L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli*
di Lea Melandri *
Una delle ragioni dell’oblio che è caduto sulla figura di Elvio Fachinelli, nonostante le sue analisi sulla modificazione dei confini tra individuo e società, natura e cultura, inconscio e coscienza, siano oggi più attuali che negli anni ’70 e ’80, va cercata proprio nell’originalità di una ricerca che ha contrapposto fin dall’inizio “prospettive impensate” alla “tragica necessità del dualismo”.
Convinto che l’“insubordinazione”, la “rottura pratica delle regole imposte” fosse “il cuore di ogni politica”, Fachinelli non poteva ignorare gli effetti rovinosi della dialettica che ha spinto gran parte della specie a ricorrere a dicotomie astratte e a mantenerle in vita una volta esaurito il loro valore simbolico. La scoperta dei “nessi” che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro - la sostanziale inscindibilità del soggetto umano - delinea, fin dagli anni ’60, quello che sarà il percorso inconfondibile della sua “avventura” teorica e pratica, le “nuove strade” che veniva proponendo contemporaneamente alla psicanalisi e all’agire politico.
A distanza di un solo anno, due scritti tra loro molto diversi appaiono altrettanto “illuminanti”: la voce “Freud”, per le edizioni CEI (1966) e l’articolo su Lettera a una professoressa di Don Milani (1967). Non è casuale, nella biografia del grande “conquistador” dei territori sconosciuti dell’umano, l’accostamento a Marx, esploratori entrambi dei “fondamenti” della coscienza borghese, il primo a partire dalla crisi della famiglia, l’altro dalla nascita dell’industria. Dall’ombra del rimosso non emergono solo il corpo, i residui preistorici dell’infanzia, il “caotico mondo dell’antiragione”, ma anche lo sfruttamento economico, la divisione che “privilegia una classe e ne scarta un’altra”, il cui antecedente - scriverà nell’articolo su Don Milani - è già in una scuola che seleziona. Fare cultura attraverso ciò che la cultura tradizionale considera “rifiuti”, “tabù”, esperienze innominabili, si può considerare il tratto distintivo, la linea di continuità che tiene insieme, nonostante “tagli”, “stacchi”, “sorprese”, la ricerca di Fachinelli anche nei due decenni successivi.
“Freud vide emergere lentamente, al di là della barriera della coscienza, l’essere mutilato, conculcato, che siamo costretti a chiamare corpo, con i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue ramificanti fantasie. A questo viluppo di rapporti, che si sarebbe rivelato straordinariamente complicato, egli diede il nome di sessualità (...) per la prima volta la ragione esplora ciò che in apparenza le si è sempre opposto come antiragione -quel caotico mondo della notte che(...) è sempre stato sentito, secondo le parole di Novalis, come la nostra ‘patria’ più segreta.(...) E infatti gli angeli e i mostri che popolano questa notte si rivelano a poco a poco famigliari (...) ‘Io mi sono limitato al pianterreno e alle fondamenta dell’edificio’(...) E qui probabilmente è anche uno dei momenti di affinità profonda con la critica della coscienza borghese elaborata da Marx una cinquantina di anni prima, sulla base del disvelamento di un altro rimosso, l’inconscio socioeconomico.” (1)
La domanda con cui si chiude la voce Freud - “Come si passa da questo individuo alla generalità degli individui?” - viene ripresa e articolata su un versante più specificamente sociale e politico nello scritto del ’67, pubblicato su “Quaderni piacentini”. Il punto di vista da cui guardano il mondo “il ragazzo contadino e anche operaio”, bocciati a scuola, riporta alla coscienza “quello che già sappiamo e che abbiamo dimenticato, allontanato da noi”.
“Quello che dice il libro - lo sappiamo già; o lo sapevamo; è già tutto inquadrato e sistemato. Ma lo dimentichiamo continuamente. La sorpresa, insieme al disagio, nasce appunto dal fatto che ora vediamo una cosa che sapevamo, e che abbiamo dimenticato, allontanato da noi (...) la mia rimozione individuale del sociale è parallela alla rimozione sociale degli individui (...) questo rimosso permane, sta sempre sveglio, mi deforma dal di dentro anche se lo ignoro (...) il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.” (2)
Sul rapporto individuo e società, psicanalisi e politica, Fachinelli ritorna più volte negli scritti giornalistici e nelle interviste, che coprono circa un trentennio: un materiale prezioso che non può essere considerato solo un’appendice dei suoi libri. Se con la fine dei movimenti non autoritari degli anni ’70 - la rivista “L’erba voglio”, il movimento giovanile del ’77, le radio libere, ecc. - la ricerca condotta nell’ambito della relazione analitica sembra prendere il sopravvento sull’impegno politico, la lettura che Fachinelli stesso dà di questa “svolta” conferma che l’orientamento iniziale non è cambiato. Compito della psicanalisi resta la domanda “cosa sia l’uomo” - l’attenzione verso ciò che non è noto, l’inatteso, il sorprendente; il suo fallimento storico: “non essere riuscita a intervenire, se non occasionalmente, nei luoghi in cui si forma l’individuo socializzato”.
L’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, la pratica dell’inconscio nel movimento delle donne, avevano fatto sperare in un “tipo di conoscenza” che potesse “usare l’analisi senza essere per altro l’analisi (...) in grado di fornire alcuni modi nuovi di agire”, da cui si potesse dedurre “un certo tipo di politica”. I problemi difficili e invischianti a cui, presto o tardi, vanno incontro i gruppi - il ripiegarsi del desiderio di accomunamento in logiche di bisogno, difesa e chiusura verso l’esterno, di cui Fachinelli aveva analizzato i segnali nel controcorso tenuto all’università di Trento nel 1969 - riportano al centro l’individuo, “intrinsecamente connesso, già all’origine, col suo gruppo sociale”, ma anche “polo distinto” capace quindi di “obiettare”, di muoversi sui tempi diversi che segnano l’agire dell’uomo.
