NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA NOTA
di Federico La Sala *
(...) non equivochiamo! Qui non siamo sulla via di Damasco, nel senso e nella direzione di Paolo di Tarso, del Papa, e della Gerarchia Cattolico-Romana: “[... ] noi non siamo più sotto un pedagogo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati: 3, 25-28).
Nella presa di distanza, nel porsi sopra tutti e tutte, e nell’arrogarsi il potere di tutoraggio da parte di Paolo, in questo passaggio dal NOI siamo al VOI siete, l’inizio di una storia di sterminate conseguenze, che ha toccato tutti e tutte. Il persecutore accanito dei cristiani, “conquistato da Gesù Cristo”, si pente - a modo suo - e si mette a “correre per conquistarlo” (Filippesi: 3, 12): come Platone (con tutto il carico di positivo e di negativo storico dell’operazione, come ho detto), afferra l’anima della vita evangelica degli apostoli, delle cristiane e dei cristiani, approfittando delle incertezze e dei tentennamenti di Pietro, si fa apostolo (la ‘donazione’ di Pietro) dei pagani e, da cittadino romano, la porta e consegna nelle mani di Roma.
Nasce la Chiesa ... dell’Impero Romano d’Occidente (la ‘donazione’ di Costantino). La persecuzione dei cristiani, prima e degli stessi ebrei dopo deve essere portata fino ai confini della terra e fino alla fine del mondo: tutti e tutte, nella polvere, nel deserto, sotto l’occhio del Paolo di Tarso che ha conquistato l’anima di Gesù Cristo, e la sventola contro il vento come segno della sua vittoria... Tutti e tutte sulla romana croce della morte.
Egli, il vicario di Gesù Cristo, ha vinto: è Cristo stesso, è Dio, è il Dio del deserto... Un cristo-foro dell’imbroglio e della vergogna - con la ‘croce’ in pugno (e non piantata nella roccia del proprio cuore, come indicava Gesù) - comincia a portare la pace cattolico-romana nel mondo. Iniziano le Crociate e la Conquista. Il Dio lo vuole: tutti i popoli della Terra vanno portati nel gelo eterno - questo è il comando dei Papi e dei Concili, cioè delle massime espressioni dell’intelligenza astuta (quella del Dio di Ulisse e della vergine Atena, non del Dio di Giuseppe e di Maria) del Magistero della Chiesa, alle proprie forze armate... fino a Giovanni Paolo II, al suo cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e alla Commissione teologica internazionale, che ha preparato il documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato”.
Uno spirito e un proposito lontano mille miglia, e mille anni prima di Cristo, da quello della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita in Sudafrica nel 1995 da Nelson Mandela, per curare e guarire le ferite del suo popolo. Il motto della Commissione bello, coraggioso, e significativo è stato ed è: “Guariamo la nostra terra”!
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PER LEGGERE L’INTERO TESTO, DA CUI E’ PRESA LA CITAZIONE, VEDI ->: Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp.23-25.
NOTE SUL TEMA:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala (29.01.2013)
L’AZIONE PASTORALE DELLA CHIESA CATTOLICA E IL NATALE DEL 2022: IL CATTOLICESIMO-ROMANO DI COSTANTINO (NICEA 325 d. C) ESISTERA’ ANCORA NEL 2025 d. C.?! *
La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano
di Michele La Rocca (Insula Europea, 15 Dicembre 2022
La Chiesa rivolge la sua attenzione alla pietà popolare in vasti settori della sua azione pastorale, perché come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo. La fissa in rapporto con la Liturgia. Si tratta di due espressioni legittime del culto cristiano, che non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare. Liturgia e Pietà Popolare sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico in cui la seconda è oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima. Un rapporto che va guardato alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium: «I pii esercizi del popolo cristiano siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 13).
Da una parte la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la «Vita» e le sue molteplici espressioni, insomma uno spazio reale e semplice per la vita di preghiera: attraverso i credenti esercizi, infatti, il fedele dialoga veramente con il Signore, con «discorsi» che egli comprende pienamente e che sente propri; parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il cuore, lo spirito, il corpo. La ritualità attraverso cui si esprime è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale. Dall’altra la Liturgia invece, pur centrata sul «Mistero di Cristo» e anamnetica per sua natura, proibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica; non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito. Al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera. La sua stessa ritualità è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.
È importante ricordare cosa suggerisce l’ultimo Concilio ecumenico: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 7).
Un altro aspetto significativo della Pietà Popolare è il pellegrinaggio, simbolo della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: «Il pellegrinaggio è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è un viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata» (Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile, 2015, 14).
La vita dell’uomo nella Bibbia viene presentata come il grande Pellegrino che va alla ricerca dell’uomo e della creazione, fino ad assumere poi in Gesù Cristo la stessa carne della creatura, con cui farà ritorno al Padre. Si parla di un linguaggio semplice e naturale perché i credenti, come tutti gli altri uomini, esprimono il loro sentimento religioso e curano la dimensione della trascendenza. Esso ha un chiaro significato antropologico, descrive e definisce l’essere umano con un’identità definita, in quanto racconta la vita di Cristo e dei cristiani in viaggio verso la casa del Padre, equipaggiati del senso della vita in quanto si sentono amati da Dio.
In passato, raggiungere alcune mete comportava una vita totale: perché partire significava molte volte il non ritorno a causa dei mezzi non potenti, di malattie inguaribili; e questo trasformava il pellegrinaggio in un vero e proprio viaggio verso l’eterno.
