LA STORIA DI SE STESSO. Al di là delle ragioni estrinseche e occasionali, che pure lo hanno condizionato, credo che sia opportuno e necessario riflettere sul fatto che Vico, nell’affrontare il lavoro della sua autobiografia, lo fa in terza persona: “se stesso come un altro”! La “Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo (1725-28)” così inizia: ”Il signor Giambattista Vico è nato in Napoli l’anno 1670 [in verità, 1668], da onesti parenti, i quali lasciarono assai buona fama di sé” (p. 5).
Per chi è stato “un fanciullo maestro di se medesimo” (p. 5) e ha fatto proprio l’appellativo, datogli “dal signor Gregorio Calopreso”, di “autodidascalo” (p. 19), ed è stato già da venticinque anni docente di retorica all’Università di Napoli e, al contempo, ha polemizzato a lungo e duramente con la filosofia e la pedagogia cartesiana e ha scritto la “Scienza Nuova”, la cosa ha un significato nient’affatto casuale - è carico di teoria.
COGITO, ERGO EST! Tra il 1723 e il 1725, Vico scrive la sua autobiografia (pubblicata nel 1728) e la “Scienza Nuova” (nel 1725 viene pubblicata la prima, dopo seguirà quella del 1730 e quella postuma del 1744). La contemporaneità della scrittura delle due opere è un nodo da pensare, non una banale coincidenza! Le due opere sono legate profondamente, più di quanto non si pensi (e non si è pensato). Sono le due facce dello stesso problema e dello stesso lavoro.
Per Vico, per il quale costante è la sottolineatura del rapporto dell’ontogenesi con la filogenesi, il compito delfico del “conosci te stesso” è un compito sia dell’individuo sia dell’intera umanità e, per l’uno come per l’altra, il problema è da impostarsi nei termini in cui egli lo fa, sia sul piano autobiografico e sul piano filosofico e antropologico - con “corpo e mente uniti”, nel completo rispetto dell’altro come se medesimo.
A partire dal suo presente storico, egli scrive con la persuasione di essere arrivato al traguardo del suo cammino di uomo e studioso: con la prima opera risponde alla domanda di come “Giambattista Vico” sia giunto a essere “se medesimo” e, insieme, lo scopritore dei “Principi della Scienza Nuova”; con la seconda, egli espone in modo “geometrico” i risultati della sua stessa lunga e faticosa ricerca.
La narrazione del come Vico è diventato Vico risuona della narrazione del come l’umanità è diventata umanità, e l’una e l’altra di una consapevolezza metodologica analoga a quella di Marx (Introduzione ’57): “l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia” (sia dei “bestioni”, dei “fanciulli del nascente genere umano”, sia dei fanciulli in generale, e dello stesso “signor Giambattista Vico”).
Per l’intero percorso del Vico, “fanciullo, egli fu spiritosissimo e impaziente di riposo”, decisiva è non solo la caduta (“in età di sette anni”) e le sue conseguenze (“indi in poi e’ crescesse di una natura malinconica ed acre, qual dee essere degli uomini ingegnosi e profondi”), ma anche la “solitudine” di “ben nove anni” (p. 14) trascorsi in Lucania, a Vatolla: “il Vico benedisse - così egli scrive (p. 17) - non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse egli giurato, e ringraziò quelle selve, fralle quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi senza niuno affetto di setta, e non nella città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere”; e infine, in posizione assolutamente rilevante, la “ischiettezza” e “l’ingenuità dovuta da istorico” verso “il signor Giambattista Vico”.
Vico non trucca le carte con “se stesso”, e non azzera la distanza tra il “se medesimo” che narra e l’altro, “il Vico” di cui parla (per lui, le radici dell’io sono nell’altro, non in “se medesimo” - il suo non è un “cogito, ergo sum”, ma un “cogito, ergo est”!): “Non fingerassi qui - scrive Vico - ciò che astutamente finse Renato Delle Carte d’intorno al metodo de’ suoi studi, per porre solamente su la sua filosofia e matematica ed atterrare tutti gli altri studi che compiono la divina ed umana erudizione” (p. 6).
INDIVIDUO E SOCIETA’: LINGUA E IDEE. Con alle spalle gli studi di giurisprudenza e, al contempo, una profonda conoscenza della retorica (alla sua cattedra, tra l’altro, il compito di tenere le prolusioni inaugurali agli anni accademici, di “indirizzare gli ingegni e fargli universali”), egli è fortemente critico nei confronti della moda cartesiana e insieme strenuo difensore della dimensione retorica (sociale e linguistica) dell’essere umano.
Critico non solo di Cartesio, ma anche di Platone, egli guarda alla lezione di Protagora e alla Retorica di Aristotele, come a un’acquisizione fondamentale e inoltrepassabile e la ricolloca sulla “roccia” della socievolezza umana e della carità evangelica (“Deus charitas est”: 1 Gv., 4.8). Vico, detto in altro modo, dà alla lezione aristotelica (con tutta la sua chiarezza relativa alla struttura dell’atto-circolo comunicativo: emittente/oratore, ricevente/pubblico, e messaggio) un valore teologico-politico e filosofico nuovo - decisivo e fondamentale per tutti i discorsi e per l’intero sapere.
Vico muove dal fatto che, al centro del soggetto, non ci sono solo “corpo e mente uniti”, ma ci sono due “persone”, in dialogo continuo - non una (e non un padrone e il suo automa o il suo servo)! E’ da questo orizzonte e da questa consapevolezza, che nasce la forte e costante critica di Vico nei confronti della filosofia di Cartesio e dell’assunzione dogmatica del “metodo geometrico” per “gli studi del nostro tempo”.
Cartesio va avanti mascherato, senza verità e senza grazia (“charis”): "Renato, ambiziosissimo di gloria" (p. 15), è un cattivo storico dell’“altro”, di “se medesimo” e, come cattivo storico, anche un cattivo filosofo! E’ un filosofo narcisista: cancella le tracce del cammino che lo hanno portato dai primi passi dell’indagine al punto di arrivo (il suo “cogito”), fa del risultato l’inizio di ogni ricerca, e contrabbanda la sua “mezza” verità come il fondamento della intera realtà - dell’uomo, del mondo, e di Dio! Per Vico, il pericolo è gravissimo: la via di Cartesio mette a repentaglio la stessa possibilità per ogni essere umano di “seguire il proprio giudizio”.
“RICREDIAMCI” (p. 165)! Contro il diffuso sonno dogmatico nei confronti della pedagogia cartesiana, Vico è durissimo. Già nel 1712, nella "Risposta all’articolo del Giornale de’ letterati italiani", sulle critiche rivolte al suo “De antiquissima italorum sapientia”, così scrive rivolgendosi ai suoi stessi amici cartesiani:
“(...) Renato egli ha fatto quel che sempre han soluto coloro che si son fatti tiranni, i quali son cresciuti in credito col parteggiare la libertà; ma, poiché si sono assicurati nella potenza, sono divenuti tiranni piú gravi di quei che oppressero. Imperocché egli ha fatto trascurare la lezione degli altri filosofi, col professare che con la forza del lume naturale uom possa sapere quanto altri seppero.
E i giovani semplicetti volentieri cadono nell’inganno, perché la lunga fatica di moltissima lezione è molesta, ed è grande il piacer della mente d’apparar molto in brieve.
Ma esso infatti, benché ’l dissimuli con grandissima arte in parole, fu versatissimo in ogni sorta di filosofie, matematico al mondo celebratissimo, nascosto in una ritiratissima vita, e, quel che piú importa, di mente che non ogni secolo suol darne una simigliante. Co’ quali requisiti, che uom voglia seguire il proprio giudizio, il può, né altro ha ragion di poterlo.
Leggano quanto Cartesio lesse Platone, Aristotile, Epicuro, santo Agostino, Bacone da Verulamio, Galileo; meditino quanto Cartesio in quelle sue lunghissime ritirate; e ’l mondo avrà filosofi di ugual valore a Cartesio.
Ma, col Cartesio e con la forza del natural lume, sempre saranno di lui minori; e Renato avrassi stabilito tra loro il regno, e preso il frutto di quel consiglio di rea politica, che è di spegnere affatto coloro per li quali si è giunto al sommo della potenza” (p. 167).
CON L’UMANITA’ IN CAMMINO, SEMPRE IN DIALOGO. Nella “Scienza Nuova” del 1730, nella parte conclusiva della “spiegazione della dipintura proposta al frontespizio”, rivolgendosi al “benigno Leggitore”, così Vico spiega le ragioni e i modi del suo scrivere, del suo comunicare il proprio pensiero agli altri:
“La prima pratica è stata; come riceverebbero queste cose, ch’io medito, un Platone, un Varrone, un Quinto Muzio Scevola? La seconda pratica è stata quella, come riceverà queste cose, ch’io scrivo, la Posterità. Ancora per la stima, ch’io debbo fare di te, m’ho prefisso per Giudici tali huomini; i quali per tanto cangiar di età, di nazioni, di lingue, di costumi, e mode, e gusti di sapere, non sono punto scemati dal credito, il primo di divino Filosofo, il secondo del più dotto Filologo de’ Romani, il terzo di sapientissimo Giureconsulto” ( G. Vico, La Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello, Bompiani, Milano 2012, p. 397). [continua]
Federico La Sala
VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"! E CON SHAFTESBURY, CON LA "TAVOLA DELLE COSE CIVILI"!
