SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Note per un nuovo patto sociale
di Federico La Sala *
____
Il cielo della preistoria (Marx) getta ancora le sue terribili ombre sul nostro presente e continua a devastare sempre piu la nostra mente e la nostra Terra. Si continua a credere che la civiltà dell’amore - come ha ammesso l’ultimo ‘hegelo-marxista’ nella sua recente circolare del 23.2.1994 - sia possibile, e non un’utopia (1), ma nessuno (non i filosofi, e meno che mai il Papa) osa far pulizia nel cielo delle nostre idee di violenza, di tramonto e di morte (Occide-re-nte). E tutti perseverano nel ritenere cosa sacra e giusta “per diritto naturale che la materia obbedisca alla forma, il corpo all’anima, l’appetito alla ragione, i bruti all’uomo, la moglie al marito, l’imperfetto al perfetto, il peggiore al migliore, per il bene dell’uno e l’altro dei due”(2).
Se è vero che un uomo più una donna ha prodotto per secoli e per millenni un uomo (3), non è un caso che la dinamica del rapporto tra il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sia stato concepito dialetticamente, e uni-totalitariamente - sia in senso idealistico sia materialistico - come un percorso bellico di superamento delle differenze e trionfo dell’Uomo. E il mondo in cui hanno vissuto e vivono l’uomo e la donna è stato sempre e solo interpretato come il mondo dell’Uomo e del Cittadino: si ricordi che in Italia solo l’altro ieri, 1946, è stato riconosciuto il diritto di voto alle donne.
Cogliere le cose alla radice non è facile. E la radice dell’uomo non è l’uomo stesso. Si ricordi quanto la completa conoscenza scientifica del fenomeno della procreazione sia recente nella scienza occidentale. E si ricordi che «dopo l’antica credenza nella sola responsabilità del maschio, la questione viene riveduta, diventa argomento di polemiche e resta a lungo incerta», e che, «fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società pre-patriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme»(4).
Si tratta di riprendere da capo, a partire dalle radici, l’interrogazione sia su che cosa significa pensare sia, e ancor di più, su che «cosa significa creare rapporti e legami», e su come trasformare i vecchi esistenti rapporti di produzione. Nel momento in cui, accanto all’uomo, la donna «è entrata nel campo e può essere amica o nemica»(5), se vogliamo ridurre e non raddoppiare il numero già infinito delle occasioni di guerre e di distruzione, altre sono le domande e altre sono le risposte di cui abbiamo bisogno:
"Prigionieri di una logica vecchia e con radici profonde secondo la quale v’è sempre chi vince e chi perde, si riuscirà ad uscire da questo gioco che consente, al massimo, di invertire le parti? Che senso ha rifiutare la propria oppressione dell’altro, per rivendicare il diritto ad opprimerlo nello stesso modo e con gli stessi strumenti? Come strappare il potere dalle mani di chi lo detiene, senza esercitare lo stesso potere su chi viene reso impotente? Come superare i tempi delle rivendicazioni, del capovolgimento dei termini che lascia intatta la natura dell’oppressione la qualità del rapporto tra chi tiene il coltello dalla parte del manico e chi si trova con un coltello puntato?
È un problema che non riguarda soltanto il rapporto tra l’uomo e la donna, ma tra l’oppressore e l’oppresso, tra il forte e il debole, tra chi ha il potere e chi non lo possiede: sono quindi domande che coinvolgono l’intera struttura sociale e tutti i valori da essa prodotti, e non possono trovare risposte parziali. Ma nel rapporto tra l’uomo e la donna v’è qualcosa di piu complicato e insieme più semplice: la necessità naturale che reciprocamente li unisce e che la storia ha diviso. La sopraffazione dell’uno sull’altro poggia su questa reciproca necessità, che può essere garanzia di un cambiamento.
Riconoscere lo stesso peso alle esigenze, ai bisogni e ai desideri di entrambi - anche se la donna, tra l’altro, sarà madre se vuole - non dovrebbe essere un’operazione che esige il massacro"(6).
Si tratta di uscire «da interi millenni di labirinto» secondo un’espressione di Nietzsche: e per questo non servono più né l’astuzia della ragione né la volontà di potenza. Non v’è nessuno da uccidere o da aggiogare, e tutti e tutte da liberare - Teseo, Arianna e il Minotauro.
Per una nuova terra, abbiamo bisogno di un nuovo cielo, non più platonico e non più cristiano-hegeliano. Ha ragione Ida Magli: L’Osservatore romano «mi contesta perché affermo che non è più tollerabile per la coscienza dell’uomo moderno teorizzare l’ amore di un dio che ha voluto la morte del figlio per salvarci? E perché affermo che non era questo il messaggio di Gesù? Ma è la storia dei duemila anni di Europa cristiana a dimostrare con le sue infinite guerre che si tratta di una religione di morte. Quello che stiamo vivendo in questi giorni lo dimostra meglio che qualsiasi laboratorio. È nel centro delle religioni del sacrificio - ebraismo, islamismo, cristianesimo - che si deve continuare ad uccidere per salvarsi: perché là dove esiste sacrificio deve esistere il sacrificatore [...].. Perché condanno Wojtyla? Perché rappresenta, nel mondo moderno, l’incarnazione del sacerdote-sacrificatore dell’Antico e del Nuovo Testamento, e, come tale, non può non individuare nelle donne le vittime per eccellenza. Strumenti sacrificali, al servizio della procreazione anche là dove vengono stuprate appositamente come in Bosnia, perché procreino figli ai nemici vincitori come sempre è avvenuto in tutte le guerre, da quelle di cui parla Omero fino ad oggi»(7).
Siamo ancora nella preistoria: come in cielo, cosi in terra. Ma nessuno sembra rendersene conto, e disponibile a «interrogarsi anche su ciò che sembra talmente ovvio, da non suscitare il minimo dubbio, anzi, da non apparire alla coscienza neanche come fatto su cui interrogarsi». Ha ragione Ida Magli: «Le donne sono esseri storici, sono persone. Chiedo a Wojtyla di prenderne atto. Soltanto questo».
Il re è nudo, letteralmente. Si tratta di non continuare a chiudere un occhio o, che è lo stesso e peggio, a chiudere gli occhi sull’incarnazione e sulla nascita - «questa origine, sperimentabile come quell’evento che noi siamo»(8) - e «non smettere mai di porsi domande»: sàpere aude!
Benché occasionali e velocissime, le riflessioni qui presentate questo tentano: fare luce sull’ombelico del sogno (Freud) della ragione (Hegel) del re (Platone). Per tutti e per tutte, ciò che è in giuoco è proprio l’aprire gli occhi (nel doppio senso di nascere e conoscere) su quel crocevia di relazioni chiasmatiche da cui emergiamo, che ci costituiscono e strutturano, e che ci legano alla stessa realtà in cui viviamo - in grande e pericolosa ignoranza.
Pur se con molti limiti, Feuerbach l’aveva capito quando affermava che la vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu. «Due esseri umani occorrono per creare l’uomo, sia l’uomo spirituale sia quello fisico: la comunione dell’uomo con l’uomo è il primo principio e il primo criterio della verità e della validità universale»(9).
Cosi Saussure: «Per trovare nell’insieme del linguaggio la sfera che corrisponde alla lingua, occorre collocarsi dinanzi all’atto individuale che permette di ricostruire il circuito della parole. Questo atto presuppone almeno due individui, il minimo esigibile perché il circuito sia completo. Siano dunque due persone che discorrono...»(10).
Uomo e donna, prima di tutto. All’origine della nostra stessa vita, come dell’intera società, non vi sono il silenzio e la morte: v’è l’amore. È l’amore che illumina le differenze e svela la comune identità: vere duo in carne una, sia nell’unione dei due (uomo e donna) sia nell’uno (figlio o figlia) prodotto dai due. Ogni uomo e ogni donna nascono da donna, ma ogni individuo (letteralmente, il duo da non dividere) - sia uomo sia donna - è generato dall’uomo e dalla donna: due esseri umani, diversi nella loro fisicità (differenza sessuale) e identici nella loro soggettività (attiva e recettiva insieme). Hic Rhodus, hic saltus! Con Kant, oltre Hegel e Freud.
Né idealismo, né materialismo, non la metafora dello specchio e neppure la dialettica. La logica del X (=Chi, nel senso unificato della lettera dell’alfabeto greco simbolizzante una relazione incrociata o, appunto, chiasmatica e del pronome relativo che rinvia alle persone che si incontrano e discorrono) precede e fonda la logica del che cosa (Socrate), non viceversa: continuare a ignorare chi siamo non porta se non a prolungare la strada di coloro che «non sanno quello che fanno» e a non vedere mai né la luce del Sole, né la Terra, né noi stessi e noi stesse - neonati e neonate, in un cielo puro e in un libero mare.
Il nuovo inizio è possibile. Ma, giammai come ora, esso dipende da noi - uomini e donne della Terra. Si tratta di decidersi, consapevolmente e responsabilmente, per relazioni amorose e non per relazioni furbesche e odiose. Non ci sono altre soluzioni: o distruggere il mondo e noi stessi e noi stesse o «cambiare l’anfiteatro da gladiatori dell’insieme delle nostre relazioni» (M. Serres).
Continuare a intendere la relazione-matrice (uomo e donna all’esterno, maschile e femminile all’interno dell’uno e dell’altra) come relazione di dipendenza «significa voler svuotare della sua realtà uno dei portatori della relazione, e con ciò la relazione stessa» (M. Buber), e scegliere ancora una volta di camminare sulla vecchia strada della guerra e della distruzione.
Contro ogni illusione di continuità di istituzioni e di divinità, un fatto resta determinante. Siamo giunti a un grado zero di civiltà. La secolarizzazione non è stata uno scherzo: non solo «Dio è morto» ma anche l’Uomo. Il lungo processo storico che in Europa e nel mondo, almeno dal XVIII secolo, ha innescato la contrapposizione delle diverse forme del contesto sociale all’individuo come un puro strumento per i suoi scopi privati, come una necessità esteriore, e, nel contempo, ha spinto l’individuo a un progressivo isolamento nella società, ha ormai toccato il fondo e ha portato a galla le determinazioni più semplici (Marx).
Ciò che è emerso non è l’ideologico individuo isolato, ma l’uomo isolato e la donna isolata, con la loro diversità (differenza sessuale) e la loro identità (bisessualità psichica), e lo stesso nesso che li costituisce e unifica isolato. Ed è con questo che oggi bisogna fare i conti - se vogliamo uscire dall’inferno in cui stiamo sprofondando sempre più, non con qualcos’altro.
Nessuna restaurazione ci può salvare. Quando la potenza unificatrice scompare dalla vita dell’uomo e della donna e gli opposti hanno perduto il loro vivo rapporto e la loro reciproca dipendenza acquistando la loro autonomia, non è della filosofia - come sosteneva Hegel - che si ha bisogno. Caso mai, essa serve solo a completare l’opera.
La sua coscienza infatti, pur se desiderosa di sapere, è cieca come la coscienza di Èdipo: non sa nulla del prima e del dopo; e la sua intelligenza è capace solo di consegnare alla vecchia Giustizia e a un destino di negazione e morte tutto ciò che incontra sulla strada del suo presente. Nel proprio lavoro e sul suo terreno, è anche una coscienza eroica, astuta e potente, ma al di là non va e non può andare: è paurosa e miope, come una nòttola o una talpa, e non sa far altro che tornare indietro e rimuovere la complessità delle condizioni del suo stesso essere e del suo stesso agire.
A veder bene, il dialogo socratico come la dialettica hegeliana non sono che potenti e sofisticate macchine da guerra di una coscienza (storicamente datata) volta ad aggiogare e confinare l’altro dentro di sé (il femminile) e fuori di sé (la donna) e la stessa natura, in un cerchio o, meglio, una sfera - senza tempo e senza vita, oltre che senza luce.
Il desiderio-di-sapere di questa coscienza non ha più storia, né in terra né in cielo. Oggi, gli uomini e le donne non solo hanno appreso come nascono i bambini e le bambine sulla Terra, ma, portatisi e portatesi fuori - nell’oceano cosmico, hanno visto la sfera in cui abitano: la nostra Terra è illuminata dal Sole ed è piena di vita e di brillante colore. Al di là della disperazione e del nulla, oltre le colonne di Ercole-Parmenide, hanno trovato e provato - quanto nessuna coscienza nata e cresciuta tra le mura delle varie accademie ha mai neppure lontanamente sognato - il piacere, più profondo ancora della sofferenza (Nietzsche), e "Amore più forte di Morte"(11).
Benché accecati, Marx, Nietzsche e Freud hanno scavato più di tutti - per aprire un varco: non è la coscienza dell’uomo o della donna che determina il nesso sociale, ma è il nesso sociale che determina la coscienza dell’uno e dell’altra. Non vi sono riusciti ma ora il nesso dialettico è stato spezzato. Lo Stato etico come il partito etico è morto, e la strada a un nuovo patto sociale e a una nuova conoscenza è aperta.
Né egoismo, né altruismo ... né un’altra religione! Si tratta di aprire le porte e le finestre della coscienza alla legge scritta nel nostro stesso corpo e nella nostra stessa mente (non nella testa di qualche filosofo-papa) e di cominciare a mettersi in cammino. La critica non ha strappato i fiori immaginari dalla catena perche l’uomo e la donna continuino a trascinarla triste e spoglia, ma perche la gettino via e colgano il fiore vivo.
Uscire dal caos è possibile, e mettere al mondo una nuova polis non è un’utopia. Ormai né a Johannesburg, né a Gerusalemme, né a Gaza, e nemmeno a Roma, si ignora che la verità nasce da due e non da uno e che amare l’altro come se stesso, o sé come un altro (12), è un dire di sì all’eterno ritorno della vita, non della morte.
_________
* Si riprende qui (senza le note), con lo stesso titolo, il cap. 6 della Parte III, del lavoro di Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore, pref. di Fulvio Papi, Milano, Edizioni Nuove Scritture, 2013, pp. 139-146.
Sul tema, nel sito, cfr.:
E’ MEZZOGIORNO... L’ ORA DEI VAMPIRI
di PAOLO MAURI (la Repubblica, 14 ottobre 1988)
SE AI TEMPI di Cenerentola non ci fosse stato l’orologio, un orologio in grado di battere le ore, di renderle esplicite per tutti, a mezzanotte non sarebbe successo proprio nulla. Perché il prodigio si compia, infatti, è necessario che scocchi l’ora fatidica, cioè che un segnale particolare la renda reale e sia pure relativamente ad un luogo e ad una comunità universale. L’ora fatidica dei fantasmi e dei vampiri non viene dunque, come comunemente si crede, da molto lontano: è un effetto speciale legato alla misurazione del tempo, una certezza tutto sommato abbastanza moderna.
Anticamente, cioè prima dell’ orologio, la scansione del giorno riguardava soprattutto le ore di luce, con un momento privilegiato: il mezzogiorno. Per quanto oggi possa apparire incredibile, fu proprio il mezzogiorno l’ ora fatidica dei prodigi e dei fantasmi, dei vampiri e dei demoni, delle apparizioni misteriose e del manifestarsi della follia. Il parallelo mezzanotte-mezzogiorno ci dice intanto una cosa fondamentale: che l’uomo ha bisogno di segnare nettamente i confini tra il regno della normalità e quello soprannaturale; colonne d’Ercole mentali, le ore fatidiche segnano il punto di passaggio tra ciò che si conosce e ciò che si teme, perché ignoto e quindi insieme terrifico e fascinoso.
E’ facile intuire perché l’uomo antico scegliesse il mezzogiorno come ora fatidica: intanto era un’ora riconoscibile anche a occhio e determinabile con una certa precisione, badando ad alcuni fenomeni alla portata di tutti. Il sole raggiunge il punto massimo nel cielo e le ombre sulla terra si accorciano fino a scomparire: una sorta di orologio rudimentale, lo gnomone, consiste proprio di un’asta che proiettando un’ombra consente di verificare l’ ora meridiana.
Proprio a I demoni meridiani dedicò uno studio, poco oltre la metà degli anni Trenta, Roger Caillois, ancora oggi ben noto e presente per i suoi lavori sul sacro e sul mito, nonché per le sue teorie sul gioco.
Era un momento delicato, in Europa, per dare spazio all’ irrazionale; e giustamente Carlo Ossola, che ha provveduto oggi a trasformare quello studio disperso in un libretto che esce tra pochi giorni (I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, pagg. 128, lire 20.000) si sofferma nell’ introduzione sul clima culturale del tempo e sulle intenzioni del Collège de Sociologie dove Roger Caillois si trovava ad operare.
Il programma di Caillois (e naturalmente del Collège de Sociologie) è assai complesso: si tratta di illuminare i comportamenti degli uomini (anzi dell’ intero regno animale) attraverso i miti, che ne sono una rappresentazione. Devo qui, necessariamente, prendere una scorciatoia, non potendo (come fa Ossola nella sua introduzione) ricapitolare i principali passaggi di un’operazione culturale fascinosa e rischiosa insieme. Non appena il mito tocca il contemporaneo, l’analisi cede il posto alla volontà di fare. La passione di fare diventa bruciante.
Quando, dopo essersi occupato dei demoni meridiani, Caillois si mise a studiare il moderno mito di Parigi, con tutti i suoi corollari di superamento della mediocrità borghese verso una divina (o diabolica) volontà di potenza, il reale (in questo caso il nazismo) ha già fatto largo uso dell’irrazionale per porre le basi del suo progetto di dominio.
Sarà Marcel Mauss ad avvertire gli studiosi del Collège che stanno rischiando grosso: credo che siate tutti in questo momento sbandati, probabilmente sotto l’influsso di Heidegger, bergsoniano attardato nell’ hitlerismo, che legittima l’hitlerismo invasato d’ irrazionalismo....