L’immagine dell’uomo, che il pellegrinaggio propone, è un ideale rimedio alla rottura antropologica del postmoderno, che spesso descrive l’uomo come un individuo lacerato, senza patria, senza riferimenti e senza prospettiva (Cfr. Z. Bauman, Da pellegrino a turista, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 36 (1995/1) 3-26, qui 13-21); una umanità aperta, labile ma senza progettualità. Invece il pellegrinaggio esprime la totalità della vita cristiana e l’autentica immagine dell’uomo, che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino e il tema del viaggio appartengono non solo alla Bibbia ma al grande tema dell’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori; sono uno dei miti letterari più presenti da Omero con Ulisse, all’inquieto cuore di Agostino.
Come indica la Bolla di indizione del Giubileo, il pellegrinaggio «è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore» (Cfr. L. Pozzoli, L’apostolo e il personaggio-uomo: due nomadi su strade diverse, in AA. VV., Fede e cultura dagli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 1988, 27-55).
Il pellegrinaggio è un evento assai complesso, che abbraccia diversi momenti successivi: «la partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore o in una peculiare benedizione dei pellegrini. L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.
L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.
La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso. La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito; i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 287).
Il momento finale del pellegrinaggio è il «commiato»: essa rivela una forte alleanza tra i presbiteri al servizio del santuario e i pellegrini che incaricano i sacerdoti a continuare la loro lode nel luogo più santo. Non deve mai terminare il contatto con Dio, questo dialogo tra Dio e il popolo. Il pellegrinaggio non è un camminare erratico, senza una meta ben precisa. Il pellegrinare verso chiese, santuari, memorie della nostra fede, luoghi della nostra miseria e della misericordia di Dio ci porta a riconsiderare il ministero della Parola e della nostra fede. Inoltre entrare nel santuario in cui Cristo ha già fatto il suo ingresso fa riscoprire all’uomo la paternità e la maternità di Dio.
Al ritorno, il pellegrinaggio ricalca la discesa da Gerusalemme a Gerico e invita tutti di farsi prossimo dei pellegrini di ogni genere, sostando con loro, mettendo a disposizione anche i propri beni, con amore e affetto. Le differenze non devono dividere ma integrare nel piano di Dio e portare all’unione di tutti gli uomini in un solo corpo che è Cristo stesso. Le diversità sono doni di cui si serve lo Spirito per costruire la casa del Padre. Quando Dio rivolge gli occhi verso il suo popolo: «i cristiani scoprono paternità di Dio; l’illusione mitica che li faceva ricondurre alla terra della patria e credere di essere stati creati in diverse caste è distrutta; essi sanno che sono tutti di una stessa famiglia, e perciò veramente fratelli. La fede demitologizza il mondo, smaschera l’errore razzistico, i dogmi sociali, frutti di menzogna, allontanando gli uomini per condurli alla verità che rende liberi. La fede posseduta in comune, crea nello stesso tempo la comprensione tra gli uomini, continua il miracolo della Pentecoste, trionfa sulla confusione babilonica delle lingue, non, del resto per l’unità esteriore del linguaggio ma per l’unità dello spirito che essa stabilisce» (J. Ratzinger, Fraternitè, in Dictionnaire de Spiritualitè, V, 1159).
Il primo pellegrinaggio di ogni uomo dimora nel rinnovamento del cuore: convertirsi è farsi pellegrini verso sé stessi per ricomprendere la propria vita e la propria identità; è volgersi al proprio cuore «là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (Cfr. 1 Sam 16,7; Ger 17,10), là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 1965 dic. 7: cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in AAS, 58 (1966), 14).
Infatti, «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare i Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio» (S. Gregorio di Nissa, Epist. 81). La conversione è l’invito all’amore e alla fedeltà a colui che resta fedele sempre anche se noi non lo siamo quasi mai e questa è la certezza che Dio non si è stancato di noi.
«Ravvediti» (Cfr. Ap 2,5): un ritornello continuo dello Spirito che è quasi una dichiarazione di amore da parte del Signore nei riguardi di ogni singolo uomo. La prima parola che il Vangelo annuncia è «conversione» perché compito proprio del ministero apostolico è la predicazione nel nome di Gesù della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti (Cfr. Lc 24,47). Anche noi oggi siamo chiamati ad accettare colui che viene e fa «nuove tutte le cose» (Cfr. Ap 2,5), attraverso un confronto e un «dialogo» aperto e coraggioso con Gesù; l’unico che può permettere la conversione: questo passaggio a un essere nuovo, ma non in qualche aspetto o verso l’interiorità, ma il completo rinnovamento. La meta cristiana del pellegrinaggio «non è più un luogo, una città, un tempio, bensì la persona stessa del Maestro e Signore che il pellegrino deve seguire, portando la propria croce, entrando per la propria parte nel mistero della sua Pasqua» (Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, “Venite saliamo sul monte del Signore”, il pellegrinaggio alle soglie del III millennio, nota pastorale, 8).
L’essere cristiani possiamo considerarlo come un invito a superare sé stessi, al cercare di essere sempre gli uni per gli altri, ma soprattutto comporta il seguire il Signore, il mistero della sua Croce che è completamente dedita agli altri e lontana «dall’egoismo dell’io» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Quiriniana, Brescia, 1996, 203).
«Chi vuol venga dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Cfr. Mt 16,24.) Questo è anche il senso del Crocifisso, delle sue braccia spalancate che testimoniano il gesto della preghiera; un senso di abbraccio, di fraternità, di amore, di servizio tra uomini e glorificazione a Dio. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini sembrano diventare «araldi itineranti di Cristo»; perché «pellegrinare» rappresenta, in qualche modo, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina annunciando il Vangelo di salvezza.
