MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
XLVII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2014
FRATERNITÀ, FONDAMENTO E VIA PER LA PACE *
1. In questo mio primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, desidero rivolgere a tutti, singoli e popoli, l’augurio di un’esistenza colma di gioia e di speranza. Nel cuore di ogni uomo e di ogni donna alberga, infatti, il desiderio di una vita piena, alla quale appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare.
Infatti, la fraternità è una dimensione essenziale dell’uomo, il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e duratura. E occorre subito ricordare che la fraternità si comincia ad imparare solitamente in seno alla famiglia, soprattutto grazie ai ruoli responsabili e complementari di tutti i suoi membri, in particolare del padre e della madre. La famiglia è la sorgente di ogni fraternità, e perciò è anche il fondamento e la via primaria della pace, poiché, per vocazione, dovrebbe contagiare il mondo con il suo amore.
Il numero sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri. Tale vocazione è però ancor oggi spesso contrastata e smentita nei fatti, in un mondo caratterizzato da quella “globalizzazione dell’indifferenza” che ci fa lentamente “abituare” alla sofferenza dell’altro, chiudendoci in noi stessi.
In tante parti del mondo, sembra non conoscere sosta la grave lesione dei diritti umani fondamentali, soprattutto del diritto alla vita e di quello alla libertà di religione. Il tragico fenomeno del traffico degli esseri umani, sulla cui vita e disperazione speculano persone senza scrupoli, ne rappresenta un inquietante esempio. Alle guerre fatte di scontri armati si aggiungono guerre meno visibili, ma non meno crudeli, che si combattono in campo economico e finanziario con mezzi altrettanto distruttivi di vite, di famiglie, di imprese.
La globalizzazione, come ha affermato Benedetto XVI, ci rende vicini, ma non ci rende fratelli.[1] Inoltre, le molte situazioni di sperequazione, di povertà e di ingiustizia, segnalano non solo una profonda carenza di fraternità, ma anche l’assenza di una cultura della solidarietà. Le nuove ideologie, caratterizzate da diffuso individualismo, egocentrismo e consumismo materialistico, indeboliscono i legami sociali, alimentando quella mentalità dello “scarto”, che induce al disprezzo e all’abbandono dei più deboli, di coloro che vengono considerati “inutili”. Così la convivenza umana diventa sempre più simile a un mero do ut des pragmatico ed egoista.
In pari tempo appare chiaro che anche le etiche contemporanee risultano incapaci di produrre vincoli autentici di fraternità, poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere.[2] Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente. A partire dal riconoscimento di questa paternità, si consolida la fraternità tra gli uomini, ovvero quel farsi “prossimo” che si prende cura dell’altro.
«Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9)
2. Per comprendere meglio questa vocazione dell’uomo alla fraternità, per riconoscere più adeguatamente gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione e individuare le vie per il loro superamento, è fondamentale farsi guidare dalla conoscenza del disegno di Dio, quale è presentato in maniera eminente nella Sacra Scrittura.
Secondo il racconto delle origini, tutti gli uomini derivano da genitori comuni, da Adamo ed Eva, coppia creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,26), da cui nascono Caino e Abele. Nella vicenda della famiglia primigenia leggiamo la genesi della società, l’evoluzione delle relazioni tra le persone e i popoli.
Abele è pastore, Caino è contadino. La loro identità profonda e, insieme, la loro vocazione, è quella di essere fratelli, pur nella diversità della loro attività e cultura, del loro modo di rapportarsi con Dio e con il creato. Ma l’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro. Caino, non accettando la predilezione di Dio per Abele, che gli offriva il meglio del suo gregge - «il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Gen 4,4-5) - uccide per invidia Abele. In questo modo rifiuta di riconoscersi fratello, di relazionarsi positivamente con lui, di vivere davanti a Dio, assumendo le proprie responsabilità di cura e di protezione dell’altro. Alla domanda «Dov’è tuo fratello?», con la quale Dio interpella Caino, chiedendogli conto del suo operato, egli risponde: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gen 4,9). Poi, ci dice la Genesi, «Caino si allontanò dal Signore» (4,16).
Occorre interrogarsi sui motivi profondi che hanno indotto Caino a misconoscere il vincolo di fraternità e, assieme, il vincolo di reciprocità e di comunione che lo legava a suo fratello Abele. Dio stesso denuncia e rimprovera a Caino una contiguità con il male: «il peccato è accovacciato alla tua porta» (Gen 4,7). Caino, tuttavia, si rifiuta di opporsi al male e decide di alzare ugualmente la sua «mano contro il fratello Abele» (Gen 4,8), disprezzando il progetto di Dio. Egli frustra così la sua originaria vocazione ad essere figlio di Dio e a vivere la fraternità.
Il racconto di Caino e Abele insegna che l’umanità porta inscritta in sé una vocazione alla fraternità, ma anche la possibilità drammatica del suo tradimento. Lo testimonia l’egoismo quotidiano, che è alla base di tante guerre e tante ingiustizie: molti uomini e donne muoiono infatti per mano di fratelli e di sorelle che non sanno riconoscersi tali, cioè come esseri fatti per la reciprocità, per la comunione e per il dono.
«E voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8)
3. Sorge spontanea la domanda: gli uomini e le donne di questo mondo potranno mai corrispondere pienamente all’anelito di fraternità, impresso in loro da Dio Padre? Riusciranno con le loro sole forze a vincere l’indifferenza, l’egoismo e l’odio, ad accettare le legittime differenze che caratterizzano i fratelli e le sorelle?
Parafrasando le sue parole, potremmo così sintetizzare la risposta che ci dà il Signore Gesù: poiché vi è un solo Padre, che è Dio, voi siete tutti fratelli (cfr Mt 23,8-9). La radice della fraternità è contenuta nella paternità di Dio. Non si tratta di una paternità generica, indistinta e storicamente inefficace, bensì dell’amore personale, puntuale e straordinariamente concreto di Dio per ciascun uomo (cfr Mt 6,25-30). Una paternità, dunque, efficacemente generatrice di fraternità, perché l’amore di Dio, quando è accolto, diventa il più formidabile agente di trasformazione dell’esistenza e dei rapporti con l’altro, aprendo gli uomini alla solidarietà e alla condivisione operosa.