Attualità e inattualità, presente e passato, continuità e imprevisto, intelligenza personale ed elaborazione collettiva, non ubbidiscono a “passaggi meccanici”, il rimando reciproco non è quello di causa-effetto o del discorso lineare, ma dei “movimenti improvvisi”, della frattura. A tenerli insieme è la possibilità della “ripresa” aperta a nuove, impensate soluzioni. L’esigenza antropologica che porterà Fachinelli negli anni ’80 ad esplorare strati percettivi e cognitivi della mente tenuti ai margini, disconosciuti, perché sentiti come “minacciosi per l’Io ben individualizzato”, non è la rinuncia al suo precedente impegno politico ma la sua estensione.
“...sono sempre diviso tra l’interesse per ciò che mi passa accanto in un preciso momento e un uso più profondo, più personale e intenso del tempo. Vorrei dire quasi un uso solitario.” (3)
“...questa storia dell’analisi che deve durare anni e anni presuppone una teoria del mutamento psichico basato su piccole mutazioni, su una certa idea socialdemocratica, per dirla alla Benjamin, dello sviluppo psicologico. Secondo me, invece, non è così. O non è così per l’essenziale. Nella nostra esperienza, ciò che ci cambia avviene piuttosto per sorpresa, per movimenti improvvisi, non per accumulo molecolare (...) Avvengono per salti, per lampi, in modo discontinuo.” (4)
“...sono diventato più silenzioso e attento; più ricettivo forse. Non credo più, se ci ho mai creduto,alle asserzioni, allo stile affermativo o perentorio, ai discorsi d’impostazione e di programma. Ciò che è importante arriva dal fondo, dal silenzio, da una specie di passività. Il che non vuol dire: lentamente; no, anzi a volte vuol dire: bruscamente, all’improvviso, ma sempre dal fondo, come una voce diversa e insieme sempre chiara, limpida (...) Ho imparato a vivere il discontinuo, a non pretendere passaggi di sicurezza là dove non ce ne sono,o perlomeno là dove non ne conosco. Forse meglio dire: sopportare l’angoscia. Meglio ancora: sopportare la solitudine. (...) Mi accorgo allora che i programmi fatti, per esempio a partire da un certo libro, tendo a perderli, a scartarli. Sono deviato da un interesse più urgente, più fresco. Anche se dopo, a cose fatte, mi è possibile vedere che in fondo sono andato avanti nel solco di una linea presente anche prima.” (5)
Nell’intervista con Elisabetta Rasy del 1989, dopo la pubblicazione de La mente estatica, i nessi di un percorso decisamente anomalo, “dal movimento all’estasi”, vengono descritti da Fachinelli con particolare chiarezza. L’emergere di un “modo della mente” legato allo stadio arcaico della nascita e della vita intrauterina non poteva che venire dalla sua esperienza di analista, dal formarsi di uno “stato fusionale” col paziente, simile all’originaria unità duale tra la madre e il figlio: “una consonanza tra l’uno e l’altro che realizza un mondo a sé stante e una sorta di annullamento del tempo” che porta l’analisi a farsi interminabile. Ma questa diversa percezione delle cose, presente in ogni situazione creativa e accessibile a tutti - il momento in cui “arriva dall’esterno una illuminazione o una intuizione” -, non avrebbe potuto uscire dai margini in cui è stata tenuta finora dalla stessa psicanalisi senza la messa in discussione del rapporto tra normalità e patologia, tra il tempo regolato dell’analisi e la percezione soggettiva del tempo, tra una ortodossia preoccupata di porre difese e controlli e l’accoglimento dell’imprevisto della vita.
L’ “estatico”, inteso come “la possibilità di uno sguardo dilatato, una visione più ampia e più profonda di noi stessi, un’esperienza a cui partecipa tutto il corpo”, è meno distante di quanto si potrebbe pensare da quella “passione dell’uomo”, da quella “molteplicità di manifestazioni di vita umane” di cui parlava Marx, e che Fachinelli rimprovera alla tradizione marxista di non aver saputo cogliere. La “gioia massima”, che Freud aveva rifiutato sentendola come eccessiva e pericolosa, richiama non a caso la categoria del desiderio che compare negli articoli del ’68-’69, a proposito della “dissidenza giovanile” e del movimento non autoritario.
“Nel ’68, e in generale nella mia pratica politica, io non ho mai aderito alla concezione marxista. Proprio nel ’68 ho scritto un saggio intitolato Il desiderio dissidente: nel Movimento io trovavo proprio questa categoria di desiderio, con tutte le sue enormità, il suo senso di morte, anche. Tanto che fui attaccato dai marxisti. Per cui, secondo me, c’è una grande continuità nel mio lavoro di allora e di oggi.” (6)
Che la “folata” ribelle a gerarchie e formule precostituite, capace di quella “creatività generativa” che era venuta meno a una politica sempre più separata dalla vita, fosse ancora molto presente e in grado di suscitare in Fachinelli emozioni e speranze, lo prova un articolo del 1987: “Che bella rivoluzione. Oggi siamo tutti soli”.
“Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia (...) Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi,una bella contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi eppure aguzzi e taglienti per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti, svaniti, introvabili. Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio e della libertà (chi ha mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando.” (7)
La critica che Fachinelli aveva fatto alla società dei consumi negli scritti del ’68-69 parte da un presupposto analogo a quello che lo porta ad attaccare con particolare durezza tutte le istituzioni che promettono sicurezza in cambio di subordinazione, obbedienza, passività, “perdita di sé come progetto e desiderio”, non esclusa la Società di psicanalisi, “fortezza burocratica” che forma e seleziona “analisti senz’anima”, “personalità smussate, arrotondate, senza spigoli”. Contro la dipendenza, la passività attendista, che risorge come risposta all’isolamento e al senso di impotenza riattivando necessità elementari - sopravvivenza, nutrizione, calore -, il richiamo è sempre all’individuo, all’assunzione di responsabilità in prima persona, al “viaggio” che porta a ritrovare all’interno di se stessi un “patrimonio comune” di esperienze, di sogni, di risorse vitali insospettate.
