di un milione di braccianti è occupato solo saltuariamente. Anche le infrastrutture sono ai minimi termini, il tasso di scolarizzazione è tra i più bassi d’Europa, moltissimi italiani sono costretti a emigrare, le diseguaglianze sono fortissime, la fame e la malnutrizione sono realtà tangibili.
Ma il 1949 è anche un anno di mobilitazioni e di lotte di massa per il lavoro, per il salario, per il riscatto del Mezzogiorno che vedono la CGIL in prima fila. E a proposito del Mezzogiorno, Di Vittorio a Genova afferma “che l’unica spedizione militare che potrebbe riuscire a eliminare il banditismo e la mafia dovrebbe essere una spedizione di ingegneri e di tecnici”. Il Piano del lavoro nasce con un’ispirazione keynesiana e con l’idea di raccogliere e unire tutte le energie produttive per far sì che la fase delle ricostruzione coincida con un nuovo sviluppo del Paese. Non una trasformazione radicale dei rapporti di classe, dunque, ma un deciso intervento pubblico per correggere gli squilibri sociali ed economici. E, per la CGIL, un modo di affermarsi come sindacato di proposta e di lotta anche su questioni di carattere generale.
Il Piano, che dopo il Congresso di Genova viene presentato l’anno successivo a Roma, può essere sintetizzato in tre direttrici di intervento: nazionalizzazione dell’energia elettrica con la costruzione di nuove centrali e bacini idroelettrici laddove erano più necessari, soprattutto al Sud; avvio di un vasto programma di bonifica e irrigazione dei terreni per promuovere lo sviluppo dell’agricoltura, specialmente nel Mezzogiorno; un piano edilizio nazionale per la costruzione di case, scuole e ospedali.
La realizzazione del Piano prevedeva la creazione di 700 mila posti di lavoro e i finanziamenti sarebbero arrivati da una tassazione progressiva “da richiedere alle classi più abbienti, in modo particolare ai grandi gruppi monopolistici e alle società per azioni”; dal risparmio nazionale e da prestiti esteri che non mettessero in discussione “l’indipendenza economica e politica della nazione”.
Anche se il Piano non diede nell’immediato i risultati voluti, indicò tuttavia alcune direttrici di politica economica che sarebbero poi state avviate avviate e realizzate dai governi dei decenni successivi (la nazionalizzazione dell’energia elettrica, le bonifiche, il piano edilizio, ecc, per esempio). E produsse, inoltre, una straordinaria mobilitazione civile, “un movimento - come ha sottolineato Bruno Trentin - che liberò immense energie potenziali, che suscitò l’insorgere di nuovi fatti associativi e organizzativi, di nuove forme di partecipazione dal basso”.
Riferimenti
Del “piano del lavoro” della CGIL abbiamo scritto nell’eddytoriale 144 del novembre 2010. Su Giuseppe Di Vittorio vogliamo anche ricordare l’episodio della sua vita che è stato commentato dalla figlia Baldina. Rinviamo poi all’archivio della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Sul significato e il possibile contenuto di un new deal italiano oggi rinviamo ai numerosi articoli di Guido Viale ripresi da eddyburg e oggi negli archivi della vecchia e della nuova edizione.
Cari nipoti vi racconto la nostra crisi
di Luciano Gallino (la Repubblica, 16 ottobre 2015)
Quel che vorrei provare a raccontarvi, cari nipoti, è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale: che è la mia, ma è anche la vostra. Con la differenza che voi dovreste avere il tempo e le energie per porre rimedio al disastro che sta affondando il nostro paese, insieme con altri paesi di quella che doveva essere l’Unione europea. A ogni sconfitta corrisponde ovviamente la vittoria di qualcun altro. In realtà noi siamo stati battuti due volte. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella di pensiero critico. Ad aggravare queste perdite si è aggiunta, come se non bastasse, la vittoria della stupidità.
L’idea di uguaglianza, anzitutto politica, si è affermata con la Rivoluzione francese. Essa dice che ogni cittadino gode di diritti inalienabili, indipendenti dal suo censo o posizione sociale, e ogni governo ha il dovere di adoperarsi per fare in modo che essi siano realmente esigibili da ciascuno. La marcia di tale idea è stata per oltre due secoli faticosa e incerta, ma nell’insieme ha avuto esiti straordinari. La facoltà di eleggere i propri rappresentanti in Parlamento; la formazione di sindacati liberi; la graduale estensione del voto sino a includere tutti i cittadini; la tassazione progressiva; l’ingresso del diritto nei luoghi di lavoro; l’istruzione libera e gratuita per tutti sino all’università; la realizzazione dello stato sociale; i limiti posti alle attività speculative della finanza: è una lunga storia, quella che vede il principio di uguaglianza diventare vita quotidiana per l’intera popolazione.
Due periodi furono specialmente favorevoli a tale marcia: gli anni Trenta sotto la presidenza Roosevelt, negli Stati Uniti, che videro un grande rafforzamento dei sindacati e una severa regolazione della finanza, e i primi trent’anni dopo la Seconda guerra mondiale, in quasi tutti gli Stati europei, Italia compresa. Poi, sul finire degli anni Settanta, la ristretta quota di popolazione che per generazioni aveva subito l’attacco dell’idea e delle politiche di uguaglianza decise che ne aveva abbastanza. Si tratta della classe dei personaggi superpotenti e super- ricchi che controllano la finanza, la politica, i media, che dopo i moti di piazza anti Wall Street di anni recenti si usa stimare nell’1 per cento: un dato che le statistiche sulla distribuzione della ricchezza confermano. Essa iniziò quindi un feroce quanto sistematico attacco a qualsiasi cosa avesse attinenza con l’uguaglianza, previa una preparazione che risaliva addirittura agli anni Quaranta. (...)