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile)
(...) al di là della contrapposizione della storia sacra e profana, rivelata e ragionata, e al di là dello “stato di minorità” - senza cadute in uno stato di super-io-rità!
Filosofia
Il senso dell’italica sapienza
Giambattista Vico. Ristampata un’opera molto complessa, nella quale il filosofo elabora definitivamente due concetti centrali nel suo pensiero: quello di forza e quello di azione
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 Ore, 28.12.2020)
Sono molti, negli ultimi decenni, gli studi e le ricerche sulla figura e sull’opera di Giambattista Vico grazie, in primo luogo, al Lessico Intellettuale Europeo, specialmente nel periodo in cui fu diretto da Tullio Gregory, e al Centro di studi vichiani. È stata ora pubblicata una delle opere più complesse di Vico, il De antiquissima Italorum sapientia, ad opera di Vincenzo Placella, che aggiunge, opportunamente, al testo vichiano la trascrizione critica degli articoli del «Giornale de’ letterati d’Italia» in cui le posizioni del filosofo erano state contestate e le risposte con le quali il «Signor Giambattista Vico» replica alle «oppositioni» fatte «contra il primo libro De antiquissima italorum sapientia» con due specifiche «risposte», entrambe assai importanti.
Il De antiquissima esce nel 1710. Esso, come è noto, avrebbe dovuto essere costituito da tre parti: una sulla metafisica, una sulla fisica, una sulla morale. Uscì soltanto il primo libro, il Liber metaphysicus, che ha avuto notevole fortuna nella critica vichiana - da Croce a Nicolini, da Pagliaro a Badaloni, da Paolo Rossi a Battistini (per limitarsi ai «classici»).
Antica filosofia italica
È interessante a rileggerla, ancora oggi, la tesi di Badaloni secondo cui, nel De antiquissima, il richiamo all’antica filosofia italica ha «carattere di finzione»: si tratterebbe «di una specie di gergo, entro cui la cultura napoletana capiva perfettamente le allusioni ed i colpi polemici, che in Vico del resto, sono del tutto scoperti». Dal punto di vista filosofico l’importanza del De antiquissima non sarebbe dunque nel richiamo all’antica filosofia italica, ma nella definitiva elaborazione di due concetti diventati centrali per Vico: il concetto di forza che traduce in termini fisici il concetto di spiritus; il concetto di azione, «quale risposta umana al richiamo che la forza in quanto conatus esercita sull’uomo».
Paolo Rossi ha utilizzato il De antiquissima, le due Risposte e l’Autobiografia per delineare «il ritratto di uno zenonista da giovane», sottolineando, con grande originalità, come Vico abbia avuto «una qualche conoscenza dello Zenonismo storico», delle cui posizioni dà anche conto, ma usandole in modo vario e libero nell’ambito della sua riflessione.
Sia Badaloni che Rossi sono stati tra i più insigni studiosi di Vico nella seconda metà del Novecento, e perciò si sono citati: per sottolineare l’incidenza e l’importanza del De antiquissima nella critica degli ultimi decenni. In effetti si tratta di un testo straordinario per la ricchezza di motivi che esibisce: la concezione di un’antica sapienza italica; la critica, fondamentale, del cogito e dei limiti di Cartesio, congiunta - come sostiene con buone ragioni Biagio de Giovanni - a un’altra visione del «moderno» rispetto a quella incentrata sul primato della «ragione scientifica»; il motivo del verum-factum; la distinzione tra intelligentia divina e cogitatio umana; le certezze della matematica e della geometria; il conatus; lo sperimentalismo...
Il libro è dedicato - ed è un altro elemento da rimarcare - a Paolo Mattia Doria, di cui è rivendicata l’originalità del pensiero politico: egli ha formato «il Principe immune da ogni cattiva arte di regno con cui C. Tacito e Nicolò Machiavelli istruirono il loro».
Platone nel Cratilo
Il metodo che Vico segue, distanziandosi dai grammatici, è quello di Platone nel Cratilo: «ricavare l’antichissima sapienza degli Italiani dalle origini della lingua latina». Infatti è con questo metodo che Platone «si sforzò di attingere la primitiva sapienza dei Greci».
Centrale, come si è detto - e vale la pena di ribadirlo, perché è un principio destinato a grandi sviluppi - è nel De antiquissima la riflessione sul principio del verum-factum, i quali in latino «sono in rapporto di reciprocità, o, come si suol dire nelle Scuole, “sono convertibili”». In altre parole: «il criterio e la regola del vero è proprio l’averlo fatto», ed è a questa luce che si può stabilire la distinzione tra uomo e Dio. Vico lo fa con una similitudine: «il vero divino è un’immagine solida delle cose, quasi un’opera d’arte plastica, mentre il vero umano è un pallido abbozzo, ovvero una immagine piana, come una sagoma. E al modo in cui il vero divino è quello che dio nel mentre conosce ordina e produce, così il vero umano, secondo gli antichi filosofi d’Italia, è qualcosa che l’uomo, nel mentre la conosce, compone e fa».
Rendendosi conto della limitatezza della sua mente, l’uomo si è forgiato, tramite l’astrazione, due elementi: il punto e l’uno. «E in questo modo s’è costruito un mondo di forme e di numeri tale da poterlo abbracciare per intero all’interno di se stesso; e prolungando o accorciando o mettendo insieme linee, addizionando, sottraendo o comunque calcolando numeri, compie infinite opere, in quanto conosce, all’interno di se stesso, infiniti veri».
Nella matematica dunque il vero si identifica col fare, e l’uomo - concentrandosi sul «dentro» - è capace di raggiungere il vero. I «veri umani» vanno commisurati sulla «norma del vero divino»: essi «sono quelli di cui noi stessi ci formiamo gli elementi, possiamo contenerli dentro di noi e portarli all’infinito tramite i postulati e, nel mettere insieme tali elementi, siamo in grado di fare i veri che conosciamo tramite quel mettere insieme e, in forza di tutto ciò, di possedere il genere, ovverosia la forma secondo cui facciamo».
Come scrisse Badaloni, la differenza del De antiquissima con il De ratione sta in questo: lì il verum-factum era un principio limitativo, qui è «l’umano criterio di verità».
Nell’Autobiografia Vico descrive in due belle pagine il lavoro fatto nel De antiquissima e lo svolgimento ulteriore del suo pensiero: «il Vico, con la lezione del più ingegnoso e dotto che vero trattato di Bacone da Verulamio De sapientia veterum, si destò a ricercarne più in là i principi che nelle favole de’ poeti, muovendolo a far ciò lauttorità di Platone, ch’era andato nel Cratilo ad investigargli dentro le origini della lingua greca», cominciandogli a dispiacere - dice, riferendosi a se stesso - «le etimologie de’ grammatici»; ma quel «dispiacimento» - così continua poco dopo - «era un indizio di ciò onde poi, nell’opere ultime, ritruovò le origini delle lingue tratte [...] da un principio di natura comune a tutte, sopra il quale stabilisce i principi di un’etimologico universale da dar l’origini a tutte le lingue morte e viventi».
Il De antiquissima è dunque citato e, al tempo stesso, «superato». Sono pochi gli autori che hanno saputo periodizzare con la stessa lucidità lo svolgimento del proprio pensiero.
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....*
Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Buondì Motta: vivere con l’asteroide sopra la testa
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line, 11 settembre, 2017)
Buondì Motta, lo spot pubblicitario della nota azienda dolciaria, ha provocato uno scontro tra chi lo accusa di essere scorretto e offensivo e chi ne difende l’originalità e il sottile senso dell’ironia. Lo spot è un video ambientato nel giardino/parco di una bella villa. Inizia con una bambina che chiede alla madre una colazione leggera ma invitante, che coniughi leggerezza e golosità. La madre ribatte che una cosa simile non esiste. “Possa un’asteroide colpirmi se esiste!”, aggiunge. Puntualmente arriva un’asteroide e la polverizza, aprendo un cratere nel giardino. In una seconda versione dello spot il posto della madre è preso dal padre.
L’intento dei realizzatori del video è ovviamente manipolativo. Il pubblicitario di tendenza oggi associa il prodotto da vendere a una cosa emotivamente forte che aggancia visceralmente lo spettatore. Crea così una dipendenza dal prodotto in modo indiretto. Usa raffinati mezzi di condizionamento psichico che Pavlov gli invidierebbe. Questi mezzi non derivano dalla sua “creatività”, vengono prevalentemente da un apposito campo di ricerca sull’induzione di comportamenti a cui anche Trump si è rivolto per la sua campagna elettorale. Lo studio dei comportamenti e della loro prevedibilità ha ceduto il posto alla scienza della loro costruzione che li rende riproducibili a piacere. Nulla è lasciato all’imprevedibilità e al caso.
Buondì Motta ha nel suo mirino gli spot del “Mulino bianco”. Punta (senza l’ironia che gli è stata attribuita) a una clientela “trendy” che si immagina privilegiata nel voler abbinare lusso, leggerezza e invitante golosità e si esprime (dalla culla pare) con un linguaggio di maniera, supposto elegante. Incurante di mostrare che i prodotti Motta si abbinino effettivamente a questa percezione di sé, va per le spicce e ricorre agli effetti forti.