Anche in quella singolare “conversazione conoscitiva” che è l’analisi, dove “c’è uno che parla il più liberamente possibile e uno che sta a sentire”, ci sono esperienze personali variamente stratificate che emergono per entrambi gli interlocutori, in modo imprevedibile, sia pure “a tempi spostati”, “per sincopi”, senza un vero dialogo.
Psicanalisi e marxismo, assolutizzando l’una l’infanzia e la vita del singolo, l’altro i rapporti di produzione, hanno finito per diventare due ideologie e svuotare di senso l’unico luogo - l’intelligenza personale - da cui far ripartire ogni volta la relazione con se stessi e col mondo.
Il rapporto indoviduo-società, tempo lineare della storia e tempo soggettivo fatto di salti e imprevisti, filo conduttore dell’inesauribile curiosità intellettuale di Fachinelli, ritorna in una trasmissione radiofonica del 1989, l’anno della sua morte. Il riferimento è a Freud e ai fenomeni collettivi, ma vi si può leggere quella che è stata la più profonda convinzione di tutta la sua ricerca.
“...il problema della società si configura così non come una semplice amplificazione dei problemi del soggetto individuale, ma in un certo senso come una situazione di mescolanza, se non di capovolgimento, in cui il soggetto individuale è già intrinsecamente, all’origine, connesso al suo gruppo sociale, alle sue appartenenze esterne. E questo non per un legame che gli venga imposto dal di fuori, ma proprio come fondazione della sua stessa soggettività”. (8)
Aver ridotto l’individuo a “scarto”, residuo della totalità sociale, e il corpo a natura imperfetta, innominabile dell’umano, confusa con la matrice femminile della vita, ha impoverito e ingabbiato il mondo della recettività e delle esperienze più creative. Ma ha permesso anche che crescesse nelle viscere della storia un rimosso capace di deformare l’uomo e la sua civiltà “dal di dentro”. Sorprese, imprevisti - prima ancora di arrivare alla messa a tema delle “illuminazioni” dell’estatico - scandiscono come un contrappunto il “viaggio privato” che Fachinelli va facendo sia attraverso la singolare “figura storica” del rapporto analitico, sia nei gruppi di autoformazione e iniziativa politica. Nello sguardo di un esploratore e ascoltatore di se stesso, che come Freud non esita ad addentrarsi nel “caotico mondo della notte”, il rimosso della storia prende figure e nomi. Gli angeli e i demoni che popolano la nostra “patria” più segreta lasciano un secolare esilio per entrare impercettibili in una quotidianità che scopre così nuove forme del “reale” e del “possibile”.
L’uscita dal dualismo trova la sua elaborazione teorica più compiuta nel saggio Il paradosso della ripetizione, pubblicato in tre riprese sulla rivista “L’erba voglio” e poi nel libro Il bambino dalle uova d’oro (9). Il campo di ricerca attraverso cui Fachinelli va definendo la sua “nexologia umana” è quello del passaggio del bambino “da essere biologico a essere inserito nell’universo simbolico proprio dell’uomo”. Il tempo-freccia della storia e il tempo-tartaruga, che modella i suoi ritmi in consonanza con gli strati più remoti della vita dell’individuo, tracciano quella che saranno le linee guida di una originale metodologia di ricerca, la scoperta di una figura della vita psichica che modella in consonanza piani diversi della realtà individuale e sociale: le nevrosi ossessive, i riti delle società arcaiche, il fascismo (9).
Il tema del tempo, dei modi diversi con cui interviene nell’agire umano, trova sicuramente nell’analisi, nelle sacche di immobilità che la rendono “interminabile”, un luogo privilegiato di approfondimento, di sorprese e scoperte impreviste. La freccia ferma (1978), Claustrofilia (1983), La mente estatica (1989) danno conto di un interesse e di una passione conoscitiva sempre più solitaria, anche se accompagnata dalla convinzione di aprire la strada a esigenze antropologiche risultate finora impraticabili. Frugare negli stadi iniziali della vita, avendo se stesso come unica bussola, disporsi alla recettività, all’accoglimento di ciò che può emergere dal profondo, sottrarre alla patologia l’abolizione del tempo soggettivo, la perdita di controllo dell’Io, abbandonarsi a una “gioia” e a una felicità finora sconosciute, sono le aspettative impensate a cui approda la domanda di un geniale continuatore di Freud, deciso a muoversi “nell’analisi e oltre l’analisi”.
Ma se sono i libri a scavare il solco di un pensiero che si va sempre più approssimando a un’armonia col corpo e con i limiti mortali di ogni vivente, la produzione ininterrotta di scritti giornalistici e interviste che li accompagnano da prova di una sfida altrettanto sorprendente: portare le estreme regioni dell’Io a sconfinare nei territori del mondo cosiddetto “civile”, interrogare il geroglifico sociale con i “residui notturni” che ormai lo abitano indisturbati. Per uscire dalle astratte contrapposizioni dualistiche, che hanno portato la politica a separarsi sempre più dalla cultura e dalla vita, l’uomo ad accanirsi con sostituti artificiali contro la natura, non bastava far riemergere ciò che è stato escluso, valorizzare ciò che è stato rifiutato o disconosciuto. Era necessario andare all’origine della costruzione dualistica, dire perché e come ha potuto diventare una “tragica necessità”.
Pur senza affrontare direttamente la vicenda dei sessi, il posto che ha occupato storicamente la potenza virile e tutto ciò che è stato costruito in opposizione ad essa, è la polarità maschile-femminile che compare inaspettatamente a far da nesso tra la vita politica e le scoperte della pratica analitica. Sono ancora una volta due scritti che, sia pure diversi per il tema affrontato e lontani nel tempo, a portare allo scoperto la matrice sessuale della dualità: Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita (1981), Conversazioni sull’estasi (1989). I termini politici di “destra” e “sinistra” - ma lo stesso si può dire di tutte le dicotomie simboliche che, pur cambiando di sostanza e figura, hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia - rimandano alle definizioni opposte e complementari del maschile e del femminile, ma soprattutto mostrano chiaramente che uno dei due poli deve la sua marginalità e il suo disconoscimento a quello vincente. La “rivincita”, quando è costruita dall’interno e in analogia col modello dominante - un disvalore trasformato in valore - non può che andare incontro a uno scacco. È una delle ragioni dei tanti errori della sinistra politica, ma anche, mi verrebbe da dire, di quella parte del femminismo che ha pensato di sostituire “l’ordine simbolico della madre” a quello del padre, genealogie di un sesso a quello dell’altro.