Quando parlo di pensiero critico, che costituisce la perdita numero due, mi riferisco a una corrente di pensiero che oltre al soggiacente ordine sociale mette in discussione le rappresentazioni della società diffuse dal sistema politico, dai principali attori economici, dalla cultura dominante nelle sue varie espressioni, dai media all’accademia. La tesi da cui tale corrente è (o era) animata è che le rappresentazioni della società predominanti in un paese distorcono la realtà al fine di legittimare l’ordine esistente a favore delle élite o classi che formano tra l’1 e il 10 per cento della popolazione. È una tesi che ha una lunga storia. È stata formulata tra i primi da Machiavelli; ha toccato un vertice di spessore e complessità con Marx e poi con la teoria critica della società, elaborata dalla Scuola di Francoforte tra gli anni Venti e Cinquanta; si è prolungata in Italia con Gramsci e in Francia con Bourdieu e Foucault, sin quasi ai giorni nostri.
La suddetta tesi trova una clamorosa conferma nella società contemporanea, a cominciare dalla nostra. La rappresentazione di quest’ultima che vi propongono i giornali, la Tv, i discorsi dei politici, le scienze economiche, la stessa scuola, l’università, sono soltanto contraffazioni della realtà, elaborate a uso e consumo delle classi dominanti. È la funzione che svolgono quotidianamente le dottrine neoliberali. E guai se uno osa contraddirle. Il richiamo alle distorsioni che l’enorme aumento della disuguaglianza ha prodotto in campo sociale, politico, morale, civile, intellettuale viene confutato con l’idea che l’arricchimento dei ricchi solleva tutte le barche - laddove un minimo di riguardo all’evidenza empirica mostra che nel migliore dei casi, ha scritto un economista americano, esso solleva soltanto gli yacht. (...) Al posto del pensiero critico ci ritroviamo, come si è detto, con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la sua vincitrice. È un’ideologia strettamente connessa all’irresistibile ascesa della stupidità al potere. È l’impalcatura delle teorie e delle azioni che prima hanno quasi portato al tracollo l’economia mondiale, poi hanno imposto alla Ue politiche di austerità devastanti per rimediare a una crisi che aveva tutt’altre cause - cioè la stagnazione inarrestabile dell’economia capitalistica, il tentativo di porvi rimedio mediante un accrescimento patologico della finanza, la volontà di riconquista del potere da parte delle classi dominanti. Oltre alla crisi ecologica, che potrebbe essere giunta a un punto di non ritorno.
Resta pur vero che senza l’apporto di una dose massiccia di stupidità da parte dei governanti, dei politici, e ahimè di una porzione non piccola di tutti noi, le teorie economiche neoliberali non avrebbero mai potuto affermarsi nella misura sconsiderata che abbiamo sott’occhio. (...) Pensate a quanto è successo nell’autunno 2014. All’epoca i disoccupati sono oltre tre milioni. I giovani senza lavoro sfiorano il 45 per cento. La base produttiva ha perso un quarto del suo potenziale. Il Pil ha perso 10-11 punti rispetto all’ultimo anno prima della crisi. E che fa il governo? Si sbraccia allo scopo di introdurre nella legislazione sul lavoro nuove norme che facilitino il licenziamento, riprendendo idee e rapporti dell’Ocse di almeno vent’anni prima. Come non concludere che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità? (o forse di malafede: discutere di come licenziare con meno intralci legali è anche un modo per non discutere dei problemi di cui sopra. Lascio a voi il giudizio).
In casa Cupiello il presepio di Renzi piace a pochi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 14.09.2014)
L’INCONTRO informale dei ministri finanziari di tutti i Paesi europei, voluto da Renzi a Milano e concordato di comune accordo, per l’Italia si è aperto in un modo e si è chiuso in un altro. Questa è la vera novità che va registrata e che ha profondamente modificato la situazione in cui ci troviamo. Renzi direbbe che è cambiato il verso, ma questa volta non lo dirà perché il verso che è venuto fuori è esattamente l’opposto di quello che il nostro presidente del Consiglio aveva vagheggiato e disegnato nella sua mente da parecchi mesi come obiettivo di primaria importanza e d’un esito già raggiunto attraverso una serie di colloqui preliminari da lui svolti tra Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma.
È insomma accaduto l’opposto e la sostanza è stata cambiata da vari episodi, battute, sortite su Twitter e conferenze stampa più o meno ufficiose con varianti riportate dal circuito dei media televisivi e giornalistici.
La situazione è ormai chiara e si può riassumere così: l’Italia dovrà avviare alcune riforme che l’Europa ritiene indispensabili. Il testo e il calendario delle predette riforme, che regolano il lavoro, la competitività e la produttività, la semplificazione delle procedure sia della pubblica amministrazione ministeriale sia della giustizia civile sia la formazione e la scuola, dovrà esser sottoposto alla Commissione di Bruxelles dal prossimo mese d’ottobre e da quel momento sottoposto ad un monitoraggio che culmini in giugno e si chiuda nell’autunno del 2015.