In particolare, la fraternità umana è rigenerata in e da Gesù Cristo con la sua morte e risurrezione. La croce è il “luogo” definitivo di fondazione della fraternità, che gli uomini non sono in grado di generare da soli. Gesù Cristo, che ha assunto la natura umana per redimerla, amando il Padre fino alla morte e alla morte di croce (cfr Fil 2,8), mediante la sua risurrezione ci costituisce come umanità nuova, in piena comunione con la volontà di Dio, con il suo progetto, che comprende la piena realizzazione della vocazione alla fraternità.
Gesù riprende dal principio il progetto del Padre, riconoscendogli il primato su ogni cosa. Ma il Cristo, con il suo abbandono alla morte per amore del Padre, diventa principio nuovo e definitivo di tutti noi, chiamati a riconoscerci in Lui come fratelli perché figli dello stesso Padre. Egli è l’Alleanza stessa, lo spazio personale della riconciliazione dell’uomo con Dio e dei fratelli tra loro. Nella morte in croce di Gesù c’è anche il superamento della separazione tra popoli, tra il popolo dell’Alleanza e il popolo dei Gentili, privo di speranza perché fino a quel momento rimasto estraneo ai patti della Promessa. Come si legge nella Lettera agli Efesini, Gesù Cristo è colui che in sé riconcilia tutti gli uomini. Egli è la pace, poiché dei due popoli ne ha fatto uno solo, abbattendo il muro di separazione che li divideva, ovvero l’inimicizia. Egli ha creato in se stesso un solo popolo, un solo uomo nuovo, una sola nuova umanità (cfr 2,14-16).
Chi accetta la vita di Cristo e vive in Lui, riconosce Dio come Padre e a Lui dona totalmente se stesso, amandolo sopra ogni cosa. L’uomo riconciliato vede in Dio il Padre di tutti e, per conseguenza, è sollecitato a vivere una fraternità aperta a tutti. In Cristo, l’altro è accolto e amato come figlio o figlia di Dio, come fratello o sorella, non come un estraneo, tantomeno come un antagonista o addirittura un nemico. Nella famiglia di Dio, dove tutti sono figli di uno stesso Padre, e perché innestati in Cristo, figli nel Figlio, non vi sono “vite di scarto”. Tutti godono di un’eguale ed intangibile dignità. Tutti sono amati da Dio, tutti sono stati riscattati dal sangue di Cristo, morto in croce e risorto per ognuno. È questa la ragione per cui non si può rimanere indifferenti davanti alla sorte dei fratelli.
La fraternità, fondamento e via per la pace
4. Ciò premesso, è facile comprendere che la fraternità è fondamento e via per la pace. Le Encicliche sociali dei miei Predecessori offrono un valido aiuto in tal senso. Sarebbe sufficiente rifarsi alle definizioni di pace della Populorum progressio di Paolo VI o della Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II. Dalla prima ricaviamo che lo sviluppo integrale dei popoli è il nuovo nome della pace.[3] Dalla seconda, che la pace è opus solidaritatis.[4]
Paolo VI afferma che non soltanto le persone, ma anche le Nazioni debbono incontrarsi in uno spirito di fraternità. E spiega: «In questa comprensione e amicizia vicendevoli, in questa comunione sacra noi dobbiamo [...] lavorare assieme per edificare l’avvenire comune dell’umanità».[5] Questo dovere riguarda in primo luogo i più favoriti. I loro obblighi sono radicati nella fraternità umana e soprannaturale e si presentano sotto un triplice aspetto: il dovere di solidarietà, che esige che le Nazioni ricche aiutino quelle meno progredite; il dovere di giustizia sociale, che richiede il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni difettose tra popoli forti e popoli deboli; il dovere di carità universale, che implica la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri.[6]
Così, se si considera la pace come opus solidaritatis, allo stesso modo, non si può pensare che la fraternità non ne sia il fondamento precipuo. La pace, afferma Giovanni Paolo II, è un bene indivisibile. O è bene di tutti o non lo è di nessuno. Essa può essere realmente conquistata e fruita, come miglior qualità della vita e come sviluppo più umano e sostenibile, solo se si attiva, da parte di tutti, «una determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune»[7]. Ciò implica di non farsi guidare dalla «brama del profitto» e dalla «sete del potere». Occorre avere la disponibilità a «“perdersi” a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto. [...] L’“altro” - persona, popolo o Nazione - [non va visto] come uno strumento qualsiasi, per sfruttare a basso costo la sua capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più, ma come un nostro “simile”, un “aiuto”».[8]
La solidarietà cristiana presuppone che il prossimo sia amato non solo come «un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma [come] viva immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo»[9], come un altro fratello. «Allora la coscienza della paternità comune di Dio, della fraternità di tutti gli uomini in Cristo, “figli nel Figlio”, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà - rammenta Giovanni Paolo II - al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per interpretarlo»,[10] per trasformarlo.
Fraternità, premessa per sconfiggere la povertà
5. Nella Caritas in veritate il mio Predecessore ricordava al mondo come la mancanza di fraternità tra i popoli e gli uomini sia una causa importante della povertà.[11] In molte società sperimentiamo una profonda povertà relazionale dovuta alla carenza di solide relazioni familiari e comunitarie. Assistiamo con preoccupazione alla crescita di diversi tipi di disagio, di emarginazione, di solitudine e di varie forme di dipendenza patologica. Una simile povertà può essere superata solo attraverso la riscoperta e la valorizzazione di rapporti fraterni in seno alle famiglie e alle comunità, attraverso la condivisione delle gioie e dei dolori, delle difficoltà e dei successi che accompagnano la vita delle persone.
Inoltre, se da un lato si riscontra una riduzione della povertà assoluta, dall’altro lato non possiamo non riconoscere una grave crescita della povertà relativa, cioè di diseguaglianze tra persone e gruppi che convivono in una determinata regione o in un determinato contesto storico-culturale. In tal senso, servono anche politiche efficaci che promuovano il principio della fraternità, assicurando alle persone - eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali - di accedere ai “capitali”, ai servizi, alle risorse educative, sanitarie, tecnologiche affinché ciascuno abbia l’opportunità di esprimere e di realizzare il suo progetto di vita, e possa svilupparsi in pienezza come persona.
Si ravvisa anche la necessità di politiche che servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito. Non dobbiamo dimenticare l’insegnamento della Chiesa sulla cosiddetta ipoteca sociale, in base alla quale se è lecito, come dice san Tommaso d’Aquino, anzi necessario «che l’uomo abbia la proprietà dei beni»[12], quanto all’uso, li «possiede non solo come propri, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri»[13].