“Per una riflessione intellettuale e non, propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è finora trovata gran parte della specie, di ricorrere a una specie di polarità in forte tensione di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e figura, hanno sempre svolto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele-infedele, credente-non credente nell’ambito religioso - oppure alla dicotomia razza eletta-razza reietta nel successo della propaganda hitleriana. Ed è caratteristica di queste polarità il loro spostarsi spesso, con sempre maggiore intensità e crudezza, ad ambiti via via più ristretti e selezionati. Ci basti qui pensare alle scissioni che hanno successivamente segmentato tutto l’ambito della sinistra politica.” (10)
All’origine delle scissioni che conosciamo, tra corpo e pensiero, individuo e società, attività e passività, destino dell’uomo e della donna, c’è sempre l’impostazione maschile, la “potenza virile”. La minaccia di un ritorno all’originaria indistinzione col corpo materno si può pensare che abbia reso necessario per l’uomo alzare barriere, fortificare i confini di un Io incerto, fermare lo sguardo sulla sua individualizzazione e soprattutto salvaguardare la sua civiltà da ogni possibile contaminazione con il femminile. Ma quando ciò che è parso “necessario” non è più tale, lacerazioni e contrapposizioni violente possono lasciare il posto a “una visione più profonda di noi stessi”, a una “capacità di gioia” prima sconosciuta, all’intreccio di ciò che prima appariva irrimediabilmente contrapposto.
“...l’estatico come la possibilità di uno sguardo dilatato, di una visione più ampia, più profonda di noi stessi (...) intendo l’accoglimento come capacità di vivere queste esperienze in se stesse senza rinnegarle. In questo senso ho parlato di un atteggiamento femminile, non certo per definire uno statuto o un privilegio della donna in quanto tale, ma per contrappormi all’idea del femminile come situazione all’ombra del maschile, modellata sul maschile e quindi inevitabilmente sentita come deficitaria rispetto ad esso (...) Ho accennato anche a un intreccio maschile e femminile. Nella situazione estatica vi è una sorta di resa; una pacificazione anziché una guerra, un rapporto con se stessi e col mondo diverso rispetto a quello vigile comune, che è sempre più o meno intinto di violenza e di aggressione.” (11)
Con la scoperta dell’“estatico” Fachinelli ha aperto una breccia nella “roccia basilare” di fronte a cui si era arrestato il viaggio del primo “conquistador” dell’inconscio - il rifiuto della femminilità e di tutto ciò che l’immaginario maschile vi ha deposto sopra. Ma ciò che più conta è aver visto in quella “gioia massima” che viene dal rivivere, sia pure in alcuni momenti eccezionali, la fase iniziale della vita, la possibilità che è data a tutti, uomini e donne, di prendere su di sé modi del sentire e del conoscere che sono stati finora considerati “naturalmente” femminili e in quanto tali rifiutati o privati di valore. La recettività, il dono, la cura, l’accoglimento della caducità come sorte del singolo e limite necessario di tutti i viventi, sono l’oggetto delle riflessioni accorate e lucide degli ultimi scritti giornalistici e delle ultime interviste.
Freud, Rilke e la caducità (1989), Il dono dell’imperatore (1989) parlano, indirettamente, della vicenda personale, dell’avvicinamento a una morte annunciata, ma sono non a caso anche gli scritti di massima apertura verso il mondo, la ripresa delle prospettive impensate che erano già emerse nell’ “innamoramento collettivo” del ’68, nelle “nuove istituzioni d’amore” tentate da una generazione “adolescente, indecisa, staccata o renitente rispetto alla realtà produttiva dei paesi d’occidente” (12), protagonista di una rivoluzione destinata, come il desiderio, a ripresentarsi nel futuro. In un articolo del ’76, Il denaro dello psicanalista, il nesso che congiunge le esperienze collettive degli anni ’70 al viaggio che Fachinelli farà poi in solitudine all’interno di se stesso appare già chiaramente delineato nell’idea di un tempo, non lineare, del mutamento, un tempo dove i “salti” e le “fratture” rappresentano paradossalmente la condizione stessa della “ripresa”. Per due grandi indagatori della felicità, come Freud e Fachinelli, le strade dell’individuo e della collettività, dell’inconscio e della storia, sono evidentemente inseparabili.
Note
(1) Freud, da I protagonisti della storia universale, vol.12, Il mondo contemporaneo, CEI (Compagnia Edizioni Internazionali), Milano 1966, pp.365-91.
(2) Don Milani e i ragazzi di Barbiana, “Quaderni piacentini”, n.31, luglio 1967, pp. 271-75.
(3) Che tempo fa sull’albero dei lupi? Intervista di Gabriella Buzzati, “Alfabeta”, n.11, marzo 1980, pp.11-13.
(4) Ibidem.
(5) Dal fondo, come una voce diversa. Intervista di Graziella Englaro, “Uomini e libri”, 16, 81, novembre-dicembre 1980, p.76, con titolo redazionale. In occasione della pubblicazione del libro La freccia ferma (1979).
(6) Dal movimento all’estasi. Intervista di Elisabetta Rasy, “Panorama”, 19 marzo 1989. In occasione della pubblicazione del libro La mente estatica.
(7) Che bella “rivoluzione”: oggi siamo tutti soli, “L’Espresso”, n. 14, 12 aprile 1987.
(8) Freud e i processi collettivi. Interventi di Fachinelli (Milano, 15 settembre 1989) nel programma Percorsi freudiani, realizzato da Francesco Marchioro, con la regia di Lucio Giudiceandrea, per la terza rete RAI di Bolzano.