L’emozione negativa può essere più efficiente di quella positiva: essendo più shoccante tende ad essere anche più persistente. Cosa di meglio da servire a tavola, dell’angoscia della catastrofe naturale che attualmente si mescola finemente dentro di noi con la paura dell’incidente terroristico? Se poi la si coniuga con il conflitto con i genitori sui limiti del piacere e con l’inconscio desiderio di ucciderli, che sovverte nella nostra psiche l’ordine del mondo, il cerchio si chiude. Le merendine Motta possono entrare nel circuito della domanda di strumenti di gratificazione immediata e pacificazione/silenziamento dei sensi che rassicurano e consolano. Il condizionamento ha trovato l’aggancio con la compensazione.
Giocare con l’inconscio, violando la determinazione psichica dei comportamenti per sottoporli a ragioni di opportunità, ha i suoi inconvenienti. Finisce per rivelare la natura vera di un sistema di relazioni fondato sulla comunicazione pubblicitaria che preclude il reale incontro. La dissoluzione delle relazioni erotiche (colpite nella loro profondità) scava un vuoto nella femminilità (l’apertura all’inconsueto), ben rappresentato nello spot dal cratere finale nel giardino di casa (simbolo della sessualità femminile). Si è creato un mondo senza legami di reciprocità che eludendo il conflitto e il dolore sta sprofondando (profezia involontaria dei pubblicitari di Buondì Motta) in una violenza insensata, autodistruttiva.
Questo mondo, che pur di imbrigliare l’imprevisto è disposto a pagare il prezzo della cecità (l’incapacità di vedere al di là del suo naso), sta producendo la più temibile delle casualità: l’impazzimento del suo funzionamento. Vive nella paura che un asteroide (proiezione all’esterno della sua follia) possa cascargli sulla testa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Giambattista Vico
Il poeta del mondo civile
Perché è attuale l’autore della «Scienza nuova» oggi molto più considerato e studiato all’estero che nel nostro Paese
l filosofo napoletano seppe andare oltre la modernità opponendosi all’avvento del dominio tecnologico
E mise al centro della sua visione lo spirito creativo
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 19.06.2016)
Le sue opere sono studiate all’università di Atlanta, negli Stati Uniti, e a quella di Siviglia, in Spagna, all’università di Tel Aviv, in Israele, e a quella di Buenos Aires, in Argentina. La Scienza nuova è tradotta in tedesco, francese, inglese, spagnolo, cinese, giapponese, turco, bulgaro, ebraico. Il genio di Vico è ormai riconosciuto ovunque e il suo nome è uno dei fari della cultura italiana all’estero. Ma può succedere di passare tra i pittoreschi edifici di via San Biagio dei Librai, a Napoli, dove campeggiano gli altarini dedicati al culto di Maradona, senza alzare gli occhi verso la lapide, ingrigita e pericolante, in cui è scritto: «In questa cameretta nacque il 23 giugno 1668 Giambattista Vico. Qui dimorò fino ai diciassette anni e nella sottoposta piccola bottega del padre libraio usò passare le notti nello studio. Vigilia giovanile della sua opera sublime. La città di Napoli pose». Come se quella lapide malferma, inaugurata solo nel bicentenario della nascita, omaggio postumo e tardivo, rappresenti il simbolo del rapporto ambivalente che l’Italia ha con il suo più grande filosofo. Un’ambivalenza, sofferta e lacerante, della cultura italiana con se stessa e con la propria tradizione.
D’altronde, al contrario di Kant o di Hegel, Vico morì quasi del tutto sconosciuto, dopo aver faticato anni e anni, come lui stesso racconta nella sua Autobiografia , sia per trovare una collocazione accademica, sia per ottenere il riconoscimento che il suo pensiero meritava. Per intrighi universitari non ebbe mai la «cattedra primaria mattutina di leggi», cioè di Diritto romano, e dovette invece accontentarsi di quella di retorica, disperando «per l’avvenire aver più mai degno luogo nella sua patria». Che dire, poi, dell’anello che fu costretto a vendere per poter pubblicare la Scienza nuova?
Un ebreo di Livorno, Giuseppe Athias, fece circolare in Europa quell’opera singolare, così vistosamente barocca e così dichiaratamente ipermoderna, da proiettarsi già oltre la modernità. Suscitò presto ammirazione l’energia visionaria di quell’eccentrico antiquario che resisteva alla modernità. Nessuno avrebbe potuto immaginarselo, se non nella sua Napoli, città intellettualmente vivacissima; eppure lui era in grado da lì di rivolgere un richiamo al mondo, per riconsiderare l’umanità e la sua storia.
Foscolo e Manzoni, Goethe e Marx, Joyce e Beckett furono attratti dal tono profetico di quel pensatore che si volgeva a indagare le sterminate antichità del passato per scrutare nel futuro più lontano. Non è un caso che sia stato il Novecento a fare di Vico un indispensabile interlocutore filosofico. Merito, certo, della «riscoperta» compiuta da Croce già nel 1911. Ma la dirompente inattualità di Vico è tale da attraversare i decenni e giungere al XXI secolo nella pienezza della sua sfida. L’effervescenza del dibattito odierno, quale si svolge più nel contesto americano che non in quello europeo, mostra che Vico è per noi ben più che un precursore.
Perché, dunque, leggiamo le sue opere? Perché, oggi più che mai, non possiamo fare a meno della Scienza nuova? La risposta sta nel progetto eroico di Vico. Straniero persino nella sua Napoli, dove già molti si erano arresi alle mode, diventando cartesiani, Vico accetta la marginalità, si situa sulla soglia della storia, convinto che gli itinerari della memoria siano le vie per l’avvenire e che il tempo nuovo non possa essere che un futuro del passato. Traccia per la prima volta una storia dell’umanità; inaugura la filosofia della storia.
Ma c’è di più. La sua storia del genere umano, che ne mette in rilievo la humanitas, non è solo il discorso in cui culmina la tradizione dell’umanesimo italiano, ma è insieme anche un controdiscorso, un appello, un ricorso contro la modernità. Vico è l’unico filosofo a intuire l’attacco che le nuove scienze stanno per sferrare. Il dominio scientifico-tecnologico è ormai alle porte. E dalla sua ha nomi di spicco, quelli dei fondatori della modernità: Cartesio, Galileo, Bacone, Hobbes. Anche se in forme diverse, esaltano tutti il presente, come se la storia iniziasse con loro, celebrano le scienze empiriche, vedono il mondo solo attraverso il prisma dell’ordine naturale, considerano anacronistica la sapienza antica, giudicano inutili le lingue, le lettere, le arti, e aggravano così la crisi epocale.
Pur sentendosi profondamente solo, Vico non si piega. Resiste - senza cedere alla nostalgia, né arroccarsi nell’interesse erudito per il passato. Lì, sulla soglia, dentro e fuori il suo tempo, dove l’inattualità diventa la prospettiva per denunciare i limiti dell’epoca moderna, controbatte difendendo la storia, presidiando l’immaginazione, richiamandosi al linguaggio, anzi alla poesia. Così si lascia via via alle spalle la metafisica, per raccogliere letteratura e retorica, religione e diritto, mito e filosofia, tutte le discipline umane, in un disegno inedito e unitario, capace di superare la frammentazione, di rispondere alla minaccia delle scienze positive, ma soprattutto di offrire una nuova visione politica dell’umanità. Tutto questo è la Scienza nuova.
Contro la boria dei moderni, e la tracotanza delle scienze, Vico delinea la mappa del «mondo civile». L’importanza di questa espressione non deve sfuggire; la si incontra - oggi - sempre più di frequente nei libri in tedesco o in inglese. Anche perché civile è un termine così profondamente radicato nella tradizione latina, e poi italiana, da risultare difficilmente traducibile. Che cos’è, dunque, il «mondo civile», e perché è all’ordine del giorno nel dibattito filosofico?
In un famoso passo della Scienza nuova Vico rinvia alla «densa notte di tenebre» che copre la nostra antichità. Tuttavia un «lume» la rischiara, un «lume» che può dischiudere anche la via per inoltrarsi in quel tempo remoto. Questo «nostro mondo civile» è creazione umana, è «stato fatto dagli uomini», così come il «mondo naturale» è opera di Dio. È bizzarro che i filosofi si ostinino a voler avere scienza del mondo naturale, piuttosto che volgersi a quello civile. L’ostinatezza si rivela presto presunzione e boria. Come si può pretendere di conoscere ciò che non si è capaci di fare? Sono forse gli uomini in grado di fare alberi e piante, pietre e rocce, astri e pianeti?
Già in precedenza Vico aveva formulato uno dei principi della sua filosofia: «Il criterio per avere scienza di una cosa è di mandarla ad effetto». Solo chi sa come una cosa è nata, chi ne conosce la genesi e le cause, chi insomma sa farla, ha scienza. Vero e fatto coincidono - sostiene Vico attribuendo un valore pratico alla conoscenza e inaugurando una nuova riflessione critica sulla verità. Si può indagare il mondo della natura, ma lì il vero resta nel complesso irraggiungibile. Al contrario, il mondo civile, quello che la «scienza nuova» narra e indaga, è il mondo della storia e delle istituzioni umane, quello di cui si può avere scienza, perché qui il vero coincide con il fatto. Comprendiamo quello che altri prima di noi hanno fatto e, per l’affinità umana che ci lega, potremmo, dunque, rifarlo.