SE l’Italia avrà adempiuto ai suoi impegni, la Commissione concederà una notevole flessibilità finanziaria, ma non prima di allora, salvo qualche briciola per alleviare la tensione sociale. Nel frattempo però si dispiegherà in pieno la politica di liquidità della Banca centrale, con l’obiettivo di combattere la deflazione, portare il tasso d’inflazione verso l’1,5 per cento, il tasso di interesse delle banche a un livello compatibile e più basso di quello attuale, il tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro verso l’1,20 per cento in modo da favorire le esportazioni. Naturalmente anche la Bce monitorerà attraverso le banche il rispetto degli impegni e l’approvazione delle riforme concordate con la Commissione.
Non è una cessione di sovranità ma qualche cosa che le somiglia poiché sia la Commissione sia la Banca centrale sono affiancate nel monitoraggio e ciascuna ne trarrà le conclusioni e le conseguenze.
Come si vede, tutto ciò è esattamente l’opposto di quello che Renzi aveva immaginato. Non ci sarà la flessibilità se non dopo le riforme ritenute necessarie e solo in questo modo si potranno combattere i tempi bui che stiamo attraversando. Le implicazioni sulle parti sociali saranno numerose e preoccupanti. Il look è cambiato come vuole l’Europa e non come Renzi sperava.
Le ragioni sono evidenti e le aveva anticipate il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un suo intervento del 25 marzo scorso. Ne riporto qui la frase iniziale che in poche righe chiarisce la sostanza dei tempi bui che stiamo attraversando: «La strada dell’integrazione europea è lunga e difficile, non è un percorso lineare, si procede spesso a piccoli passi ma a volte con strappi vigorosi. L’introduzione dell’euro è stato uno dei questi strappi e ci ha fatto compiere un passo deciso, ma non ha certo portato il cammino a compimento.
L’euro è una moneta senza Stato: di questa mancanza risente. Le divergenze e le diffidenze che ancora caratterizzano i rapporti tra i Paesi membri indeboliscono l’Unione economica e monetaria agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei suoi stessi cittadini. Questa incompletezza, insieme con la debolezza di alcuni Paesi membri, ha alimentato la crisi dei debiti sovrani dell’area dell’euro. Per l’Italia la soluzione di riforme strutturali che consentano un recupero di competitività è un passaggio essenziale per il rilancio del Paese. Gli interventi da attuare sono stati da tempo individuati e vanno effettuati al più presto».
Ho già ricordato che queste parole sono state dette da Visco il 25 marzo scorso. A volte chi tiene le manopole della politica non ricorda o neppure conosce il contesto in cui opera. Molti dei nostri guai derivano da questa ignoranza che determina scelte del tutto diverse da quelle che sarebbero necessarie.
* * *
Oggi il presepio è tornato di moda nella politica, ma a molti non piace. Il 25 maggio numerosi italiani hanno votato Renzi nelle elezioni europee, dandogli un’altissima percentuale di consensi e molta forza all’interno e all’estero. Ma sono passati appena quattro mesi e la fiducia nel giovane leader si è alquanto erosa: il 70 per cento degli elettori teme che il Paese non ce la faccia a superare la crisi, il 90 per cento si attende molti e sempre meno sopportabili sacrifici. Infine la fiducia nel leader è scesa per la prima volta passando dal 74 al 60 per cento. È ancora molto alta ma il verso, come direbbe lui, è cambiato e non è da escludere che nelle prossime settimane scenda ancora di più.
Le ragioni ci sono. La pressione fiscale rilevata dalla Banca d’Italia, tra il 2013 e il 2014 è aumentata dal 43,8 al 44,1 per cento. Per erogare a 10 milioni di cittadini un bonus di 80 euro al mese le tasse sono aumentate per 41 milioni di contribuenti. Il governo ha fatto molti annunci e molte promesse ma ha realizzato assai poco. Secondo il capogruppo dei senatori di Forza Italia, Renato Brunetta, il tasso di realizzazione delle promesse di Renzi oscilla tra il 10 e il 20 per cento. Analoghe conclusioni le ha fatte il vicepresidente della Commissione di Bruxelles, Jyrki Katainen e abbiamo visto che d’ora in poi le riforme saranno monitorate dalla Commissione e dalla Bce.
L’obiettivo è agganciare la flessibilità necessaria a rilanciare la crescita, la competitività e l’equità sociale, ma nel frattempo i sacrifici non diminuiranno e qualcuno anzi aumenterà almeno fino alla metà del 2015. Tra questi c’è perfino l’ipotesi di abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè il divieto di licenziamento senza giusta causa. Il concetto di giusta causa verrebbe anch’esso abolito per legge conservando soltanto come ragione ostativa (naturalmente da documentare) la discriminazione.
Non sarà un’impresa facile anche se molti la ritengono necessaria per aumentare la competitività. Sergio Cofferati, all’epoca segretario generale Cgil, radunò al Circo Massimo e in tutte le strade adiacenti oltre due milioni di lavoratori provenienti da tutta Italia e bloccò la riforma che anche allora sembrava necessaria agli imprenditori. Probabilmente oggi uno scontro del genere sarebbe molto agitato mentre allora fu pacifico quanto fermissimo nel procedere ad oltranza se la riforma non fosse stata impedita. Ci sono altri modi di procedere per adeguare gli impegni suggeriti (ma a questo punto direi imposti) dall’Europa e dalla Bce? Ci sono. Riguardano anche i lavoratori dipendenti ma non soltanto e non soprattutto. Riguardano in prima linea il capitale e i suoi possessori, riguardano la finanziarizzazione delle aziende, riguardano nuovi progetti, nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi investimenti. Riguardano la diminuzione delle diseguaglianze e lo sviluppo del volontariato produttivo oltre che quello assistenziale. Riguardano nuove energie, e la lotta all’evasione senza sconti.