* NOTA
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, #FILOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: IN #PRINCIPIO ERA IL #VERBO.
CHI HA VISTO L’ A O ... RISTO? Un omaggio a Salvo Micciché e a Carlo Pulsoni e una nota a margine di un articolo sulla #pietà popolare, sul #pellegrinaggio, apparso su Insula Europea...
#MARIAEGIUSEPPE, #GESÙ, E IL #PRESEPE. MA CHE NATALE è questo #Natale2022, con "La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano" ... e la vita e l’#idea platonica di un "#Gesù" segnato da tragico #androcentrismo e costruito ad uso e strumento della casta sacerdotale? #STORIA E #MEMORIA. "È significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di #Poitiers, 2010).
#APOCALISSE (1,8). Non è il caso e il tempo di riflettere un po’ di più sull’ AO...risto ("Io sono l’Alfa e l’Omega"), sulla delfica #conoscenza di sé, e su #comenasconoibambini? Ricordare che fra pochi giorni inizia il nuovo anno e che #Eleusi, città greca legata alla memoria dei #MisteriElesusini, sarà una delle capitali europea della cultura: #Eleusis2023.
#BUONNATALE E #BUON2023, #BUONANNO
“La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato” di Luciano Canfora
Scritto da Laura Bigoni *
Nel XVIII libro delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, autore ebreo di età romana imperiale (37-100 d.C. ca.), si fa menzione del processo a Gesù:
Queste parole, definite nel corso del tempo Testimonium Flavianum, hanno rappresentato il principale biglietto da visita del loro autore per accedere alla tradizione manoscritta occidentale, in massima parte come sappiamo dovuta a mani cristiane; esse costituiscono però anche un appassionante caso filologico, se non altro per la strana ambiguità che le contraddistingue, se le si pensa (così come ce le trasmettono i manoscritti) nella penna di un intellettuale ebreo. -Nella ristampa del 2018 dell’edizione UTET delle Antichità, a cura di Luigi Moraldi, da cui è tratta la traduzione sopra riportata, il passo è presentato addirittura in copertina al secondo volume, di per sé un riconoscimento della centralità di quelle poche righe all’interno dell’opera di Giuseppe Flavio.
Si tratta però, prevedibilmente, di una centralità acquisita nel corso della tradizione e della sempre più grande fortuna che i padri della Chiesa costruirono attorno a Giuseppe Flavio e al suo Testimonium, decretandone di fatto la diffusione (e la copiatura). Proprio della storia di questa straordinaria fortuna ci fa dono Luciano Canfora nella breve ma densissima indagine dal titolo La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato, recentemente pubblicata per Salerno Editrice.
Il libro è organizzato in diciotto brevi capitoli, preceduti da un’introduzione e seguiti da un epilogo; ciascuno aggiunge un tassello al mosaico della tradizione testuale di Giuseppe Flavio, introducendone via via i protagonisti e i contesti. La struttura rende agevole a chi legge il viaggio tra i meandri di una tradizione testuale fatta di riconoscimenti, di attribuzioni pseudonime, di ritocchi più o meno tendenziosi, ma soprattutto, e fatalmente quando si tratta di testi cui si attribuisce valore religioso, di fazioni.
La storia del testo di Giuseppe Flavio narrataci da Canfora diventa infatti ben presto simile a quella della traduzione greca delle Scritture di Israele detta dei Settanta, campo di battaglia per dispute di natura teologica e oggetto di ripetute canonizzazioni. Secondo la puntuale ricostruzione del libro, infatti, la sopravvivenza delle opere quasi complete dell’autore (ovvero Guerra giudaica, Antichità, Contro Apione e Autobiografia) nella tradizione manoscritta sembra ricollegabile ad una cosciente appropriazione culturale da parte dei pensatori cristiani, fin da Eusebio di Cesarea (260-337 ca.) e Girolamo (347-419 ca.).
Nella temperie dei primi secoli del cristianesimo, apparve infatti vantaggioso che uno storico ebreo, che aveva assistito, dalla parte dei Romani, alla distruzione del Tempio a Gerusalemme, avesse anche solo menzionato Gesù e il suo processo, sebbene nel contesto di una serie di seditiones del tempo di Ponzio Pilato (cf. pp. 76ss.). Segno inequivocabile dell’avvenuta appropriazione è la migrazione del Testimonium all’altra grande opera di Giuseppe, la Guerra giudaica, che si trova in alcuni manoscritti, tra cui il Vossiano greco F 72, oggi conservato a Leiden, in cui il nostro testo è addirittura seguito da una scena di giudizio universale, che fa dunque della vicenda terrena di Gesù una tappa cruciale della storia della salvezza, secondo una visione strettamente cristiana; l’accoppiamento ha poi una vita propria nella tradizione successiva (cf. pp. 51s.).
Parallelamente alla fortuna negli ambienti dell’apologetica cristiana, nel mondo ebraico (come in quello pagano, in cui sempre cercò di inserirsi e di farsi leggere, senza successo) Giuseppe è stato ben presto ridotto al silenzio. Le vicende del testo sono alterne a seconda del contesto politico, ma per i cristiani il Testimonium sembra sempre un asso nella manica, come ad esempio nel periodo di crisi della Chiesa sotto Giuliano l’Apostata, in cui fu agevole forzare la dizione di un passo della Guerra guidaica (VI 250, 288-310) a significare una precisa volontà di Dio dietro la distruzione del Tempio, profetizzata ex post nei Vangeli (cf. pp. 155ss.).