Di fronte all’hitlerismo, inaccettabile perché razzista, Caillois fa marcia indietro, ed è probabilmente questo uno dei motivi per cui il suo studio sui demoni meridiani non venne da lui più tardi recuperato. Non tanto perché in esso trattasse questioni immediatamente pericolose: in fondo si tratta di una eruditissima ricognizione rivolta al recupero di una dimensione trascurata eppure anticamente assai attiva, ma soprattutto perché in esso stavano due chiavi comportamentali che potevano tranquillamente essere resuscitate anche nell’Europa moderna.
Da un lato, infatti, l’ora meridiana è l’ora dell’acedia, una forma di depressione, di taedium vitae, di spaesamento, che colpisce si tramanda i monaci e gli anacoreti del deserto portandoli a ripudiare il proprio essere monaci, a non capire più, o addirittura a non sopportare più, la propria condizione. L’acedia è la perdita del sacro.
D’ altra parte, a far da contraltare alla passività indotta dall’acedia, c’è la volontà di potenza e di immortalità favorita dall’ allucinazione che il calore meridiano provoca. Nella sua ambiguità la potenza del sole distrugge e feconda, sconfigge i deboli ed esalta, in senso proprio, i forti. C’ è dunque un messaggio di morte e contemporaneamente un accredito vitale nell’ ora fatidica.
Caillois ripercorre passo passo le situazioni topiche dell’ora meridiana: ora centrale del giorno che divideva in due zone ben distinte le cose lecite (o favorevoli) da quelle illecite. Racconta Plutarco, per esempio, che nessun condottiero romano avrebbe mai firmato un trattato o un atto importante dopo mezzogiorno. Sotto altri cieli (in Messico, presso gli aztechi) il mezzogiorno era un’ ora privilegiata per i sacrifici ed è sempre a mezzogiorno che le divinità si manifestano. Caillois ricorda che Pan, il più importante dio dell’Arcadia, era solito comparire appunto a mezzogiorno.
LA LETTURA del lavoro di Caillois mi ha fatto venire in mente un’ altra remota lettura, il libretto di Franz Altheim dedicato al cristianesimo e ai culti solari: si intitolava Il dio invitto e in Italia lo tradusse nel 1960 Feltrinelli. Anche il cristianesimo, che pure ha molto contribuito ad attribuire la luce al bene e le tenebre al male, ha le sue implicazioni con il sole e con i culti solari.
Risfogliandolo dopo tanto tempo ho letto che Costantino ebbe la visione della croce all’ ora meridiana del sole e che alla stessa ora la sua anima salì al cielo. Dunque il mezzogiorno è anche (o meglio soprattutto) l’ora dei morti, non fosse altro che per il fatto dell’ accorciamento e scomparsa dell’ ombra, che presso alcuni rappresentava l’ anima. (L’avventura di Peter Schlemihl ha dunque radici assai remote). L’ora dei morti (seguo sempre Caillois) era riservata alle libagioni in onore dei morti: anche in Sofocle è mezzogiorno quando Antigone viene ad offrire il sacrificio per il fratello. Di qui la credenza, abbastanza diffusa, che si trattasse di un’ora sacra e quindi pericolosa: nei templi si tiravano le tende a quell’ ora fatale, bambini e donne erano invitati a non uscire di casa e i morti senza pace ne approfittavano per manifestarsi. Particolarmente nutrita quest’ultima categoria, come attestano numerose fonti: la guardia forestale con la testa sotto il braccio, il cavaliere senza testa che è stato impiccato, l’uomo senza testa attorniato dai cani... Anche il cadavere che non ha ricevuto gli onori funebri appare a mezzogiorno: lo ricorda anche Stazio nella Tebaide.
Ancora: mezzogiorno è l’ ora della malia incantatrice. L’autore si rifà qui alla leggenda delle sirene, già nell’antichità messe in relazione con Sirio, la stella più brillante del Cane, foriera di spossatezza, di lascivia e quindi di mortale abbandono. Si mescolano qui due temi di lunga durata: il piacere e la morte, sicché s’introduce l’elemento sessuale, nella doppia accezione della fecondazione e dell’ abbandono ai sensi.
MA IL VIAGGIO non è finito: ancora molte sorprese attendono il lettore, che verrà condotto, nell’ora accidiosa della calura, a spiare i pastori emuli di Pan (o Pan ricalcato sulle abitudini lascive dei pastori); sfinito dal canto delle cicale, già immortalate da Platone; sbarcato nella pericolosa terra dei lotofagi, dove le sirene, che reggono un loto, ritornano, quasi a chiudere il cerchio dell’ incantesimo. Si toccheranno, ancora, le spiagge del sonno pericoloso e popolato (in senso classico) di incubi, si toccheranno le soglie della furia allucinata, con l’ apparire delle Ninfe, anch’esse meridiane, protettrici del sacro.
Nella catastrofe finale l’ora fatidica e terrifica sarà ulteriormente gravida di eventi eccezionali: è il terremoto di mezzogiorno, l’oscuramento del sole. Non c’ è bisogno, per questo, di allontanarsi troppo da testi assai noti anche oggi: non è forse il sacrificio di Cristo, consumato tra mezzogiorno e le tre, annunciato da un oscuramento e da un terremoto? A mezzogiorno appaiono gli angeli ad Abramo per annunciargli la nascita di Isacco; a mezzogiorno Giovanna d’ Arco sente le voci; la tradizione ebraica racconta il demone di mezzogiorno come un mostro fatto di scaglie e di capelli, con un occhio solo situato a livello del cuore.
Che il fascino un po’ morboso e misterioso delle ore della massima calura non sia finito con gli antichi, lo testimonia molta letteratura a noi vicina. Caillois aveva sottomano, allora, un romanzo di Paul Bourget, Le démon de midi, ma ben prima di lui Montale s’ era cimentato col sole che abbaglia, nell’ accidia del meriggiare che lo induce a riflettere con triste meraviglia sul significato del vivere; e come non ricordare, pescando un esempio a caso tra quanti vengono alla mente, l’ora della calura, con i suoi corollari di sonno, sesso e indolenza propiziata dal frinire delle cicale, nel film di Tavernier, Una domenica in campagna? Per dire, in buona sostanza, che il viaggio nel sole non è certo finito, ma anche che certi miti bisogna guardarli di traverso e non cedere, supini, al loro culto. La storia ha già dimostrato, meglio della medicina, come siano nefasti certi colpi di sole.
Archivio "la Repubblica", 14 ottobre 1988.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968). PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LA "COPPIA FREUDIANA". L’OPERA DI CHRISTOPHER BOLLAS "disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca":
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente di fare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
Le due figure sono accomunate da una prospettiva della visione del mondo concessa solo a loro
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 10.09.2016)
Polifemo, figlio di Poseidone, viene sconfitto dall’eroe Odisseo con un gesto cruento: accecando il suo unico occhio. Tre millenni dopo un altro eroe ricorderà il Ciclope osservando la Terra, Gaia, in tutto il suo splendore attraverso l’occhio dell’oblò di una navicella spaziale. Due storie, un solo mitologema: l’essere dell’antichità mitologica ed il rappresentante della mitologia moderna si ritrovano accomunati nella visione del Mondo attraverso una prospettiva che solo a loro era concessa; Polifemo e Gagarin condividono lo stesso sguardo.
Ulisse e la sua Metis
Nessun altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana - l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano divino è Atena - poteva concepire ed eseguire un atto così significativo del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire, allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la pose giù nel ventre».
Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.
Si suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro, l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.
Ben lo descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena - nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al suo potere - bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente.
A questo fine è necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il mondo della Grande Madre.
La nascita dell’Occidente è dunque legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma da dominare.
E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi, come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli umani vogliono andare al di là dei loro limiti - il terribile peccato della hybris - dato che è il regno olimpico quello che veramente conta per loro.
Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima. Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte, essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.
Ed è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso - l’archetipo della vita indistruttibile - alle vicende umane.
Ulisse e la prospettiva
E dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene.
Sarebbero stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere, deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che, invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.
Florenskij contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento - cioè dove le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine - rende pienamente, secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino, costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la sua relazione col Mondo.
E dunque la prospettiva rinascimentale o, meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.
Una vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.
Ogni verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che, invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.
E così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva, la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.
Firenze è la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?
Lo sguardo di Gagarin
Ma nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio, finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale, dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano potuto fare sino a quel momento.
Anche Polifemo, dal suo punto di vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile.
Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato.
Ulisse aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla Luna per recuperare il senno di Orlando, e da lassù guarda la Terra; prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che Gagarin ha finalmente ammirato.
Dell’impresa del Sovietico si parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale, psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55 anni or sono, il 12 Aprile del 1961.
Ed infatti, la domanda più incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito, quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni. Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta. Esattamente il contrario di Ulisse.
La forza di queste suggestioni mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta, non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.
Le donne, il piacere: cosa è successo
La pillola, legale in Italia da 45 anni, ha rivoluzionato la sessualità femminile. Ma la strada è ancora lunga, tra conquiste ed errori
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 05.09.2016)
La sessualità femminile in Italia ha una data di nascita ufficiale (e recente): 1971. È il 16 marzo di 45 anni fa quando la contraccezione smette di essere un reato - contro la stirpe, per altro: la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’articolo 553 del Codice penale introdotto dal Fascismo che puniva chiunque incitasse all’uso degli anticoncezionali. La pillola, comparsa nelle borse delle donne già dagli anni 60, diventa legale e permette alle italiane di far sesso per il piacere di farlo senza rischiare di avere figli che non vogliono.
L’estate di quello stesso anno Carla Lonzi, raffinata (e oggi spesso dimenticata) teorica del femminismo, pubblica «La donna clitoridea e la donna vaginale» per la casa editrice del gruppo Rivolta femminile. Sessantaquattro pagine in cui sostiene che il vero orgasmo è quello che si ottiene con la stimolazione del clitoride e non quello che deriva dalla penetrazione, e afferma che la cultura maschile ha intrappolato le donne in un mito per molte irraggiungibile. Una distinzione che fornisce un grimaldello psicologico alla lotta delle donne: il clitoride «diventa l’organo in base al quale “la natura” autorizza e sollecita un tipo di sessualità non procreativa», scrive Lonzi, che denuncia «nella colonizzazione sessuale la condizione di base dell’indebolimento e dell’assogettamento della donna». La critica della sessualità e la ricerca di una sua espressione autentica diventano uno dei cardini del movimento femminista, articolate e rivissute quotidianamente nei gruppi di autocoscienza. È una rivoluzione copernicana.
«Prima del femminismo una donna per bene non doveva provar piacere: doveva adeguarsi a quello maschile e magari diventare madre. Se perseguiva il proprio piacere era considerata perduta. La generazione di mia madre parlava del sesso come un fastidio inevitabile che si poteva superare perché ci si voleva bene - racconta Barbara Mapelli, studiosa e scrittrice che a quella stagione ha preso parte -. Per noi, che avevamo tutte tra i 20 e i 30 anni e avevamo già avuto figli, era ovvio partire da lì: ci rendevamo conto che la sessualità socialmente e culturalmente imposta negava il nostro desiderio».
Quarantacinque anni sono poca cosa nella storia dell’umanità, eppure quei tempi non potrebbero sembrare più lontani. Che cosa resta adesso di quel tentativo? Il movimento femminista ha davvero contribuito alla liberazione sessuale delle donne? E c’è ancora bisogno di una riflessione sulle forme e i modi della sessualità?
Se da un lato nessuno (almeno in Italia e in Occidente) può più mettere in discussione il diritto delle donne al piacere nel sesso, dall’altro sembrano ormai altrettanto inaccettabili alcuni eccessi di quegli anni. «Il nostro errore - spiega ancora Mapelli - è stato pensare che con il pensiero si possano immediatamente mutare i comportamenti. Noi li cambiavamo ma così finivamo per esasperarli e perdevamo autenticità».
Oggi è dunque scomparsa l’idea che esista un tipo più vero (o libero) di orgasmo. Ed è sparita anche quella - sostenuta dalle teoriche radicali americane degli anni 70 Catharine MacKinnon e Andrea Dowrkin - che le donne nel sesso vengano inevitabilmente ridotte a oggetti del piacere maschile, una reificazione che le priverebbe di umanità e da lì finirebbe per definire tutta la condizione femminile.
Su questo tema ha scritto pagine bellissime la filosofa Martha Nussbaum che in un saggio del 1995 «Persona oggetto» (pubblicato in Italia due anni fa da Erickson) spiega come in condizioni di parità e di rispetto reciproco uno degli aspetti «meravigliosi» del sesso sia trattarsi a vicenda come oggetti di desiderio e piacere e perdere l’autosufficienza e il controllo che caratterizzano gli altri ambiti della nostra esistenza.
Ma se le donne godono di maggiore libertà non significa che la sessualità sia «finalmente» libera o autentica. Il problema è soprattutto quello che Roberto Todella, sessuologo e presidente del Centro interdisciplinare per la ricerca e la formazione in sessuologia chiama «modello prestazionale» su cui uomini e donne tendono a valutare se stessi e ciò che fanno a letto.
«L’attenzione al piacere, anche da parte delle donne, è diventata centrale, ma sempre più spesso viene misurata sull’immaginario della pornografia con la sua insistenza su posizioni, intensità, ruoli stereotipati - dice Todella -. In questo scenario la donna è sempre disponibile e sembra godere qualunque cosa le venga fatta, l’uomo deve essere prima di tutto forte, prestante, impositivo. Se il sesso diventa imitazione di un repertorio precostituito, però, non è più un’esperienza, non passa attraverso la conoscenza di sé e si deforma per aderire a un copione scritto da altri. Smette di rappresentarci».
Una tendenza evidentissima secondo Yasmin Incretolli, scrittrice 22enne che in «Mescolo tutto» (Tunuè, 2016) ha raccontato anche la centralità del sesso (spesso mal vissuto) nella sua generazione. «La rivoluzione sessuale ormai è sdoganata - afferma -, ma spesso il sesso viene vissuto come se fosse un mantra, in modo ritualistico ed estremizzato». Anche perché manca una vera educazione alle sessualità a scuola e da parte di molti genitori: «L’insegnante per i maschi è Internet, la pornografia. I maestri delle ragazze sono i ragazzi che si scelgono: anche per loro c’è un nesso con il porno, filtrato però dai gusti del loro compagno, che è anche peggio. Il sesso dovrebbe essere scoperta di sé, non un’ospitata nel mondo maschile».
Non è un caso che tra i temi dei nuovi femminismi ci sia la riappropriazione in chiave emancipatoria della pornografia: «I movimenti del post porno hanno dimostrato che è possibile una pornografia diversa, che non riproduca le medesime strutture di potere della società che mette a nudo, in cui l’uomo sta sopra e la donna sotto, in tutti i sensi», dice Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di «Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio» (Eir, 2014).
È solo uno dei tentativi delle nuove generazioni femministe di riprendere la questione sessuale, «che rimane rilevante e viene declinata da vari punti di vista - rileva Bonomi Romagnoli -, dalle ragazze del Sexishock che nel 2001 mettono al centro del loro discorso politico la parola “desiderio” e aprono il primo sexy shop autogestito da donne per donne in Italia, ai femminismi più radicali che pongono in maniera problematica la questione dell’identità sessuale, sostenendo che è fluida e non classificabile una volta per sempre.
Il femminismo d’altronde non può non occuparsi di sesso, perché di fatto un sesso ha ancora potere su un altro, perché si continua a voler dettare norme sulle sue pratiche (vedi il «fertilityday») e perché le relazioni e i rapporti sociali ci sono a partire dai rapporti di forza fra i generi. Affinché siano sane è necessario che la sessualità attenga alla consapevolezza e autodeterminazione dei singoli». Con una consapevolezza nuova rispetto agli anni 70: la ricerca di una sessualità più autentica è una liberazione non solo per le donne ma anche per gli uomini.
Boncinelli mette in guardia dal rischio di affidarsi al sacro
Lo studioso nell’ultimo libro (edito da Rizzoli) invita a riflettere sulle contraddizioni di una società che vive di scienza ma in cui il senso del sacro è sempre più forte
di STEFANO GATTEI (Corriere della Sera, 26.02.2016)
Alla fine del II secolo d.C. Sesto Empirico apriva i propri Schizzi pirroniani con la descrizione dei tre esiti possibili di un’attività di ricerca (sképsis, in greco): scoprire ciò che si cerca, dichiararlo irraggiungibile o continuare a cercare. Gli scettici, dichiarava subito dopo, scelgono quest’ultimo approccio. Molti secoli dopo Karl Popper, a conclusione della Logica della scoperta scientifica (1934), affermava che «non è il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, che fa l’uomo di scienza, ma la ricerca, persistente e temerariamente critica, della verità».
L’intera storia del pensiero occidentale, dai Presocratici ai giorni nostri, è caratterizzata dall’indagine razionale sul mondo. Ricerca scientifica e dubbio metodico sono inseparabili: la scienza è profana per definizione, si svolge cioè «fuori dal tempio» ( pro fano). Al contrario della religione, che vincola (re-ligare) a un certo numero di credenze indubitabili. Dubbio, dunque scienza (e «scienza, dunque democrazia», come ha mostrato Gilberto Corbellini); credenza, dunque religione, cioè gestione del sacro.
La nostra società vive quotidianamente di scienza (per sostentarci, viaggiare, comunicare e quant’altro) e ampie fasce della popolazione si entusiasmano per le conquiste della ricerca: ne è un esempio il recente clamore seguito all’annuncio della rilevazione delle onde gravitazionali, previste un secolo fa da Albert Einstein con l’esercizio della pura ragione.