Infine, vi è un ulteriore modo di promuovere la fraternità - e così sconfiggere la povertà - che dev’essere alla base di tutti gli altri. È il distacco di chi sceglie di vivere stili di vita sobri ed essenziali, di chi, condividendo le proprie ricchezze, riesce così a sperimentare la comunione fraterna con gli altri. Ciò è fondamentale per seguire Gesù Cristo ed essere veramente cristiani. È il caso non solo delle persone consacrate che professano voto di povertà, ma anche di tante famiglie e tanti cittadini responsabili, che credono fermamente che sia la relazione fraterna con il prossimo a costituire il bene più prezioso.
La riscoperta della fraternità nell’economia
6. Le gravi crisi finanziarie ed economiche contemporanee - che trovano la loro origine nel progressivo allontanamento dell’uomo da Dio e dal prossimo, nella ricerca avida di beni materiali, da un lato, e nel depauperamento delle relazioni interpersonali e comunitarie dall’altro - hanno spinto molti a ricercare la soddisfazione, la felicità e la sicurezza nel consumo e nel guadagno oltre ogni logica di una sana economia. Già nel 1979 Giovanni Paolo II avvertiva l’esistenza di «un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale».[14]
Il succedersi delle crisi economiche deve portare agli opportuni ripensamenti dei modelli di sviluppo economico e a un cambiamento negli stili di vita. La crisi odierna, pur con il suo grave retaggio per la vita delle persone, può essere anche un’occasione propizia per recuperare le virtù della prudenza, della temperanza, della giustizia e della fortezza. Esse ci possono aiutare a superare i momenti difficili e a riscoprire i vincoli fraterni che ci legano gli uni agli altri, nella fiducia profonda che l’uomo ha bisogno ed è capace di qualcosa in più rispetto alla massimizzazione del proprio interesse individuale. Soprattutto tali virtù sono necessarie per costruire e mantenere una società a misura della dignità umana.
La fraternità spegne la guerra
7. Nell’anno trascorso, molti nostri fratelli e sorelle hanno continuato a vivere l’esperienza dilaniante della guerra, che costituisce una grave e profonda ferita inferta alla fraternità.
Molti sono i conflitti che si consumano nell’indifferenza generale. A tutti coloro che vivono in terre in cui le armi impongono terrore e distruzioni, assicuro la mia personale vicinanza e quella di tutta la Chiesa. Quest’ultima ha per missione di portare la carità di Cristo anche alle vittime inermi delle guerre dimenticate, attraverso la preghiera per la pace, il servizio ai feriti, agli affamati, ai rifugiati, agli sfollati e a quanti vivono nella paura. La Chiesa alza altresì la sua voce per far giungere ai responsabili il grido di dolore di quest’umanità sofferente e per far cessare, insieme alle ostilità, ogni sopruso e violazione dei diritti fondamentali dell’uomo[15].
Per questo motivo desidero rivolgere un forte appello a quanti con le armi seminano violenza e morte: riscoprite in colui che oggi considerate solo un nemico da abbattere il vostro fratello e fermate la vostra mano! Rinunciate alla via delle armi e andate incontro all’altro con il dialogo, il perdono e la riconciliazione per ricostruire la giustizia, la fiducia e la speranza intorno a voi! «In quest’ottica, appare chiaro che nella vita dei popoli i conflitti armati costituiscono sempre la deliberata negazione di ogni possibile concordia internazionale, creando divisioni profonde e laceranti ferite che richiedono molti anni per rimarginarsi. Le guerre costituiscono il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data»[16].
Tuttavia, finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità. Per questo faccio mio l’appello dei miei Predecessori in favore della non proliferazione delle armi e del disarmo da parte di tutti, a cominciare dal disarmo nucleare e chimico.
Non possiamo però non constatare che gli accordi internazionali e le leggi nazionali, pur essendo necessari ed altamente auspicabili, non sono sufficienti da soli a porre l’umanità al riparo dal rischio dei conflitti armati. È necessaria una conversione dei cuori che permetta a ciascuno di riconoscere nell’altro un fratello di cui prendersi cura, con il quale lavorare insieme per costruire una vita in pienezza per tutti. È questo lo spirito che anima molte delle iniziative della società civile, incluse le organizzazioni religiose, in favore della pace. Mi auguro che l’impegno quotidiano di tutti continui a portare frutto e che si possa anche giungere all’effettiva applicazione nel diritto internazionale del diritto alla pace, quale diritto umano fondamentale, pre-condizione necessaria per l’esercizio di tutti gli altri diritti.
La corruzione e il crimine organizzato avversano la fraternità
8. L’orizzonte della fraternità rimanda alla crescita in pienezza di ogni uomo e donna. Le giuste ambizioni di una persona, soprattutto se giovane, non vanno frustrate e offese, non va rubata la speranza di poterle realizzare. Tuttavia, l’ambizione non va confusa con la prevaricazione. Al contrario, occorre gareggiare nello stimarsi a vicenda (cfr Rm 12,10). Anche nelle dispute, che costituiscono un aspetto ineliminabile della vita, bisogna sempre ricordarsi di essere fratelli e perciò educare ed educarsi a non considerare il prossimo come un nemico o come un avversario da eliminare.
La fraternità genera pace sociale perché crea un equilibrio fra libertà e giustizia, fra responsabilità personale e solidarietà, fra bene dei singoli e bene comune. Una comunità politica deve, allora, agire in modo trasparente e responsabile per favorire tutto ciò. I cittadini devono sentirsi rappresentati dai poteri pubblici nel rispetto della loro libertà. Invece, spesso, tra cittadino e istituzioni, si incuneano interessi di parte che deformano una tale relazione, propiziando la creazione di un clima perenne di conflitto.
Un autentico spirito di fraternità vince l’egoismo individuale che contrasta la possibilità delle persone di vivere in libertà e in armonia tra di loro. Tale egoismo si sviluppa socialmente sia nelle molte forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse, sia nella formazione delle organizzazioni criminali, dai piccoli gruppi a quelli organizzati su scala globale, che, logorando in profondità la legalità e la giustizia, colpiscono al cuore la dignità della persona. Queste organizzazioni offendono gravemente Dio, nuocciono ai fratelli e danneggiano il creato, tanto più quando hanno connotazioni religiose.
Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili; alla devastazione delle risorse naturali e all’inquinamento in atto; alla tragedia dello sfruttamento del lavoro; penso ai traffici illeciti di denaro come alla speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà milioni di uomini e donne; penso alla prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro; penso all’abominio del traffico di esseri umani, ai reati e agli abusi contro i minori, alla schiavitù che ancora diffonde il suo orrore in tante parti del mondo, alla tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità. Scrisse al riguardo Giovanni XXIII: «Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana. In essa infatti è inevitabile che le persone siano coartate o compresse, invece di essere facilitate e stimolate a sviluppare e perfezionare se stesse»[17]. L’uomo, però, si può convertire e non bisogna mai disperare della possibilità di cambiare vita. Desidererei che questo fosse un messaggio di fiducia per tutti, anche per coloro che hanno commesso crimini efferati, poiché Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23).
Nel contesto ampio della socialità umana, guardando al delitto e alla pena, viene anche da pensare alle condizioni inumane di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano e viene violato nella sua dignità di uomo, soffocato anche in ogni volontà ed espressione di riscatto. La Chiesa fa molto in tutti questi ambiti, il più delle volte nel silenzio. Esorto ed incoraggio a fare sempre di più, nella speranza che tali azioni messe in campo da tanti uomini e donne coraggiosi possano essere sempre più sostenute lealmente e onestamente anche dai poteri civili.
La fraternità aiuta a custodire e a coltivare la natura
9. La famiglia umana ha ricevuto dal Creatore un dono in comune: la natura. La visione cristiana della creazione comporta un giudizio positivo sulla liceità degli interventi sulla natura per trarne beneficio, a patto di agire responsabilmente, cioè riconoscendone quella “grammatica” che è in essa inscritta ed usando saggiamente le risorse a vantaggio di tutti, rispettando la bellezza, la finalità e l’utilità dei singoli esseri viventi e la loro funzione nell’ecosistema. Insomma, la natura è a nostra disposizione, e noi siamo chiamati ad amministrarla responsabilmente. Invece, siamo spesso guidati dall’avidità, dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non custodiamo la natura, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura e da mettere a servizio dei fratelli, comprese le generazioni future.
In particolare, il settore agricolo è il settore produttivo primario con la vitale vocazione di coltivare e custodire le risorse naturali per nutrire l’umanità. A tale riguardo, la persistente vergogna della fame nel mondo mi incita a condividere con voi la domanda: in che modo usiamo le risorse della terra? Le società odierne devono riflettere sulla gerarchia delle priorità a cui si destina la produzione. Difatti, è un dovere cogente che si utilizzino le risorse della terra in modo che tutti siano liberi dalla fame. Le iniziative e le soluzioni possibili sono tante e non si limitano all’aumento della produzione. E’ risaputo che quella attuale è sufficiente, eppure ci sono milioni di persone che soffrono e muoiono di fame e ciò costituisce un vero scandalo. È necessario allora trovare i modi affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra, non soltanto per evitare che si allarghi il divario tra chi più ha e chi deve accontentarsi delle briciole, ma anche e soprattutto per un’esigenza di giustizia e di equità e di rispetto verso ogni essere umano. In tal senso, vorrei richiamare a tutti quella necessaria destinazione universale dei beni che è uno dei principi-cardine della dottrina sociale della Chiesa. Rispettare tale principio è la condizione essenziale per consentire un fattivo ed equo accesso a quei beni essenziali e primari di cui ogni uomo ha bisogno e diritto.
Conclusione
10. La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata. Ma è solo l’amore donato da Dio che ci consente di accogliere e di vivere pienamente la fraternità.
Il necessario realismo della politica e dell’economia non può ridursi ad un tecnicismo privo di idealità, che ignora la dimensione trascendente dell’uomo. Quando manca questa apertura a Dio, ogni attività umana diventa più povera e le persone vengono ridotte a oggetti da sfruttare. Solo se accettano di muoversi nell’ampio spazio assicurato da questa apertura a Colui che ama ogni uomo e ogni donna, la politica e l’economia riusciranno a strutturarsi sulla base di un autentico spirito di carità fraterna e potranno essere strumento efficace di sviluppo umano integrale e di pace.
Noi cristiani crediamo che nella Chiesa siamo membra gli uni degli altri, tutti reciprocamente necessari, perché ad ognuno di noi è stata data una grazia secondo la misura del dono di Cristo, per l’utilità comune (cfr Ef 4,7.25; 1 Cor 12,7). Cristo è venuto nel mondo per portarci la grazia divina, cioè la possibilità di partecipare alla sua vita. Ciò comporta tessere una relazionalità fraterna, improntata alla reciprocità, al perdono, al dono totale di sé, secondo l’ampiezza e la profondità dell’amore di Dio, offerto all’umanità da Colui che, crocifisso e risorto, attira tutti a sé: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35). È questa la buona novella che richiede ad ognuno un passo in più, un esercizio perenne di empatia, di ascolto della sofferenza e della speranza dell’altro, anche del più lontano da me, incamminandosi sulla strada esigente di quell’amore che sa donarsi e spendersi con gratuità per il bene di ogni fratello e sorella.
Cristo abbraccia tutto l’uomo e vuole che nessuno si perda. «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Lo fa senza opprimere, senza costringere nessuno ad aprirgli le porte del suo cuore e della sua mente. «Chi fra voi è il più grande diventi come il più piccolo e chi governa diventi come quello che serve» - dice Gesù Cristo - «io sono in mezzo a voi come uno che serve» (Lc 22,26-27). Ogni attività deve essere, allora, contrassegnata da un atteggiamento di servizio alle persone, specialmente quelle più lontane e sconosciute. Il servizio è l’anima di quella fraternità che edifica la pace.
Maria, la Madre di Gesù, ci aiuti a comprendere e a vivere tutti i giorni la fraternità che sgorga dal cuore del suo Figlio, per portare pace ad ogni uomo su questa nostra amata terra.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2013
FRANCISCUS
[1] Cfr Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 654-655.
[2] Cfr Francesco, Lett. enc. Lumen fidei (29 giugno 2013), 54: AAS 105 (2013), 591-592.
[3] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 87: AAS 59 (1967), 299.
[4] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 39: AAS 80 (1988), 566-568.
[5] Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 43: AAS 59 (1967), 278-279).
[6] Cfr ibid., 44: AAS 59 (1967), 279.
[7] Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 38: AAS 80 (1988), 566.
[8] Ibid., 38-39: AAS 80 (1988), 566-567.
[9] Ibid., 40: AAS 80 (1988), 569.