Soffermandosi sul Testimonium e tratteggiando uno status quaestionis, l’autore si chiede come mai non ci si sia mai dedicati troppo alla domanda, per lui al contrario centrale, relativa all’appropriazione culturale operata dai cristiani sul testo di Giuseppe Flavio. Verrebbe da chiedersi se non ci sia forse ancora un impalpabile velo di sostituzionismo latente in questo genere di studi, che scoraggi i tentativi di fare luce su stadi precristiani dei testi poi incardinati nella tradizione della Chiesa. Pur lasciando irrisolta l’aporia a proposito degli studi moderni, Canfora punta il dito sul dato, eclatante per la storia della tradizione, che l’opera in greco di Giuseppe sia giunta intera (a fronte del naufragio di gran parte della letteratura, storiografica e non, in greco classico e postclassico), mentre non è rimasta nessuna traccia delle stesure aramaiche (cf. pp. 35ss.).
Importante è il riconoscimento e lo smascheramento del ruolo della progressiva cristianizzazione del Testimonium, che lo apparenta alla traduzione della Bibbia dei Settanta. Sul paragone l’autore si sofferma considerando un dato tanto ovvio quanto trascurato come l’appropriazione delle Scritture tradotte in greco dai giudei della diaspora ellenistica, che passano così nettamente nell’alveo della Chiesa da prendere il nome di ‘Antico Testamento’, che significa naturalmente un presupposto del Nuovo. Come Giuseppe Flavio perde terreno nella tradizione ebraica e di fatto ne scompare, lo stesso varrà per questa straordinaria impresa traduttoria del mondo antico.
Alla fine del capitolo IX è presentato con chiarezza il cruccio che fu di Ambrogio, ma anche di tutta la tradizione patristica, ovvero fino a quanto la Chiesa potesse permettersi di mostrare una continuità tra la tradizione cristiana e il mondo ebraico. In questo senso stabilire un canone diverso da quello ebraico, nella selezione dei libri sacri, nel loro ordine, nella denominazione e nel numero, fu un graduale ma vincente passo verso l’emancipazione della cristianità dalle sue pur irrinunciabili radici ebraiche[1].
La comunanza di destini che lega due testi molto diversi come le Antichità (e a partire da esse, come si è visto, gli opera omnia di Giuseppe Flavio) e la traduzione della Bibbia è occasione per una riflessione sull’importanza della philologia sacra per il metodo storico-critico. Così si esprimeva Pasquali a proposito della eccessiva divisione del lavoro all’interno della filologia: «La colpa di questa ignoranza [della prefazione di Lachmann al Nuovo Testamento] è, credo, tutta della specializzazione. La metà del secolo XIX fu il tempo dei classicisti puri e dei latinisti puri: chi si occupava di Catullo, sdegnava di leggere e studiare il Nuovo Testamento. E d’altra parte i teologi, anche quelli protestanti, non avevano interesse per le quisquilie della storia dei testi. Tutto questo è una prova di più che nella filologia la specializzazione non può che nuocere»[2].
Naturalmente, il testo di Giuseppe Flavio non è ritenuto sacro da alcuna confessione religiosa, ma si è visto come questo non impedisca alla sua storia testuale di presentare questioni simili a quelle tipiche dei testi religiosi, in quanto molto copiati e diffusi, proprio perché ritenuti oltremodo autorevoli. Un omaggio all’affinamento degli strumenti della philologia profana attraverso quella sacra sembra quindi doveroso (cf. pp. 87s.).
In questo libro, Canfora ha molti meriti: il primo è saper restituire gli ingranaggi di eventi molto lontani come se lontani non fossero, come se appartenessero a un presente senza tempo. Il merito di avvicinare le storie dei testi classici raccontandole per quello che sono, storie umane. E spogliandole così dell’aura di sacralità e intoccabilità che abbiamo progressivamente affibbiato all’antico. Nel suo narrare, assumono un ruolo centrale i recessi, il backstage che viene alla luce grazie alla minuzia filologica, col risultato di restituire un complesso vivo. Nei primi capitoli traccia un profilo dell’autore, sottolineando la tipicità e la concretezza della vita di un transfuga ebreo in epoca romana, il compromesso raggiunto con l’ellenismo e con la dominazione straniera, senza mai rinnegare la fede dei padri, ma tentando di inserirla nella (e legittimarla agli occhi della) cultura dominante. Come ci riferisce nel proemio, Giuseppe scrive «perché ritengo di essere debitore a tutti i Greci, perché - così mi pare - comprenderanno la nostra grande antichità e l’ordinamento politico degli Ebrei» (AJ, I 5). Nei capitoli successivi Canfora scava altrettanto scrupolosamente nelle ragioni dei rappresentanti delle fazioni pro e contra Giuseppe, restituendocene i tratti notevoli.
Un secondo merito è quello di aver sparso tra le pagine più di una lezione di filologia e di metodo, con un taglio divulgativo al punto giusto da essere comprensibile ai non addetti ai lavori, ma anche istruttivo, se non altro come memento, a chi addetto lo è eccome. Sfata, ad esempio, miti come quello del copista capriccioso che cambia il testo a suo (com)piacimento (pp. 42s.), e non lo fa per rendere meno appassionante la lettura di un saggio filologico, quanto per rinfrescare in chi legge l’attitudine al metodo storico-critico come valore inderogabile dello studio quotidiano; come ricorda, con felice espressione, a p. 49, «la via d’uscita è sempre la storia del testo».