Eppure la nostra non è una società secolarizzata: è, anzi, una società in cui il senso del sacro - l’idea di appartenenza, di adesione a un gruppo - appare sempre più forte. E sempre di più le nostre comunità sembrano essere il terreno di coltura ideale per ogni sorta di fondamentalismi.
Nel suo ultimo libro Contro il sacro. Perché le fedi ci rendono stupidi (Rizzoli, pp. 233, e 18) Edoardo Boncinelli ci invita a riflettere su questa contraddizione, illustrando i bisogni biologici e sociali che hanno favorito la nascita e la crescita dell’idea del sacro. L’uomo sente la necessità di avere punti di riferimento (all’interno o all’esterno di una religione costituita): per orientarsi in ciò che non conosce, per agire e per sopravvivere.
È forse per noi un’esigenza ineludibile, ma rischia di svilire la nostra stessa natura. A questi «appigli», sostiene infatti Boncinelli, sarebbe bene aggrapparsi il meno possibile: altrimenti finiamo per assuefarci a un modo di ragionare in cui non c’è più spazio per la libertà individuale.
Il culto del sacro, qualunque esso sia, ci porta a escludere l’idea che alcune cose possano avvenire semplicemente per caso, senza una ragione specifica o senza una ragione semplice da individuare. La convinzione che dietro a ogni cosa ci sia un «agente» ci porta a pensare che esistano sempre dei responsabili (altri da noi) alla base degli eventi. Siamo allora portati a giudicare e a condannare, rifiutando ogni responsabilità.
Nel «sonno della ragione» la razionalità si mette al servizio dell’emotività e dell’irrazionalità, e il ricorso all’intoccabilità del sacro favorisce l’ignoranza e conduce all’isolamento.
Nuovi misticismi e rinvigoriti fondamentalismi, conclude Boncinelli, sono un indice puntato contro la nostra innata propensione a fuggire le nostre responsabilità.
Sapere aude!, esortava Immanuel Kant: «Abbi il coraggio di sapere!». Per osare sapere, però, occorre sapere osare. Ci vuole coraggio, perché sapere comporta una disponibilità e una capacità di affrontare rischi ai quali per secoli ci è stato comodo sfuggire. Comporta una responsabilità che, per quanto gravosa, dà sapore al nostro essere umani.
Addio a Ida Magli, antropologa controcorrente
Aveva 91 anni, autrice del longseller ’Gesù di Nazareth’
di Redazione ANSA ROMA *
(ANSA) - ROMA, 21 FEB - E’ morta oggi nella sua casa a Roma, a 91 anni l’antropologa e scrittrice Ida Magli, l’autrice di ’Matriarcato e potere delle donne’ e del longseller ’Gesu’ di Nazareth -Tabu e Trasgressione. Lo annuncia lo scrittore Giordano Bruno Guerri, vicino alla famiglia dell’antropologa. Presidente della Fondazione del Vittoriale, Guerri nel 2015 la premiò con l’ultimo riconoscimento, ’Il Premio Vittoriale’ ricevuto dalla Magli per "il suo prezioso contributo di scrittrice e intellettuale della scena letteraria".
"E’ morta a casa sua, serena e lucida accanto al figlio. Si era rotta il femore alcune settimane fa. L’intervento era andato bene ma era molto depressa perchè pensava di non poter essere più indipendente" spiega Giordano Bruno Guerri che con lei scrisse anche un libro intervista nel 1996 ’Per una rivoluzione italiana’ (Baldini&Castoldi). La Magli, nata a Roma, nel 1925, aveva finito di scrivere un nuovo libro: ’Figli dell’uomo: Storia del bambino, storia dell’odio’ che dovrebbe uscire per la Bur.
* ANSA, 21 febbraio 2016 23:28
Ida Magli
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2013)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano.
Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso».
Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Il teologo dell’economia
L’attualità straordinaria di un pensatore che indicò nel capitalismo la religione della nostra epoca
Un culto basato sull’indebitamento generale che non conosce tregua né perdono e cancella la differenza tra il giorno e la notte
Tra i suoi sacerdoti c’è anche Marx, il cui socialismo ne è in fondo l’erede diretto
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 24.01.2016)
È la stella polare della filosofia continentale. Ne traccia la rotta, ne indica la tendenza, la orienta. Da tempo ormai fa quasi ombra a Heidegger e a Wittgenstein. Come se lui, il figlio ribelle, il lucido sognatore, il filosofo malinconico, il critico spietato della modernità, il profeta rivoluzionario che, come un nuovo Isaia, aveva scelto di osservare il mondo dalla soglia del giudizio ultimo, trovasse un riscatto postumo a più di settant’anni dalla morte. Occhiali spessi, sguardo penetrante, espressione interrogativa: non c’è quasi dipartimento di Filosofia, dall’Argentina agli Stati Uniti, dalla Corea, al Giappone, all’Australia, in cui non si stagli la sua foto. Ben riconoscibile, è lui: Walter Benjamin.
La sua immagine è assurta a simbolo di un pensiero che resiste, che non si lascia soffocare nella vuota analitica, né rinchiudere negli steccati di una innocua ricostruzione storica, che non si adatta a diventare normativo, né tanto meno si piega a elogiare le fantomatiche libertà del progresso. Ecco perché nel nome di Benjamin si legge la promessa di una filosofia capace di essere filologicamente rigorosa e, al tempo stesso, aperta alla sperimentazione, in grado di descrivere i particolari apparentemente più irrilevanti, senza per questo rinunciare alle visioni ampie e ardite.
Ha contribuito al riscatto postumo di Benjamin l’uscita dei suoi scritti presso l’editore tedesco Suhrkamp. In Italia la pubblicazione delle Opere complete , avviata da Einaudi nel 2001, si è conclusa nel 2014. La disponibilità degli scritti di Benjamin, tradotti ormai in molte lingue, spiega l’aumento drastico degli studi, il profluvio di monografie, articoli, saggi critici. Il che, peraltro, non vuol dire che non vi siano motivi da scoprire. E in genere la ricerca, in fondo frammentaria, dovrà ancora trovare i nessi segreti che tengono insieme una filosofia più complessa di quanto si immagini, i legami, talvolta sfuggenti, tra i suoi molteplici aspetti. Risponde già a questa esigenza Walter Benjamin. Una biografia critica , di Howard Eiland e Michael W. Jennings (Einaudi).
Ma che cosa rende Benjamin così attuale nella sua dirompente inattualità? Perché i suoi scritti, talvolta brevi frammenti, aneddoti autobiografici, lettere, serbano un potenziale esplosivo? Al punto da indirizzare perfino la riflessione contemporanea? Certo, contribuisce il suo straordinario stile, la prosa costellata di immagini seducenti. Prediligendo i «passaggi», Benjamin ha dischiuso alla filosofia ambiti inconsueti: dai nuovi mezzi di comunicazione al cinema, dalla fotografia ai movimenti di avanguardia, dalla vita nevrotica nella metropoli all’esistenza degli esclusi, dalla letteratura per l’infanzia ai giocattoli, dal gioco d’azzardo all’esperienza dell’hashish, al viaggio. Quel che emerge, però, sempre più chiaramente, è che Benjamin, già molto presto, ha presagito gli esiti del capitalismo, ne ha scrutato i segreti, gli arcana reconditi.
Che un giorno la politica, scaduta a mera amministrazione, esercizio di governance , si sarebbe dissolta nell’economia, è un pensiero che Benjamin condivide con altri filosofi. Ma lui osa un passo ulteriore: quella forma economica, divenuta globale, si sarebbe rivelata per quello è: una religione. Non è forse il capitalismo una religione del debito?
Benjamin è stato il primo grande teologo dell’economia nella modernità. Non ha colto solo i legami strutturali fra teologia e politica, indagati negli stessi anni anche da Carl Schmitt. Né si è limitato a ricostruire la provenienza religiosa del capitalismo. Qui si misura, anzi, la sua distanza da Max Weber, che nel capitalismo aveva indicato l’esito dell’etica protestante.
Per Benjamin le cose stanno diversamente: il capitalismo non è una religione secolarizzata, bensì una religione in senso stretto. Perciò non se ne comprenderebbe la portata, il ruolo e il funzionamento, se non lo si considerasse come un fenomeno religioso. Questa è la tesi delineata nel suo ormai celebre frammento del 1921 Capitalismo come religione, la cui riscoperta ha dato avvio, negli ultimi anni, a una nuova riflessione sulla teologia economica. A prendervi parte sono filosofi non di rado anche distanti fra loro, da Peter Sloterdijk a Giorgio Agamben, da Slavoj Žižek a Thomas Macho, da Norbert Bolz a Roberto Esposito - per ricordarne solo alcuni. Il che conferma l’intuizione di Benjamin, che sembra assumere oggi ulteriore validità.
Esistono alternative? Non appare forse il capitalismo il nostro orizzonte ultimo e insuperabile? Questa società crede nel capitalismo, lo accetta come proprio ineluttabile destino. E come nel passato si pregavano gli dei, se ne indagava l’umore, se ne temeva il volere, così oggi una società dichiaratamente illuminata e secolare è pronta a offrire ogni sorta di sacrifici alle imponderabili potenze del mercato.
«Il capitalismo - scrive Benjamin nel suo testo sibillino - è una pura religione di culto, forse la più estrema che sia mai stata data», dove il culto, che non sa né di teologia né di dogmatica, può contare su una «durata permanente». Non c’è tregua né perdono. La pompa sacrale del marketing, il rito del guadagno, il fasto del consumo, sono inarrestabili. Non si distingue più tra il giorno e la notte là dove il tempo è sempre e solo denaro. Il capitalismo è così un culto che ha annullato persino la settimana, perché richiede una celebrazione ossessiva. Apparentemente è sempre festa - e invece non lo è mai. Se il culto è ininterrotto, è grazie all’apoteosi del debito, Schuld, che nella sua «demoniaca ambiguità» in tedesco significa anche colpa. «Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non lascia espiare, ma colpevolizza indebitando».
Se Marx aveva visto nel debito pubblico il sigillo dell’era capitalistica, e in fondo il suo terribile lascito ai popoli, Benjamin presagisce l’indebitamento planetario. Non potrebbe essere diversamente per una religione, come il capitalismo, che non permette salvezza né redenzione. Sotto il cielo del capitale resta solo «disperazione cosmica». Perfino Dio sembra venir implicato nel gorgo di questa colpa, nella rovina di questo debito.
Pur evitando una «smisurata polemica universale», Benjamin punta l’indice contro il cristianesimo che si è mutato nei secoli, convertendosi in capitalismo. Ha ceduto cioè al paganesimo, quella tentazione che da sempre lo affligge - e Benjamin avvicina le icone delle banconote alle immagini sacre. Il capitalismo, questo nuovo paganesimo, è l’ordine in cui si stagliano fato e sventura nella circolarità violenta e ripetitiva del mito. Come interromperla?
Nietzsche, Freud, lo stesso Marx appaiono agli occhi di Benjamin i «gran sacerdoti» del culto capitalista, perché le loro teorie sono il prodotto di un potenziamento del capitalismo - non ne costituiscono la rottura. Il socialismo di Marx non è che l’erede diretto del capitalismo. È un socialismo che non conosce Umkehr, che non sa di «inversione», né di rivolta né di rivoluzione, e prosegue lungo il tragitto rettilineo truccato da progresso.
Ma Umkehr è la traduzione tedesca dell’ebraico teshuvà, ritorno - un tornare indietro per andare avanti, una con-versione che è una inversione di rotta, una interruzione. Marx, quel nipote di un rabbino, sembrava averlo dimenticato. E così Benjamin guarda a Gustav Landauer, l’ebreo anarchico, protagonista della Repubblica dei Consigli di Monaco, che aveva scritto: Sozialismus ist Umkehr , il socialismo è inversione, è cambiamento che spezza il «sempreuguale» della storia.
La polemica di Benjamin investe la socialdemocrazia, questa idolatria della modernizzazione, questa cattiva politica incapace - scrive in Strada a senso unico - di darsi scadenze. Nel suo afflato escatologico Benjamin guarda invece al limite estremo, lì dove si consumerà l’apocalissi ultima del capitalismo. Che sia sul modello dello «sciopero generale» di Sorel, o meglio, su quello dell’interruzione anarchica che si impone nel Giubileo ebraico, la rivoluzione va ripensata.
Marx aveva detto che le rivoluzioni sono le «locomotive» della storia. A questa celebre immagine Benjamin oppone nelle sue Tesi sul concetto di storia , scritte nel 1940, una figura speculare. «Forse le rivoluzioni sono il freno d’emergenza azionato dal genere umano che viaggia sul treno». La rivoluzione è una fenditura nella storia, è arresto, cesura, interruzione nel permanere dell’insopportabile, nell’eterno ritorno della catastrofe. Si comprende allora la prossimità di questo «outsider di sinistra» - così Benjamin amava definirsi - alla fronda anarchica.
Come per Landauer, anche per Benjamin la «rivoluzione» non è solo un concetto politico. D’altronde la filigrana dei suoi scritti è un vocabolario teologico, il filo rosso è il messianismo ebraico. Perciò la rivoluzione non riguarda una salvezza dell’anima nell’aldilà, ma la liberazione nella giustizia sociale adesso, jetzt . Quanto al Messia, Benjamin non ha mai dimenticato quell’antico detto rabbinico: «Quando verrà, cambierà nello stato del mondo solo qualcosa di impercettibile, non lo trasformerà con la violenza, ma lo aggiusterà solo di pochissimo».
Il capitalismo, nella sua sacralità, appare non profanabile. Tentare, malgrado ciò, una profanazione? Non è la via d’uscita a cui pensa Benjamin. Non si deve infatti fraintendere: la critica al capitalismo non è una critica alla religione. E la sua teologia, che per quanto eretica resta teologia, attira sempre più l’attenzione degli interpreti per la sua portata sovversiva - come mostrano gli studi più recenti.
L’ateismo di massa si riduce per Benjamin alla ripetizione del culto capitalista, agevolato dalla perdita di ogni contenuto utopico. In tal senso questo «teologo trasferito in campo profano», come l’ha chiamato Scholem, è tra i primi a mettere sotto accusa il vuoto progresso che non distingue tra una migliore riproduzione della vita e una vita realizzata. Il capitalismo è fra l’altro il culto di una emancipazione infelice. Così, accanto al benessere e alla libertà, Benjamin rivendica la felicità.
*
Il personaggio
Filosofo e critico letterario, l’ebreo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) è una delle figure intellettuali più originali del Novecento. Esule a Parigi dopo l’avvento al potere di Hitler, si uccise in seguito all’invasione della Francia, temendo di cadere nelle mani dei nazisti
Bibliografia
L’editore Einaudi ha pubblicato tra il 2001 e il 2014 le Opere complete di Walter Benjamin in otto volumi, a cura di Hermann Schweppenhäuser, Hellmut Riediger, Enrico Ganni, Rolf Tiedemann. Nel 2015 è uscito, sempre da Einaudi, il libro di Howard Eiland e Michael W. Jennings Walter Benjamin. Una biografia critica (traduzione di Alvise La Rocca, pp. 695, e 90). Da segnalare anche il volume di Uwe-Karsten Heye I Benjamin. Una famiglia tedesca (traduzione di Margherita Carbonaro, Sellerio, pp. 333, e 18). In Francia è uscito l’anno scorso il saggio di Stéphane Mosès Walter Benjamin et l’esprit de la modernité (Éditions du Cerf), mentre quest’anno uscirà negli Stati Uniti il volume Walter Benjamin and Theology , a cura di Colby Dickinson e Stéphane Symons (Fordham University Press)
Una radicale trasformazione investe l’istituto materno. Si vive meno per i propri figli e più per rivendicare piena autonomia Dalla mitologia del sacrificio alla ricerca della libertà assoluta. Così cambia un’immagine secolare
Ne è un evidente segnale “Mommy”, il film del giovane regista canadese Xavier Dolan Per Lacan in ogni genitrice c’è un’inconscia spinta a incorporare le proprie creature
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 28.02.2015)
NELLA cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. È per questa ragione che Franco Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma un’“inondazione del codice materno”, una sorta di maternage melanconico e spaventoso.
La sicurezza e l’accudimento perpetuo in cambio della libertà. Sulla stessa linea di pensiero Jacques Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo, insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre. Quello che Lacan intendeva segnalare è che in ogni madre, anche in quella più amorevole, che nella struttura stessa del desiderio della madre, troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio. È l’ombra scura del sacrificio materno che, nella cultura patriarcale, costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre-padrone. Era la patologia più frequente del materno: trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.
Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre: né bocca di coccodrillo né ragnatela adesiva né sacrificio masochistico né elogio della mortificazione di sé. Alla madre della abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire “narcisistica”. Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.
L’ultimo capolavoro del giovanissimo e geniale regista canadese Xavier Dolan titolato Mommy ( 2014) mostra il passaggio delicatissimo tra l’una e l’altra di queste rappresentazioni della maternità. Per un verso la coppia madre-figlio del film assomiglia alla coppia simbiotica tipica della patologia patriarcale della maternità: non esiste un altro mondo al di fuori di essa, non esiste un terzo, non esiste padre, non esistono uomini, non esiste nulla. È una negazione che il regista trasferisce abilmente in una opzione tecnica traumatica: le riprese a tre quarti - l’assenza di fuori campo, come ha fatto notare recentemente Andrea Bellavita - evidenziano un mondo che non conosce alterità, che non ha alcun “fuori” rispetto al carattere profondamente incestuoso di questa coppia.