* * *
Ma che cos’è oggi il Pd? Questa è la domanda di fondo che bisogna porsi nel momento in cui la ribellione dell’Europa mediterranea è rientrata di fronte all’accordo della Germania con la Spagna, all’enigma scozzese che, se vincessero i «sì» alla separazione, metterebbe a rischio l’adesione alla Gran Bretagna all’Ue e riguardano la crisi francese che allontana, anziché avvicinarla, la Francia dall’Italia.
Che cos’è il Pd? Anzitutto è un partito post-ideologico. Abbiamo già affrontato altre volte il tema dell’ideologia. Dai tempi dell’Urss e del comunismo staliniano per i liberali l’ideologia era una peste da cui liberarsi. Perfino Albert Camus, che fu certamente un uomo di sinistra, detestava appunto come la peste l’ideologia.
Personalmente credo che l’ideologia sia una forma di pensiero astratto che esprime un sistema di valori e dunque penso che l’ideologia non sia eliminabile a meno che non si elimini il pensiero. Un sistema di valori è un’ideologia, le Idee platoniche sono la teoria ideologica della perfezione; le creature effettivamente esistenti sono imperfette perché relative e l’ideologia platonica è per esse un punto di riferimento. Abolite il punto di riferimento ed avrete un’esistenza day-by-day, la vita inchiodata al presente senza né passato né futuro.
Se torniamo ad un partito politico, la mancanza di ideologia ha lo stesso effetto: lo inchioda sul presente.
Nella Dc, Alcide De Gasperi era un politico con l’ideologia cattolico- liberale; Fanfani aveva un’ideologia cattolico-sociale; Moro un’ideologia cattolico-democratica. Andreotti non era ideologo, come ai suoi tempi Talleyrand. Voleva il potere subito e oggi. Con la destra, con i socialisti, con il Pci, con la famiglia Bontade, contro la famiglia Bontade.
Senza passato e senza futuro.
Ai tempi nostri Berlusconi è stato la stessa cosa. Scrive Giuliano Ferrara sul “Foglio” di giovedì scorso che al cavaliere di Arcore sarebbe piaciuto di governare la destra moderata guidando un suo partito di sinistra. Questo sarebbe stato il suo capolavoro. Del resto la sua azienda lavorava per Forlani e per Craxi: da sinistra per la destra. Non sarebbe stato un capolavoro? Per un pelo non ci riuscì e fu tangentopoli ad aprirgli le porte del potere. E Renzi? Nell’articolo intitolato (non a caso) “L’erede”, Ferrara scrive: «Renzi sta costruendo una sinistra post-ideologica in una versione mai sperimentata in Italia e volete che un vecchio e intemerato berlusconiano come me non si innamori del boyscout della provvidenza e non trovi mesta l’aura che circonda il nuovo caro leader?».
Mi pare molto significativo quest’entusiasmo di un berlusconiano intemerato al caro boy-scout post-ideologico della provvidenza. Ma il Pd? Come reagisce la sua classe dirigente e soprattutto i parlamentari? I parlamentari, salvo qualche eccezione, sono molto giovani e per ora stanno a guardare. Gli interessa soprattutto andare fino in fondo alla legislatura. Ma la classe dirigente renziana ha una univoca provenienza: viene dalla costola rutelliana della Margherita. La documentazione è fornita con molta completezza (sempre sul “Foglio” dello stesso giorno) da Claudio Cerasa.
Non c’è un solo nome renzista che provenga dal Pci-Pds-Ds. Nessuno. Margherita rutelliana. Se non è Andreotti, poco ci manca.
Parola di Renzi, non salta il Tap
di Gianmario Leone (il manifesto, 14 settembre 2014)
«Siamo sempre pronti a discutere di tutto. Ho rispetto per il coraggio di chi dice no ma chi dice no non può dire stop. I cittadini hanno il diritto di vedere realizzate le opere che servono». Così il premier Matteo Renzi si è espresso ieri sul gasdotto Tap, che giovedì ha ottenuto dal ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, la firma sul decreto di compatibilità ambientale dell’opera.
Dopo aver terminato l’intervento nel giorno dell’inaugurazione della Fiera del Levante, il premier ha incontrato i sindaci di Melendugno e Vernole.
Un’idea di democrazia alquanto bizzarra quella di Renzi: si può dire di no, ma non ci si può metterin mezzo ed interferire con quanto decide un governo e le multinazionali del gas. E se poi sono gli abitanti stessi a non volere sul loro territorio determinate opere, non è dato sapere chi sono i cittadini citati da Renzi che hanno «diritto» a vedere realizzate opere definite strategiche per l’economia nazionale ed europea.
Sulla vicenda della Tap, ieri è intervenuto nuovamente il governatore della Puglia Nichi Vendola. Sottolineando che i due no alla realizzazione dell’opera pronunciati dal comitato tecnico di Via della Regione non hanno una matrice disfattista o aprioristica: ma si basano su delle rilevanze, anche di natura scientifica, sposate in pieno dal ministero dei Beni Culturali che sempre giovedì ha espresso il suo parere negativo sulla realizzazione del progetto in un territorio, come quello del Salento, di pregio ambientale, storico e turistico.