[10] Ibid.
[11] Cfr Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 654-655.
[12] Summa Theologiae II-II, q. 66, art. 2.
[13] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 69. Cfr Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum (15 maggio 1891), 19: ASS 23 (1890-1891), 651; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 573-574; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 178.
[14] Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 16: AAS 61 (1979), 290.
[15] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 159.
[16] Francesco, Lettera al Presidente Putin, 4 settembre 2013: L’Osservatore Romano, 6 settembre 2013, p. 1.
[17] Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 17: AAS 55 (1963), 265.
* OSSERVATORE ROMANO, 13.12.2013
FRANCESCO, IL NUOVO PAPA, OLTRE IL MAGISTERO EQUIVOCO DI BENEDETTO XVI: DAL "DEUS CARITAS EST" AL "DEUS CHARITAS EST"?
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
Il ritorno strisciante della peste nera
di Moni Ovadia (l’Unità, 21 dicembre 2013)
L’Italia intera, nei giorni scorsi, si è di colpo ritrovata sotto shock per alcune immagini riprese da un telefonino e ritrasmesse immediatamente sulla Rete che ormai ci mostra in tempo reale, accadimenti che rimarrebbero altrimenti nella regione dell’inavvertito. Il breve filmato, mostrava alcuni immigranti internati nel Cie di Lampedusa, denudati per essere cosparsi con una soluzione chimica atta a prevenire la scabbia.
Questo trattamento brutale e inumano, come ha spiegato con chiarezza il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione del Senato per la Tutela dei Diritti Umani, è diretta conseguenza delle modalità della reclusione che trasforma le persone in oggetti, in cose. I nazisti chiamavano gli internati del lager Stücke , pezzi. A sua volta, il processo di reificazione è figlio di una legge infame, la Bossi-Fini, la legge che istituisce il reato di clandestinità, ovvero una legge che trasforma un essere umano in criminale non per ciò che egli fa, ma per ciò che egli è, dunque una legge che si fonda sullo stesso impianto costitutivo delle Leggi di Norimberga.
Esponenti dell’Unione europea si sono scandalizzati, autorevoli rappresentanti del nostro governo si sono indignati, ma che anime belle! Davvero commoventi, e cosa dicono queste persone tanto sensibili delle diuturne vessazioni perpetrate contro i cittadini rom, perseguitati, segregati, deportati di campo in campo per esempio in Italia, per non parlare di quello che subiscono in Ungheria e in altri Paesi dell’ex blocco comunista dove vengono anche pestati e magari uccisi?
Cosa pensano della legge liberticida per reprimere le manifestazioni che prepara il governo Rajoy in Spagna? Cosa dicono dell’impetuosa ascesa di Marine Le Pen in Francia? Lo vogliono capire lorsignori che nella «civile» e imbelle Europa, è ancora attivo il virus della peste nera che si chiama fascismo che è pronto a riproporsi come prospettiva politica e che ci sono molti cittadini europei che, pur di vedere salvaguardato un loro status, reale o percepito che sia e di avere garantito un privilegio sia pur virtuale, sono pronti ancora a dar credito ai seminatori di razzismo, di odio e di xenofobia?
L’Europa cosa aspetta a dare senso alla sua stessa ragione d’essere: la convivenza pacifica fra i popoli e la loro unità politica e sociale, non solo economica? Non si possono accreditare illusioni di comodo magari parlando di pacificazione. Ci visioni del mondo inconciliabili. Pace, uguaglianza, libertà, giustizia sociale e fascismo, non possono convivere. Cosa si aspetta ancora per contrastare con inequivocabili leggi europee, il risorgere delle forze oscure dell’estrema destra che hanno partorito la peste nera che ha distrutto l’Europa e sterminato interi popoli?
L’idea stessa di un’Europa unita, libera e pacifica, si è forgiata e temprata nella lotta e nella cultura antifascista; chi lo dimentica, magari per quieto vivere, non è solo superficiale o opportunista, è colpevole. Gravemente colpevole!
Bregantini: «Stato assente Vergogna» di Roberto Monteforte in “l’Unità” del 19 dicembre 2013
«È vero che la violenza è stata fatta, ma non è meno tragica la violenza di uno Stato che non sa attrezzarsi dignitosamente, questa è la vergogna». È il commento del presidente della Commissione Lavoro, Giustizia e Pace della Cei monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso, alle immagini shoc del centro di prima accoglienza di Lampedusa.
Non vi è solo la responsabilità degli operatori e responsabili del Centro, vi anche quella dello Stato. Nel corso della presentazione della Marcia della Pace della notte del 31 dicembre, dedicato quest’anno alla «fraternità, fondamento e via della pace» che si terrà nella città del Molise, è quasi naturale che venga un giudizio del vescovo su quel video che ritrae i migranti nudi, all’aperto, «disinfettati». Bregantini lo definisce «tristissimo» e si collega alle dichiarazioni del primo cittadino dell’isola siciliana, Giusy Nicolini. «Il sindaco dice che non c’è solo una violenza di chi ha compiuto quel gesto disumano, ma - osserva - c’è una struttura inadeguata che non può rispondere a un numero così alto d’immigrati».
Un numero che - sottolinea - è di molto inferiore a quello sopportato da altri Paesi, come il Libano. «Da noi, al confronto, sono pochissimi e non siamo in grado di gestirli..». «Chi ha compiuto quel gesto - ha aggiunto monsignor Bregantini - è degno di una sconfessione netta, ma anche la realtà centrale dello Stato deve essere molto più efficace e propositiva». Lo afferma con amarezza dopo alcuni mesi dalla tragedia che ha visto centinaia di migranti perdere la vita al largo di Lampedusa.
Certo è che il dramma di chi è costretto a lasciare il proprio Paese per fuggire dai drammi della guerra e della miseria è ben presente agli organizzatori della Marcia per la Pace, dalla Caritas e Pax Christi, alle diocesi del Molise, della Campania e della Puglia. In testa alla Marcia, infatti, ci sarà una croce realizzata con i legni delle imbarcazioni che sono naufragate a Lampedusa, così come lo era l’altare dal quale Papa Francesco celebrò la messa nell’isola «Porta d’Europa». Ieri Bregantini ha rilanciato l’appello di Bergoglio rinnovato nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace 2014: l’attenzione e l’accoglienza al fratello sono un dovere di civiltà, fondamentale per la pace nella giustizia.