Ma è l’atteggiamento finale della madre che risulta inedito rispetto alla rappresentazione sacrificale del desiderio materno. Ella non trattiene il figlio problematico (la diagnosi psichiatrica lo classifica come “iperattivo”), ma - seppur contraddittoriamente - vorrebbe liberarsene. Il suo desiderio non è più quello rappresentato dalla madre-coccodrillo e dalla sua spinta fagocitante, ma quello di risultare, come afferma in una battuta finale, «vincente su tutta la linea »; per questo decide di affidare il figlio intrattabile ad una Legge folle che prescrive il suo internamento forzato.
La madre descritta in Mommy rappresenta il doppio volto della patologia della maternità: da una parte l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, dall’altra l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistica di se stessa. Il problema della madre narcisista non è più, infatti, quello di separarsi dai propri figli, ma di doverli accudire; non è più quello di abolirsi masochisticamente come donna nella madre, ma vivere il proprio diventare madre come un attentato, un handicap, anche sociale, al proprio essere donna.
La spinta divoratrice della madre-coccodrillo si è trasfigurata nell’ossessione per la propria libertà e per la propria immagine che la maternità rischia di limitare o di deturpare. Il figlio non è una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto. Si tratta di una inedita patologia (narcisistica) del materno. Ne avevamo avuto un’anticipazione significativa in altri film, come S infonia d’autunno (1978) di Ingmar Bergman e Tacchi a spillo di Pedro Almodovar (1991), o, in una forma ancora più traumatica, in Mammina cara (1981) di Frank Perry, tratto dalla biografia dell’attrice Joan Crawford scritta dalla figlia adottiva che fornisce il ritratto di una madre instabile e totalmente immersa nel proprio fantasma narcisistico.
In essi emerge una rappresentazione della maternità profondamente diversa, ma egualmente patologica, da quella imposta dalla cultura patriarcale. Si tratta di donne che vivono innanzitutto per la loro carriera e, solo secondariamente e senza grande trasporto, per i loro figli. In gioco è la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta (giustamente) il prezzo del sacrificio rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento.
È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema però non consiste affatto in quella rivendicazione (legittima e salutare anche per gli stessi figli), ma nell’incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna. Se c’è stato un tempo - quello della cultura patriarcale - dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre.
Non c’è scampo per le madri
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 02.03.2015)
NON c’è scampo per le madri. O sono troppo accudenti, al punto da soffocare la capacità di autonomia dei figli (soprattutto maschi) - le madri coccodrillo lacaniane. Oppure, se hanno anche una vita e interessi fuori e accanto alla maternità - vita e interessi che per altro costituiscono un argine ad ogni tentazione divorante - rischiano di essere madri senza cuore, incapaci di accudimento. Le madri narcisiste, esito delle battaglie emancipazioniste di donne che non vogliono essere solo madri, sono la contemporanea iattura che può toccare ai figli, secondo l’analisi di Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, su Repubblica del 28 febbraio.
Donne che cancellano (in sé) la madre perché non sono capaci “di trasmettere ai figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero”. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita non è, come si potrebbe ingenuamente pensare, perché tuttora l’organizzazione sociale poco sostiene le mamme lavoratrici, in carriera o meno. Neppure perché una definizione della paternità invece tutta incentrata sul desiderio e la necessità di essere altrove, senza essere vincolati dalle necessità della cura, rende difficile per le madri conciliare più dimensioni, più passioni. O perché alcuni psicanalisti condividono il senso comune ancora diffuso in Italia per cui “un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora”, legittimando ogni forma di colpevolizzazione delle madri lavoratrici, specie se, come si dice “non ne avrebbero necessità” e ancor più se vogliono anche una carriera. È perché “si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna”.
Facendo riferimento a casi estremi tratti dalla pratica clinica, o alla letteratura e filmografia, Recalcati rischia di ridurre al vecchio aut aut (o la maternità o la carriera) il ben più complesso dilemma Wollstonescraft al centro di moltissime riflessioni femministe: come far riconoscere il valore e il diritto a dare e ricevere cura senza perdere il diritto ad essere anche altro (cittadine, diceva Wollstonecraft).
In particolare, sembra pensare che, sia sacrificio o desiderio, l’amore materno, a differenza di quello paterno, deve essere al riparo da altre passioni, desideri, attività. E che la generatività delle madri si esaurisca nel, certo importantissimo, amore (e accudimento) per i figli, non anche nella capacità di essere individue distinte dai propri figli, con un pensiero e progetti su di sé che non si esauriscono nella maternità, anche se la comprendono. Questa seconda generatività sembra esclusivamente appannaggio dei padri, loro sì capaci di separarsi e separare.
Suggerisco di leggere il dialogo tra Mariella Gramaglia e sua figlia Maddalena Vianello ( Tra me e te, edizioni et al.): dialogo difficile, anche conflittuale, dove madre e figlia si confrontano sì sulla cura data e ricevuta, ma anche sulla visione del mondo e l’azione nel mondo che la madre ha lasciato alla figlia e con cui questa deve fare i conti. Spero nessuno consideri Mariella e quelle come lei, come me, terribili madri narcisiste, perché il loro “desiderio” si è diretto anche oltre, non contro, la maternità.
Non c’è scampo per le madri nell’epoca della dittatura del desiderio
La Madre Narcisista
di Sabrina Pazzaglia (Il Mulino, 10 marzo 2015)
La nuova sciagura della nostra epoca sembra essere la “Madre Narcisista”, la Grande Madre concentrata su se stessa “non in grado di trasmettere ai figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero” (M. Recalcati su «la Repubblica» del 28.2.2015).
I più anziani di noi ricorderanno un tango in cui Nilla Pizzi canta: “Per la tua piccolina, non compri mai balocchi, mamma tu compri soltanto profumi per te!” e con il casché inchioda l’impietosa Mamma Narcisista alla meritata vergogna! Un motivo del 1928 che viene canticchiato in Italia per decenni dalle mamme che lanciano minacce alle figliolette capricciose, almeno fino agli anni Settanta: “Continua così e guarda come diventerai!”. Perché la protagonista della canzone è naturalmente una bambina, così come femmine sono preferibilmente le destinatarie delle angherie di varie madri-matrigne-streghe crudeli nelle fiabe: da Biancaneve a Cenerentola passando per Raperonzolo.
In quegli anni, nel cuore dell’Europa, sta crescendo, tra le grinfie di una Madre Narcisista, vanitosa, prepotente, distratta da feste e amanti, quel genio della letteratura del Novecento che è Irène Némirovsky. Un’autrice che ha fatto della propria sofferenza infantile e della diabolica figura materna materia di libri meravigliosi. Una madre diabolica, la sua, non in senso religioso quanto etimologico - che separa, crea divisioni, accusa - avendola crudelmente separata dall’unica donna che Irène amava e da cui era amata, la tata francese. Il suo dolore lacerante ci ha regalato capolavori, tra tutti Yetzabel, in cui viene descritta la Madre Narcisista. Ancora, capolavoro di crudeltà, nella biografia disgraziata di questa discendenza di donne, un emblematico episodio: la madre di Irène, nonna delle sue due figlie, non apre il portone del suo appartamento parigino alle nipoti in fuga con la tata dai nazisti, che avevano prelevato Irène e il marito per mandarli a morte. Alla tata implorante aiuto, risponde: “Se ne vada, io non ho nipoti!”. Quella della “Madre Narcisista” non è quindi una figura nuova.
Ma basta, protesta Chiara Saraceno in risposta a Recalcati («la Repubblica», 2.3.15). Basta dare tutte le colpe a queste povere madri che debbono desiderare di stare sempre nell’accudimento! Riconosciamo anche a loro, come è scontato per i padri, il diritto ad occuparsi di sé, dei propri progetti, del mondo. La genitorialità non è solo accudimento, è anche generatività. E comprende un progetto creativo più ampio.
Ma si può essere Madri-Narcisiste o Padri-Narcisisti o semplicemente Narcisisti. Non c’è scampo. Si può essere Narcisisti anche nell’accudimento: verso i figli, o il mondo, o la carriera, o perfino nella pulizia del garage. Perché l’essere Narcisisti, nel senso attuale e divulgativo del termine, significa essere centrati unicamente, o massicciamente, su sé stessi e sulla realizzazione dei propri desideri. Desideri che potrebbero comprendere anche l’accudimento altrui, un po’ come nella barzelletta del boy scout che fa attraversare a forza la nonnina, che giunta dall’altra parte della strada spiega di non avere avuto alcuna intenzione di attraversare. È il desiderio. Meglio, è questo imperio del desiderio, questo vivere nella convinzione che il realizzare desideri sia un diritto che ci fa essere tutti novelli Narciso, che vede nel mondo solo riflessi di sé.
Siamo dunque tutti sotto la dittatura del Desiderio: esso ci imprigiona, ci incatena, ci rende vittime di un’inquietudine mai paga. Perché il desiderio, per sua intima e costitutiva natura, è un "tendere a", una lontananza, un porre il proprio oggetto in cielo, tra le stelle: prova ne è il suo etimo, che deriva dall’operazione di divinazione cui si dedicavano gli aruspici, consultando gli astri, e descrive il momento in cui gli astri non apparivano, erano nascosti, lontani (de-sidus).
Il desiderio è sperare nella realizzazione, operare perché avvenga ma avere in mente che non dipende solo da noi, dalle nostre capacità, dalla nostra buona volontà. Desiderare con saggezza significa tenere vicina la propria fragilità e volerle del bene, e avere in mente che anche quando un desiderio si compie non lo fa mai con le forme con cui lo avevamo immaginato. Ma conterrà sempre, in un certa misura, un qualche grado di insoddisfazione che ce ne svela la sua natura libera. Libera anche da noi che lo abbiamo generato: autonoma e celeste, proprio come i figli.
Se la Chiesa rinuncia alla bellezza.
L’amore di Chateaubriand e di altri filosofi del passato per una religione “estetica” tramonta nella nostra epoca
Dalla pittura alla poesia, la fede ha ispirato per secoli l’arte. Oggi prevale lo stile piatto
Non solo teologia, anche la scienza difende nelle sue teorie un’idea di eleganza
di Vito Mancuso (la Repubblica, 17.12.2014)
QUALI sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un enunciato? Il fatto che corrisponda all’effettivo stato delle cose, è la risposta che sorge spontanea nella mente. Se infatti posso verificare la corrispondenza tra l’enunciato (sta piovendo) e la realtà (la pioggia che scende) sono indubbiamente in presenza di un enunciato vero. È la classica definizione di verità come adeguazione tra realtà e mente, adaequatio rei et intellectus, che da Aristotele passa a Tommaso d’Aquino e a tutta la tradizione occidentale. Di essa il cristianesimo fece largamente uso nel passato per presentarsi come verità definitiva.
Il cristianesimo è la verità, si sosteneva, perché la Bibbia e il Magistero della Chiesa dicono come stanno realmente le cose sull’origine del mondo, l’esistenza di Dio, la comparsa dell’uomo, la natura dell’anima, e tutte le altre questioni capitali della vita; né si tralasciava di sottolineare che gli eventi narrati o predetti nella Bibbia, dall’arca di Noè sino all’imminente fine del mondo, hanno avuto o avranno presto puntuale conferma nella realtà effettiva delle cose.
Il progresso della conoscenza umana ha vanificato tale impostazione perché ha fatto emergere in modo inconfutabile la non corrispondenza tra non poche affermazioni bibliche e la realtà, si pensi per esempio all’origine del mondo. Se a ciò si aggiunge l’evoluzione della coscienza morale e il superamento del principio di autorità (secondo cui un enunciato è vero per l’autorità di chi lo sostiene) si comprende quanto le tradizionali apologie cristiane siano divenute armi spuntate e il cristianesimo bisognoso di rifondazione.
È quanto già intuiva il nobile controrivoluzionario François-René de Chateaubriand (1768-1848) rifugiatosi a Londra per evitare la ghigliottina durante gli anni del Terrore e fervente cattolico. Una volta tornato in Francia a seguito della restaurazione, l’intuizione lo condusse a pubblicare nel 1802 Genio del cristianesimo, opera oggi riproposta nei Millenni Einaudi con un’edizione a cura di Mario Richter. La novità del libro è tutta nel titolo completo: Genio del cristianesimo ovvero bellezze della religione cristiana.
Mentre per secoli al fine di mostrare la fondatezza della fede cristiana l’apologetica aveva insistito sulla verità del cristianesimo, con Chateaubriand per la prima volta ci si basa sulla bellezza, sostenendo che il cristianesimo viene direttamente da Dio, e quindi è la verità, per la sua capacità di produrre bellezza.
Si tratta di una tesi fondata? Nella sua impostazione di fondo sì, anche l’epistemologia contemporanea afferma che tra i criteri di veridicità di una teoria scientifica, oltre a semplicità, capacità di predire e potere unificante, vi è appunto eleganza o bellezza. E per molti secoli il cristianesimo ha saputo produrre bellezza e ha avuto potere unificante sulle vite degli uomini.
Si pensi ai capolavori dell’architettura che sono le chiese romaniche e le cattedrali gotiche; si pensi alle icone bizantine, a Cimabue, Giotto, Beato Angelico, Simone Martini, Piero della Francesca, Michelangelo e persino Caravaggio che senza il cristianesimo sarebbero impensabili; si pensi alla più alta creazione poetica della nostra letteratura, la Commedia di Dante; si pensi allo splendore del canto gregoriano. Si pensi alle molte altre creazioni di cui testimoniano le nostre città e i nostri più piccoli paesi, e le si accosti alle forme di vita concreta che il cristianesimo del passato sapeva produrre in quanto dotato di forte potere unificante sul caos dell’esistenza: eremiti del deserto, benedettini, cluniacensi, cistercensi, camaldolesi, cassinesi, vallombrosani, olivetani, certosini, trappisti, francescani, domenicani, trinitari, mercedari, serviti, agostiniani e molti altri, per non dire della galassia ancora più estesa della vita religiosa femminile.
Anche da questo appariva che il cristianesimo era vero, per la sua capacità di generazione di molteplici forme di vita. Ma oggi quale salute gode l’intuizione di Chateaubriand di legare la verità del cristianesimo alla bellezza?
A livello teoretico sono due i principali teologi che si sono fatti carico di approfondirla, lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1991) con l’opera in sette volumi Gloria. Un’estetica teologica, e il tedesco Christoph Theobald, nato nel 1946, con l’opera in due volumi Il cristianesimo come stile. Ma quando è in gioco la verità nella sua capacità estetica, ben prima di concetti che parlano alla mente, si parla di forme che incantano i sensi, di colori, suoni, architetture e si parla di vite concrete così affascinate dal messaggio cristiano da lasciare ogni altra cosa.
E da questo punto di vista credo si debba rilevare una preoccupante insufficienza del cristianesimo contemporaneo. L’ingresso in una qualunque delle nostre chiese raramente genera nell’anima un’esperienza di bellezza, tanto più durante le funzioni liturgiche, quando le musiche e le voci sono spesso approssimative e dilettantistiche, mentre la nuova architettura sacra spesso propone edifici freddi e intellettualistici, e la pittura si rifugia in una pedissequa ripetizione delle icone. Le diverse forme di vita religiosa dal canto loro languono per un’assenza di vocazioni che quasi ne preannuncia l’estinzione.
Tutto ciò porta il cristianesimo contemporaneo a vivere tra due estremi: da un lato un tradizionalismo cupo e insicuro che sa solo riprodurre gusti e parole di un mondo che non c’è più, dall’altro un’affannosa rincorsa alle tendenze dell’oggi che quasi non sa più distinguere la canzone tra amici dalla cantata sacra a gloria di Dio, un edificio sacro da uno comune, una vita consacrata con il suo abito distintivo da un’esistenza del tutto laica.
Al fondo è la stessa idea di apologetica a mostrare tutta la sua fragilità e con ciò si ripropone con urgenza la domanda su quanto induce la mente a ritenere vero il cristianesimo, o qualsiasi altra religione: quali sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un sistema di enunciati che intende abbracciare niente di meno che il senso del mondo e presentarsi come verità?
Crollata l’idea di una dimostrazione razionale della verità cristiana, anche la capacità di generare bellezza non potrà mai essere inquadrata in un sistema di pensiero, tanto più se esso è funzionale al potere politico e religioso, come l’opera di Chateaubriand era funzionale alla restaurazione e all’alleanza trono-altare.
Ne viene che non c’è e non ci sarà mai nessuna garanzia per la fede cristiana di potersi dimostrare come “verità”, a dispetto del dogma, e del conseguente anatema per chi lo nega, dichiarati dal Vaticano I.
Rimane solo la vita dei testimoni sinceri, alieni da ogni logica di potere, a costituire il punto di appoggio: sono essi il vero “genio del cristianesimo”, solo da essi potrà scaturire quell’umile bellezza, per nulla geniale ma direi austera nella sua semplicità, già all’origine delle beatitudini evangeliche e del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi.
Spermatozoo incontra uovo: un esplosione di fuochi d’artificio
Scienziati Usa fotografano per la prima volta ciò che accade al momento della fecondazione. Lo scintillio dipende dagli atomi di zinco rilasciati dall’ovulo. Passo importante anche per procreazione assistita: si possono identificare le uova migliori *
Un «primo appuntamento» esplosivo. Quando lo spermatozoo incontra l’uovo volano letteralmente scintille. Di zinco. Un team di scienziati Usa è riuscito a fotografare per la prima volta i «fuochi d’artificio» che accompagnano il lieto evento e ha scoperto che le uova di mammiferi fecondate rilasciano dalla loro superficie miliardi di atomi di zinco in «scintille», un’ondata dopo l’altra.
Lo scatto che immortala il momento dell’incontro è stato rubato grazie a una tecnologia all’avanguardia sviluppata dal team multidisciplinare guidato dalla Northwestern University, che ha potuto così fermare le immagini del «colpo di fulmine» fra seme e uovo. Un’impresa da paparazzi con un risvolto scientifico che potrebbe rivelarsi prezioso per migliorare i risultati della fecondazione in vitro.