La «gran selva antica della terra» è stata umanizzata grazie alla parola - non una parola qualsiasi, ma la parola poetica. Ecco la «discoverta» che, nonostante tutte le amarezze, costituì per Vico motivo di «eterna, immensa gioia»: i popoli della «prima gentilità» furono tutti necessariamente «poeti» che - scrive nel passo forse più celebre della Scienza nuova - in greco suona come «criatori». Poesia rinvia etimologicamente a poiesis , creatività, e a poieo che significa «fare». Prima ancora di Hamann e di Heidegger, la poesia viene indicata da Vico come la lingua originaria, la prima forma del conoscere, l’indispensabile attività creativa che articola e istituisce il mondo. Di qui l’alleanza tra poesia e filosofia. Anzi la poesia è la «chiave maestra» della Scienza nuova . Dal suo «sublime lavoro» viene emergendo la civiltà.
Vico non avrebbe potuto essere più radicale. Ma non si ferma qui. Come nella storia delle parole si rintraccia quella delle cose, così dal tronco della sapienza poetica si diramano la logica, la morale, l’economia, la politica. Già gli umanisti - ad esempio Salutati - avevano scorto il nesso tra poesia e politica. Vico lo consolida e lo legge filosoficamente. Il «mondo civile» è quello della politeia, del governo della città, è il mondo - secondo un’etimologia inventata da Vico - politus, «nettato e mondo». Può corrompersi, e si corrompe, proprio perché è stato nettato, umanizzato dalla poesia. Non serve consegnarlo alla costruzione razionale e scientifica. È all’attività poietica dei cittadini che deve piuttosto essere affidato, pur con tutti i rischi - che Napoli e le città italiane allora ben mostravano - se deve essere difesa, custodita, ulteriormente articolata l’umanità.
Sulla soglia del tempo nuovo ci attende Vico, il pensatore-poeta, per dirci che l’archivio del futuro sta nei profondi mari della memoria, negli enigmi della sapienza antica, che la poesia è la via maestra per pensare la politica.
MICHEL SERRES "DENUNCIA" CARTESIO ("Dal metodo non nasce niente") E FA "UNA CONFESSIONE". "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986)
IN MEMORIA DI MICHEL SERRES *. UNA CONFESSIONE (DA "IL MANCINO ZOPPO"):
PER LA FILOSOFIA DI UN ALTRO SOCRATE. AL DI LA’ DI EDIPO...:
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
a) IL PUNTO DI SVOLTA. L’INDICAZIONE DI FACHINELLI E LA SUA IMPORTANZA.
b) LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
c) CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
d) CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
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Morto Michel Serres, il filosofo della scienza che amava l’Italia
Grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, aveva 88 anni. «I miei miglior amici sono italiani»
di Daniele Zappalà (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Parigi. Era uno dei pensatori più ammirati a livello internazionale, oltre a rappresentare una figura centrale del mondo intellettuale francese. Il filosofo Michel Serres, grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, si è spento ieri a 88 anni. Accademico di Francia fin dal 1990, aveva insegnato a lungo negli Stati Uniti, all’Università di Stanford, oltre che in vari atenei transalpini. Autore di una cinquantina di volumi e di opere fondamentali sull’origine del pensiero scientifico, come Le origini della geometria (Feltrinelli) o Lucrezio e l’origine della fisica (Sellerio), aveva pure interpretato, nella lontana scia di Leibniz, la pregnanza della comunicazione nel mondo contemporaneo, come nei 5 volumi della serie Hermès (1969-1980).
Figura estremamente originale, aveva scelto come proprio motto «pensare significa anticipare», prevedendo e interpretando nei propri libri diverse rivoluzioni del nostro tempo. Una costante della sua riflessione è stata pure la grande attenzione alla tradizione culturale cristiana, come in La ricerca delle parole. Corpo, scrittura e messaggio evangelico (EDB), o in Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (Bollati Boringhieri).
Fra i volumi di Serres più citati, si può ricordare Il contratto naturale (Feltrinelli), all’origine di una riflessione sull’ambiente approdata poi a volumi più personali, come Biogea. Il racconto della terra (Asterios). Di recente, aveva pubblicato pure dei pamphlet con cui aveva riscosso un notevole successo, come Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, o ancora Contro i bei tempi andati, entrambi tradotti da Bollati Boringhieri.
«Tutti i miei migliori amici sono italiani», ci aveva raccontato nella sua ultima intervista ad Avvenire, da grande innamorato del Belpaese. In proposito, aveva anche dedicato un volume a Carpaccio, edito in Italia da Hopefulmonster. Fra gli altri tratti della tradizione italiana reinterpretati a livello filosofico, spicca la figura di Arlecchino, nel volume Il mantello di Arlecchino (Marsilio). Profondamente segnato dal dramma della guerra, ha lasciato anche importanti riflessioni di stampo pacifista.
L’occhio di un bue, l’esistenza di Dio, il salto di una palla: le lettere di Descartes
Lettere 1619-1648 tra René Descartes, Isaac Beeckman, Marin Mersenne, da Bompiani. Tre intellettuali molto diversi per estrazione sociale, fede, interessi teoretici, si scambiano idee che saranno fondative della scienza moderna
di Alberto Gaiani (il manifesto, Alias, 08.05.2016)
Nell’Europa della prima metà del Seicento la riforma protestante e la controriforma cattolica si erano ormai radicate e istituzionalizzate, la Francia si avviava a essere il laboratorio dell’assolutismo di Luigi XIV, l’Inghilterra era divisa tra i tentativi autoritari degli Stuart e le rivendicazioni di un parlamentarismo nascente, in cui la componente religiosa puritana giocava un ruolo cruciale, la grande monarchia spagnola imboccava una decadenza irreversibile, e le piccole Province Unite calviniste, da poco indipendenti, stavano per diventare un colosso dei commerci marittimi.
La Guerra dei Trent’anni, ultima grande guerra di religione europea, imperversava dal 1618 e si sarebbe conclusa nel 1648. Le carestie e le pestilenze investivano ciclicamente le popolazioni. In questa lunga fase di crisi, trasformazioni, riassestamenti e novità, nacque una piccola repubblica delle lettere che discuteva di scienza. Raccogliendo i frutti delle ricerche cinquecentesche - due per tutte: il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico e il De humani corporis fabrica di Vesalio, entrambi pubblicati nel 1543, e all’origine rispettivamente dell’astronomia e dell’anatomia moderne - da diverse regioni europee dialogavano e fra loro discutevano Keplero, Galilei, Descartes, Harvey, Torricelli, Fermat, e altri forse meno celebri.
Il carteggio trentennale tra René Descartes, Isaac Beeckman, Marin Mersenne, Lettere 1619-1648 (Bompiani, a cura di Giulia Belgioioso e Jean-Robert Armogathe, con testi latini e francesi a fronte, pp. 1674, euro 55,00) costituisce un documento prezioso per osservare tre intellettuali molto diversi tra loro - per estrazione sociale, fede religiosa, interessi teoretici, ruoli istituzionali - scambiarsi le loro idee, mentre in Europa si affermava quel grande sovvertimento del modo di pensare e di conoscere che avrebbe poi costituito la scienza moderna.
Protagonista indiscusso del carteggio è Descartes: sua è la maggioranza schiacciante delle lettere comprese in questa raccolta, centoquarantacinque (centotrentasette a Mersenne, otto a Beeckman), contro le sei di Mersenne (cinque a Descartes, una a Beeckman) e le sette di Beeckman (sei a Mersenne, una a Descartes). Questo scarto si spiega per un verso con l’abitudine di Descartes a tenere tutte le minute delle proprie missive, per altro verso con le travagliate vicende di conservazione e di trasmissione di testi naturalmente esposti al rischio di perdita o di corruzione, ciò che evidenzia l’importanza della storia materiale dei testi, in questo caso di difficoltosa ricostruzione, date le condizioni in cui i tre autori si trovavano a scambiarsi questioni e soluzioni di problemi, e punteggiata da smarrimenti, ritardi, indirizzi sbagliati e corrieri distratti di cui si trova traccia nelle stesse lettere dei tre («le vostre ultime sono rimaste ferme per qualche tempo ad Amsterdam - scrive Descartes a Marsenne - in attesa di colui al quale le avevate indirizzate»; «mi stupisce molto che le tre lettere che mi dite d’avermi fatto l’onore di scrivermi siano andate perdute»; «la perdita delle lettere che vi avevo scritto verso la fine del mese di novembre»).
Il promotore di tutti gli scambi tra i tre interlocutori è Marin Mersenne, il meno brillante dei tre dal punto di vista scientifico ma di certo il più assiduo nell’interpellare, sollecitare, mettere in contatto, porre domande, inviare libri e manoscritti. Monaco dell’ordine di san Francesco di Paola, eclettico per inclinazione e per vocazione, sognava un’accademia europea delle lettere e delle scienze che viaggiasse per corrispondenza. Da Parigi, dove risiedeva, manteneva i contatti con intellettuali sparsi ai quattro angoli del continente, spesso facendo da tramite in prima persona, come si apprende per esempio dalla corrispondenza tra Descartes e Hobbes all’inizio degli anni quaranta, anch’essa riportata nel volume.