Inoltre, Vendola ha manifestato la contrarietà della Regione anche in merito a un altro argomento spinoso e molto sentito dalle popolazioni che affacciano sull’Adriatico: le trivellazioni in mare. «Abbiamo il diritto di ribellarci alle trivelle in questa nostra striscia di mare, pensiamo che l’Adriatico non possa subire l’impatto di una sua mutazione in piattaforma energetica. Diciamo sì alla generazione diffusa di rinnovabili, sì alla somatizzazione delle città, sì all’efficientamento energetico degli edifici. Diciamo no a ciò che ci toglie l’orgoglio di essere protagonisti del nostro sviluppo: la ricchezza non è nascosta sotto i fondali, la ricchezza è la costa, la pesca, il turismo, il colore del nostro mare».
Il tour pugliese del premier Renzi, nella giornata di ieri ha toccato altri due luoghi simbolo della Regione: Peschici e Taranto. Nel Gargano il presidente del consiglio ha ribadito l’impegno del governo per far sì che il territorio devastato dall’alluvione dello scorso 5 settembre, torni quanto prima ai suoi antichi splendori. Ribadendo che il Gargano non è morto ed è pronto a risorgere.
Certamente più complicata e spinosa la questione dell’Ilva di Taranto. L’arrivo del premier è stato annunciato da Palazzo Chigi soltanto nella tarda serata di venerdì. Un incontro in Prefettura completamente blindato, al quale hanno presto parte solo le istituzioni e i sindacati. Definiti «i rappresentanti dei lavoratori»: cosa alquanto bizzarra anche questa, visto che oltre il 60% dei lavoratori dell’Ilva di Taranto non ha tessera sindacale. E che all’incontro è stata vietata la partecipazione degli operai Ilva del comitato «Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti». Così come è stato negato l’accesso alla stampa e soprattutto ai rappresentanti delle tante associazioni locali che da anni si battono contro l’inquinamento prodotto dal più grande siderurgico d’Europa. Il centinaio scarso di cittadini presenti in sit-in all’esterno della Prefettura, ha contestato duramente il premier, arrivando anche al contatto con le forze dell’ordine: la tensione però è presto rientrata.
Anche in questo caso però, Renzi è stato inamovibile: entro Natale tornerà a Taranto, perché entro dicembre l’Ilva avrà quasi certamente un’altra proprietà e altri azionisti. Renzi ha confermato l’esistenza di vari gruppi industriali stranieri interessati a rilevare l’Ilva, ribadendo un concetto noto: che qualsivoglia piano industriale dovrà recepire il piano ambientale, per consentire allo stabilimento tarantino la riconversione degli impianti inquinanti dell’area a caldo.
Un’impresa titanica, che abbisogna di svariati miliardi di euro. Ma spazio per altri confronti o per una riconversione dell’economia del territorio tarantino non ce ne sono: perché anche in questo caso l’Ilva è un’azienda strategica per una «potenza industriale» come l’Italia. Sia come sia, la situazione finanziaria dell’Ilva è tutt’altro che rosea: ottenendo in settimana la prima tranche del prestito ponte dalla banche ammontante a 155 milioni, il commissario straordinario Piero Gnudi ha dato il via al pagamento degli stipendi di agosto, che molti operai otterranno soltanto domani, in ritardo di alcuni giorni sulla data del 12 che è da sempre quella in cui vengono pagati gli stipendi.
Renzi ha concluso il suo tour pugliese, affermando che «la gente fa il tifo per me»: resta da chiarire a chi si riferisse.
Rivolta contro Renzusconi
Consulta, decima fumata nera. I franchi tiratori di Pd e Forza Italia impallinano i candidati del Patto del Nazareno: Luciano Violante(Pd) e Donato Bruno (FI)
È la fronda che si oppone su entrambi i fronti al “partito unico” di Renzi e Berlusconi
Un’intesa che si è già saldata in tutta Italia per governare le ex Province e le Aree metropolitane Oggi il premier costretto a celebrare i suoi 1000 giorni in un Parlamento in subbuglio
di Fabrizio d’Esposito (il Fatto, 16.09.2014)
Donato Bruno, insaccato dentro un ampio doppiopetto blu berlusconiano, fende per l’ennesima volta il Transatlantico, apre la porta-finestra che dà sul cortile di Montecitorio, scende pochi gradini e si accende la decima sigaretta in meno di un’ora. Quanto fuma, Bruno. L’avvocato pugliese che vuole diventare giudice costituzionale è in ansia ma ai cronisti dice: “Sono sereno”. Usa l’aggettivo più sfigato nell’era renziana. Accanto a lui, c’è Nitto Palma, ex guardasigilli, tabagista come Bruno. Sono due previtiani di acciaio, “Nicola” e “Nitto”. Nel giro di un fine settimana, Bruno da alfiere della ribellione di Forza Italia contro B. (che voleva il giannilettiano Catricalà) è diventato uno dei due simboli del patto renzusconiano sulla Consulta. Un giudice al Pd, l’altro al partito del Pregiudicato. Ma la fumata è ancora nera, nera, nera.