Quella rivoluzione dottrinale che spaventa la gerarchia
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 16 dicembre 2013)
È spiazzante nella comunicazione pastorale. E non mette mai in forse la correttezza dottrinale. Papa Bergoglio è suggestivo nel suo stile personale di esprimersi, ma controllato, persino sofisticato, nel mantenere le posizioni tradizionali su punti controversi. Prendiamo uno dei passaggi più ironici, breve ma significativo, della sua intervista alla Stampa: «Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non clericalizzate, facendole magari cardinali».
L’arguzia dell’affermazione evade la sostanza di un problema dottrinale irrisolto. Mi sarei atteso che Papa Francesco dicesse: la donna collocata in posti decisionali e in ruoli istituzionali essenziali, potrà de-clericalizzare la Chiesa così come è oggi. Perché non ha detto così? Si tratta di un limite personale o del timore che una autentica innovazione su questo tema (che implica una seria rivisitazione storico-dottrinale) sarebbe intollerabile per molti esponenti della gerarchia? Papa Francesco non è un ingenuo. È consapevole di muoversi su un crinale fragilissimo: la sua innovazione espressiva nella pastorale non è un “aggiornamento” vecchia maniera. Molte delle sue parole hanno un potenziale innovatore che entusiasma ed emoziona - in modo confuso - ampi strati di popolazione, fedeli credenti e fedeli critici o disillusi. Ma contemporaneamente inquieta molta parte della gerarchia che non sa decifrare l’esito di questa emozione collettiva .
Ma il Pontefice non vuole affatto creare tensioni o divisioni all’interno della Chiesa. Al contrario, come nessun altro dei suoi predecessori intende valorizzare al massimo le forme di collegialità esistenti. Prende molto sul serio il fatto che la problematica, apparentemente minore della comunione ai credenti divorziati risposati, e quella assai più impegnativa di una riflessione sulla famiglia, sia affidata alla risoluzioni del Sinodo del 2014. Non alla autorevolezza della sua parola ma a processi di convincimento della comunità dei fedeli sotto la guida dei suoi pastori.
E’ una prospettiva interessante, anche se non credo che verranno fuori novità. Ma sarà già importante che a livello di società civile, di dibattito pubblico e soprattutto di normative giuridiche sparisca lo spirito falsamente militante (legato all’uso e abuso della formula dei “valori non negoziabili”) a favore di un confronto più maturo e ragionevole fra tutti i cittadini, credenti e non credenti.
Come si lega tutto questo alle suggestive parole di Papa Bergoglio sulla “tenerezza” e “la speranza” che è la parte centrale del suo discorso? Sarebbe facile considerare questa parte una edificante predica natalizia, meno concreta ad esempio delle puntualizzazioni con cui respinge il presunto marxismo della sua posizione, rivendicando l’anticapitalismo della dottrina sociale della Chiesa. Ma l’affermazione «quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una Chiesa fredda che non sa dove andare e si imbroglia», introduce considerazioni di sapore mistico che sono tipiche dello stile di Francesco. Non solo la quasi palpapile «tenerezza di Dio che ti accarezza» ma anche la dimensione opposta, dura, di Dio che non parla davanti al perché della sofferenza «Lui non spiega niente. Ma sento che mi guarda. Tu non me lo dici, ma mi guardi».
Il dramma antico dell’ inspiegabilità del dolore, che omologa credente e non credente, trova qui la sua via di fuga. Che un Papa sappia trovare le parole giuste in una intervista ad un giornale e più in generale padroneggiando con perizia il circuito mediatico, fa parte della personalità di Bergoglio. Che questa sia la strada per evitare una “Chiesa fredda” è tutto da verificare.
Il marxismo secondo il Papa. E la notizia gira il mondo
di Paolo Mastrolilli (La Stampa, 16.12.2013)
L’intervista con papa Francesco pubblicata da La Stampa ha fatto il giro del mondo, citata e ripresa da tutti i media più importanti. Nbc, Abc, Guardian, Washington Post, Time, Usa Today, Cnn, Reuters, Associated Press, Huffington Post: una ricerca superficiale su Google in inglese ieri pomeriggio dava 341 risultati, e quindi interrompiamo l’elenco perchè riempirebbe tutto l’articolo.
Negli Stati Uniti il passaggio che ha attirato maggior attenzione è stato quello sulla ideologia marxista, in cui il Pontefice dice di considerarla sbagliata, ma aggiunge di aver conosciuto molti marxisti che sono brave persone. Queste frasi sono diventate il titolo di testa dei siti di molti media. Nei giorni scorsi diversi commentatori conservatori avevano discusso l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, attaccando i passaggi in cui Francesco criticava gli eccessi del capitalismo. In particolare Rush Limbaugh, forse il conduttore radiofonico più noto degli Stati Uniti, aveva detto che le parole del Santo Padre erano «puro marxismo».
Limbaugh è molto seguito soprattutto dagli ascoltatori di destra, ma altrettanto criticato da quelli di sinistra, e quindi la risposta arrivata dal Papa ha provocato subito la reazione dei mezzi di comunicazione. Gli articoli dei molti media internazionali che hanno ripreso l’intervista a La Stampa hanno però riportato anche le parole del Pontefice sul ruolo delle donne nella chiesa, le persecuzioni contro i cristiani, e il messaggio generale sul valore del Natale.
Nei mesi scorsi i conservatori americani si erano lamentati per le posizioni prese da Francesco sui temi della vita, quando aveva detto di non voler parlare solo di aborto. I più attenti però avevano sottolineato che queste parole non significavano un cambiamento della dottrina della Chiesa, ma piuttosto la volontà di prestare attenzione anche ad altre questioni. Si tratta di un aspetto importante della linea del nuovo Santo Padre, perché potrebbe mutare l’impostazione del rapporto anche con l’amministrazione Obama. Il governo Usa negli ultimi anni ha avuto una relazione complessa con il mondo cattolico, in particolare con la gerarchia dei vescovi americani.
Nel 2008 la maggioranza degli elettori cattolici aveva votato per il presidente, ma la Conferenza episcopale lo ha spesso criticato, soprattutto per la riforma sanitaria che obbliga tutti i datori di lavori a fornire assicurazioni che pagano anche i contraccettivi.