Quanto a Isaac Beeckman, era un uomo di scienza delle Province Unite riformate: calvinista, studioso di teologia, di medicina, di fisica, di musicologia, ricopriva ruoli di rilievo nelle università olandesi e da molti suoi contemporanei venne considerato un filosofo di tutto rispetto, nonostante non abbia lasciato dietro di sé tracce rilevanti. René Descartes si presentava invece come un gentilhomme français, discendente della piccola nobiltà di toga che ad un certo punto scelse di lasciare la Francia e ritirarsi, lui cattolico, nell’Olanda calvinista che gli avrebbe garantito quiete, libertà e distanza da tutto ciò che lo distoglieva dalle attività a cui voleva consacrare la propria esistenza: lo studio, la ricerca, la scoperta, la filosofia, la scienza.
Nei trent’anni coperti dall’epistolario i temi che ritornano sono spesso trattati in maniera frammentaria o discontinua: vi si trovano questioni di algebra, di geometria analitica, di ottica, di meccanica, di astronomia, di fisiologia, di musicologia; l’Index rerum che i curatori redigono costituisce una guida importante per chi voglia seguire gli sviluppi dei diversi problemi che i tre autori trattano. Ma quel che è fondamentale, intanto, è capire come Descartes, Beeckman e Mersenne in buona parte, anche se non del tutto, affrontino problemi scientifici a partire dall’ordinario: si arrovellano e discutono di campane, candele, liquidi nei bicchieri, corde, fionde, specchi, rane, balestre, flauti, canne d’organo, lenti, pietre, leve, tubi.
Le esperienze che si scambiano sono semplici, comuni alla vita quotidiana, ma a partire da queste affrontano problemi come la determinazione della forza di gravità, della natura della luce, della massa, della velocità e dell’accelerazione. Si occupano di magnetismo, della propagazione dei suoni e della loro percezione, dell’armonia musicale e della sua traducibilità in termini matematici, della circolazione sanguigna.
La scienza moderna nasceva dunque fuori dai laboratori, da esperimenti che potremmo riprodurre nelle nostre cucine, ma a compierli erano osservatori portentosi, uomini curiosi che si sentivano investiti del compito di comprendere perché le cose stessero come stavano, e a una straordinaria capacità di osservazione e di problematizzazione dell’ordinario coniugavano la descrizione, nella forma più semplice e più diretta possibile, degli elementi fondamentali dei fenomeni esaminati. Il linguaggio matematico diventava la lingua universale del sapere finalizzato a cogliere il funzionamento della natura.
Per Descartes la verità è stabilita da Dio, dipende interamente da lui e le verità eterne sono innate nell’essere umano. «L’esistenza di Dio, infatti, è la prima e la più eterna di tutte le verità che possono essere e la sola da cui procedano tutte le altre», scrive a Mersenne il 6 maggio del 1630. Ma il Dio che Descartes difende nel proprio sistema filosofico non è il Dio della teologia morale. Quando Mersenne lo incalza sulla dannazione eterna risponde che la questione «è teologica; perciò, vi prego assolutamente di consentirmi di non dirne nulla».
Dio è garanzia epistemologica, fondamento della conoscibilità del reale. E quando, pubblicate le Meditazioni metafisiche nel 1640, sostiene che lo scopo della sua metafisica è «far intendere quali sono le cose che è possibile concepire distintamente», diventa evidente che la riflessione sistematica cartesiana non è semplicemente il razionalismo radicale di un cattolico osservante, ma una teoria della conoscenza che si fonda sulla capacità dell’uomo di pensare e sulla pensabilità del reale.
Sia quando si inerpica sulle vette della dimostrazione dell’esistenza di Dio, sia quando seziona l’occhio di un bue, o osserva i differenti modi di rimbalzare di palle di lana, di metallo, di legno, l’epistemologia di Descartes emerge in queste lettere come un progetto titanico di comprensione della realtà.
Le due anime di Cartesio
La tensione tra le «Meditazioni» e i libri non pubblicati in vita (per paura dell’Inquisizione) «Uomo» e «Mondo»
di Franco Giudice (Il Sole-24 ore, Domenica, 27.03.2016)
«Come gli attori, accorti a non fare apparire l’imbarazzo sul volto, vestono la maschera, così io, sul punto di calcare la scena del mondo, dove sinora sono stato spettatore, avanzo mascherato (larvatus prodeo)». L’autore di questa frase ormai celebre è Cartesio, una figura chiave della rivoluzione intellettuale del XVII secolo. Si trova all’inizio di un suo quaderno personale di appunti, una sorta di diario intimo, e reca la data del primo gennaio 1619.
Una frase giovanile dunque che, nonostante le distorsioni cui talvolta è stata sottoposta, aiuta tuttavia a capire perché diverse pagine delle sue opere e la sua stessa biografia suscitino, come ha osservato Eugenio Garin, un’indelebile «impressione di ambiguità», quasi che il filosofo della «chiarezza» intendesse nascondere «una contraddizione segreta, o un conflitto non pacato». Il che spiega forse quelle tensioni concettuali riscontrabili nel suo pensiero e poi riprodottesi in quanti, a vario titolo, se ne sono proclamati eredi.
Proprio quelle tensioni di cui si occupa ora Emanuela Scribano, apprezzata studiosa di Cartesio e del pensiero filosofico moderno. Con l’eleganza e la sobrietà che caratterizzano tutti i suoi lavori, Scribano cerca di individuare le ragioni di alcuni importanti cambiamenti introdotti da Cartesio nella sua teoria della conoscenza e nella sua analisi della percezione sensibile. E per farlo muove dall’ipotesi che essi scaturiscano da una duplice esigenza: da un lato, sviluppare e rafforzare la fondazione metafisica della scienza; dall’altro, rendere coerente tale fondazione con la scienza medesima.
Con la scienza cioè elaborata da Cartesio nell’Uomo, la neurofisiologia, che costituiva la seconda parte del Mondo, dove esponeva la sua fisica e la sua cosmologia. La redazione di questi due scritti, concepiti come un’opera unitaria, fu terminata tra il 1633 e il 1634. L’autore decise però di lasciarli nel cassetto: il Mondo, in seguito alla condanna di Galileo, l’Uomo, invece, per ragioni intrinseche alla stessa ricerca fisiologica. Sarebbero stati pubblicati postumi come testi a sé stanti nel 1664, anche se una traduzione latina dell’Uomo era apparsa due anni prima, e messi insieme per la prima volta soltanto nel 1677.
Queste vicende editoriali sono di estremo rilievo, poiché attestano che quando nelle Meditazioni metafisiche (1641) perfezionò il progetto di fondazione della scienza, Cartesio aveva ormai tracciato le linee portanti della sua fisiologia. E indicano, come fa notare Scribano, «la coesistenza in Cartesio di due anime parallele». Gli scenari che si vengono a delineare, quello metafisico e quello fisiologico, si riveleranno però difficili da amalgamare, creando appunto tensioni profonde, se non addirittura irrisolte.
Nell’Uomo, dove si proponeva di studiare la risposta del corpo umano agli stimoli provenienti dal mondo esterno, Cartesio formulava una teoria della sensazione, dell’immaginazione e della memoria che era esclusivamente materiale. Con un obiettivo quanto mai esplicito: mostrare i poteri del corpo indipendentemente da qualsiasi azione della mente. Al punto che il corpo umano era descritto come una macchina complessa e «intelligente», dotata di sistema nervoso, circolazione sanguigna e cervello, in grado di reagire all’ambiente con comportamenti funzionali alla conservazione della vita.
Nelle Meditazioni egli perseguiva un obiettivo altrettanto esplicito, che andava però nella direzione opposta: ampliare il ruolo della mente e dimostrare che anche nella conoscenza sensibile il corpo, senza un intervento attivo della mente, era impotente. Così, se nell’Uomo, per la conoscenza empirica, la mente si limitava a registrare gli eventi corporei e a tradurli in percezioni, credenze e giudizi; nelle Meditazioni invece veniva teorizzata l’impossibilità della stessa conoscenza empirica, altro non essendo quest’ultima che una costruzione della mente.
A dire il vero, questi due aspetti della riflessione cartesiana ebbero un debutto ufficiale già nel 1637, con la pubblicazione del Discorso sul metodo e dei tre saggi annessi (la Diottrica, le Meteore e la Geometria), dove venivano presentati alcuni elementi centrali della fisiologia sviluppata nell’Uomo insieme a una prima esposizione della sua metafisica.
Qui però il confronto, come ci spiega Scribano, si svolgeva senza particolari problemi, poiché il progetto metafisico di Cartesio non era ancora giunto al livello di maturazione delle Meditazioni che, tra altre importanti novità, introducevano anche la teoria della costruzione mentale dell’esperienza sensibile. Le incoerenze tra le due anime cartesiane emersero dunque nel 1664, quando le tesi neurofisiologiche espresse nell’Uomo divennero finalmente di pubblico dominio, e si cercò di far convivere questo “nuovo” Cartesio con quello delle Meditazioni.
Un compito gravoso, di cui si fecero carico i principali successori del filosofo francese, alle prese con i nodi problematici del suo pensiero. Scribano ricostruisce le tappe più significative del dibattito innescato dalla difficile eredità cartesiana, analizzando in dettaglio le varie soluzioni avanzate da Louis de La Forge, da Gèraud de Cordemoy e da Nicolas Malebranche. Tre filosofi che si erano avvicinati a Cartesio, rimanendone conquistati, più per la lettura dell’Uomo che per quella delle opere da egli edite in vita. Un testo, l’Uomo appunto, che sarebbe stato all’origine della «scelta radicale» di Spinoza: costruire una teoria della conoscenza basata esclusivamente sulla fisiologia cartesiana.