I ricercatori hanno catturato l’immagine di fuochi d’artificio molecolari e individuato l’origine delle scintille: piccoli pacchetti ricchi di zinco appena sotto la superficie dell’uovo. In uno studio pubblicato su «Nature Chemistry», gli esperti spiegano che le fluttuazioni di zinco giocano un ruolo centrale nella regolazione dei processi biochimici che assicurano la transizione da uovo sano a embrione.
Queste nuove informazioni, assicurano, potrebbero aprire nuovi scenari: «La quantità di zinco rilasciato da un uovo potrebbe essere un marker ideale per identificare l’alta qualità di un uovo fecondato, cosa che adesso non siamo in grado di fare», spiega l’esperta di biologia ovarica Teresa K. Woodruff, direttore del Women’s Health Research Institute della Northwestern University Feinberg School of Medicine, e uno dei 2 autori corrispondenti dello studio. «Se riusciamo a identificare le uova migliori, un numero minore di embrioni potrebbe essere trasferito durante i trattamenti di fertilità. La nostra ricerca aiuterà a muoversi verso questo obiettivo».
Gli esperti dell’ateneo e dell’Us Department of Energy’s Advanced Photon Source (Aps), hanno sviluppato un pacchetto di 4 metodi fisici per determinare quanto zinco c’è in un uovo e dove si trova all’atto della fecondazione e nelle due ore successive. Dopo aver inventato un nuovo sensore fluorescente, gli scienziati hanno «mappato» quasi 8 mila compartimenti nell’uovo, ognuno contenente approssimativamente 1 milione di atomi di zinco. Tasche che, spiegano, rilasciano il loro carico simultaneamente in un processo ben orchestrato, simile al rilascio di un neurotrasmettitore nel cervello o al rilascio di insulina nel pancreas. I risultati sono stati ulteriormente confermati con metodi chimici.
«Al momento giusto vediamo l’uovo liberare migliaia di pacchetti, ciascuno con scariche milionarie di atomi di zinco. Poi la ”tempesta” si calma», spiega Thomas V. O’Halloran, l’altro autore corrispondente dello studio. «Successivamente c’è un altro scoppio con rilascio di zinco. Ogni uovo ha 4 o 5 di queste periodiche scintille. È bello da vedere, sembra quasi una sinfonia».
Lo zinco, spiegano i ricercatori, è parte di un interruttore principale che controlla la decisione di crescere e trasformarsi in un organismo genetico completamente nuovo. Un primo passo per comprendere più a fondo i meccanismi molecolari coinvolti nella nascita di una nuova vita. Le indagini degli scienziati proseguono.
* La Stampa, 15/12/2014 (ripresa parziale - senza immagini).
CAVA DEI TIRRENI. Presentazione del libro "Della terra, il brillante colore" di Federico La Sala
Giovedì 15 maggio, nel Salone di rappresentanza del comune di Cava de’ Tirreni, con inizio alle ore 18,00 sarà presentato il libro di Federico La Sala “Della terra, il brillante colore”.
L’evento è organizzato dall’Associazione giornalisti Cava Costa d’Amalfi "Lucio Barone". Dopo il saluto del presidente dell’Associazione Giornalisti, Walter Di Munzio, sono previsti interventi dell’ispettore MIUR Agnello Baldi e dell’architetto Lorenzo Santoro, funzionario della Soprintendenza BAP di Salerno ed Avellino.
A moderare Magrina Di Mauro, dirigente della Lucio Barone.
Il libro trae spunto dalla scoperta di un poema pittorico di un ignoto carmelitano degli inizi del XVII secolo per poi giungere a uno degli interrogativi che da secoli tormenta l’uomo “Che cosa è l’uomo”.
La pittura è espressione dell’immaginario rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana in sequenza col Cristianesimo. Il poema pittorico di Contursi descrive il viaggio iniziatico di un pellegrino che, accompagnato da dodici Sibille e dodici Profeti, giunge alla presenza di Maria madre del Cristo. Le Sibille di Contursi vantano parentele illustri: sono presenti nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel tempio Malatestiano di Rimini e, infine, nella Cappella Sistina di Michelangelo.
L’elemento antropologico è alla base del libro. La Sala analizza i maggiori filosofi che, ciascuno per suo conto e con diverse modalità di pensiero hanno rivendicato l’esigenza di mediare fra l’anima e il corpo. Ciò nondimeno non sono riusciti a produrre un paradigma radicalmente nuovo, poiché hanno continuato a pensare con le categorie del mondo ellenico. Da qui l’esigenza di pervenire a nuova Rivoluzione copernicana, che è possibile solo attraverso una nuova percezione dello spazio. In questo senso l’autore ci invita ad uscire dalla Terra per collocarci alla giusta distanza. La spazializzazione del soggetto con la sua giusta dose di trascendenza ci permetterà finalmente di vedere la Terra con il suo brillante colore come la Nostra Terra. Nondimeno La Sala è altresì consapevole che un nuovo ordine simbolico del mondo è possibile solo attraverso lo sviluppo dello spazio sociale.
Comunicato scritto da Magrina Di Mauro
Segretario dell’Associazione Giornalisti
"Lucio Barone"
Dott. Imma Della Corte
Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
di Nicola Fanizza (Nazione Indiana, 10 aprile 2014)
Il libro di Federico La Sala - Della Terra, il brillante colore, Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni nuove scritture, Milano 2013 - si configura come un viaggio nei sotterranei della cultura occidentale. Il protagonista del viaggio è il classico flâneur, che ha la straordinaria capacità di cogliere nell’opacità delle immagini del passato la luce che rende visibile le «perle» e i «coralli»: ossia tutto ciò che, sottraendosi al morso del tempo, è destinato all’eternità!
Nella prima parte del suo lavoro, La Sala adopera una sorta di «scandaglio archeologico» per ricostruire la preistoria del presente: ossia la genealogia dei concetti che strutturano tutt’oggi il nostro modo di pensare e di stare nel mondo. Si tratta di una ricostruzione che, pur comportando il rifiuto sistematico della ricerca, non rinuncia tuttavia alla contestualizzazione dei saperi in gioco. L’origine dei modelli del pensiero, infatti, non viene individuata tanto nella tradizionale storia della filosofia, quanto nella storia delle istituzioni totali: ovvero nella dimensione del Sacro, che con i miti e le pratiche rituali permette - ieri come oggi - la comunicazione fra gli individui e dà un senso alla nostra stessa vita.
Il «luogo d’inizio» è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine, a Contursi Terme. Qui nel 1989 - in seguito ai lavori di restauro approntati dopo il terremoto del 1980 -, è stato scoperto un poema pittorico di un ignoto carmelitano degli inizi del XVII secolo. La pittura è espressione dell’immaginario rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana - Prisca Theologia - in sequenza col Cristianesimo. Il poema pittorico di Contursi descrive il viaggio iniziatico di un pellegrino che, accompagnato da dodici Sibille e dodici Profeti, giunge alla presenza di Maria madre del Cristo. Le Sibille di Contursi vantano parentele illustri: sono presenti nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel tempio Malatestiano di Rimini e, infine, nella Cappella Sistina di Michelangelo.
Il rapporto di filiazione fra la teologia cristiana e quella pagana - la tesi che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane - non fu instillato nel movimento umanistico sulla scorta di un semplice fraintendimento: ossia la pubblicazione da parte di Gemisto Pletone degli Oracoli caldaici - risalenti al II secolo dopo Cristo - come scritti precristiani. L’Umanesimo più che recuperare il Mondo Classico nei fatti valorizza la cultura della Tarda Antichità. Non vengono recuperati Platone o Aristotele, ma Plotino, gli Oracoli caldaici, gli Scritti ermetici e gli Scritti degli antichi Teosofi che risalgono per l’appunto al II secolo. La stessa cosa si può dire del movimento nazional socialista. Georges Dumezil ha dimostrato che i nazisti pensavano di ridare vita alle divinità degli antichi Germani mentre di fatto riciclavano materiali mitici risalenti all’età medievale.
Tuttavia ciò che ci fa decidere rispetto a un movimento non è tanto il recupero più o meno selettivo di un passato mitizzato - ogni movimento rielabora il materiale mitico della tradizione (il mito è nella sua essenza un portatore di senso nei confronti del presente e, insieme, del passato!) -. Ciò che ci fa decidere sono i nuovi contenuti, ovvero la rivendicazione o negazione di forme di sociabilità più giuste e più libere, di nuove pratiche di liberazione e di nuovi percorsi di conoscenza. Su questo piano, a più di cinquecento anni di distanza, va riconosciuto il valore profetico della cultura del Rinascimento: è un’onda lunga che mantiene intatta la sua pregnanza di significato e il suo vigore!
E’ da questo ultimo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico di La Sala, che scorge una evidente analogia fra il ruolo svolto dalle Sibille nelle pratiche cultuali della religione pagana e la funzione che le «figlie del Sole» svolgono nel poema di Parmenide. Anche qui il viaggio-rivelazione del prescelto è tracciato dalle dee-fanciulle, sono le donne a consentire il transito nei riti di passaggio.
La funzione della donna come viatico del transito nei riti di passaggio pervade l’intero immaginario ellenico. Qui erano presenti due diverse rappresentazioni della vita. Il fantasma della zōé indicava la vita che non contemplava la morte: ossia la vita come specie, la vita infinta, priva di determinazioni, senza accidenti. Viceversa il fantasma della bios indicava la vita che contempla la morte: ovvero la vita che ha un inizio e una fine, la vita determinata con i suoi accidenti. Ebbene nella religione dionisiaca la zōé - la vita indistruttibile! - assume la forma maschile, la genesi delle anime assume, invece, quella femminile. Dioniso e Arianna stanno a indicare - dice Carl Kerenyi -, rispettivamente, l’eterno insorgere e trascorrere della zōé nella nascita e nei diversi stadi della vita. Il ruolo di Arianna non venne, tuttavia, compreso da Nietzsche, il quale negli ultimi anni della sua vita si chiedeva in modo ossessivo: «Chi è Arianna?».
Sta di fatto che il venire alla luce del «soggetto» nel mondo ellenico - un soggetto che si costituisce attraverso il discorso profetico, del saggio, del tecnico e del parresiates - si configura come un’emergenza che riguarda solo gli uomini e giammai le donne. Di fatto la Pizia nell’antica Grecia e le Sibille nel mondo latino sono solo il ventriloquo - un corpo senz’anima! - di cui si servono le diverse divinità per veicolare le loro oscure profezie!
Viceversa nell’immaginario rinascimentale le Sibille assumono, sulla base della rivendicazione dell’uguaglianza fra l’uomo e la donna, l’inedito profilo di avanguardie femminili. Di fatto, nelle immagini cultuali che costellano le chiese rinascimentali, le donne vengono rappresentate per la prima volta come soggette sovrane - le donne rappresentate da Michelangelo sono, per la prima volta, pensose! -, poiché svolgono, allo stesso modo dei Profeti, una funzione messianica. La cifra del Rinascimento, pertanto, va individuata proprio nella parola che sta a evocare, per l’appunto, la Rinascenza del soggetto!
Nonostante la spinta propulsiva della cultura rinascimentale, nei secoli successivi la donna non è tuttavia riuscita a farsi riconoscere come soggetto autonomo della comunicazione, come soggetto che dice il vero.
La storia di questo disconoscimento è costellata dalle tante sofferenze che le donne hanno subito nel corso dei secoli e dalle tante lacrime amare che tutt’oggi versano. Una sofferenza che suscita nell’animo nobile un sentimento di pietà che va comunque custodito attraverso i secoli. Non è inutile qui ricordare: la filosofa e scienziata Ipazia - la prima martire del libero pensiero! -, che nel 415, in Egitto, fu trucidata dagli fondamentalisti cristiani per aver rivendicato il diritto di costituirsi come soggetto che dice il vero; la persecuzione delle Streghe, che ebbe luogo non nel Medioevo ma in Età Moderna e, fra i giudici che le condannavano, Jean Bodin, l’«Aristotele del Rinascimento!»; le disposizioni del regime fascista che vietavano alle donne l’insegnamento della filosofia nelle nostre scuole; e, infine, la negazione dei diritti civili e, insieme, politici delle donne nei Paesi islamici. D’altra parte, va rilevato che fino alla Grande guerra le donne avevano il diritto di voto soltanto in quattro Paesi - Nuova Zelanda, Norvegia, Australia e Finlandia -; in Italia l’hanno ottenuto nel 1946 e in Svizzera solo nel 1974.
Nella seconda parte del suo lavoro, La Sala ritiene che sia auspicabile mettersi alle spalle le forme di sociabilità edipiche che fino ad ora hanno precluso alla maggior parte degli individui - non solo alle donne! - l’accesso alla sovranità: ossia il diritto di costituirsi come soggetti autonomi, il diritto di prendere la parola. Sostiene, inoltre, che le dinamiche relazionali che inibiscono l’autonomia delle donne - dinamiche che signoreggiano tutt’oggi nell’immaginario del modo occidentale - sono riconducibili da una parte all’alleanza tra la madre e il figlio - il mito di Edipo! - che ritroviamo nel mondo ellenico; e, dall’altra, all’alleanza fra il padre e il figlio - Il Vecchio Testamento! - che ritroviamo, invece, nel mondo ebraico.
La liberazione è possibile - dice La Sala - solo se usciamo dall’orizzonte teorico che la tradizione dei nostri padri ci ha trasmesso. Le forme della narrazione, della politica, della retorica, della dialettica, insieme all’esiziale corredo di scissioni (anima e corpo, la ragione e i sensi, ecc.) - tutte invenzioni del genio Mediterraneo - sono state adoperate per troppo tempo e, sempre più, appaiono logore. D’altra parte, i miti e i riti del mondo ellenico, ormai, sono diventati letteratura, ossia oggetto di semplice godimento estetico - non sono portatori di senso! - e, a volte, autentici detriti!
Rousseau, Kant, Feuerbach, Marx e Nietzsche - ciascuno per suo conto e con diverse modalità di pensiero - hanno rivendicato l’esigenza di mediare fra le diverse scissioni. Ciò nondimeno non sono riusciti a produrre un paradigma radicalmente nuovo, poiché hanno continuato a pensare con le categorie del mondo ellenico.
Da qui l’esigenza di pervenire a nuova Rivoluzione copernicana, che è possibile solo attraverso una nuova percezione dello spazio. In questo senso La Sala ci invita ad uscire dalla Terra per collocarci alla giusta distanza. La spazializzazione del soggetto con la sua giusta dose di trascendenza ci permetterà finalmente di vedere la Terra con il suo brillante colore come la Nostra Terra. Nondimeno La Sala è altresì consapevole che un nuovo ordine simbolico del mondo è possibile solo attraverso lo sviluppo dello spazio sociale.
Nell’attesa che ci sia una ripresa dell’effervescenza sociale e, insieme, una rifioritura dei movimenti di liberazione, il flâneur può cogliere già da ora in alcune forme di sociabilità disseminate sull’esergo del sistema la luce di una nuova bellezza, lo splendore che emerge dalle pratiche sociali in cui tutti gli individui signoreggiano come soggetti autonomi della comunicazione
Scienza
Parmitano, il ritorno dalle stelle
“Da lassù impari ad apprezzare
la bellezza della vita sulla Terra”
L’astronauta racconta i suoi 166 giorni in orbita: «Appena rientrato mi hanno colpito un sacco di cose all’apparenza banali: il freddo, il caldo, il vento, il Sole»
di Antonio Lo Campo (La Stampa, 09/12/2013)
“E’ bellissimo tornare in Italia. La mia missione è un esempio di come il nostro paese possa realizzare imprese importanti. Ora sono qua per raccontarvi la mia esperienza, in particolare ai giovani, che rappresentano il nostro futuro”. Luca Parmitano è in forma. A quattro settimane dal rientro a Terra dalla sua missione di lunga durata, dopo 166 giorni in orbita, è tornato in Italia.
Questa mattina ha raccontato per la prima volta ai giornalisti e alle autorità la sua esperienza, in un evento che si è tenuto presso la sede dell’Agenzia Spaziale Italiana, a Tor Vergata, alla presenza del Presidente dell’ASI, Enrico Saggese, del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana, Pasquale Preziosa, e del Direttore Programma Osservazione della Terra dell’ESA, Volker Liebig. Subito dopo il rientro, Luca ci aveva raccontato di quei primi giorni di riadattamento alla gravità terrestre, dopo i sei mesi in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale, e del disagio (normale e previsto) dei primi giorni terrestri, anche nel camminare. Ora, superata questa fase, scattante e in forma, sale sul palco con la sua tuta blu, pronto a far rivivere le emozioni della sua missione, iniziata lo scorso 29 maggio con un lancio notturno della Sojuz TmA-09M, ad un pubblico che comprendeva molti ragazzi, compresi i 150 del concorso “Mission X - Allenati come un astronauta” indetto dall’ESA in collaborazione con l’ASI.
“E’ stato tutto bellissimo ed emozionante” - dice l’astronauta italiano dell’ESA - “e in qualche modo è come se mi fossi sempre sentito in compagnia della mia Italia: dai collegamenti con i presidenti Napolitano e Letta, fino a tutte le centinaia di messaggi che ho ricevuto e i collegamenti effettuati da lassù, che hanno fatto sentire forte la partecipazione del paese in tutta la missione”.
“Mi piace usare la metafora del tetragono, uno dei solidi geometrici più perfetti; più larga è la base sui cui poggia, più è stabile e preciso. Noi astronauti non siamo che il vertice del tetragono, ma per arrivare così lontano serve una base molto ampia. Per questo ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile la missione”.