(9) E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo. L’erba voglio, Milano 1979; quindi Adelphi, Milano 1992.
(10) Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita, “Lotta continua”, 27 ottobre 1981.
(11) Conversazioni sull’estasi, “Agalma. Rivista di ricerca psicoanalitica”, n. 2, dicembre 1989, pp.133-141.
(12) La protesta sul lettino. Intervista di Francesca Oldrini, Supplemento a “Panorama”, n. 1137, 31 gennaio 1988, pp. 122-27.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
«L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli», il saggio curato da Lea Melandri per le edizioni ipoc press
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 05.03.2016)
È un volume importante quello curato da Lea Melandri e dedicato a L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli (ipoc press, pp. 142, euro 16). Non solo per il tenore rigoroso e appassionato dei saggi di Manuela Fraire, Ambrogio Cozzi, Fabio Fiorelli, Romano Màdera, Nicole Janigro, Antonio Prete, Antonello Sciacchitano e della stessa Melandri; l’efficacia e la solidità del testo, apparecchiato per lo studio e l’approfondimento e con una bibliografia più che eccellente e completa, risiedono nel dare conto di un percorso più lungo, complesso che porta a una chiarificazione di alcuni passaggi capitali del pensiero e dell’opera di un intellettuale dissidente, eccentrico e articolato come Fachinelli.
L’avvio è certamente dettato dal desiderio di Lea Melandri che negli anni non solo ha condiviso con Fachinelli gioie e dolori di molte iniziative politiche - tra le quali la più nota è l’esperienza della rivista L’erba voglio (animata dal 1971 al 1977) - ma ne ha sempre sottolineato il portato teorico e politico imprescindibile, partecipando a incontri pubblici e, tra le ultime imprese, al numero monografico che aut aut ha preparato su Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio (352/2011), piuttosto articolato e utile per leggere anche alcuni materiali già introvabili cinque anni fa. Fuori commercio perché depositati in sedi difficili da consultare, si trattava in quel caso di comporre una piccola mappa che fornisse un vademecum sui primi e necessari scritti dell’autore trentino.
Nel crocevia tra psicoanalisi e pratica politica, Melandri dettaglia ora e con maggiore agio l’elemento di novità - sia nel linguaggio sia nel metodo: questioni entrambe che in Fachinelli ben si attagliano al partire da sé, in questo con un punto di congiunzione con quanto negli anni Settanta le donne già praticavano. Nella cifra di autenticità posseduta da Fachinelli, Melandri individua infatti alcune zone tematiche da perlustrare con dedizione e rinnovata cura per un percorso niente affatto scontato e che, se facilmente può essere ascrivibile allo sconquasso giovanile e imprudente respirato tra gli anni ’60 e ’70, in Fachinelli assume delle punte di originali dirompenze, risacche tutte da sondare, «un procedere per oltrepassamenti, riprese e salti, svolte, illuminazioni improvvise».
Ed è su queste ultime, miste a quella «attualità inattuale» riportata nel titolo del volume, che si concentrano i saggi quasi tutti affidati a psicologi e psicoanalisti che dunque ne osservano la conseguenza o nel lavoro specificamente terapeutico o nella teoresi ma pur sempre a esso legata. In ogni caso si tratta di un approccio che fuoriesce dal mero omaggio tra addetti ai lavori e si dipana in un’interrogazione profonda rispetto la trasformazione - che ha subito nei decenni attraversati da Fachinelli cadute e riprese - della pratica analitica. Fin dal suo Il bambino dalle uova d’oro (1974) affronta la «nexologia umana», nominando la potenza del nexus - ovvero l’intreccio, il legame - in cui a essere implicato come interlocutore è il corpo.
Ciò che riesce da subito a individuare Fachinelli è dunque un grado di complessità delle relazioni intersoggettive, delle stesse esistenze particolari che si fanno carico di un lavoro su di sé, difficile da rappresentare se non nella figura di qualcosa che sta in rapporto e che al contempo ne determina il groviglio inscindibile. In questa direzione desiderio e felicità diventano, come suggerisce la stessa Melandri nella preziosa prefazione al volume, temi utili alla comprensione e cifra del suo tragitto di ricerca e di impegno politico.
Nel superamento di ogni dualismo e dicotomia, così come nel riconoscimento di un solco di costante discussione tra le vaste e imprendibili temporalità che ci abitano, la riflessione di Fachinelli deve essere considerata come il frutto maturo di una «ricerca unitaria» che ha tessuto le linee dell’insubordinazione, sia all’altezza delle letture critiche rivolte a Freud sia dell’orizzonte pratico e politico entro cui poteva essere decifrato il presente. Nella medesima direzione è da considerarsi la riflessione sul tempo, sia quello dilatato dell’analisi - su cui si sofferma il contributo di Fabio Fiorelli a partire dal lavoro di Fachinelli inserito in Claustrofilia (1983) - sia quello puntiforme della quotidianità.
Le declinazioni del tempo, rintracciabili fin da La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo (1979) ma rinvenibili anche successivamente in brevi e fulminanti contributi; alcuni di essi sono comparsi nei Quaderni piacentini come per esempio «Quando Benjamin non ebbe più nulla da dire» (1981) che è al centro dell’intervento di Manuela Fraire, nella distinzione tra «attuale» e «profetico». Sempre sullo scritto del 1981 si sofferma anche Antonio Prete che, nell’incedere tra esperienza privata e politica del proprio passaggio attraverso il ’68, percorre la lezione di Fachinelli intorno alla sua passione critica per i testi e i nuovi nessi che ne possono nascere.