E sono dieci senza risultati
La decima votazione per eleggere i due nuovi componenti della Corte costituzionale inizia alle quindici. Nel Pd, resiste la candidatura di Luciano Violante, dalemiano nonché uomo del Colle. Ma per la coppia Violante-Bruno è da subito brutto tempo. Le previsioni negative si sprecano. I berlusconiani fedeli a Denis Verdini, lo sherpa dell’accordo del Nazareno, vanno in giro a rassicurare i colleghi democratici. Mostrano un sms sul telefonino. “Vedete, non è vero che stiamo votando solo Bruno, le indicazioni sono per tutti e due, per lui e Violante”. Segue declamazione del messaggino. Allo stesso tempo, nell’emiciclo della Camera, il fiore renziano delle riforme, Maria Elena Boschi, accarezza e massaggia la schiena del previtiano. Il ministro bissa il bacio quasi carnale con il già citato Verdini al Senato, quando è stata approvata in prima lettura la distruzione della nostra Carta.
Berlusconiani e renziani si baciano, si accarezzano, si parlano, ridono insieme ma sulla Consulta non ce la fanno. Bocciato Bruno, bocciato Violante. Il previtiano raccoglie 529 voti, il dalemiano uno in più, 530. Sulla nuova faccia oscura dell’intesa Bierre (copyright Formica) si sfogano tutti i mal di pancia contro l’inciucio tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato. I più forti sono dentro Forza Italia. Ed è quasi un paradosso. Il ribelle Bruno si è trasfigurato nel candidato istituzionale ma non ce la fa. Sulla carta, democrat e azzurri assommano ben 553 tra senatori e deputati. Il quorum è di 570. Con i 110 centristi circa (alfaniani, casiniani, ex montiani), si dovrebbe volare. Non è così. La settimana scorsa, Violante venne falcidiato dalla faida interna forzista e si fermò a 468, mentre Bruno sfondò con 120 voti bruciando per sempre il nome di Catricalà. Adesso la colpa, dicono, è degli assenti. Votano in 802. Gli azzurri che mancano sono una quindicina. Fatti altri calcoli complicati, viene fuori che i malpancisti di destra sono almeno una quarantina, compresi i dissidenti dell’ex governatore pugliese Raffaele Fitto.
Obiettivo Nazareno
Il vero obiettivo dei ribelli è il patto del Nazareno nelle sue varie forme. La più indigesta è quella con la chioma leonina e argentata di Verdini. L’accordo gli ha dato un potere immenso e in fondo, raccontano, la paternità del fallimento di Catricalà è sua. Doppio gioco, che sarebbe stato completato, raccontano sempre, se il Pd avesse giubilato definitivamente Violante. Un trappolone ordito, in pratica, da due toscani, lui e “Matteo”. Violante, però, per il momento non desiste, nonostante tre bocciature. Qualcuno lo chiama “accanimento terapeutico”. Oggi si riprenderà alle 18 e i renzusconiani stavolta confidano nel superamento del quorum. Se i due dovessero farcela contribuirebbero ad alzare il tasso di politicizzazione della Consulta. Non era mai accaduto sinora. Violante, Bruno e il già nominato (dal Colle) Giuliano Amato, ex craxiano. Tenendo presente i due giudici che scadono a novembre in quota Napolitano, il tasso potrebbe aumentare ancora. È la via renzusconiana per uscire nel modo peggiore, e con la benedizione del Quirinale, dal ventennio di guerra tra politica e magistratura. Non solo.
Prove generali per il Quirinale?
Una frase di Renato Brunetta, capogruppo azzurro alla Camera, sembra profetica: “Con 530 voti non si cambia candidato, con questi numeri si elegge il presidente della Repubblica”. Nel garbuglio di ipotesi per il 2015, propedeutica all’eventuale voto politico potrebbe essere l’annunciata successione di Napolitano. Oggi a Roma tornerà anche il Condannato. Da giorni, più fonti riferiscono di un nuovo incontro tra B. e il premier. Con la vicenda Violante da un lato, con quella Catricalà-Bruno dall’altro, per la prima volta il loro sarà un vertice che somma due debolezze.
Tiziano Act 10 aziende in trent’anni e un solo assunto: Matteo Renzi accusa i sindacati di creare precarietà. Ma il padre, inquisito per bancarotta, è uno specialista del ramo: in tutta la sua attività imprenditoriale (che ha fruttato oltre 8 milioni di euro) ha usato sempre e solo contratti atipici
Intanto l’inchiesta dei pm di Genova s’allarga ad altre imprese collegate
di Davide Vecchi (il Fatto, 21.09.2014)
Genova Dieci società in trent’anni e appena un dipendente a tempo indeterminato: il figlio Matteo. Della vita imprenditoriale di papà Tiziano Renzi, ora sotto la lente degli inquirenti di Genova che lo hanno indagato per la bancarotta della Chil Post, colpisce anche la gestione del personale. Dal 1984 a oggi, le dieci società che impegnano Renzi senior fanno uso quasi esclusivo di lavoratori atipici. Anche le sorelle di Matteo, del resto, sono tuttora inquadrate nell’azienda di famiglia, la Eventi 6, con contratti co.co.co. E l’attuale premier è stato regolarizzato appena una settimana prima della candidatura alla poltrona sicura di presidente della Provincia di Firenze così da vedersi versare i contributi previdenziali prima da Palazzo Medici Riccardi e, una volta diventato sindaco, da Palazzo Vecchio. Lui si è affidato alla politica, mica ai sindacati.