Inside Out
Se Cartesio sbarca al cinema
di Piergiorgio Odifreddi(la Repubblica, 08.11.2015)
Sta circolando da qualche settimana in Italia il film Inside out, il cui titolo allude al tentativo della Pixar di “tirar fuori ciò che abbiamo dentro”. Cioè di mostrare visivamente i meccanismi mentali nelle loro componenti razionali ed emotive. I critici cinematografici, che evidentemente si intendono solo di cinema, l’hanno esaltato come un’esposizione quasi scientifica delle nuove frontiere neurofisiologiche, scomodando al proposito addirittura i nomi di Antonio Damasio e Oliver Sacks.
In realtà il film avrebbe fatto meglio a intitolarsi Outside in, perché non fa altro che “metter dentro ciò che siamo fuori”. Cioè ripete l’antico “errore di Cartesio”, che credeva che a guidare l’uomo fosse un homunculus dentro di lui, fatto a sua immagine e somiglianza in versione miniaturizzata. Il quale, come i protagonisti del film, sta seduto in un “teatro cartesiano” e osserva dal di dentro ciò che il suo principale a grandezza naturale percepisce dal di fuori.
Naturalmente, poiché un homunculus differisce da un homo solo nelle dimensioni, si può immaginare che nella sua testa ci sia un homunculissimus ancora più piccolo che lo osserva e lo dirige, e così via. L’ipotesi porta dunque a un regresso all’infinito, che non ha bisogno delle neuroscienze per essere confutato: basta la logica, in una delle innumerevoli variazioni del paradosso di Achille e la tartaruga.
La filosofia è un segreto di nome Pulcinella
di Melania Mazzucco (la Repubblica, 7.11.2015)
Negli ultimi anni della sua vita, il pittore Giandomenico Tiepolo, che aveva soggiornato nelle corti d’Europa (in Germania e in Spagna) insieme al padre Giambattista, si trasferì nella villa che questi gli aveva lasciato in eredità, nella terraferma veneziana: a Zianigo, presso Mirano. Aveva decorato quella modesta villetta con la massima libertà - che un pittore del XVIII secolo poteva regalarsi solo dipingendo per se stesso. Aveva iniziato affrescando scene vagamente neoclassicheggianti di satiri e centauri, e quindi scene di vita contemporanea. Col Mondo Novo nel portego, la sala grande del pianterreno (1791), si offrì una meditazione sorridente e malinconica sul tempo tumultuoso che stava vivendo. La folla si accalca davanti al baraccone in cui un ciarlatano promette di mostrare le immagini del ‘mondo novo’; egli incombe su di loro, come il burattinaio sulle marionette. Tutti mostrano le spalle agli spettatori, ignari della nostra presenza (e della nostra ironia). Soltanto uno di essi ci guarda: un bambino che in quel mondo novo vivrà.
Ma tre di loro, raffigurati di profilo, sembrano immuni dalle illusioni e dal rumore del mondo: un uomo anziano in cui si è sempre riconosciuto Giambattista Tiepolo, Giandomenico stesso, e Pulcinella. Il pittore manovra il suo occhialino: disorientato, ha bisogno di una lente, ma non rinuncia a capire. Infine (1793-97), Giandomenico affrescò le pareti della stanza di nord est - forse il suo studiolo - con una serie di scene aventi un solo protagonista: Pulcinella, che volle come unico compagno e alter ago dei suoi anni estremi.
Fra il 1797 e la morte, avvenuta nel 1804, Giandomenico creò il Divertimento per li regazzi - un album di disegni in 104 fogli, un “incunabolo del fumetto”, interamente dedicato a Pulcinella. L’enigmatico napoletano di bianco vestito, dal cappello a cono mozzato e dal volto nero a becco di uccello, da quasi due secoli stregava gli spettatori, nobili, borghesi e plebei, di tutta Europa. Ma veniva da ancor più lontano, dalle atellane, dai drammi satireschi. Animato da una irresistibile energia vitale, disponibile a ogni avventura, citrullo per natura e strategia di sopravvivenza, refrattario a ogni autorità, dovere, morale, sempre bastonato e però invincibile, sostanzialmente immortale, il proteiforme Pulcinella era diventato la maschera più popolare del teatro all’italiana. Era comparso in numerose pitture. Lo stesso Tiepolo padre ne era stato ossessionato (disegnandolo per lo più come un gobbo, nano e mostruoso, mentre mangia, digerisce, orina ed evacua). Ma nessuno come Giandomenico ne fece il proprio riflesso spettrale.
Che Pulcinella fosse per lui assai più di una comica maschera di Carnevale lo svela già il frontespizio del Divertimento, quasi blasfema citazione di quello della giovanile raccolta di incisioni La Via Crucis: al sepolcro vuoto di Cristo e alle insegne della Passione, sostituisce il sepolcro vuoto di Pulcinella, e le sue insegne (la pentola, i maccheroni), contemplate da lui stesso. In questo povero Cristo senza miracoli, chino sull’assurdità della propria vita e di quella di tutti, si riconobbe: ne disegnò nascita, crescita, amori, avventure, erranze, lavori, gozzoviglie, morte - facendone lo specchio di ogni esistenza umana.
Alla straordinaria impresa artistica del Divertimento - poco conosciuta, perché sventuratamente smembrata fra troppe collezioni sparse in vari continenti - il filosofo Giorgio Agamben, tra i principali pensatori del nostro tempo, dedica la sua ultima opera: “ilare e scherzevole” ma solo apparentemente meno densa e “laboriosa” delle altre sue. Giacché, come fin dalla prima pagina ci ricorda, la commedia è filosofia: Platone teneva sotto il cuscino i mimi di Sofrone, e la commedia è più antica e profonda della tragedia. Nell’“oscurità dei tempi” in cui a entrambi è stato dato vivere - il pittore veneziano costretto ad assistere alla dissoluzione ingloriosa della Repubblica di Venezia, il filosofo italiano e cosmopolita a quella della nostra e dell’occidente - Pulcinella si rivela l’interlocutore più stimolante per una ricapitolazione, una “sobria meditazione sulla fine”. Non sarà futile notare che entrambi lo scelgono dopo aver valicato la soglia dei settanta anni.
Diviso in quattro scene scandite da corsivi ora autobiografici ora storicizzanti, e da frammenti di un’operetta morale (fulminanti dialoghi in napoletano fra Pulcinella e Tiepolo, ma in realtà fra Pulcinella e Agamben), accompagnato da alcuni disegni dell’album nonché da illustrazioni di altri quadri e ritratti (impaginate con finezza, in modo anti- didascalico, cosa di cui va reso merito anche alla casa editrice Nottetempo), costruito per brevi capitoli e divagazioni dotte che spaziano dall’antropologia al folclore, alla filosofia classica, alla linguistica, alla storia del teatro, dal dettaglio tecnico all’astrazione teoretica, il Divertimento delizierà i lettori abituali del filosofo Agamben, ma forse potrà avvicinargli anche qualcuno dei ‘regazzi’ che ha esitato davanti all’Homo sacer o Nudità. Regazzi si intenda in senso lato - come del resto intendeva Tiepolo: ché il suo album non era dedicato ai bambini, o ai fanciulli, ma agli spiriti liberi dalle costrizioni e dai conformismi.
Il Divertimento di Agamben è insomma una lezione socratica sul significato di una maschera che è insieme singola e solitaria, e plurima come gli angeli e la plebe (una “masnada”, un popolo, una collezione di repliche). Né personaggio né carattere né tipo, Pulcinella è un’idea: «che qualcuno o qualcosa sia irreparabilmente com’è; questo è Pulcinella» (l’idea dell’irreparabile, apparentemente tragica, riflette Agamben, è invece in se stessa comica).
Non sostantivo ma un avverbio: Pulcinella «non è un che ma soltanto un come »; non ha scelto di essere com’è, o di fare qualcosa, non ha volontà alcuna e le sue azioni, lungi dal mirare a un fine, sono insensate, lazzi senz’altro scopo che interrompere l’azione e vanificarla. Perfino il suo corpo, gallinaceo, ornitomorfo, non del tutto umano, cessa ogni rapporto col “logos”. Vivere la propria vita come Pulcinella può solo significare «per ogni uomo - afferrare la propria impossibilità di vivere ».
Tuttavia Agamben ci consegna anche la risposta a una domanda che tutti ci siamo posti. Qual è, alla fine, il segreto di Pulcinella? Non, come l’uso comune del linguaggio induce a credere, la cosa che tutti sanno. Ma che «nella commedia della vita non vi è un segreto, ma solo, in ogni istante, una via d’uscita».
Ma il mondo non l’ abbiamo inventato noi
di BENIAMINO PLACIDO *
Mettiamoci nei panni di un professore che si trovi proprio all’ inizio dell’ anno scolastico. E’ trepidante. Ne ha più di un motivo. Vorrebbe interessare i suoi studenti anche allo studio di cose antiche, remote. E’ pagato (pochino, in verità) per questo. Ma come forzare la resistenza sempre crescente per tutto ciò che non è nuovo, non è "moderno"? Mi immagino che il trepidante nostro insegnante farà così. Siccome conosce l’ interesse dei ragazzi (anche delle ragazze, ormai) per il gioco del calcio, la prenderà alla lontana.