In questo quadro credo debbano inserirsi anche le parole sferzanti riservate, spesso in nota ma non solo, ad alcune delle nuove imprese di studio comprensivo dell’antichità e dei suoi autori, in cui si ignora sistematicamente la discussione sei-settecentesca e in generale la storia della disciplina. Per esempio, l’affondo di p. 117 su studi contemporanei che, «purché espressi in inglese», possono dire quel che vogliono, dal momento che il nostro «è un ambito di studi nel quale non costa nulla fare passi indietro», o la desolante conclusione di p. 128: «Bilancio. Anche a seguito della feticistica devozione al monolinguismo anglico, si è andata via via smarrendo la conoscenza dei risultati cui era giunta la grande erudizione dei secoli XVI-XVII (quasi sempre in latino). Di conseguenza si riscrive goffamente e con qualche contributo peggiorativo ciò che era stato già da secoli prospettato e argomentato con ben altra finezza e disciplina critica». In effetti, quella di tornare a leggere la storia di una disciplina come la filologia, che funziona inevitabilmente per accumulazione, è nota importante, in un’epoca che sembra talora perdere l’attenzione per la storia[3]. Anche senza entrare in un discorso troppo generale e perciò troppo generico, occorre fare attenzione alla maniera in cui certe argomentazioni sono già state poste in passato; Canfora porta dunque alla luce del pubblico contemporaneo delle situazioni a loro modo paradigmatiche del mestiere della storia e della critica testuale, considerando uno spettro di fonti davvero ampio e riconoscendo il giusto credito a studiosi che sarebbero altrimenti dimenticati anche in opere di settore.
Oltre che illuminare sul metodo, Canfora ricorda a chi legge anche un dato cruciale della natura dei testi, ovvero la loro intrinseca mobilità (è forse questo che più di ogni altro cardine della filologia dovrebbe essere insegnato). L’autore riporta un breve ma significativo cenno ai tempi moderni, in cui sottolinea il valore costante e universale di questa caratteristica dei testi: «per chiarezza, è bene non dimenticare che una ‘citazione’ può nascere anche da un fraintendimento, o da una notizia di seconda mano, che - nel passaggio da una fonte all’altra - si gonfia e si complica, e magari [...] finisce in una ‘Enciclopedia’ (accade anche in tempi moderni)» (p. 51). Nel mutare continuo dei testi, anche una sola parola può bastare a cambiarne il volto, come nel caso del Testimonium, in cui è stato sufficiente sostituire un ‘era ritenuto’ con un ‘era’ nella frase cruciale «egli era il Cristo» (cf. p. 58). Non è certo la prima né l’ultima volta che un’unica parola è in grado di generare effetti così notevoli; si pensi al filioque dei primi concili cristiani, o al solum aggiunto da Lutero nella sua traduzione della Lettera ai Romani (3,28)[4].
Sebbene questo risulti quasi paradossale, vista la sua smisurata produzione scientifica, Canfora ricorda a chi si occupa di filologia il monito nietzschiano a proposito della lentezza di questa disciplina, per cui il/la filologo/a «non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento»[5]. Proprio nel lento ascolto delle fonti e nell’attento vaglio di ciascuna di esse sta la straordinaria (e forse per alcuni inaspettata) apertura della filologia: una metodologia non dogmatica, che presta attenzione alla pluralità delle fonti e al loro intreccio: lo si vede nel libro, ad esempio nell’uso della tradizione araba (cui è dedicato il cap. VII), o di quella siriaca. Le interazioni sempre più strette con le discipline orientalistiche e con le tradizioni delle lingue semitiche spostano l’orizzonte di quello che siamo abituati a conoscere come il mondo classico, ampliandolo e riformandone il concetto stesso.
L’ultima e forse la più importante delle lezioni che si può trarre dalla conoscenza così approfondita di certe controversie sull’autorità dei testi, fitte di accuse e controaccuse dettate da opportunità di politica religiosa (o culturale in senso ampio), è quella di tentare un affrancamento dalla faziosità, una visione laica, inclusiva e basata sulla profondità storica quando si approcciano testi dalla tradizione così imponente. È insomma quella di provare a sostenere un campo di studi che sproni a lasciarsi questo tipo di controversie finalmente alle spalle.
[1] Cf. J. Mead, The Biblical Canon Lists from Early Christianity. Texts and Analysis, Oxford University Press, Oxford 2018.
[2] G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Le Lettere, Firenze 2015, p. 8.
[3] Recentissimo il volumetto di Adriano Prosperi dall’eloquente titolo Un tempo senza storia. La distruzione del passato (Einaudi, Torino 2021).
[4] Sul primo caso, si veda l’inquadramento di L. Perrone, Da Nicea (325) a Calcedonia (451). I primi quattro concili ecumenici: istituzioni, dottrine, processi di redazione, in G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Queriniana, Brescia 1990, pp. 11-118; sul secondo, basti leggere la luterana Lettera del tradurre, nella versione italiana a cura di E. Bonfatti (Marsilio, Venezia 2001).
[5] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri su pregiudizi morali, trad. it. F. Masini, in B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 329.
* FONTE: PANDORA RIVISTA
Il caso.
Giuseppe Flavio, ambiguo testimone del Cristo
Ci hanno provato in tanti a farne un cripto-cristiano, basandosi su alcuni passi dove sembra porgere la prova dell’esistenza storica di Gesù. Ma in un saggio Luciano Canfora smonta molti pregiudizi
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 8 luglio 2021)
Che ci sia sempre stato, e fin dall’antichità, qualcuno che ha dubitato dell’esistenza di Gesù come personaggio storico, è cosa nota. Del resto, è successo così anche per altri personaggi storici: per Napoleone, ad esempio, che ai bei tempi dell’ipercriticismo storiografico qualche bello spirito in vena di funambolismi comparativistici qualcuno volle far passare come un ’mito solare’.