Parmitano, che ha partecipato alla missione “Volare” dell’Agenzia Spaziale Italiana, nei 166 giorni in orbita ha portato a termine 30 esperimenti scientifici, partecipato a tre appuntamenti e agganci con veicoli spaziali “cargo” e ha compiuto due “passeggiate spaziali”. E’ stato il primo italiano ad uscire nel vuoto spaziale: “Avevo un sacco di cose per la mente prima di uscire” - racconta - “stavo per realizzare un grande sogno. Però ero anche concentrato sul lungo e complesso lavoro che abbiamo svolto durante quella prima attività extra-veicolare”.
I problemi della seconda “passeggiata?: “Sì era una situazione seria” - conferma Luca Parmitano, che trovò improvvisamente acqua nel casco, e dovette interrompere subito la passeggiata - “e proprio di recente ho collaborato con la commissione d’inchiesta della NASA che ha fatto luce sul guasto al mio scafandro. E’ stato confermato che si è trattato di un guasto ad una pompa che separa il flusso d’aria da quello dell’aria del circuito di raffreddamento. Sono stati momenti delicati, ma che ho superato bene grazie ovviamente all’addestramento, e anche alla mia formazione come pilota dell’Aeronautica Militare”. “Nel 2005 infatti” - aggiunge - “dovetti fronteggiare un avaria con un velivolo, ero da solo, situazione critica.
Quell’emergenza, e ciò che imparai, è stata preziosa. Il guasto alla mia tuta però è servito: in futuro, in caso di guasti simili, gli astronauti avranno a disposizione una condotta per respirare l’aria che proviene dalla parte bassa della tuta”. A bordo, nel corso dei sei mesi, ha effettuato molti esperimenti scientifici, soprattutto di fisiologia umana: “Sì, ho fatto un po’ da cavia, e poi a terra, dopo il rientro, mi hanno di nuovo visitato dalla testa ai piedi e per fortuna tutto è risultato negativo...” - dice sorridendo, in riferimento ai vari test, compreso quello sullo studio della spina dorsale - “che in questo modo” - aggiunge - “non viene più realizzato tramite enormi macchinari di risonanza magnetica, ma con un apparato piccolo e portatile. Proprio come quello che ho testato in orbita”. “Abbiamo inoltre svolto un dieta in grado di diminuire la decalcificazione ossea” - spiega - “e questo potrà avere ricadute importanti per chi soffre di osteoporosi. Nello spazio infatti noi andiamo per esplorare, e compiere ricerche scientifiche di ogni genere. Molte delle quali potranno in futuro salvare delle vite, o quantomeno alleviare alcune patologie serie”.
E poi, due aneddoti curiosi. Il primo, ancora con un piccolo inconveniente relativo allo scafandro spaziale: “Prima di uscire fuori dalla stazione spaziale” - ricorda - “ho dovuto più volte modificare il mio assetto fisico nello scafandro. Dopo sei settimane in orbita, ero cresciuto in altezza di cinque centimetri ! (è un fattore conseguenziale all’assenza di peso sulla colonna vertebrale - ndr). Invece a terra, avevamo previsto una crescita di soli due centimetri... Ma alla fine sono riuscito comunque a starci bene dentro a quel gioiello tecnologico che è la tuta EMU”.
E poi, uno di tipo “alimentare”: “Mi sono fatto fare un menù particolare” - dice mostrando il menù organizzato con importanti chef italiani, per una giornata particolare e celebrativa a bordo della Stazione - “Se faccio una cosa devo farla bene: così, ci siamo dedicati a queste cose buone, compresi, come primo, lasagne alla bolognese e riso al pesto. Il guaio è che le cose buone le abbiamo finite in breve tempo, e in attesa di nuovi rifornimenti da terra, ci siamo accontentati di cibo decisamente meno appetitoso”. “Poi però un giorno” - aggiunge - “la nostra collega Karen Nyberg trova casualmente quattro tiramisù. Erano rimasti in un armadietto, ce n’eravamo dimenticati. Il suo sguardo, e il nostro, erano talmente radiosi, che se avessimo trovato dell’oro forse non saremmo stati altrettanto felici...”.
Infine, una riflessione: “Abbiamo soltanto un mondo” - dice - “ed è bellissimo. Quando sei lassù apprezzi la Terra in modo incredibile, la vedi davvero sotto un altro punto di vista. Avessi viaggiato per tutta la vita nello spazio e avessi incrociato la Terra, non avrei avuto dubbi a voler scendere subito su questo pianeta. Appena rientrato mi hanno colpito un sacco di cose all’apparenza banali: il freddo, il caldo, il vento, il Sole, il mare, la rugiada sui fiori...dobbiamo tutelarlo perché è un pianeta davvero unico”.
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
Della terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
Cervelli diversi tra uomo e donna: la foto conferma
di Caterina Soffici (il Fatto, 04.12.2013)
L’annosa questione è stata infine risolta. Un gruppo di ricercatori ha svelato il mistero dei misteri: la differenza tra uomini e donne. Ci hanno versato sopra fiumi di inchiostro, sul perché le donne non sanno leggere le cartine geografiche e gli uomini non chiedono mai le indicazioni stradale. Lo psicologo John Gray ha fatto fortuna scrivendo Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, best-seller da 6 milioni di copie.
Ora l’arcano è svelato da un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania che ha trovato la spiegazione scientifica del perché uomini e donne pensano e agiscono diversamente.
L’The Independent ci apre addirittura l’edizione di ieri. Ora sappiamo con certezza che a influenzare il comportamento e le scelte diverse di uomini e donne sono le connessioni dei neuroni nel cervello. Nell’uomo sotto attive quelle della parte frontale e posteriore nello stesso emisfero che regolano le percezioni e le azioni coordinate. Nella donna invece, sono più attivi i legami tra i due emisferi, perciò hanno più sviluppato il pensiero logico (emisfero destro) e l’intuizione (sinistro).
La ricerca ha coinvolto 949 volontari tra gli 8 e i 22 anni, 521 donne e 428 uomini e ha confermato che le differenze iniziano a emergere con l’adolescenza, tra i 14 e i 17 anni e aumentano sempre più dopo i 18. Storia di ormoni. Quando entrano in circolo anche il cervello inizia a lavorare in modo diverso.
I volontari si sono sottoposti a un esame con uno scanner che ha messo in evidenza il percorso delle connessioni: le immagini non lasciano dubbi. Secoli di luoghi comuni confermati da una semplice foto del cervello in azione. Se le donne si ricordano maggiormente un volto, hanno più facilità relazionale, chiacchierano di più e hanno il 6° senso, il motivo è scientifico. Con buona pace di una parte del pensiero femminista che ha sempre sostenuto l’uguaglianza biologica, non è solo un fatto di condizionamenti sociali. È il cervello che funziona diversamente.
Cervello. Quel ping pong tra i neuroni che rende diversi uomini e donne
Dotati di una maggiore percezione degli spazi e capacità sportive i primi, intuitive e multitasking le seconde
Usa fotografa per la prima volta le strade seguite dagli impulsi cerebrali di maschi e femmine
di Elena Dusi (la Repubblica, 04.12.2013)
Nel ping pong dei pensieri che ci corrono in testa, uomini e donne giocano su due tavoli diversi. I maschi ragionano in lungo, le donne in largo. Nei primi le idee rimbalzano avanti e indietro, nelle seconde a destra e sinistra. Per gli esperti di architettura cerebrale, questa asimmetria si traduce in una differenza fra i due sessi, ma anche in una complementarietà, con i pregi dell’uno che compensano i difetti dell’altro. Alla maggiore capacità maschile di percepire lo spazio e coordinare al suo interno i movimenti del corpo fa da contraltare l’innata dote femminile di intuire, collegare e svolgere più compiti insieme. Lo stereotipo dell’uomo specializzato nel parcheggiare l’auto o leggere una cartina e della donna abile nel multitasking viene oggi confermato da uno studio che osserva come sono strutturati i fasci di fibre nervose nell’intero cervello di maschi e femmine.
Gli impulsi cerebrali - spiega la ricerca su Pnas- seguono due autostrade diverse nei due sessi. Fra i maschi sono molto potenti i collegamenti fra parte anteriore e posteriore del cervello. Fra le donne invece è la comunicazione fra i due emisferi a essere privilegiata. Tradotto in termini di attitudini, i maschi hanno un collegamento diretto fra le percezioni (collocate nella zona frontale) e i movimenti che coinvolgono i muscoli (gestiti dalla parte anteriore della corteccia cerebrale) e sfruttano una rapidità maggiore nel processare le informazioni. Gli impulsi elettrici nel cervello maschile viaggiano soprattutto da una parte all’altra dello stesso emisfero, esattamente il contrario delle donne, specializzate nel “saltare i ponti” fra parte destra e sinistra del cervello. Questo vuol dire, aggiunge la ricerca di un team dell’università della Pennsylvania, capacità di unire le doti di analisi (emisfero sinistro) al ben noto, secondo alcuni addirittura diabolico, intuito femminile. O di ricordare volti e nomi di persone incontrate in situazioni inusuali: compito per cui serve integrare dati immagazzinati in zone diverse del cervello.
Le differenze fra ragazzi e ragazze, come gli altri tratti sessuali, emergono intorno ai 14 anni e si approfondiscono durante l’adolescenza. Queste informazioni già note all’aneddotica sono state per la prima volta tradotte in spettacolari immagini grazie al metodo della “connettomica”.
Una tecnica speciale di risonanza magnetica permette di visualizzare l’intero cervello e il percorso seguito dagli impulsi elettrici. Queste traiettorie dei pensieri sono tutt’altro che casuali: seguono autostrade ben precise, legate alle attitudini di ciascuno di noi e nitidamente visibili nelle immagini ottenute con la risonanza magnetica. «Oltre alle differenze, ciò che colpisce è la complementarietà fra doti femminili e maschili» commenta la coordinatrice dello studio Ragini Verma, che insegna radiologia all’università della Pennsylvania e ha guidato la navigazione all’interno del cervello di 949 giovani fra gli 8 e i 22 anni. «Possiamo finalmente dire di aver osservato le basi neurologiche delle diverse attitudini di uomini e donne». Per Ruben Gur, psichiatra dello stesso ateneo, «le differenze contribuiscono alla sopravvivenza della specie. La specializzazione contribuisce infatti all’adattabilità e aumenta il ventaglio dei comportamenti».
Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging research unit del San Raffaele
“Ma per avere alcune qualità ci si può sempre allenare”
intervista di E. D. (la Repubblica, 04.12.2013)
Diversi fin nell’architettura. «Le differenze che notiamo nei comportamenti e nelle attitudini nascono proprio da una diversa organizzazione dei fasci nervosi all’interno del cervello» spiega Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging researchunit del San Raffaele a Milano.
Anche il vostro gruppo ha studiato le differenze fra uomini e donne. Vi sorprendono i risultati di oggi?
«No, lo avevano già dimostrato vari test comportamentali: i maschi sono più bravi nei compiti procedurali e motori, nei processi visivi e spaziali, mentre il punto forte delle donne sono multitasking, attenzione e memoria».
Questa architettura del cervello è fissa o può essere alterata dedicandosi a determinate attività?
«Il cervello resta un organo plastico, specialmente in età giovane. Dedicarsi con assiduità a determinate attività, sia motorie che intellettive, può far aumentare il volume dell’area cerebrale dedicata e far crescere il numero dei neuroni».
Lo studio del connettoma che vediamo nella ricerca di oggi ci dà più informazioni rispetto ai metodi usati nel passato?
«Gli studi tradizionali osservavano singole aree del cervello. Lo studio del connettoma ci permette di guardare l’organo nel suo complesso, e di mettere in evidenza il percorso degli impulsi nervosi».
In società complesse come quelle attuali le qualità femminili appaiono forse leggermente più utili?
«In effetti. Gli uomini ci battono in procedura, ma nelle attività della vita quotidiana le donne hanno spesso maggiore controllo». (e.d.)
Le parole che nutrono o ci avvelenano
di Yarona Pinhas (Corriere della Sera - Dossier, 24 novembre 2013)
L a facoltà verbale distingue l’uomo dagli animali, il contenuto delle parole distingue un uomo dall’altro. Le nostre paro le sono le spie del nostro stato d’animo, attraverso le quali riconosciamo la storia di una persona, il suo passato e il suo futuro. Scopi e limiti sono fissati con il discorso.
Noi esseri umani siamo tutti dotati di un’arma a doppio taglio che è la nostra bocca. Le nostre parole hanno tante facce e tante maschere, una volta pronunciate creano una realtà tangibile e assumono una vita propria.
Le parole positive nutrono, guariscono e ingrandiscono, mentre quelle negative apparentemente non lasciano né ferite, né lividi, ma gradualmente avvelenano e uccidono l’anima della persona colpita. Il marchio della parola è indelebile: «Morte e vita sono in potere della lingua, chi di essa fa retto uso ne godrà i frutti» (Proverbi 18:21).
La parola «frase» in ebraico mishpat , significa anche «giudizio»: da qui capiamo che ogni nostra frase è una sentenza, i cui effetti - positivi o negativi che siano - ci seguiranno per un’intera vita.
Questo è il vero senso della frase «occhio per occhio, dente per dente»: il criterio di giudizio che hai adottato nei confronti dell’altro sarà in seguito usato per giudicare te. C’è da chiedersi: come mai nell’era della comunicazione ci sembra di vivere nell’antica Babele? Perché è così complicato comunicare o capirci anche se parliamo la stessa lingua?
La parola è già una traduzione di un sentire interiore che il più delle volte non si riesce a esprimere nel migliore dei modi. La natura delle parole cambia a seconda di chi le pronuncia. Quando le parole non nascono dalla conoscenza sono prive di discernimento ed esprimono immagini e fantasie che non hanno nessuna corrispondenza con la realtà vissuta perché si basano sui pregiudizi e il «sentito dire». Quando le parole pronunciate sono frutto dell’istinto scatenato, troppe sono le parole, e la parola artefatta manda tutto irreparabilmente in frantumi. Per questo, il turpiloquio - in particolare le bestemmie - coinvolgono la sfera sessuale.
È necessaria un’estrema chiarezza delle parole nelle relazioni, senza timore di esprimersi, anche se questo comporta disagio in chi parla o ascolta. È essenziale ricordare che, il più delle volte, la nostra mente. Il malessere, la malattia, i momenti di crisi sono causati dal cattivo uso, o addirittura dal non uso, della parola stessa. Il silenzio è inteso come parola o relazione negata. Basta non nominare o ignorare qualcuno per escluderlo, emarginarlo e annullarne l’esistenza ai suoi stessi occhi.
La parola «violenza», in ebraico alimùt , viene da elem , «silenzio», così anche la vedovanza, come dire che dal momento in cui uno dei due coniugi viene a mancare scompare la voce e cala il silenzio.
La persona violenta è incapace di esprimere i suoi sentimenti: dominata dalla frustrazione, usa l’aggressività e le mani come linguaggio. Così nascono il razzismo e l’odio, dall’incapacità di accettare se stessi e di comunicare nel modo giusto.
Questa è la condizione umana sin dai tempi della Creazione. «Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio, li creò maschio e femmina» (Genesi 1:27).
L’uomo è composto da due nature diverse: maschio e femmina. Ogni parte ha un proprio linguaggio e una propria visione della realtà. Da questa posizione, parzialmente occlusa, si vive nell’incertezza e nella frustrazione dell’incomprensione reciproca. Siamo chiamati ad ampliare la nostra coscienza tramite la relazione con chi è «altro» da noi, sia esso di diverso genere, tuo fratello o lo «straniero». Il primo atto di violenza descritto nella Bibbia è drammatico. Caino e Abele, due fratelli, l’uno il contrario dell’altro.
Caino uccide Abele. Caino, nome che significa «possesso» e «gelosia», uccide Abele, il cui nome indica «vapore», simbolo della parola. L’ego ha ucciso il Sé, la materia ha soffocato lo spirito, l’immagine ha prevalso sulla sostanza.
Ecco qui l’origine della violenza: la volontà d’impadronirsi della «voce» dell’altro, fare tacere voci che non sono in corrispondenza con le nostre idee, spegnere la luce dell’altro per diffondere la propria oscurità e difendere la propria ignoranza sotto la veste della perfezione.
Paradossalmente, sono proprio i soggetti che non si assumono la responsabilità dei propri atti che, in fondo, si sentono separati dalla società e al di fuori delle leggi sociali, e si creano le proprie «regole» di comportamento. Un detto ebraico dice: «Un prigioniero non è capace di liberarsi dal proprio carcere», indicando che è compito di chi è consapevole aiutare chi è imprigionato in una situazione. Purtroppo, il più delle volte, il prigioniero non sa nemmeno di esserlo, sia esso carnefice o vittima.
Per poter cambiare le cose ci dobbiamo conoscere e dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, rispettare la diversità, fonte di ricchezza, educare sin dall’infanzia a celebrare la propria vita, che ha un senso e un significato quando i propri talenti sono a disposizione del benessere comune, puntando sull’importanza dell’autenticità dei valori invece che venerando modelli fasulli.
La donna, il femminile, sono emblema della vita, della parola e dell’ascolto. La valorizzazione del pensiero femminile, sinora coperto dalle voci patriarcali, può contribuire a questo necessario cambiamento radicale nel nostro modo di comunicare e di essere. L’obiettivo è quello di creare un dialogo aperto e costruttivo tra le voci femminili e quelle maschili; tra interiorità ed esteriorità, tra lo spirito e il corpo e tra il dire e il fare.
Come ben espresso da un rabbino che insegna Torà alle donne: «È un’esperienza totalmente diversa e illuminante, in quanto le donne cercano in ogni cosa il lato pratico, vorrebbero sapere come applicare lo studio nella vita quotidiana per migliorarla, mentre gli uomini amano più il lato filosofico-teorico e il pilpùl , cioè la discussione in sé».