Comincerà ricordando e raccontando la clamorosa finale del primo campionato mondiale di calcio del dopoguerra. Si disputò al Maracanà di Rio de Janeiro il 16 luglio del 1950. Vide di fronte, dinanzi a duecentomila persone, Uruguay e Brasile. Doveva vincere il Brasile. Certo che doveva. Nessuno ne dubitava. Erano più forti di tutti, i brasiliani. Avevano strapazzato tutte le squadre incontrate. Giocolieri strepitosi, erano capaci di portare avanti la palla anche tenendola sulla punta del naso. Può accadere però che il naso te lo devi soffiare. Il pallone allora casca per terra, gli avversari in agguato se ne impadroniscono e lo sbattono nella tua porta: una, due volte. Risultato finale: Uruguay batte Brasile 2-1.
Il Sudamerica ne fu sconvolto. L’ Europa, stupefatta. Il nostro Gianni Brera scrisse una frase memorabile. Che suonava pressappoco così: "Questi (questi giocatori-giocolieri brasiliani) finché rimarranno convinti di averlo inventato loro, il gioco del calcio, non vinceranno mai un campionato del mondo". I brasiliani, mortificati (quando non si erano suicidati) cominciarono a pensarci. Si convinsero che il gioco del calcio era stato inventato e praticato prima di loro anche da altri - inglesi, austriaci, ungheresi - che avevano messo a punto tecniche e tattiche redditizie. Presero ad imitarli. Presero a vincerli anche loro - una, due, tre volte - i loro mondiali di calcio.
Adesso che ha conquistato l’ interesse della classe, il nostro professore può continuare. Dite la verità, cari ragazzi: sarà perché siamo così moderni, e postmoderni, ma anche noi a volte ingenuamente crediamo di averlo inventato noi, il mondo. Non è esatto. Il mondo, con quello che ha per noi di più interessante: le sue coordinate mentali, è stato inventato "anche" da altri, molto tempo fa.
Per esempio: René Descartes, detto Cartesio. Passa per essere il fondatore del pensiero "moderno". Con il suo "cogito" di cui tutti - non è vero? - abbiamo sentito parlare. Io, povero ometto, non sono sicuro di niente. Nemmeno di me stesso, nemmeno della realtà che mi circonda. Potrebbe essere tutta una illusione. Che disperazione. Di una cosa però sono certo: che sto pensando. E se penso, esisto: "Cogito, ergo sum".
Quale rassicurante, meravigliosa scoperta. Ma non è una scoperta tutta sua, di Cartesio. Prima di lui l’ aveva elaborata e messa in scena il commediografo romano Plauto, vissuto almeno diciotto secoli prima. Un commediografo romano, possibile? Ma i romani non erano quei prosaici soldatacci, buoni soltanto a conquistare il mondo, per riempirlo di acquedotti? Sì, ma anche a porsi il problema esistenziale dell’ identità personale. Chi sono io? Ed esisto per davvero?
Come accade a Sosia, protagonista della commedia plautina Anfitrione. Che è uno schiavo. Torna a casa dalla guerra e davanti alla porta di casa sua gli viene incontro (incredibile! mostruoso!) un essere assolutamente identico a lui. Che pretende per di più di esser lui il vero Sosia (si tratta in realtà del dio Mercurio che staziona da quelle parti per tener mano ad una marachella extraconiugale di Giove). Il povero schiavo Sosia è dapprima perplesso. Poi sconcertato. Poi sconvolto: allora, io non esisto, io non sono. Finché non interviene il pensiero risolutore "Sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui". Ma quanto più ci penso, davvero io sono lo stesso che sono sempre stato. Lo so per certo: a questo punto il nostro professore tirerà fuori dalla cartella un libro: Descartes y Plauto di Benjamin Garcia - Hernandez, che è riuscito a far acquistare (ma quanta fatica!) dalla biblioteca della scuola. Un libro spagnolo, recentissimo, dove in 338 pagine si "dimostra" la discendenza dell’ intero sistema filosofico cartesiano dall’ Amphitruo di Tito Maccio Plauto.
Vero è che qualcuno se n’ era già accorto. Se n’ era accorto, e l’ aveva ai suoi tempi segnalato, il nostro Giambattista Vico. Dopo di lui, anche altri. Tra gli altri, il classicista Maurizio Bettini. Il quale, nell’ introduzione all’ Anfitrione (testo latino e traduzione a fronte) pubblicato da Marsilio nel 1991 affronta con rara perizia il personaggio Sosia. Rammenta che ci troviamo di fronte al primo modello di quel "Doppio" che torna poi ininterrottamente nella letteratura europea: in Molière, in Kleist, in Dostoevskij, in Hoffmann, in Stevenson. Persino in un "lied" di Schubert (Der Doppelganger).
Poi, per evitarci di commettere il solito simmetrico errore, di pensare che le cose stanno sempre allo stesso modo, da Romolo e Remo ad oggi, ci mostra anche - con precisione - dove scattano le differenze fra lo schiavo plautino Sosia (in quella situazione sociale, in quella situazione culturale) e le sue reincarnazioni successive. Una cosa comunque è certa. Che il mondo non l’ abbiamo inventato noi. E’ lì da gran tempo. Aspetta solo che ci decidiamo ad osservarlo, con attenzione.
Primo Levi
«Se io fossi Dio» ad Auschwitz
Jean-Claude Milner analizza le tredici righe di «Se questo è un uomo» sulla preghiera di Kuhn, l’ebreo devoto: e le cartesiane ragioni per cui il chimico rigettò quella preghiera
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore - Domenica, 25.1.15)
Tutti i lettori dell’opera di Primo Levi sanno quanto lo scrittore torinese fosse capace di cogliere la potenza del dettaglio. Quanto fosse abile nel riconoscere e nel soppesare anche la più piccola dose di umana o disumana materia dissolta nella massa molare del mondo. Era questa un’arte che il giovane chimico aveva applicato già negli inferi di Auschwitz, e di cui aveva fatto immediato tesoro di ritorno fra i vivi. L’esperienza restituita in Se questo è un uomo va considerata anche un «esperimento mentale» (come lo ha definito Massimo Bucciantini) volto all’identificazione e alla pesatura degli ingredienti costitutivi del campo di sterminio. La narrazione di Se questo è un uomo potrebbe essere letta, al limite, come niente più che un’implacata e implacabile collezione di dettagli antropologici.
Così, giunge opportuna l’inclusione di Levi nel libro che un linguista e filosofo francese, Jean-Claude Milner, ha titolato La puissance du détail. Un intero capitolo del volume è dedicato a un singolo passo di Se questo è un uomo: la mezza pagina di chiusura del capitolo dove si racconta di una «selezione» ad Auschwitz-Monowitz. Le tredici righe di «Ottobre 1944» in cui Levi introduce e congeda - fra gli scampati della sua baracca alla selezione per le camere a gas - la figura di Kuhn.
Secondo Milner queste tredici righe contengono, nella forma breve tipica di Se questo è un uomo, l’alfa e l’omega del giudizio di Primo Levi sulla metafisica dopo Auschwitz. E li contengono a partire da una riflessione che risulta modellata sulle Meditazioni di Cartesio: una meditazione di fine giornata, nel silenzio propizio alla contemplazione di Dio, con il carattere di un ragionamento sillogistico, e con l’assunzione di responsabilità consistente nel ragionare di cose ultime dicendo «io». Senonché l’esito della meditazione di Levi è un Cogito rovesciato. Ha la forza (forza folle, tiene a precisare Milner) di uno sputo metafisico.
Occorrerà - prima o poi - rileggere tutto Primo Levi alla luce dei suoi pronomi personali: cercare un qualche sistema periodico nell’uso leviano dell’«io», del «tu», del «noi», del «voi»... E chi si metterà all’opera dovrà fare i conti, giocoforza, con la mezza pagina sul vecchio Kuhn e con quel periodo ipotetico, «Se io fossi Dio»: con l’impressionante occorrenza di un io che, da Dio consapevole della Soluzione finale, sputa a terra la preghiera dell’ebreo salvato. Per il momento, bisogna contentarsi di seguire Jean-Claude Milner, la sua lettura di tredici righe fra le più impegnative che Levi abbia mai scritto.
Il Dio verso il quale Kuhn eleva dondolante la sua preghiera, per averlo salvato dalla selezione e magari perché torni a salvarlo una prossima volta, corrisponde al prototipo stesso del genio maligno di Cartesio. Il campo di sterminio esclude infatti, ipso facto, un cartesiano «dubbio radicale». Al di qua di ogni possibile dubbio filosofico, Auschwitz esiste. E siccome Auschwitz esiste, il Dio d’Israele non può esistere altro che come grande ingannatore. Kuhn è pazzo a pregare un Dio simile. E Kuhn è cieco a non vedere Beppo il greco. Il quale, nell’interpretazione di Milner, non corrisponde soltanto al prototipo del «sommerso»: l’uomo in dissolvimento, il «mussulmano» che attende inerte di andare in gas. Beppo il greco vale almeno altrettanto da incarnazione stoica, ventenne figura della saggezza.
Nessuno più lontano di Beppo dagli altri greci deportati ad Auschwitz che l’autore di Se questo è un uomo ha evocato, in un capitolo precedente, con toni da epopea: «Ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita». Nella sua immobilità di morituro, Beppo ha la capacità di sopportazione e di astensione di Epitteto. E oltreché una figura stoica, Milner riconosce in lui una figura platonica. Coricato, muto, lo sguardo fisso, Beppo è il Socrate del Fedone. Ma con una differenza decisiva. Ad Atene, la morte di Socrate realizza il compimento della filosofia. Ad Auschwitz, la morte di Beppo nulla garantisce in materia di immortalità dell’anima. «Beppo figura la saggezza amputata del logos».