Interessante a tal proposito ciò che Benjamin gli suggerisce, e che Prete sottolinea, nella somiglianza tra una delle protagoniste delle Affinità elettive e alcune posture del movimento: «per una particolare congiuntura storica il ’68 fu una figura adolescente, indecisa, staccata o renitente rispetto alla realtà produttiva dei Paesi d’Occidente. Come l’Ottilia goethiana, questa generazione colpì per una sorta di bellezza essenziale, fine a se stessa, non di altro preoccupata che di se stessa. Come Ottilia, come Benjamin, il ’68 cadde vittima di forze distruttive che aveva in sé, che non riuscì a dominare, che piegarono le sue esili spalle di adolescente». In questa somiglianza che non deve apparire bislacca vi è invece l’intuizione originale di un dispiegarsi di scacco e speranza, seguendo fedelmente ciò che è il confine fragile e vulnerabile di un momento paradigmatico e irripetibile.
Contro l’ortodossia sia analitica che politica, è da leggersi anche la definizione che Fachinelli offre di estasi, o meglio il tratto che porta «dal movimento all’estasi» - così nel titolo di una intervista che rilasciata a Elisabetta Rasy nel 1989 - anno in cui viene dato alle stampe il suo noto La mente estatica. Con un certo acume, Lea Melandri individua in questo dilatarsi dello sguardo, nella «esperienza a cui partecipa tutto il corpo» non è poi così distante da ciò che aveva da dire Marx rispetto la molteplicità di manifestazioni delle vite umane: «ho imparato a vivere il discontinuo, a non pretendere passaggi di sicurezza là dove non ce ne sono, o perlomeno là dove non ne conosco. Forse meglio dire: sopportare l’angoscia. Meglio ancora: sopportare la solitudine».
La politica del desiderio
di Lea Melandri (Comune-info, 21 dicembre 2015)
Nel 1973 Elvio Fachinelli decide di raccogliere in un unico libro - definito nella Prefazione “un viaggio attraverso la psicanalisi e oltre” - scritti pubblicati per lo più su riviste, a partire dal 1965. Quando si accinge a scrivere le note, che affiancheranno in corsivo articoli e saggi, è ormai nella condizione di chi, avendo percorso “nuovi paesaggi”, mosso da una “curiosità spinta”, può guardarli alla distanza, descrivere i mutamenti che vi ha intravisto, indicarne a linee generali lo sviluppo.
Al centro compaiono i due articoli, usciti a distanza di alcuni mesi su “Quaderni piacentini”, in cui, in modo più diretto, “tira aria di ‘68”: Il desiderio dissidente (febbraio 1968), Gruppo chiuso o gruppo aperto? (novembre ’68). Il ’68 era ormai lontano, ma per il movimento non autoritario che faceva riferimento alla rivista “L’erba voglio”, e per i gruppi femministi in continua espansione in quegli anni, si può dire che era appena cominciato o mai finito. Eppure Elvio, per quella folata di futuro che vi aveva colto, per la lettura originale che ne aveva fatto, sente il bisogno di aggiungere: “e credo non ci sia motivo di vergognarsene”. A quali censori pensasse è detto nel seguito del discorso: per molti, la categoria del “desiderio” aveva ascendenze culturali sospette, e la “felicità” sembrava non aver niente a che spartire con l’impresa del socialismo.
I due articoli, legati per altro alla partecipazione di Fachinelli al controcorso che si era tenuto all’Istituto di Scienze Sociali di Trento nell’inverno ’67-’68, erano stati attaccati “sia dai rappresentanti della psicanalisi istituita, sia da marxisti più o meno ortodossi”. Ciò che è sentito come disturbante, da due saperi fondamentali per un’idea di “politica portata alle radici dell’umano”, ma divenuti ormai ideologie contrapposte, è l’aver cercato connessioni tra ambiti apparentemente separati: natura e cultura, individuo e collettivo, inconscio e coscienza, sogno e realtà.
Benché consapevole che bisogno e desiderio sono sempre presenti l’uno nell’altro, Fachinelli non può evitare di nominarli separatamente, quando si tratta di evitare che la nuova forma di rivoluzione, espressa dalla dissidenza giovanile, venga forzatamente riportata dentro vecchi schemi: “come se la spinta del desiderio fosse meno ‘materialistica’, o addirittura un’astuzia dell’avversario”. Di politica del desiderio e del bisogno si parla in entrambi gli scritti. Dietro la contestazione di un padre forte e autoritario - figura già sbiadita - si profila un “bersaglio più lontano” e più difficile da portare allo scoperto, un fantasma di società che abbina a un’offerta di sicurezza immediata, “completa liberazione dal bisogno”, una prospettiva inaccettabile: “la perdita di sé come progetto e desiderio”. Al culmine del suo sviluppo, la società dei consumi sembra configurarsi immaginariamente come una madre “saziante e insieme divorante”, che offre cibo in cambio di una dipendenza incondizionata, a cui si accompagnano senso di impotenza e angosce di inglobamento.
Antiautoritarismo diventa, nelle pratiche della dissidenza, appello contro l’ “integrazione”, smascheramento delle logiche di dominio che, interiorizzate precocemente, producono consenso, accettazione passiva di un sistema “la cui regolazione è già prevista in anticipo”.
Per aver trascurato i bisogni di sicurezza, protezione, affidamento, passività, che si erano riprodotti al suo interno, il movimento che nel ’68 aveva conosciuto modi di agire fluidi, come improvvise “folate”, la straordinaria capacità di rinascere dalle proprie ceneri, la forza di allargarsi “senza far uso di bibbie”, si ritroverà in un tempo brevissimo diviso, isolato, irrigidito nelle maglie di vecchie ideologie marxiste-leniniste: le “fortezze” di aristocratiche avanguardie che si allineano “al limite del deserto” - come si legge in apertura di uno dei saggi più interessanti del libro, Il paradosso della ripetizione. Già nell’esperienza del gruppo di analisi, che Fachinelli aveva fatto a Trento, nell’Università occupata, si era visto quanto fosse radicata la tendenza di ogni collettività a chiudersi di fronte alla minaccia attribuita a esterni o estranei, la ricerca di una perfetta omogeneità al proprio interno e il riprodursi di fenomeni di frammentazione, espulsione del diverso. Perché il gruppo potesse mantenersi in uno “stato di desiderio”, era necessario che nessun leader se ne facesse rappresentante unico o ne incarnasse l’ideale unità; era importante che la “comunanza” - rovare l’eguale nell’estraneo - fosse sentita come “un bene da estendere”.