Per Gesù, poi, le voci dovevano circolare con tanta insistenza che i Padri del Concilio di Nicea, nel 325, credettero bene di metter fine alle chiacchiere annoverandolo nel loro Synbolon (poi divenuto la preghiera del Credo) tra le verità oggetto di dogma. Si continua ancor oggi, peraltro, a discutere sulla storicità della figura del Cristo: argomento al quale è stato dedicato recentemente un tomo di ben 702 pagine, L’invenzione di Gesù di Nazareth, di Fernando Bermejo-Rubio (Bollati Boringhieri). E lo studioso spagnolo, esaminando nel primo capitolo del suo saggio il tema delle fonti storiche disponibili, dedica alcune dense pagine a un passo testuale da secoli considerato ’croce e delizia’ - ma soprattutto ’croce’, ed è il caso di dirlo... - dalla critica.
Si tratta del celebre Testimonium Flavianum, l’insieme di due brevi passi delle Antichità giudaiche (XVIII, 63-64, e XX, 200), nei quali lo storico Giuseppe - che si era denominato ’Flavio’ in omaggio al suo liberatore e patrono, l’imperatore Flavio Vespasiano -, scrivendo naturalmente in greco, accenna a Gesù e lo definisce ’il Cristo’. Personalità straordinaria e discussa, questo Giuseppe. Vissuto fra il 37 e il 103 circa d.C., di famiglia sacerdotale e di tendenze farisaiche, aveva partecipato alla rivolta giudaica del 66 ricoprendo anche funzioni militari importanti. Imprigionato nel 67 dall’imperatore Vespasiano, aveva ricevuto un generoso trattamento, era rimasto in Palestina con Tito, era stato testimone oculare della distruzione del Tempio di Gerusalemme e aveva seguito quindi a Roma il nuovo imperatore.
Giuseppe è (insieme con Filone d’Alessandria, di un paio di generazioni prima) uno dei massimi esempi di quegli ambienti ebraici che si convinsero dell’opportunità della collaborazione con l’impero romano restandone sudditi fedeli. È molto probabile che, nel lungo soggiorno romano coinciso con la seconda parte della sua esistenza, Giuseppe abbia avuto notizia dei nuovi fatti che laceravano sia la comunità degli ebrei restati in Palestina, sia quelli da tempo sparsi per l’impero - ed oltre - e in modo particolare presenti nel Caput Mundi. Il testo di quel passo della sua opera più ampia sembrerebbe una decisa dichiarazione filocristiana. Ma su questo punto è nata una violenta polemica: alcuni hanno accusato il Testimonium di essere un vero e proprio falso, altri vi hanno visto comunque delle infiltrazioni.
Nella secolare polemica sono entrati un po’ tutti: il cardinal Baronio, il dotto calvinista Isaac Casaubon, Edward Gibbon, ovviamente il Voltaire e via dicendo. La pietra dello scandalo non era tanto se davvero Giuseppe Flavio avesse mai nominato Gesù, quanto il fatto che fino dai suoi primi tempi l’intellighenzia cristiana si era impadronita di lui: da Giustino e Minucio Felice a metà del II secolo, fino a Eusebio e quindi, con decisione, a sant’Ambrogio e a san Girolamo, egli era divenuto non solo un testimone sicuro di Gesù ma un cristiano o filocristiano egli stesso.
È stato forse proprio Isaac Casaubon a gettare Luciano Canfora in caccia, sulle tracce di Giuseppe Flavio, della parziale o totale autenticità o meno del Testimonium Flavianum, della legittimità o meno della decisione con la quale gli autori cristiani procedettero al suo arruolamento nelle loro fila. Perché dalla filoromanità al filocristianesimo il passo di un ebreo ellenizzato del I secolo d.C. non è breve e potrebb’essere problematico. E la lettera del Testimonium è di per sé sottilmente ambigua: potrebbe esser letta come un’ovvia attestazione di fede, ma altresì come una tanto dura qualto sottile attestazione anticristiana.
Casuabon è abbastanza noto al grande pubblico in quanto egli e un paio di personaggi con il suo stesso cognome figurano nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, del 1988. Canfora ne aveva fatto il protagonista di uno studio attentissimo e coinvolgente del 2002, Convertire Casuabon (Adelphi, 2002), un vero e proprio ’thriller filologico’ fondato su un articolato tentativo gesuitico di conquistare al campo cattolico il dotto e implacabile erudito calvinista. Può darsi dunque che quel breve ma non brevissimo scritto che un ventennio fa valse a Canfora il ’Premio Capalbio’ sia la radice e l’antefatto di un suo libro recentissimo, La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Salerno, pagine 196, euro 18), che ha l’unico torto di essere stato riduttivamente inserito dall’Editore nella collana ’Piccoli Saggi’. Che un libro di quasi 200 pagine sia, quanto alla sua mole, già ’piccolo’, è discutibile ma accettabile; sul piano della sostanza, però, siamo al livello del Canfora migliore: come filologo rigoroso, come duttile storico capace di spaziare dall’antica Grecia al presente, come polemista lucido e talora perfido e infine - è giusto riconoscerglielo - come scrittore lucido e spesso divertente. Si è detto di lui ch’egli è capace di «trasformare la filologia in spy story e la storia della cultura in appassionante racconto».