NEI CAPANNONI renziani nessun problema di licenziamenti per l’articolo 18, picchetti per la tutela dei diritti, cause di lavoro e via dicendo. Tutto dribblato alla radice. E ora, da premier, Renzi junior vuole adottare il Jobs act, una riforma del lavoro che secondo Cgil, Cisl e Uil cancella un paio di secoli di lotte. Lui difende la sua creatura. E attacca. “A quei sindacati che vogliono contestarci io chiedo: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia, tra chi il lavoro ce l’ha e chi no, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi precario? ”. Insomma è colpa dei sindacati se l’esercito più numeroso d’Italia, dopo i pensionati, è quello dei precari. Una convinzione forse maturata vedendo le attività del padre.
Proprio sui contratti atipici, infatti, sembra fondarsi il Tiziano Act. E le società di Renzi senior, per quanto rimanessero in vita spesso meno di due anni, avevano comunque un’attività importante. Alcune hanno registrato anche risultati economici di rilievo. Come la Chil Post che nel 2009 supera i 4 milioni di euro di fatturato o la Mail Service che nel 2006, prima di essere ceduta, chiude il bilancio indicando nello stato patrimoniale un attivo di 4 milioni. La Uno Comunicazione e la Arturo, società attive tra il 2002 e il 2008, registrano rispettivamente ricavi di 458 mila e 954 mila euro.
Insomma le aziende di lavoro ne hanno. In settori per lo più legati all’editoria: distribuzione di giornali e volantini, attività di marketing e promozione di iniziative specifiche legate a determinati prodotti, solitamente allegati alle riviste. Attività che richiedono dunque molta manodopera. Lo stesso Matteo Renzi, prima di darsi alla politica, lavorava alla Chil Post e consegnava il materiale da distribuire in vari punti di Firenze agli strilloni. In gran parte studenti universitari. Giovani.
IN CITTÀ molti hanno collaborato con la Chil, alcuni sono poi diventati giornalisti di testate locali. Quelli che abbiamo rintracciato ci hanno concesso il ricordo di quell’esperienza in cambio dell’anonimato. “Era faticoso perché ci svegliavamo all’alba, ma per il resto era il classico lavoro da studenti e ci ripagavamo sigarette e qualche uscita di sera”. Il contratto era atipico. “Ma era regolare, cioè potevano farlo e fra l’altro devo dire che era onesto perché oltre al fisso ci riconosceva una percentuale, seppur minima, su ogni copia che riuscivamo a vendere”. Lo stipendio più alto ricevuto? “400 euro, mi sembra di ricordare, su un annetto buono di lavoro”.
QUANTIFICARE i contratti atipici firmati da Tiziano Renzi è impossibile. Ma dai bilanci e dalle visure risulta che ha firmato un solo tempo indeterminato, al figlio Matteo. Dalla prima società, la Speedy, creata nel luglio 1984 e poi liquidata nel 2005, alla Chil Post, ultima azienda di cui il padre del premier è stato titolare. Nel 2007 figurano tre “addetti” alla Arturo, indicati dalla Camera di Commercio come dato “ufficioso”. La società gestiva un forno e la compravendita di beni alimentari, attività che possono essere svolte solo con l’impiego di alcune specifiche figure professionali. Lo dice la legge, in effetti, mica i sindacati.
Renzi tema soprattutto se stesso
Il nemico allo specchio
di FERRUCCIO DE BORTOLI (Corriere della Sera, 24 settembre 2014)
Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante.
Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.
L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere. E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra.
Patto del Nazareno, Corriere: “Odore di massoneria, siano pubblici i contenuti”
di Redazione (Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2014)
Una squadra di governo “in qualche caso di una debolezza disarmante“, in cui “la competenza appare un criterio secondario“, composta da ministri “scelti per non fare ombra al premier”. Ma sopratutto un patto del Nazareno che eleggerà il nuovo capo dello Stato e che è in “odore di massoneria“. Nel giorno in cui il Corriere della Sera lancia il restyling della versione cartacea, il direttore Ferruccio de Bortoli esprime un giudizio netto sul premier, sul suo operato e sull’accordo alla base delle riforme istituzionali stretto con Silvio Berlusconi. Il direttore affida il proprio pensiero all’editoriale che inaugura il nuovo corso grafico, un editoriale in cui l’eleganza delle espressioni non nasconde un giudizio negativo sulla scelta dei ministri e il modo in cui Matteo Renzi concepisce e affronta il proprio mandato.
La sentenza è contenuta nelle prime battute dell’articolo: “Devo essere sincero: Renzi non mi convince“, esordisce De Bortoli che ha avverte il premier: “Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso”. Perché se è vero che “una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader”, quella del presidente del Consiglio “è ipertrofica”. E non tanto questione di personalità, quanto di contenuti: la sua “muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan”. Perché “l’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa” e “un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto”. ”In Europa - avverte il direttore del Corriere - meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti”.
I tratti della personalità del presidente del Consiglio non sono il suo unico limite. Secondo il direttore del quotidiano di via Solferino, a pesare negativamente è la composizione della squadra di governo, infarcita di fedelissimi e composta in base al criterio della toscanità: “Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito - continua De Bortoli - lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato“. Una gestione applicata anche al Partito Democratico: “Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere”.