Sul tema dell’aborto è molto difficile che Obama e Francesco trovino un terreno comune, perché un presidente democratico non può deludere la sua base su questo punto, e il Papa non può rinunciare ad un aspetto fondamentale della dottrina della Chiesa. Washington però spera che l’attenzione riservata dal Pontefice ai temi sociali consenta di sviluppare un nuovo dialogo su questo fronte, nonostante il tentativo fatto dai conservatori di boicottarlo sul nascere, con le accuse lanciate al Santo Padre di essere marxista.
FUTURO E AVVENTO
di Ernesto Balducci *
Può servire una distinzione filologica, ma con implicazioni molto ricche, tra il futuro e l’avvento; il «futurum» e l’«adventus». Il futuro è la dimensione del domani contemplata sulla proiezione del presente. È il futuro che ci viene descritto, sia pure con mano sempre più incerta, dagli esperti di sociologia, dai tecnologi, dai politologi. Essi non fanno che utilizzare gli elementi del presente per fare delle ipotesi sul tempo che viene.
Da questa parte possiamo attenderci ben poche consolazioni. Se il futuro si realizza sulla spinta che governa il presente, esso è un futuro di consolidamento delle ingiustizie intollerabili o è un futuro di catastrofi. C’è però un altro futuro; il sopravvenire di una qualità nuova del tempo, di un modo nuovo di esistere individuale e collettivo.
L’adventus indica non un prolungamento quantitativo del presente, ma un sopravvenire delle qualità attese, misurate su quelle speranze che il presente frustra, umilia, avvilisce e irride. Questa qualità nuova è, nel linguaggio della Scrittura, qualificata come «regno di Dio». E infatti questa qualità che nella pienezza del suo adempimento è contemplabile solo nella fede e non certo dimostrabile con la ragione, è il giorno di Dio. Noi ridurremmo questo giorno di Dio a pura sostanza mitologica, e quindi alienante, se non lo vedessimo quasi precipitare come un ruscello che scende da un monte lontano dinanzi a noi fino a lambirci i piedi, fino ad invadere l’oggi che è il nostro oggi...
Gesù si presentò proprio come un demitizzatore, come uno che condanna la contemplazione di un futuro remoto, dicendo - ad esempio - «il Regno di Dio è fra di voi». Solo che la qualità del Regno è tale che bisogna saperlo discernere, scoprire e realizzare. Non possiamo mai essere solo spettatori del tempo nuovo, in quanto solo se ci impegniamo a realizzarlo lo vediamo ad occhi nudi; se invece siamo indifferenti non lo vediamo e non ci servirà la cultura dei sociologi a farcene percepire appena un barlume.
L’occhio profetico (in senso minuscolo, quotidiano, che può competere a noi senza scomodare i grandi profeti che non sono programmabili) è una dimensione dello spirito che è chiamata in causa proprio in questa evenienza dell’adventus, di questa irruzione della novità in cui dobbiamo riporre la nostra Speranza.
Questa necessità di un avvento è tanto più forte quanto più vediamo - come accennavo prima che la proiezione del presente sul futuro è catastrofica: o cambiamo o moriamo. Quando questo sentimento si fa acuto, l’attenzione verso la possibile novità del regno dovrebbe diventare la nostra consegna quotidiana, il nostro modo di esistere.
* Ernesto Balducci, Il Vangelo della Pace, Vol. 1, pp. 35-36 (segnalato da Aldo Antonelli)
Il papa: redistribuire la ricchezza
di Roberto Monteforte (l’Unità, 13 dicembre 2013)
Sono necessarie politiche che «servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito». Torna ad invocare giustizia sociale ed anche una «politica trasparente» e lotta alla corruzione Papa Francesco nel suo primo Messaggio per la Giornata della Pace 2014 che è stato diffuso ieri.
Nel documento, intitolato «Fraternità, fondamento e via per la pace», il pontefice denuncia «con preoccupazione la crescita di diversi tipi di disagio, di emarginazione, di solitudine e di varie forme di dipendenza patologica», e lo fa ponendo al centro la «fraternità»: una condizione da recuperare non solo a livello interpersonale, ma anche nella dimensione sociale e nel rapporto tra i popoli. È solo così, insiste, che «è possibile costruire una società giusta e una pace solida e duratura». Pace e giustizia vanno assieme. Lo sa bene l’argentino Papa Francesco che nella sua Buenos Aires si è dovuto misurare con gli effetti devastanti della crisi sociale ed economica.
Nel suo Messaggio sottolinea come la «vocazione» alla fraternità sia oggi spesso contrastata dalla «globalizzazione dell’indifferenza» che, scrive, «ci fa lentamente abituare alla sofferenza dell’altro, chiudendoci in noi stessi». Del resto, osserva, alle guerre «fatte di scontri armati si aggiungono guerre meno visibili, ma non meno crudeli, che si combattono in campo economico e finanziario con mezzi altrettanto distruttivi di vite, di famiglie, di imprese». Ricorda la Populorum Progessio di Paolo VI e la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II per ribadire come «anche le nazioni debbono incontrarsi in uno spirito di fraternità».
L’IPOTECA SOCIALE
«La fraternità è la via maestra anche per sconfiggere la povertà» afferma auspicando «politiche efficaci che promuovono il principio della fraternità», assicurando alle persone di «accedere ai capitali» e alle risorse. Richiama l’insegnamento di San Tommaso d’Aquino e l’«ipoteca sociale» in base alla quale per la Chiesa «se è lecito che l’uomo abbia la proprietà dei beni», «li possiede non solo come propri, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri». Così Papa Bergoglio invita a riscoprire la fraternità come «premessa per sconfiggere la povertà», ma anche per dare un nuovo senso ad un’economia segnata da crisi ricorrenti.
Ne indica l’origine anche nel «progressivo allontanamento dell’uomo da Dio e dal prossimo, nella ricerca avida di beni materiali», nel «depauperamento delle relazioni interpersonali e comunitarie». Invita a ripensare «i modelli di sviluppo economico» e a «cambiare gli stili di vita», ricordando che l’uomo «è capace di qualcosa in più rispetto alla massimizzazione del proprio interesse individuale».
Insiste nella denuncia degli egoismi sociali e delle logiche che alimentano la corruzione e il crimine organizzato da contrastare, oggi «così capillarmente diffuse, sia nella formazione delle organizzazioni criminali, dai piccoli gruppi a quelli organizzati su scala globale».