Fedeli al suo spirito, ci guarderemo bene dall’assecondare l’odiosa e spregevole pigrizia di quei pessimi lettori di ’gialli’ che vanno subito a sbirciare nelle ultime pagine il nome dell’assassino. Del resto, in questo caso se lo facessero rimarrebbero delusi. Canfora è troppo buon professore per assecondare i vizi degli allievi: e il suo Epilogo - incentrato sulla corrispondenza fra Spinoza ed Heinrich/Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra e ’cristiano-apoca-littico’, è la perfetta conclusione filologica di una spy story: se non si è letto con attenzione il libro, si rischia di fraintenderne le conclusioni. Sine labore, nullum gaudium.
#FILOLOGIA #Storiografia #critica. Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
Papa Francesco: non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO.
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle.
"Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso: "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?", la risposta del Vaticano è: "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale: "È valido il Battesimo conferito con la formula: ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati: "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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Il Vangelo del conflitto
di Alberto Asor Rosa (la Repubblica, 20 gennaio 2016)
Nelle settimane passate è apparso in Italia un testo di Papa Bergoglio, che a me sembra di grande importanza. Si tratta dell’intervento da lui pronunciato a un Congresso internazionale di teologia (da lui stesso voluto e preparato), svoltosi a San Miguel in Argentina dal 2 al 6 settembre 1985, sul tema “Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo”.
L’intervento, nella forma pubblicata da Civiltà cattolica, porta il titolo “Fede in Cristo e Umanesimo”. Ritengo però che il suo vero tema sia più esemplarmente testimoniato da quello del convegno.
Andrò per accenni, limitandomi a segnalare quello che, dal mio punto di vista, spicca per novità e intelligenza del discorso. In effetti, trovo, per cominciare dagli inizi, che ipotizzare questa doppia missione - che è anche un doppio movimento di andata e ritorno per ognuno dei due elementi che lo compongono, e cioè: “evangelizzazione della cultura” e “inculturazione del Vangelo”- significa offrire una visione nuova dei rapporti tra la “fede cristiana” e “il mondo”.
Bergoglio, infatti, non dice: “questa” o “quella cultura”. Dice: “cultura”. A chiarimento della tesi scrive: «Stiamo rivendicando all’incontro tra fede e cultura, nel suo duplice aspetto di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del Vangelo, “un momento sapienziale”, essenzialmente mediatore, che è garanzia sia dell’origine (movimento di creazione) sia della sua pienezza e fine (movimento di rivelazione)». «Un momento sapienziale, essenzialmente mediatore...»: se la traduzione dallo spagnolo in italiano non ha deformato qualche senso, questo vuol dire che tra “fede” e “cultura” si può stabilire un confronto, i cui momenti di reciprocità sono destinati a influenzare sia l’una sia l’altra parte, producendo, attraverso la “mediazione”, un accrescimento di sapere e di conoscenza per tutti.
Bergoglio chiama in causa una parola-concetto tipicamente laica o quanto meno mondana: “mediatore”, mediazione. Tale impressione però si accentua, in misura significativa, nella lettura di un brano seguente, che qui riporto per intero, perché lo trovo denso di parole-concetti sorprendenti: «La base di questo sforzo è sapere che nel compito di evangelizzare le culture e di inculturare il Vangelo è necessaria una santità che non teme il conflitto ed è capace di costanza e pazienza. Innanzi tutto, la santità implica che non si abbia paura del conflitto: implica parresia, come dice San Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo. E questo coraggio ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o di un altro, può condurci al peggiore estremismo che si possa toccare: l’ “estremismo di centro”».
In questo caso, la parola-concetto centrale è: “conflitto”. Si deve ammettere che siamo di fronte a una acquisizione inedita nel campo della cultura cristiano-cattolica. Il termine infatti ricorre nel pensiero e nelle problematiche del pensiero dialettico e sociologico europeo e americano degli ultimi due secoli: da Hegel a Marx, e poi Simmel, von Wiese, Dahrendorf... -Nessun equivalente, almeno della stessa portata, nel pensiero cristiano-cattolico dello stesso periodo, e si capisce perché: la predicazione evangelica sembrerebbe escludere una virata di tale natura.
Ma la sorpresa è destinata persino ad aumentare se si procede nell’analisi del ragionamento. «Affrontare il conflitto», scrive Bergoglio, «per superarl », ma «senza eluderlo»; si misura con «un enorme nemico: la paura». Paura di che? Paura dei possibili estremismi, che dal conflitto possono scaturire. Ma tale paura, se incontrollata, è destinata a condurre «al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”, che vanifica qualsiasi messaggio». L’“estremismo di centro”! -In un paese come l’Italia, spesso arrivato a catastrofiche conclusioni proprio a causa di un sistematico e prevaricante “estremismo di centro”, tale messaggio dovrebbe risultare più comprensibile che altrove. Anche il riferimento alla parresia s’inserisce in questo contesto: solo chi parla alto e libero può vincere la paura.
Quali considerazioni si possono fare su posizioni, di questa natura? Su Bergoglio sono stati scritti molti articoli (bellissimi quelli di Eugenio Scalfari). Pochi, però, si sono soffermati sulla scaturigine storica delle sue prese di posizione, che è inequivocabilmente gesuitica. I gesuiti, nel corso della loro lunga storia, ne hanno combinate di tutti i colori, nella difesa perinde ac cadaver della Chiesa di Roma. E però...
Molti anni or sono ho studiato a lungo la cultura gesuitica del Seicento in Italia. Mi risultò chiaro allora che carattere perspicuo della cultura gesuitica, nei momenti migliori, è sempre stato il tentativo «di operare la saldatura fra cultura laica e cultura ecclesiastica, fra tradizione e rinnovamento... »; e questo su base mondiale.