L’animata preghiera di Kuhn rimanda a una fede ormai possibile unicamente come fede cieca e ipocrita, farisaica: mentre la rassegnata inerzia di Beppo, la sua saggezza ormai priva di pensiero e di linguaggio, conserva almeno la dignità della ragione classica. E anche perciò Levi scrive Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo: perché «lo sterminio colpisce l’umanità attraverso gli ebrei; ma il punto d’umanità che lo sterminio raggiunge attraverso gli ebrei e negli ebrei prende immediatamente il nome di un greco». Insomma: il poco o nulla che resta della ragione di Atene rivela a Levi, nella baracca di Monowitz, tutta la follia di Gerusalemme. Kuhn è pazzo non perché prega, ma perché prega da ebreo. Beppo è saggio non perché attende la morte, ma perché la attende da greco.
Altrettante impressioni e conclusioni - queste di Jean-Claude Milner - che meriteranno di essere attentamente valutate, ed eventualmente criticate da lettori e cultori di Primo Levi. Qui resta da sottolineare l’interesse di una lettura “cartesiana” dell’episodio di Kuhn alla luce di un passo che Milner curiosamente rinuncia a citare, mentre dall’edizione del 1958 se ne sta lì, bene in vista se non ben chiaro, nella primissima pagina di testo di Se questo è un uomo: la descrizione che Levi ha proposto del suo mondo mentale di prima della deportazione, un mondo «popolato da civili fantasmi cartesiani».
Nel 1976, Levi avrebbe spiegato come i suoi fantasmi cartesiani d’ante-Auschwitz andassero intesi quali «sogni e propositi forse mal realizzabili, ma non confusi, bensì razionali e logici». È una definizione che perfettamente si attaglia - in fondo - anche al suo Cogito rovesciato di Monowitz. Al vertiginoso suo periodo ipotetico, «Se io fossi Dio», e al salivare suo rigetto della preghiera di Kuhn.
Arte e filosofia, il grande armistizio
Millenni dopo la condanna di Platone, ora il pensiero si inchina alla pittura
di Bernard-Henry Lévy (Corriere della Sera, 06.06.2013)
Nietzsche è lui. Il Nietzsche di Torino di cui, dieci anni prima di questo quadro, ha ripercorso i passi. Il Nietzsche di Palazzo Carignano e della statua equestre di re Carlo Alberto di cui ha seguito le orme. Poi il Nietzsche greco, il Nietzsche apollino-dionisiaco della Nascita della tragedia.
Il Nietzsche per il quale è sempre stato molto chiaro: che da un lato ci sono «Socrate-e-Platone», la loro malattia, la loro decadenza e, dall’altro, «i filosofi greci», i poeti anteriori a Platone, gli oracoli anteriori a Socrate, che si chiamano Eraclito, Parmenide, Anassagora, Empedocle, Alcmeone di Crotone; e che tanto meno bisogna confonderli in quanto i secondi sono l’antidoto al veleno dei primi, il rimedio da contrapporre, la parola giusta da ritrovare se si vuole guarire l’umanità, come vuole lui, Nietzsche, dal nichilismo che essi le hanno inoculato.
Sono loro, certo, che de Chirico ha rappresentato. Sono i corpi senza volto, perché senza opera realmente accertata (si sa solo, grosso modo, quel che ne riferiscono Aristotele e Platone. È tutto dire!) che anch’egli chiama, senza altra forma di processo, «i» filosofi greci. Sono quei nomi leggendari, necessariamente mascherati perché senza identità certa, e di cui si percepisce bene che, anche per lui, sono enigmatici e tali devono restare.
Cosa fanno? Dove sono? Perché quei corpi in vetro o in trompe l’oeil, issati su trampoli, mal articolati? Si direbbe che hanno la testa fra le nuvole. Hanno i piedi su uno strano pavimento, ma le teste sono altrove, lassù, nella nebbia; è come un vestibolo del cielo, dove già si trovano. Si direbbe anche che si divertano. O addirittura che si torcano dal ridere per il destino di statua che si addice loro così poco? Per il marmo pieghettato con cui li hanno agghindati, loro, i pezzenti, i filosofi da strada e da taverna? O per i cattivi greci, per i greci avvelenati che, come vedono da lassù, gli corrono dietro, e tentano di sfigurarli?
Per fortuna tuttavia, il pittore, una volta incaricato dagli dei, si preoccupa di dare il cambio e di vendicarli.
***
«Alkahest», Anselm Kiefer
Non è più a dio che Kiefer fa concorrenza, è alla geologia. Ma la geologia in atto. Ma la geologia in movimento. Ma una geologia impazzita i cui processi, le generazioni e degenerazioni, gli smottamenti, la formazione delle ondulazioni, dei gessi e degli scisti, i crateri e le cime, le colate di fango o di neve, le eruzioni, i detriti, le furie di solito silenziose, le convulsioni gigantesche, i caos in sospensione e in profondità, fossero stati accelerati. Un’accelerazione resa possibile solo dal fatto che il pittore-geologo fa concorrenza anche - nello stesso tempo e sulla stessa tela - agli alchimisti, cioè a quelli che, con le loro formule sacre, i loro alambicchi e, qui in primo piano, le bilance su cui dosano sale e solfuro, elementi e contro-elementi, poi, più in là, forme e antiforme, hanno fatto concorrenza, durante il Medio Evo in generale e il Medio Evo ebraico in particolare, al dio delle soluzioni e delle dissoluzioni, al dio che guida tutte le cose, al dio che le trasforma e, quando lo fa, le resuscita.
Faust richiama in vita non più Elena e Paride, ma il folle di Sils-Maria, di cui non posso fare a meno di indovinare, nella parte sinistra del quadro, la silhouette. Non contento di trasformare il piombo in oro, o l’oro in argento, egli trasmuta tutti gli elementi, quindi tutti i valori, compreso quello di cui son fatti gli uomini e la cui forza di devastazione barbarica ormai non è, ahimè, da dimostrare.
Il paesaggio è Kiefer, non più le Alpi. È il suo desiderio d’essere montagna. È il suo stesso corpo che geme, ruggisce, vomita il detto maledetto della terra. È il pittore che, allucinato e tragico, demiurgo del mondo e di sé, entra in guerra con la materia o - è la stessa cosa - le fa buttar fuori la sua verità.
Non sono sicuro di sentirmi molto vicino a questa filosofia. Ma è certo che, se Contro-Essere ha un senso, se l’idea di un dire che non dice più la verità ma le succede, ha messo radici da qualche parte, è qui, su questa tela stupefacente che, come quelle di Newman, si avvicina anch’essa al sublime. (traduzione di Daniela Maggioni)
di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 06.06.2013)
PARIGI - Una grande mostra sulle «Avventure della verità»: dal 29 giugno all’11 novembre la Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence illustra il rapporto tra pittura e filosofia nei secoli, da Platone a Anselm Kiefer, attraverso 126 opere scelte da Bernard-Henri Lévy, il commissario dell’esposizione (nella foto sotto).
Dopo l’impegno per la rivoluzione libica l’intellettuale francese ha raccolto la sfida lanciatagli un anno fa dal direttore della fondazione, Olivier Kaeppelin, che gli ha lasciato carta bianca per la tradizionale esposizione estiva. «Un filosofo oggi deve prendere esempio dall’arte e dalla pittura in particolare - sostiene Lévy -. L’arte non è più un semplice fenomeno culturale né, ancora meno, decorativo: non è più un ornamento della verità; è la sua instaurazione radicale, l’apertura all’essenza, all’origine; l’arte si trova al fondamento e alla fine di tutto».
Ogni opera viene accompagnata da un testo di Bernard-Henri Lévy, che ripercorre lo scontro tra pittura e filosofia partendo dalla celebre condanna che Platone fece dell’arte, imitazione della realtà sensibile a sua volta imitazione del mondo delle idee.
Il volume «Les Aventures de la vérité», che esce oggi in Francia co-edito da Fondation Maeght e Grasset, raccoglie quei testi facendoli precedere da una sorta di diario, la testimonianza di come la mostra è stata concepita e via via realizzata con l’aiuto, tra gli altri, di François Pinault, Miuccia Prada, Daniela Ferretti.
Bernard-Henri Lévy ha chiesto a venti grandi artisti contemporanei di leggere, davanti alla telecamera, brani di altrettanti filosofi: i film saranno proiettati durante l’esposizione ma intanto, nel libro, Lévy racconta di quando, per esempio, Jeff Koons ha preteso di leggere Aristotele o come Marina Abramovic, in una sorta di anti-performance, a New York abbia perso d’un tratto la sua abituale sicurezza per intimidirsi di fronte alla lettura di Antonin Artaud.
Alla fine l’impostazione platonica è capovolta, l’arte ritrova tutta la sua centralità. Come già scrisse in La barbarie dal volto umano, oltre trent’anni fa, con la mostra alla Fondation Maeght «Bhl» ripete che di fronte alle tragedie del ventesimo secolo - fascismo, nazismo, Kolyma - «il filosofo deve tacere per lasciare la parola a Guernica, Fritz Lang, Solzenicyn».