La logica del desiderio e dell’accomunamento, nella stagione “breve, intensa, esclusiva” della dissidenza giovanile del ’68, aveva capovolto il più antico riflesso sedimentato nella collettività: “l’esercito agguerrito che schiaccia la setta diventa per esso la massa sterminata offerta alla propria comunicazione”. Era stata un’esperienza transitoria, ma capace di percepire, come l’ “utopia” di Walter Benjamin, le “esigenze radicali del presente” - “il possibile attualmente impossibile” -, che proprio perché soffocate torneranno a ripresentarsi con sempre nuova urgenza.
Il desiderio e la dissidenza oggi sembrano essersi inabissati nella bocca vorace di una civiltà che, pur dando segni di visibile decadenza, macina ogni segnale di cambiamento, ogni forma nuova di socializzazione, ogni sapere che non sia funzionale alla sua conservazione. Non resta che sperare che la logica del desiderio, come la “passione” di Marx, la spinta ad autorealizzarsi da parte dell’uomo, lavori sotterraneamente, da vecchia talpa, e torni a sorprenderci, quando meno ce l’aspettiamo.
* Dopo aver insegnato alle scuole medie e alle superiori, da più di vent’anni tiene corsi presso l’Associazione per una Libera Università delle Donne di Milano, di cui è tra le fondatrici. Saggista, scrittrice e giornalista, Lea Melandri ha diretto per molti anni la rivista “L’erba voglio” ed è un punto di riferimento del movimento delle donne. Ha scritto diversi libri, l’ultimo è “Amore e violenza.Il fattore molesto della civiltà” (Bollati Boringhieri 2011). Altri articoli di Lea Melandri sono leggibili qui.
L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli
di Lea Melandri (Alfabeta 2, AlfaDomenica 9 novembre 2014
Una delle ragioni dell’oblio che è caduto sulla figura di Elvio Fachinelli, nonostante le sue analisi sulla modificazione dei confini tra individuo e società, natura e cultura, inconscio e coscienza, siano oggi più attuali che negli anni ’70 e ’80, va cercata proprio nell’originalità di una ricerca che ha contrapposto fin dall’inizio “prospettive impensate” alla “tragica necessità del dualismo”. Convinto che l’“insubordinazione”, la “rottura pratica delle regole imposte” fosse “il cuore di ogni politica”, Fachinelli non poteva ignorare gli effetti rovinosi della dialettica che ha spinto gran parte della specie a ricorrere a dicotomie astratte e a mantenerle in vita una volta esaurito il loro valore simbolico. La scoperta dei “nessi” che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro - la sostanziale inscindibilità del soggetto umano - delinea, fin dagli anni ’60, quello che sarà il percorso inconfondibile della sua “avventura” teorica e pratica, le “nuove strade” che veniva proponendo contemporaneamente alla psicanalisi e all’agire politico. (...)
Sul rapporto individuo e società, psicanalisi e politica, Fachinelli ritorna più volte negli scritti giornalistici e nelle interviste, che coprono circa un trentennio: un materiale prezioso che non può essere considerato solo un’appendice dei suoi libri. Se con la fine dei movimenti non autoritari degli anni ’70 - la rivista “L’erba voglio”, il movimento giovanile del ’77, le radio libere, ecc. - la ricerca condotta nell’ambito della relazione analitica sembra prendere il sopravvento sull’impegno politico, la lettura che Fachinelli stesso dà di questa “svolta” conferma che l’orientamento iniziale non è cambiato. Compito della psicanalisi resta la domanda “cosa sia l’uomo” - l’attenzione verso ciò che non è noto, l’inatteso, il sorprendente; il suo fallimento storico: “non essere riuscita a intervenire, se non occasionalmente, nei luoghi in cui si forma l’individuo socializzato”. (...)
Attualità e inattualità, presente e passato, continuità e imprevisto, intelligenza personale ed elaborazione collettiva, non ubbidiscono a “passaggi meccanici”, il rimando reciproco non è quello di causa-effetto o del discorso lineare, ma dei “movimenti improvvisi”, della frattura. A tenerli insieme è la possibilità della “ripresa” aperta a nuove, impensate soluzioni. L’esigenza antropologica che porterà Fachinelli negli anni ’80 ad esplorare strati percettivi e cognitivi della mente tenuti ai margini, disconosciuti, perché sentiti come “minacciosi per l’Io ben individualizzato”, non è la rinuncia al suo precedente impegno politico ma la sua estensione.
“... sono sempre diviso tra l’interesse per ciò che mi passa accanto in un preciso momento e un uso più profondo, più personale e intenso del tempo. Vorrei dire quasi un uso solitario.” (...)
L’ “estatico”, inteso come “la possibilità di uno sguardo dilatato, una visione più ampia e più profonda di noi stessi, un’esperienza a cui partecipa tutto il corpo”, è meno distante di quanto si potrebbe pensare da quella “passione dell’uomo”, da quella “molteplicità di manifestazioni di vita umane” di cui parlava Marx, e che Fachinelli rimprovera alla tradizione marxista di non aver saputo cogliere. La “gioia massima”, che Freud aveva rifiutato sentendola come eccessiva e pericolosa, richiama non a caso la categoria del desiderio che compare negli articoli del ’68-’69, a proposito della “dissidenza giovanile” e del movimento non autoritario. (...)
La critica che Fachinelli aveva fatto alla società dei consumi negli scritti del ’68-69 parte da un presupposto analogo a quello che lo porta ad attaccare con particolare durezza tutte le istituzioni che promettono sicurezza in cambio di subordinazione, obbedienza, passività, “perdita di sé come progetto e desiderio”, non esclusa la Società di psicanalisi, “fortezza burocratica” che forma e seleziona “analisti senz’anima”, “personalità smussate, arrotondate, senza spigoli”. Contro la dipendenza, la passività attendista, che risorge come risposta all’isolamento e al senso di impotenza riattivando necessità elementari - sopravvivenza, nutrizione, calore -, il richiamo è sempre all’individuo, all’assunzione di responsabilità in prima persona, al “viaggio” che porta a ritrovare all’interno di se stessi un “patrimonio comune” di esperienze, di sogni, di risorse vitali insospettate.