Così come investiamo tante risorse per conoscere il mondo in cui viviamo, dobbiamo sin dalla più tenera età insegnare com’è composto l’universo più misterioso di tutti: il pianeta Uomo
IL 25 NOVEMBRE LA GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
www.scioperodelledonne.it
http://scioperodonne.wordpress.com/
e-mail: organizza.scioperodonne@gmail.com
«Ora raccontiamo la violenza sulle donne»
La viceministra Guerra: il 90 per cento delle vittime non fa denuncia
di Claudia Voltattorni (Corriere della Sera, 23.11.2013)
ROMA - «La violenza sulle donne non è una questione solo per donne». No. La violenza sulle donne «riguarda tutti». Chi la subisce. Chi la compie. Chi assiste. Prima, durante, dopo. «È da qui che bisogna partire se si vuole affrontare il problema: conoscere il fenomeno è il primo passo per combatterlo». E va fatto «con la partecipazione di tutti». Istituzioni, amministrazioni, associazioni, operatori sul campo, insegnanti, forze dell’ordine, avvocati, giudici, volontari: li ha messi tutti insieme attorno a un tavolo Maria Cecilia Guerra, viceministro del Lavoro con delega alle Pari Opportunità. «Lo stabilisce una legge, quella sul femminicidio», spiega quasi con modestia. Ma poi sorride: «Se si lavora insieme, si possono fare delle cose buone».
È con questo spirito che è partita la task force contro la violenza sulle donne. Apertura e collaborazione a tutti i livelli coordinata dalle Pari Opportunità per realizzare il «Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere», previsto dall’articolo 5 della legge sul femminicidio appena approvata. «Stavolta ci siamo», sorride la Guerra, appena tornata da Washington dove ha firmato per l’Italia la Convenzione di Belem (primo Paese Ue a farlo). E la sera del 25 novembre, Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne, invita tutti al Palazzo delle Esposizioni di Roma alla serata «Sii dolce con me, sii gentile», recital di poesie di Mariangela Gualtieri.
Parla di «una nuova consapevolezza del fenomeno» Cecilia Guerra: «Ci si è accorti che la violenza contro una donna si consuma tra le mura di casa più che fuori ed è commessa dal proprio partner o ex, più che da un soggetto esterno». Qualche dato arriva dal Sistema di indagine delle forze dell’ordine (Sdi) del ministero dell’Interno e dal database degli omicidi sempre del ministero: il 46,3% delle donne muore per mano del partner, il 35,6% di loro viene ucciso dall’uomo con cui ha vissuto, il 10,6% dall’uomo che ha lasciato. Sono aumentate le denunce di stupri, + 400% dal 1996 al 2012, però il sommerso rimane alto: il 90% delle donne che ha subito una violenza, non l’ha denunciata, un terzo di loro neanche ne ha mai parlato con qualcuno. «La violenza non è raccontata, è nascosta - riflette la Guerra - : vale sia per le donne, che tendono a sottovalutarla, sia per gli uomini che riescono a capire di essere stati violenti solo quando si confrontano con altri, lo vediamo nei centri per uomini maltrattanti. Se non sei in grado di identificare la violenza, non percepisci la sua escalation» .
Fondamentale formare e informare. Uno degli obbiettivi del Piano è questo: «La scuola per esempio: bisogna uscire dagli stereotipi di genere, educare i ragazzi alla relazione e impostare il rapporto maschio-femmina sul rispetto tra le persone e non su modelli precostituiti». È necessaria una sensibilizzazione di tutti, inclusi, si legge nell’articolo 5, «gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere, in particolare della figura femminile». Mi chiedo, dice la viceministro, «se a volte certe notizie sarebbe meglio darle con meno enfasi e particolari». La formazione è rivolta a tutti: da chi interviene nella fase di prevenzione (insegnanti), a chi partecipa alla fase di accoglienza delle vittime, forze dell’ordine, operatori sanitari e di giustizia, fino ai centri antiviolenza, «spesso ne sanno più di noi e perciò siamo noi a chiedere aiuto a loro».
I centri fanno parte delle cosiddette «best practice», i buoni esempi che già ci sono e che il Piano non dimentica, anzi: «Vogliamo costruire una rete integrata di risposta sul territorio per dare aiuto a chi subisce violenza, non solo a chi viene, ma andando a cercarla e per fare questo si devono mettere a frutto esperienze positive del territorio, tipo il Codice Rosa toscano, perché la donna sappia sempre a chi rivolgersi». L’articolo 5 bis prevede un intervento finanziario su centri e case rifugio «erogato non per progetti ma in base ad una mappatura Regione per Regione e nel 2014 distribuiremo 17 milioni in una sola tranche per dare un impulso forte». Ma il Piano pensa anche agli uomini, «la violenza sulle donne è un problema prevalentemente maschile, sono loro a maltrattare» sottolinea Guerra, e prevede perciò «azioni e metodologie coerenti per il recupero e l’accompagnamento dei soggetti responsabili di atti di violenza nelle relazioni affettivi»: «fondamentale sarà l’esperienza dei centri degli uomini maltrattanti».
Ecco, dice Guerra, perché tutto funzioni però «dobbiamo creare un sistema informativo integrato di tutte le fonti di cui già disponiamo: dati che riguardano la violenza che si è già manifestata, quindi dati raccolti da forze dell’ordine, centri antiviolenza, centri sanitari, Telefono Rosa». Ma bisogna anche cercare di prevenire la violenza prima che esploda: «un lavoro diverso, mesi, forse anni di impegno, la cosa importante è che dovrà essere davvero collegiale, solo così riusciremo a vincere».
La fragile materia di cui siamo fatti
di Moni Ovadia (l’Unità, 23 novembre 2013)
«Genesi», il primo libro della bibbia, se davvero ci si prendesse la briga di leggerlo o, per lo meno, lo si estraesse dalle polveri della propria biblioteca, si rivelerebbe ricco di folgoranti rivelazioni sulla nostra natura più intima e di conoscenze di senso che stimolino la consapevolezza del nostro destino, aleatorio e libero, ma pur sempre ineludibile.
Nel passaggio in cui si racconta della creazione dell’uomo, le narrazioni sono due: la prima è unitaria ed eticamente denotativa e recita più o meno così: «Creò l’essere umano, maschio e femmina li creò». Dunque la creatura più amata, il partner della creazione, è uno ma si esprime in due aspetti di pari dignità, il femminile ed il maschile e, detta dignità di cui sono titolari le due alterità, si esprime nell’amore, l’impronta divina che chiede il reciproco accoglimento.
Nella seconda narrazione, si descrive prima la costruzione di Adàm HaRishòn, Adam il primo. Si tratta di un maschio? Direi di no! Come si può infatti parlare compiutamente di maschio prima che esista la femmina? Si tratta piuttosto di un Golem, un robot maschioforme, impastato nell’adamàh (gleba, zolla) e il suo nome in italiano andrebbe tradotto correttamente con «gleboso» o «zolloso». Adamo non dice letteralmente nulla - ricorda al massimo un cantante sentimentale italo-belga che furoreggiò negli anni Sessanta. Ad Adam HaRishòn, la vita gli viene insuflata dall’alito divino, ma le molecole del suo corpo sono della stessa materia che costituisce madre terra, materia splendente e fragile.
La Torah ci suggerisce una verità sconvolgente, pur se ovvia: se l’uomo è santo e inviolabile, lo è altrettanto la terra. Ci è stato appena mostrato con tragica evidenza, nella nostra amatissima Sardegna, superbamente bella e vigliaccamente martoriata. In occorrenza delle catastrofi naturali, ci vengono furiosamente ricordate due ineludibili verità: l’inarrestabile impeto della natura e la ottusa, cinica, criminosa azione di quella parte di umanità che, sempre e comunque, si prosterna davanti alle ragioni del profitto e della spoliazione della vita.
Con la storia di Adam il primo, la Torah ci ammonisce a non dimenticare che, se noi siamo santi e inviolabili, inviolabile e santa è madre natura e tali sono gli animali. Noi dovremmo formare la nostra sensibilità a soffrire per la distruzione delle coste, come se vedessimo un essere umano innocente murato vivo, dovremmo patire per la cementificazione del pianeta, come rimaniamo sconvolti quando sappiamo di donne imprigionate sfruttate e violentate e, di fronte all’avvelenamento e allo scempio delle nostre fonti e dei nostri bacini, dovremmo tutti sentirci chiamati ad una mobilitazione permanente per fermare il crimine. È ora di capirlo, non si tratta di ecologismo o pacifismo o qualche altro «ismo». Qui si tratta di vita o di morte. La nostra, quella dei nostri figli e dei nostri nipoti
Psicoanalisi, Storia, Politica.... e Civiltà.
NARCISIMO, PULSIONE DI MORTE, E LAVORO STORIOGRAFICO. Una notazione molto illuminante dal lavoro di H. A Rosenfeld ("Il narcisismo distruttivo e la pulsione di morte", in : "Comunicazione e interpretazione", Bollati-Boringhieri, Torino 1989) di Cristopher Bollas: *
"Herbert Rosenfeld è stato uno dei più eminenti teorici clinici d’Inghilterra. Nei suoi studi sui disturbi di personalità narcisistica egli si è imbattuto in una metafora che, molto tempo dopo la sua morte, ha influenzato generazioni di clinici in tutto il mondo.
Rosenfeld ha paragonato la mente del narcisista a una gang mafiosa, governata da un potente leader - un Don mafioso - che è il distillato di tutte le parti distruttive di una personalità. Manipolatorio, cinico, privo di sensi di colpa, feroce, costringe al silenzio tutte le parti buone della personalità con mere intimidazioni. Liquida le azioni distruttive attraverso un’imposizione di lealtà e fedeltà di gruppo alla parte dominante dfella personalità e crea un senso interiore di coesione basato sull’odio. Il lavoro di Rosenfeld è il culmine della visione crerativa offerta dalla "psicoanalisi delle relazioni oggettuali". Esso mostra come nel nostro mondo interno noi esistiamo come un insieme di sé diversi legati a oggetti (rappresentazioni mentali di altri e aspetti della realtà esterna) all’interno della mente. Se siamo equilibrati, allora le rappresentazioni distruttive verranno bilanciate da parte amorevoli, premurose, costruttive ed etiche della personalità.
Con gli analizzandi talvolta parlo della mente come di un "organo rappresentativo". Se lavoro con americani utilizzo il Congresso come metafora, con europei e altri utilizzo il Parlamento. L’idea è abbastanza semplice: la nostra mente può essere pensata come un’oggettivazione di molti diversi stati del sé, sentimenti e condizioni. Se siamo dei democratici psichici allora tutte le idee, comprese quelle distruttive, saranno rappresentate e verrà loro permesso di passare nella mente, sia che ci ripugnino e alienino, sia che ci ispirino o ci conferiscano potere [...]
E’ possibile che la visione di Rosenfeld della mente come come gruppo ci possa aiutare con il problema dell’integrazione tra l’individuo e la massa. Bion e altri teorici kleiniani sicuramente hanno lavorato sul presupposto che la psicologia individuale e quella di gruppo condividono gli stessi assiomi mentali. Ma è stato Rosenfeld che ha messo insieme questa visione in un oggetto trasformativo. Cioè, una volta che le parti e i pezzi della psicologia individuale e di gruppo che si trovano nel pensiero kleiniano sono stati integrati nella metafora di Rosenfeld, una nuova forma di psicoanalisi è divenuta possibile [...]
Sto suggerendo di ripensare il lavoro della storia (le narrazioni costruite del nostro passato), considerandola meno come un compito di ricapitolazione e più come uno sforzo di selezione.
Attraverso la selezione di storie del passato, il lavoro dello storico nella sua riflessione è inevitabilmente futuristico. Questa naturalmente è una verità lapalissiana. Detti come "la storia giudicherà" o "coloro che non possono ricordare il passato sono condannati a ripeterlo" (Santayana) si riferisconoalla storia come a una funzione del futuro. Il lavoro inconscio di trasferire i risultati da una generazione a quella successiva, con il suo sforzo di comprendere ed espandere la mente umana, mira a costruire una mente di gruppo che può pensare i pensieri richiesti dal futuro. In effetti la ricerca per comprendere la mente e lo sviluppo embricato della mente nel processo sono inseparabili. Pensare alla nostra mente significa sviluppare la vita psichica.
Ogni generazione lavora a un ritmo diverso e contribuirà in maggiore o minore misura allo sviluppo di una mente transgenerazionale. Questa è una progressione discontinua, controllata inevitabilmente dal narcisismo della giovinezza, dall’ansia depressiva dell’invecchiamento, e dalla regressione a stati mentali primitivi causati dall’odio collettivo che possono portare alla guerra o al genocidio e, interiormente, a una perdita di capacità mentale.
Quando una generazione "passa il testimone" a quella successiva, sostenendo che adesso "il futuro è a loro", questo processo è simile a un abbandono generazionale del compito collettivo. Una trasmissione generazionale ben riuscita consisterebbe nel trasmettere un’idea o un processo sociale di successo che potrebbero venire inclusi nella mente futura [...]
Stiamo quindi parlando di una "mentalità del mondo", una mente che può consentire al mondo di pensare se stesso? (pp. 161-167)
* Cristopher Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 161-167, senza le note.
Psicosi. Un saggio di Christopher Bollas (Raffaello Cortina) esplora l’enigma di un disturbo che allontana l’individuo da ciò che noi chiamiamo realtà e lo imprigiona in un gelido vuoto. Un male misterioso di cui non conosciamo le cause. Chi ne soffre finisce per assomigliare a un androide capace di compiere solamente gesti meccanici.
Dentro la schizofrenia.
L’universo pietrificato
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 20.07.2016)
Quando Sigmund Freud fu sul punto di concludere le proprie ricerche sul sogno, scrisse che, dopo di lui, restava aperto un compito immenso: indagare i desolati territori della schizofrenia. Pensava che essa avesse una causa, la quale poteva essere analizzata e scoperta.
Gli studiosi di oggi, come Christopher Bollas, che ha appena pubblicato un ottimo libro: Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia (Raffaello Cortina, traduzione di Paola Merlin Baratter, pp. 184, e 21), rifiutano di rispondere a questa domanda. Non possiamo sapere quale sia la causa della schizofrenia: se sia l’esito di cause genetiche, o di eventi legati alla prima infanzia; se sia conseguenza di uno choc sessuale o di un incidente. Bollas non rivela cause: si accontenta di descrivere; e lo fa mirabilmente, come del resto quasi tutti coloro che lo hanno preceduto, tra i quali Marguerite A. Sechehaye ( Introduction à une psychothérapie des schizophrénes , Puf, 1954; Diario di una schizofrenica, Giunti, 1962), o Ronald D. Laing ( L’io diviso, Einaudi, 1969).
Gli analisti della schizofrenia sono narratori eccellenti: in primo luogo perché essa è un paesaggio straordinario, che risveglia le nostre qualità di narratori. Bollas preferisce parlare di schizofrenici piuttosto che di schizofrenia. Ognuno di essi è un caso unico e irripetibile, che va raccontato in un «ritratto».
Appena lo guardiamo, ci accorgiamo che lo schizofrenico vive lontano da ciò che noi chiamiamo realtà. Egli possiede libertà, potere, creatività: ma la libertà e il potere sono esercitati nel vuoto; mentre la creatività è soprattutto il dono di generare fantasmi. A volte, creder di aver ucciso il proprio io, allo scopo di evitare di essere ucciso. Se si adatta agli altri come l’ultimo dei conformisti, lo fa per esprimere la propria ostilità verso se stesso. Ora vive in una condizione di totale isolamento dagli altri: ora è attaccato ad essi come un’ostrica al sasso del mare. Teme di provare simpatia per qualcuno, perché pensa di poter diventare come lui: oppure si sente vulnerabile, esposto allo sguardo di Medusa; acutissimamente consapevole di sé come di un oggetto visto dal di fuori. Ogni amore è impossibile. La paura prende il posto dell’amore. Nulla si muove: nulla è vivente; ogni cosa è morta, compreso l’io. Invece di un rapporto creativo con altre persone, avviene un rapporto tra cosa e cosa: lo schizofrenico crede di essere penetrato, risucchiato, fatto a pezzi. Talora gli sembra di essere divenuto tutt’uno col mondo: il cielo e gli alberi, l’erba e i fiori; amato e abbracciato dal proprio ambiente. Ma, subito dopo, egli è terrorizzato dal pericolo di essere trasparente, e di perdere la propria identità.
Se vuole evitare di essere scoperto, non gli resta che diventare invisibile: o uno straniero; o una spia in incognito. Oppure genera una o più controfigure, che lo sostituiscono. Tutte le sue trasformazioni non sono che un terribile e (talora) divertente gioco. Nel profondo, egli vuole nascondersi. Comincia a muoversi in modo diverso dal solito: a strattoni, come se fosse afferrato da esseri invisibili e cercasse di evitarli: oppure non cammina, ma scivola sinuosamente: ripete a lungo un solo gesto, congelato nell’aria: si osserva le mani, strofina un braccio contro una gamba, come se stesse lucidando un oggetto prezioso; o resta assolutamente immobile, con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, ignaro della presenza di altre persone.
Lo schizofrenico finisce per diventare qualcosa di simile a un androide, o a un robot, capace di compiere soltanto gesti meccanici. Intanto gli oggetti si risvegliano, si muovono, compiono qualche gesto improvviso e pericoloso, che sembra umano. Sia i malati sia i medici sia gli oggetti recitano un immenso testo teatrale. A volte, lo schizofrenico avverte la sensazione che qualcuno o qualcosa lo derubi di uno dei suoi organi vitali, come il fegato; e getta un urlo, in modo sempre più insistente, furibondo e aggressivo. La catastrofe è prossima. L’io scompare, davanti ai nostri occhi, fagocitato da una tremenda psicosi.