Ma vi sono anche i conflitti tradizionali. Nel suo Messaggio il Papa argentino lancia un forte appello affinché «quanti seminano violenza e morte rinuncino alla via delle armi» e riscoprano «in colui che oggi considerano solo un nemico da abbattere, il loro fratello». «Fermate la mano!» è il monito di Francesco per fermare i tanti conflitti, spesso nascosti e alimentati dai tanti, troppi arsenali di armi esistenti. «Finché saranno in circolazione - torna a denunciare - si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità». Se invoca la «conversione dei cuori», vi aggiunge anche un molto concreto invito al «disarmo da parte di tutti», cominciando dagli arsenali nucleari e chimici.
Sono tanti i comportamenti contro l’uomo, la natura e contro Dio che alimentano ingiustizie e conflitti. Nel suo Messaggio Francesco denuncia anche veri e propri drammi sociali come quelli causati dalla droga, dallo sfruttamento del lavoro, dagli abusi contro i minori, dall’«abominio del traffico di essere umani». Sulla «tratta» è intervenuto anche ieri con parole di condanna durissime nel discorso di saluto ai 17 nuovi ambasciatori presso la Santa Sede. L’ha definita una «vergogna», una «piaga sociale» e un «crimine contro l’umanità» che tocca spesso i più deboli.
IL DRAMMA DELLE CARCERI
Alle periferie esistenziali dove la dignità umana è più ferita Papa Francesco è particolarmente attento. Nel suo messaggio ha richiamato le «condizioni inumane di tante carceri, dove il detenuto è spesso ridotto in uno stato sub-umano e viene violato nella sua dignità di uomo». L’ultimo paragrafo del suo Messaggio per la giornata della Pace 2014 è dedicato alla «custodia della Natura». Anche in questo caso invoca «fraternità» per superare quell’avidità, quella superbia del dominare che spesso guida i comportamenti. Invita a considerare la Natura «come un dono gratuito» da «mettere a servizio dei fratelli», anche a quelli che «verranno». Insiste sullo scandalo «della fame nel mondo». «È un dovere cogente - afferma - che si utilizzino le risorse della terra in modo che tutti siano liberi dalla fame».
Il Papa chiama in causa anche la responsabilità della comunità politica. «Deve agire in modo trasparente e responsabile - afferma - per generare la “pace sociale”». «I cittadini - continua - devono sentirsi rappresentati dai poteri pubblici nel rispetto della loro libertà». La realtà, osserva con amarezza, appare diversa e «spesso tra cittadino e istituzioni, si incuneano interessi di parte che deformano una tale relazione, propiziando la creazione di un clima perenne di conflitto»
La fraternità di Francesco non è buonismo
di Maria Galluzzo (Europa, 13 dicembre 2013)
Farà sobbalzare più di un grande della Terra e gli ideologi del turbocapitalismo il primo messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della pace. E forse sarà altrettanto urticante come lo fu quarantasette anni fa la storica Populorum progressio di Paolo VI, che all’epoca alcuni commentatori etichettarono come «enciclica comunista» o irrisero come « Populorum progressio, Ecclesiae regressio ». Uno dei documenti manifestamente più “politici” della Chiesa, istituiti proprio da papa Montini nel 1967 per consegnare alle nazioni e ai popoli all’inizio di ogni nuovo anno una riflessione sui temi della pace, con papa Francesco rigenera un incredibile senso di continuità del magistero ma anche di come sono andate le cose nel mondo. Due papi, con storia, linguaggio e temperamento così diversi, a distanza di quasi cinquant’anni, ci richiamano sullo stesso tema: perché essere fratelli?
Perché è necessario riscoprire la fraternità? Paolo VI proprio all’inizio della Populorum Progressio parla dei suoi due viaggi in America Latina (1960) e in Africa (1962), intrapresi prima di diventare papa, e spiega che l’aver toccato con mano i «laceranti problemi che attanagliano continenti pieni di vita e di speranza» gli ha fatto rafforzare l’idea che «i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza» e che lo «sviluppo» era il «nuovo nome della pace». Allora, appunto, il mondo era diviso in due blocchi, c’erano i muri, anche tra Nord e Sud, e chi stava sopra aveva molte certezze. La ricetta di Paolo VI rimase inascoltata. E si è visto dove siamo arrivati. Oggi un pontefice che viene da un paese dove c’è povertà e fame ha di fronte un mondo senza frontiere e con un Nord che per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ha paura dell’indigenza: la consapevolezza della «condivisione di un comune destino» è «palpabile».
Nel suo messaggio “Fraternità, fondamento e via per la pace” papa Bergoglio ripercorre molti temi dell’enciclica di papa Montini, li attualizza, li carica della sua cifra e della sua forza comunicativa. In una decina di pagine condensa tutto il suo magistero. Partendo dalla vicenda biblica di Caino e Abele, dal pensiero dei suoi predecessori e dalla «sorgente» di ogni fraternità che è la famiglia, si concentra su poveri, pace e creato letti nella chiave della fraternità.
E fraternità non è superficiale buonismo, ma un ragionare su come stanno le cose e su quale direzione scegliere. Due capitoli del messaggio sono infatti dedicati all’economia con l’indicazione di rimedi contro la povertà, dalla lotta alla corruzione alle politiche sociali, dagli stili di vita ai modelli economici. Un altro capitolo suggerisce come spegnere con l’arma della fraternità le guerre di ogni tipo. Potenti le parole di papa Francesco quando si sofferma su corruzione e crimine organizzato come forze che avversano la fraternità. Al riguardo parla di mafie, traffico di esseri umani, flussi illeciti di denaro legato alla speculazione finanziaria, droga, prostituzione, inquinamento ambientale. Ma parla anche di diritti, come nel caso delle «condizioni inumane» di tante carceri.
Tutto si gioca sull’equilibrio fra libertà e giustizia: «La fraternità - scrive papa Bergoglio - genera pace sociale perché crea un equilibrio fra libertà e giustizia, fra responsabilità personale e solidarietà, fra bene dei singoli e bene comune». E una comunità politica responsabile e trasparente deve favorire questo metodo, anche in campo economico, evitando però, sottolinea il papa, che il «necessario realismo» si riduca a un «tecnicismo privo di idealità».
Il passaggio di testimone tra due pontefici così lontani e così vicini si traduce in una sorta di ultimo avviso ai naviganti: reagite alla «globalizzazione dell’indifferenza», alla «cultura dello scarto», all’egoismo, all’odio. Ma attenti, la fraternità non è «automatica» e dunque sforzatevi «ad accettare le legittime differenze che caratterizzano i fratelli e le sorelle», è l’unica via della pace e del superamento della grande crisi.