Ma “l’interrogativo più spinoso”, come lo chiama De Bortoli, sorge qualche riga dopo: “Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria”. De Bortoli parla di “sospetti”, ma l’accusa è netta e il giudizio impietoso: alla vigilia dei decisivi passaggi parlamentari delle riforme costituzionali e della legge elettorale che costituiranno il nuovo architrave istituzionale dello Stato, il direttore del Corriere punta i fari contro le molte contraddizioni alla base dell’accordo tra il Partito Democratico e Forza Italia. Un termine forte “massoneria”, difficilmente usato da De Bortoli soltanto per indicare la natura segreta dell’accordo. Un patto che, è il secondo interrogativo sollevato, riguarderebbe anche la televisione pubblica, primo produttore culturale del Paese, storicamente al centro degli interessi della politica e ora oggetto di un’intesa dai contenuto opachi tra il capo del governo e quel Silvio Berlusconi già padrone incontrastato dell’offerta televisiva privata.
Il Corriere affonda Renzi: puzza di massoni dietro il patto con B.
Editoriale durissimo del direttore De Bortoli che denuncia l’arroganza del premier e la debolezza dei ministri
di Stefano Feltri (il Fatto, 25.09.2014)
Perché il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli attacca così frontalmente il premier Matteo Renzi? Perché evoca la troika, i segreti del patto del Nazareno e, a questo proposito, sente lo “stantio odore della massoneria”? Spiegazione giornalistica: ieri il Corriere ha cambiato formato e grafica, ci voleva un editoriale del direttore e De Bortoli è riuscito a scriverne uno che ha reso imperdibile la lettura del giornale.
Ma il Corriere è anche il giornale dei poteri (un tempo) forti, quello che la loggia P2 comprò con i soldi del banco Ambrosiano di Roberto Calvi e nel cui azionariato tormentato tuttora si scontrano gli ultimi frequentatori dei salotti della finanza, Diego Della Valle contro Giovanni Bazoli di Intesa e la Fiat di Sergio Marchionne e John Elkann. E se il Corriere sfiducia il governo - a cui non ha mai riconosciuto grandi meriti - nei palazzi romani si passa la giornata a cercare il mandante o almeno un’interpretazione.
DE BORTOLI PARLA di “muscolarità che tradisce debolezza” e di una squadra di ministri “di una debolezza disarmante” (tranne Pier Carlo Padoan all’Economia), uomini e donne scelti in base alla fedeltà invece che alla competenza. Osservazioni molto condivise in quei settori di impresa e finanza che hanno accolto con entusiasmo Renzi ma ora non vedono alcun miracolo.
Basta leggere il Sole 24 Ore di Confindustria o gli editoriali di Wolfgang Munchau sul Financial Times. Soltanto Sergio Marchionne, che si prepara ad accogliere Renzi alla Chrysler a Detroit e invoca la riforma dell’articolo 18, rimane decisamente renziano: “L’editoriale del Corriere? Normalmente non lo leggo”. Parole che evocano quelle che usò Silvio Berlusconi nel 2008 quando suggerì a Giulio Anselmi della Stampa e a Paolo Mieli del Corriere di “cambiare mestiere”. I due direttori furono cacciati. De Bortoli non corre lo stesso rischio perché è già stato licenziato, se ne andrà in primavera come da accordi con l’azienda, dopo ripetuti scontri con l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane. Per lunghi mesi, quindi, De Bortoli sarà al comando ma libero - più del solito - di dire quello che vuole.
E allora avanti con le suggestioni, a metà tra fantapolitica e analisi. Renzi aveva attaccato in Parlamento, con toni intimidatori, proprio il Corriere, reo di aver dato notizia dell’indagine per corruzione internazionale su Claudio Descalzi, il manager scelto dal governo per la guida dell’Eni. E il premier, il 16 settembre, alla Camera attacca: “Non permettiamo a un avviso di garanzia citofonato sui giornali o a uno scoop di cambiare la politica industriale nazionale”. E allora, zac, De Bortoli risponde alle minacce con l’editoriale “Il nemico allo specchio”. Il sito Dagospia riferisce anche che il premier avrebbe protestato perché da via Solferino avevano mandato un inviato nell’albergo delle vacanze presidenziali a Forte dei Marmi.
Ma queste sono minuzie che non appassionano chi preferisce vedere disegni più vasti dietro l’attacco del Corriere. Tipo: Mario Draghi ha ormai deciso di lasciare la Bce l’anno prossimo per andare al Quirinale, dove Renzi non lo vuole perché si troverebbe commissariato, De Bortoli supporta Draghi e asseconda quei poteri che sarebbero rassicurati dal vedere il banchiere centrale al vertice della politica italiana (peccato che non è affatto detto che Draghi voglia e possa andarsene da Francoforte senza destabilizzare i mercati mondiali). Infine l’ipotesi più ardita: il direttore del Corriere pensa alla politica, ma non come sindaco di Milano (ipotesi di cui si discute da anni), bensì come portabandiera di uno schieramento alternativo al Pd renziano. I salotti non hanno più un loro uomo, visto che l’ambizioso Corrado Passera convince poco.
FANTAPOLITICA a parte, resta quel riferimento sorprendente alla massoneria. Forse De Bortoli ha indiscrezioni su indagini fiorentine? Siti e personaggi dalla discutibile attendibilità sostengono che ci siano legami tra Tiziano Renzi, il papà, Denis Verdini (Forza Italia) e logge toscane. Illazioni mai dimostrate. Dall’America Renzi commenta solo così: “Auguri al Corriere per la nuova grafica”. In privato si limita a dire: “Se c’è una cosa che è lontana da me e da mio padre è la massoneria”. Vedremo se De Bortoli e i suoi cronisti produrranno elementi per smentirlo.