Per bandire il mondo, lo schizofrenico bandisce ogni sensibilità dal proprio io: diventa freddo come la pietra e il ferro; e il suo sguardo cerca di trasformare gli uomini in un sinistro corteo di sassi. Vaga così, col cuore vuoto, col cuore spento, col cuore di pietra. Qualche volta aspetta disperatamente che un’ondata di amore torni a scaldare il mondo, che egli stesso ha gelato. Spesso i suoi gesti, sempre più artefatti, le sue parole, ora barocche ora ellittiche, e i suoi inquietanti bons mots non hanno nulla di umano.
Col cuore di pietra, lo schizofrenico guarda gli spettacoli della realtà. Li vede attraverso un velo: i suoni gli giungono attraverso un muro; e gli sembra che una spessa membrana gli ricopra la pelle. Le cose gli appaiono lontanissime, o vicinissime e rimpicciolite: sbiadite, senza contorni - pochi alberi stenti, pochi edifici abbandonati, poche lampade a gas spente. La terra gli è sconosciuta. Ogni uomo che vede, ogni persona che incontra, ogni pensiero che attraversa la sua mente gli sembra irreale. Incapace di varcare la barriera invisibile, si schiaccia una sigaretta sulla mano, si preme un dito contro gli occhi, si strappa delle ciocche di capelli, come se soltanto il dolore potesse restituirgli il senso della realtà. Tutto è vano. Tutto il mondo è soltanto un vuoto e assurdo spettacolo di teatro. L’universo è diviso, spezzato, strappato in milioni di parti, che non hanno nessun rapporto tra loro.
Se lo schizofrenico torna a guardare se stesso, gli sembra di essere un’altra persona. Quando si sente parlare, è un altro che parla: quando gestisce, mangia e cammina, è l’altro che gestisce, mangia e cammina; un altro incontrato chissà dove. Egli è soltanto un remoto e indifferente spettatore: una marionetta o un morto vivente, lasciato da Dio sulla terra; un oggetto, abbandonato a caso sulla scena del mondo. Conosce un solo spiraglio di salvezza, che, per qualche istante, gli da un sollievo apparente: sta perfettamente immobile, con lo sguardo fisso e le braccia tese; sale su una seggiola, e ferma le lancette della pendola. Quando gliene chiedono la ragione, risponde: «Voglio fermare la marcia del mondo verso la catastrofe. Voglio immobilizzare il corso del tempo, fermare l’eternità». Fissa una macchia di vernice sul muro, o una macchia di ruggine sul tovagliolo; e si afferra con gli occhi alla macchia, la penetra, l’attraversa, sprofonda nell’ultimo dei suoi atomi - fino a quando quel punto minuscolo diventa l’unico mondo esistente.
L’universo è completamente pietrificato. Lo schizofrenico abita nel paese del freddo, che egli stesso ha creato. «Io sono imprigionato - dice - in una zona di ghiaccio, sono perduto nella pianura ghiacciata della Russia. Io sono irrigidito nel gelo. Del fuoco, per favore, del fuoco!». Se è una donna, immagina di diventare la «regina del Tibet». Vive sola, in un Paese lontano, separato da tutti i Paesi, dove l’entrata è proibita. Non regna sugli uomini: ma soltanto sulla «solitudine deserta e ghiacciata dell’implacabile luce elettrica». Tace. Le pochissime parole che escono dalle sue labbra sono segni cifrati che nessuno comprende. Infine, arriva veramente al di là, oltre la vita, oltre il dominio della schizofrenia, nel vuoto, nel nulla, dove nessun grido spezza il mortale silenzio dell’invincibile notte.
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente difare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
Ogni continente ha la sua anima
La nuova geografia della psiche spiega anche le differenze tra Est e Ovest. Terrorismo compreso
di Lorena Preta (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Fine luglio 1909: Freud e Jung, emozionati e curiosi, solcano l’oceano che li porterà dalla vecchia Europa agli Stati Uniti per un ciclo di conferenze dedicate alla nuova e discussa disciplina chiamata psicoanalisi. In America non se ne sa molto ma “la cura con le parole”, come ebbe a definirla una delle prime pazienti di Freud, ha già suscitato insieme grande interesse e molta diffidenza. C’è attesa ma forse poca consapevolezza della portata storica e rivoluzionaria della psicoanalisi. In realtà l’immagine dell’uomo conosciuta fin lì è stata radicalmente stravolta: le azioni e i sentimenti non sono determinati dalla coscienza, ma hanno origine dalla forza potente e indecifrabile dell’inconscio.
Muri invalicabili crollano sotto la spinta della nuova teoria: il sogno è portatore di significati nascosti; la sessualità ha un ruolo fondamentale nell’organizzazione della vita mentale ed essa non è appannaggio solo del mondo adulto ma anche dell’infanzia; il rapporto del medico con il paziente non è affatto asettico ma è guidato da affetti potenti che portano quest’ultimo a sperimentare verso l’analista un amore di “ transfert”. Il mondo relazionale quindi ma anche la scienza, l’arte e la religione stessa non sono definiti esclusivamente dai loro fondamenti storici e culturali ma dalla complessa dinamica inconscia.
Ce n’è abbastanza per pensare che la nuova disciplina possa portare uno sconvolgimento totale nella visione dell’uomo e del mondo. Infatti durante il viaggio Freud orgoglioso ma anche un po’ preoccupato, dice a Jung: “Non sanno che gli andiamo a portare la peste! ”. E oggi? La psicoanalisi ha ancora questa carica contagiosa e dirompente?
Sono pochi i Paesi del mondo in cui la psicoanalisi non sia arrivata introducendo nuovi vertici di osservazione dei rapporti individuali e sociali. Eppure la sua funzione è ben diversa da cultura a cultura, da società a società nonostante la globalizzazione renda omogenee alcune problematiche. Nell’Occidente super tecnologico per esempio, l’individuo si trova a vivere una situazione di frammentazione e di angoscia di perdita di sé, uno scollegamento dal proprio gruppo di riferimento sia famigliare che sociale. L’esigenza sembra essere il bisogno di riconnettersi e recuperare un senso di appartenenza. In questo caso all’esperienza psicoanalitica sono richiesti un contenimento e un’integrazione. Al contrario in Oriente si sta introducendo un’affermazione sempre più forte dell’individualità e la necessità di uno sganciamento dal controllo del gruppo famigliare e dalla collettività, che spesso sappiamo corrispondere a gravi politiche di oppressione. In questo caso la psicoanalisi può avere una funzione liberatoria.
Eppure anche se segnata da profonde differenze, la mappa geografica planetaria mette in risalto un disagio psichico comune che attraversa tutti i Paesi del mondo. Le innovazioni tecnologiche hanno negli ultimi anni mutato profondamente la percezione che abbiamo del nostro corpo e della relazione con l’altro. Inusuali composizioni uomo-macchina, innesti di organi di specie diverse prima immaginati soltanto nelle mitologie, fecondazioni artificiali che possono ormai essere completamente sganciate dalla sessualità, differenze generazionali e di genere che sembrano annullate, comunicazioni virtuali che attraversano spazi senza corpi e senza materia, tutto questo fa di noi degli esseri diversi da prima e ingaggiati in un inedito processo di mutazione antropologica. La dimensione del tempo sembra schiacciata totalmente sul presente. Difficile elaborare il passato per superarlo e quasi impossibile proiettarsi nel futuro che i troppo rapidi cambiamenti rendono inimmaginabile. Sembra di non avere più un luogo, ma di essere costantemente “dislocati”, out of joint, fuori dai cardini.
In quest’ottica si possono leggere i fenomeni migratori caratterizzati da percorsi geografici e politici segnati da conflittualità e differenze a volte inconciliabili e da traumi non elaborabili. La soluzione a volte sembra essere il ricorso a un’appartenenza mimetica che può sfociare nei giovani, in un tentativo di “rifondazione” identitaria con accenti deliranti come nel fenomeno del terrorismo. A sua volta chi viene in contatto con il migrante affronta paure di dispersione e alterazione della propria identità che spesso vediamo sfociare in gesti di violenza inammissibili.
Eppure è proprio tenendo conto del fatto che la psiche stessa è strutturata sulla dinamica di parti tra loro inconciliabili ed eterogenee che bisognerebbe attrezzarsi a ospitare le estraneità, senza pretendere di ridurre l’altro a sé ma lasciandogli quella dose di irriducibilità che lo fa diverso da noi. Come non avere coscienza però che mancano le attrezzature sufficienti per capire le nuove geografie della mente che ci aspettano? Se la psicoanalisi può ancora portare la peste della sua parola non conformistica, è conservando la funzione di “ problematizzare” la realtà, di non darla per ovvia o scontata. Non si tratta di usare un paradigma da investigatori che devono smascherare il colpevole, ma di rimettere in contatto la persona con i suoi moti profondi e di considerare le complesse dinamiche dei gruppi che sono oggetto ancora inesplorato, in modo da generare “un raggio di intensa oscurità”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!!
Adista Notizie n. 40 del 16/11/2013
37375. CASTEL SAN PIETRO (BO)-ADISTA. (dall’inviato) È la prima volta, negli oltre quarant’anni dalla nascita del loro movimento, che le Comunità Cristiane di Base scelgono Dio come “oggetto” di un loro incontro nazionale, il XXXIV, svoltosi a Castel San Pietro Terme dal 1° al 3 novembre scorso. A tutta prima, una contraddizione, visto che alla fine degli anni ‘60 la storia delle CdB iniziava proprio mentre si affermava la teologia della morte di Dio, si discuteva di alienazione religiosa e si rifletteva sull’affermazione della fede senza religione proposta da Bonhöffer. C’era, all’epoca, una certa diffidenza verso la teologia che si considerava scienza impegnata a investigare sull’esistenza di una realtà di cui nulla dice la ricerca scientifica e su cui si sono date, e si danno, definizioni le più disparate. Si preferiva allora guardare alla teologia “negativa” (di Dio si può dire solo che nulla si può dire) o a quella della liberazione, che incentrava sull’essere umano e sulla sua liberazione “l’evangelo” di Gesù e il messaggio della Bibbia.
Ma oggi siamo in un contesto storico ed ecclesiale radicalmente mutato, in cui prepotente è il “ritorno di Dio” e più in generale, un’attenzione al divino che si traduce in tanta parte della società laica e credente in una risposta al senso di smarrimento, alla mancanza di senso, alla difficoltà di leggere ed interpretare il presente in termini prettamente, se non esclusivamente, religiosi (è la religione, infatti, che si è sempre occupata di veicolare l’immagine di Dio). Valeva certo la pena da parte delle CdB di proporre la loro particolare lettura di Dio. Un Dio non consolatorio, ma la cui ricerca spinge ad un rinnovato impegno alla cittadinanza, lontano da stereotipi vecchi e nuovi, dall’immagine patriarcale come da quello tradizionale veicolato da secoli di teologia.
Si fa presto a dire Dio?
Forti anche dell’esperienza più che ventennale dei gruppi donne delle CdB italiane, che, insieme ad altri gruppi di donne, hanno avviato innovativi percorsi di ricerca e che sono state tra le organizzatrici e tra le animatrici del seminario, le CdB, nel corso del dibattito che ha caratterizzato i lavori del loro seminario nazionale - dal significativo titolo “Si fa presto a dire Dio...” - hanno così ribadito il loro saldo ancoraggio ad una visione militante della fede, alla preferenza per il Dio di Gesù, che non si fa attrarre da tentazioni “accademiche” o spiritualistiche. Soprattutto, il seminario ha ribadito l’istanza, portata avanti in questi anni soprattutto dalle donne delle comunità, di demistificare il modello di «Dio come uno, maschio, onnipotente, universale», per dare spazio, come è stato rilevato nel momento di spiritualità e condivisione di domenica 3 novembre, «ad una lettura aperta» in campo teologico, per «decostruire e rinominare un divino che supera concetti astratti come “trascendenza” e “immanenza”»; per «far nascere una relazione fra il divino che è in noi e quello fuori di noi, il “Dio” cosmico», che è sempre stata l’opzione radicale delle Comunità di base, oltre che di altre realtà ecclesiali di base.
In questo percorso di “riscoperta”, ma soprattutto di rivelamento di un Dio sottratto al monopolio del sacro, le CdB non sono sole. Anche “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, il cartello di realtà ecclesiali che diede vita al partecipato incontro al “Massimo” di Roma per i 50 anni dell’apertura del Vaticano II (settembre 2012), dedicherà il suo prossimo appuntamento (maggio 2014) ad una riflessione su quale Dio per quale Chiesa.
Importanti e significativi i contributi al convegno portati dai relatori “interni” ed “esterni” al movimento delle Comunità: nei tre giorni dei lavori sono intervenuti Giancarlo Biondi, ordinario di Antropologia all’Università de L’Aquila (il titolo della sua relazione era: “Prodotti dalla sola evoluzione”), Giulio Giorello, ordinario di Filosofia della Scienza all’Università di Milano (“Ateismo tra giustizia e libertà”), Luciana Percovich, scrittrice e ricercatrice della Libera Università delle Donne di Milano (“Dipanando il mito di Adamo ed Eva”), Letizia Tomassone, teologa e pastora valdese (“Al di là di Dio Padre. Il percorso di fede e di ricerca di Mary Daly”), i gruppi Donne delle CdB italiane e altri gruppi femminili/femministi (“Una sottile striscia di futuro”); Giovanni Franzoni, della CdB S. di Paolo, Roma (“Misericordia chiedo, non sacrifici. Come parliamo di Dio nelle CdB italiane”).
A confronto con chi non crede
Diversi i contributi al dibattito di studiosi e ricercatori non credenti. Tra essi, Biondi ha spiegato i meccanismi che regolano l’evoluzione all’interno delle specie viventi. Ha poi parlato del difficile rapporto tra la teoria darwiniana e la Chiesa istituzionale. Dalla condanna irrevocabile dell’800, all’accettazione dell’evoluzionismo da parte di Pio XII, che la considerava una ipotesi con la stessa dignità di quella creazionista; fino a Giovanni Paolo II, che accettava l’evoluzionismo asserendo che è più di un’ipotesi, ma escludeva che il criterio evoluzionista fosse integralmente applicabile all’essere umano, cui ad una natura biologica si affianca una natura non biologica, l’anima, che viene direttamente da Dio. Per Biondi tutto, anche i comportamenti morali, è frutto dell’evoluzione, perché legato alla dimensione sociale di molte specie animali. In particolare dei primati. Tra essi, e Biondi lo spiega con dovizia di esempi tratti da esperimenti scientifici fatti su animali in cattività, esiste un diffuso sentimento compassionevole che porta a stare vicini a chi soffre.
Giorello ha raccontato come il suo rapporto con la religione sia sempre stato molto conflittuale, sin da quando, «giovane e intemperante», era «drastico nel sostenere che la condizione del religioso è servile perché presume una forma di obbedienza a figure, istituzioni o tradizioni che è contraria all’attività scientifica». La religione come sottomissione aveva per Giorello la sola “giustificazione” storica di essere una schiavitù - indotta da abitudine, o volontaria - da mostrare alle persone che volevano essere libere affinché evitassero di ripeterne meccanismi e forme. Allo stesso modo però Giorello ha sostenuto con forza il rifiuto di una qualsiasi forma di “religione della scienza”, perché - ha detto - anche nel campo scientifico ci sono forme di opportunismo, dogmatismo, esistono lotte di potere, condizionamenti economici e politici che fanno degli scienziati uomini e donne come tutti gli altri. La religione come distruzione del dubbio e del pensiero critico, che Giorello ha detto di aver conosciuto sui banchi del liceo Berchet, durante le lezioni di religione cattolica tenute da don Luigi Giussani, è un modello da continuare a rifiutare con forza; ma a cui si può oggi contrapporre un dialogo franco e paritario tra chi sceglie di essere ateo come metodo, cioè per sondare quali possibilità si aprano a chi decida di procedere senza Dio e senza fondamenti teleologici, e quella parte dei credenti che, come ha mostrato il card. Carlo Maria Martini, prediligono il dubbio alla certezza, una religione positiva nel contesto di una società pluralistica.
Percovich, studiosa attiva nel movimento delle donne sin dagli anni ’70, ha indagato il mito ebraico di Adamo ed Eva collegandolo alle tantissime narrazioni fondanti dell’intera umanità, che chiamano in causa il tema del rapporto tra femminile e maschile. Le più antiche civiltà, ha sottolineato Percovich, hanno immaginato un’origine esclusivamente femminile, dove la Madre o la Dea, l’elemento femminile che rappresentava il ciclo della natura e dell’esistenza, il mistero della nascita e della riproduzione, dava la vita ma anche la forma, ossia quell’insieme di regole, insegnamenti e strumenti indispensabili per continuare la creazione. Attraverso la partenogenesi o una qualche emanazione di sé, questa prima Madre generava una o più figlie, poi i figli maschi, e tutte e tutti venivano educati all’armonia e all’equilibrio. Nel nuovo ordine patriarcale, l’energia femminile è stata progressivamente o traumaticamente compressa, marginalizzata finché, snervata e chiusa in gabbia, non ha più saputo fornire nessun insegnamento né contenimento.
I lavori, seguiti da oltre 170 persone, mostrano una forte vitalità del movimento delle CdB, nonostante siano molte le realtà ecclesiali nate in tempi recenti che non vi si riconoscono, anche se in alcuni casi esprimono istanze simili di partecipazione del Popolo di Dio nel cammino di una fede adulta, responsabile, liberante. Segno che la radicalità di una scelta che da oltre quarant’anni rivendica il diritto di essere Popolo di Dio fatto di cittadini e non di sudditi, dentro la Chiesa come nella società, produce ancora frutti. (valerio gigante)