Anche in quella singolare “conversazione conoscitiva” che è l’analisi, dove “c’è uno che parla il più liberamente possibile e uno che sta a sentire”, ci sono esperienze personali variamente stratificate che emergono per entrambi gli interlocutori, in modo imprevedibile, sia pure “a tempi spostati”, “per sincopi”, senza un vero dialogo. Psicanalisi e marxismo, assolutizzando l’una l’infanzia e la vita del singolo, l’altro i rapporti di produzione, hanno finito per diventare due ideologie e svuotare di senso l’unico luogo - l’intelligenza personale - da cui far ripartire ogni volta la relazione con se stessi e col mondo. Il rapporto individuo-società, tempo lineare della storia e tempo soggettivo fatto di salti e imprevisti, filo conduttore dell’inesauribile curiosità intellettuale di Fachinelli, ritorna in una trasmissione radiofonica del 1989, l’anno della sua morte. Il riferimento è a Freud e ai fenomeni collettivi, ma vi si può leggere quella che è stata la più profonda convinzione di tutta la sua ricerca. (...)
Ma se sono i libri a scavare il solco di un pensiero che si va sempre più approssimando a un’armonia col corpo e con i limiti mortali di ogni vivente, la produzione ininterrotta di scritti giornalistici e interviste che li accompagnano da prova di una sfida altrettanto sorprendente: portare le estreme regioni dell’Io a sconfinare nei territori del mondo cosiddetto “civile”, interrogare il geroglifico sociale con i “residui notturni” che ormai lo abitano indisturbati. Per uscire dalle astratte contrapposizioni dualistiche, che hanno portato la politica a separarsi sempre più dalla cultura e dalla vita, l’uomo ad accanirsi con sostituti artificiali contro la natura, non bastava far riemergere ciò che è stato escluso, valorizzare ciò che è stato rifiutato o disconosciuto. Era necessario andare all’origine della costruzione dualistica, dire perché e come ha potuto diventare una “tragica necessità”.
Pur senza affrontare direttamente la vicenda dei sessi, il posto che ha occupato storicamente la potenza virile e tutto ciò che è stato costruito in opposizione ad essa, è la polarità maschile-femminile che compare inaspettatamente a far da nesso tra la vita politica e le scoperte della pratica analitica. Sono ancora una volta due scritti che, sia pure diversi per il tema affrontato e lontani nel tempo, a portare allo scoperto la matrice sessuale della dualità: Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita (1981), Conversazioni sull’estasi (1989). I termini politici di “destra” e “sinistra” - ma lo stesso si può dire di tutte le dicotomie simboliche che, pur cambiando di sostanza e figura, hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia - rimandano alle definizioni opposte e complementari del maschile e del femminile, ma soprattutto mostrano chiaramente che uno dei due poli deve la sua marginalità e il suo disconoscimento a quello vincente. La “rivincita”, quando è costruita dall’interno e in analogia col modello dominante - un disvalore trasformato in valore - non può che andare incontro a uno scacco. È una delle ragioni dei tanti errori della sinistra politica, ma anche, mi verrebbe da dire, di quella parte del femminismo che ha pensato di sostituire “l’ordine simbolico della madre” a quello del padre, genealogie di un sesso a quello dell’altro. (...)
All’origine delle scissioni che conosciamo, tra corpo e pensiero, individuo e società, attività e passività, destino dell’uomo e della donna, c’è sempre l’impostazione maschile, la “potenza virile”. La minaccia di un ritorno all’originaria indistinzione col corpo materno si può pensare che abbia reso necessario per l’uomo alzare barriere, fortificare i confini di un Io incerto, fermare lo sguardo sulla sua individualizzazione e soprattutto salvaguardare la sua civiltà da ogni possibile contaminazione con il femminile. Ma quando ciò che è parso “necessario” non è più tale, lacerazioni e contrapposizioni violente possono lasciare il posto a “una visione più profonda di noi stessi”, a una “capacità di gioia” prima sconosciuta, all’intreccio di ciò che prima appariva irrimediabilmente contrapposto. (...)
Con la scoperta dell’“estatico” Fachinelli ha aperto una breccia nella “roccia basilare” di fronte a cui si era arrestato il viaggio del primo “conquistador” dell’inconscio - il rifiuto della femminilità e di tutto ciò che l’immaginario maschile vi ha deposto sopra. Ma ciò che più conta è aver visto in quella “gioia massima” che viene dal rivivere, sia pure in alcuni momenti eccezionali, la fase iniziale della vita, la possibilità che è data a tutti, uomini e donne, di prendere su di sé modi del sentire e del conoscere che sono stati finora considerati “naturalmente” femminili e in quanto tali rifiutati o privati di valore. La recettività, il dono, la cura, l’accoglimento della caducità come sorte del singolo e limite necessario di tutti i viventi, sono l’oggetto delle riflessioni accorate e lucide degli ultimi scritti giornalistici e delle ultime interviste.
Freud, Rilke e la caducità (1989), Il dono dell’imperatore (1989) parlano, indirettamente, della vicenda personale, dell’avvicinamento a una morte annunciata, ma sono non a caso anche gli scritti di massima apertura verso il mondo, la ripresa delle prospettive impensate che erano già emerse nell’ “innamoramento collettivo” del ’68, nelle “nuove istituzioni d’amore” tentate da una generazione “adolescente, indecisa, staccata o renitente rispetto alla realtà produttiva dei paesi d’occidente” (12), protagonista di una rivoluzione destinata, come il desiderio, a ripresentarsi nel futuro. (...) Per due grandi indagatori della felicità, come Freud e Fachinelli, le strade dell’individuo e della collettività, dell’inconscio e della storia, sono evidentemente inseparabili.