Se le cose stanno così, la domanda (provvisoriamente) finale di questa ricostruzione è: quale rapporto esiste fra la centralità della parola-concetto “conflitto” e la centralità della parola-concetto “misericordia”, alla quale Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo?
La risposta più semplice è: nessuno. “Misericordia” è parola evangelica, pochissimo usata in ambito laico, come pochissimo “conflitto” in ambito ecclesiale.
Sono passati trent’anni dalla prima formulazione, padre Jorge Mario Bergoglio, divenuto Papa Francesco, ha ripensato radicalmente le sue posizioni, rientrando nell’ambito più tradizionale della cultura ecclesiastica.
Come tutte le soluzioni troppo semplici, anche questa però si presta a un’obiezione di fondo. Una noticina al testo pubblicato da Civiltà cattolica informa infatti che il testo è stato ripresentato «in forma rivista dal Santo Padre». -Questo ci rende lecito pensare che nel pensiero di Papa Francesco “conflitto” e “misericordia” possano stare insieme. Cioè: il prodotto di una cultura laica può stare insieme con il prodotto tipico di una cultura evangelico-cristiana.
Non può esserci “misericordia” se non c’è stato “conflitto”; il “conflitto” è buono, anzi, addirittura indispensabile, se è necessario per superare la paura, e superare la paura è necessario per arrivare alla “misericordia”. Sarebbe troppo pretendere che Bergoglio, divenuto Pontefice, dopo averci additato come il conflitto sia necessario per attivare la misericordia, ci additi come la misericordia sia necessaria per attivare il conflitto, motivo quest’ultimo inesauribile - e positivo, quando c’è - delle azioni umane.
Però la connessione possibile - il prima e il dopo, insomma, che però è anche o può essere anche, un dopo e un prima - almeno a noi laici e non credenti, risulta - credo - ben chiara.
Il papa contro lo «sterco del demonio»
Jean-Michel Dumay, (Le Monde Diplomatique, settembre 2015, pagg. 1 segg. )
(Traduzione dal francese di José F. Padova)
Davanti a un fitto uditorio riunito al Parco delle Esposizioni di Santa-Cruz, la capitale economica della Bolivia, un uomo vestito di bianco fustiga «l’economia che uccide», «il capitale eretto a idolo», «l’ambizione sfrenata del denaro che comanda». In quel 9 luglio il capo della Chiesa cattolica si rivolge non soltanto ai rappresentanti dei movimenti popolari e all’America latina, che l’ha visto nascere, ma al mondo intero, che egli vuole mobilitare per mettere fine a questa «dittatura sottile» dal fetore di «sterco del diavolo» (1).
«Abbiamo bisogno di un cambiamento», proclama il papa Francesco, prima di incitare i giovani, tre giorni dopo in Paraguay, a «mettersi in rivolta». Fin dal 2013, in Brasile, aveva chiesto loro di «essere rivoluzionari, di andare controcorrente». Nel corso dei suoi viaggi il vescovo di Roma diffonde un discorso sempre più incisivo sullo stato del mondo, sul suo degrado ambientale e sociale, con parole molto forti contro il neoliberismo, il tecnocentrismo, in breve, contro un sistema dagli effetti deleteri: uniformazione delle culture, «mondializzazione dell’indifferenza».
In giugno, sempre con questo spirito, Francesco indirizzava alla comunità internazionale un «invito urgente a un nuovo dialogo sul modo in cui costruiamo l’avvenire del Pianeta». Nella sua enciclica Laudato si chiama ognuno, credente o no, a una rivoluzione dei comportamenti e denuncia un «sistema di relazioni commerciali e di proprietà strutturalmente perversi». Un testo «al medesimo tempo caustico e tenero», che «dovrebbe scuotere tutti i lettori non poveri», considera il New York Rewiew of Books (2). In Francia 100.000 esemplari di questo piccolo manuale sono stati venduti in sei settimane (3).
Ecco dunque un Pontefice che assicura che un altro mondo è possibile, non al momento dell’Ultimo Giudizio, ma quaggiù e adesso. Questo papa superstar, nel solco mediatico di Giovanni Paolo II (1978-2005), tronca e divide: beatificato da personaggi ecologisti e critici della globalizzazione (Naomi Klein, Nicolas Hulot, Edgar Morin) per aver «sacralizzato la sfida ecologica» in un «deserto del pensiero» (4), demonizzato dagli ultraliberisti e i clima-scettici, capaci di fare di lui «la persona più pericolosa sul Pianeta», come ne ha fatto la caricatura un polemista della catena televisiva ultraconservatrice americana Fox News.
Le destre cristiane si inquietano nel vedere un papa dai discorsi sinistrorsi e così poco facondo sull’aborto. E gli editorialisti della sinistra laica s’interrogano sulla profondità rivoluzionaria di quest’uomo del Sud, primo papa non europeo dopo il siriano Gregorio III (731-741), che grida allo scandalo davanti al traffico di migranti, chiama in sostegno dei greci respingendo i piani di austerità, chiama «genocidio» un genocidio (quello degli armeni), firma un quasi-concordato con lo Stato della Palestina, appoggia la fronte in segno di preghiera al Muro del Pianto per la barriera di separazione che gli israeliani impongono ai palestinesi e si avvicina a Vladimir Putin sulla questione siriana, mentre in Occidente l’orientamento è per le sanzioni contro la Russia a causa del conflitto ucraino.
«Ha rimesso la Chiesa nel gioco internazionale», ritiene Pierre de Charentenay, ex redattore capo della rivista Études, attualmente specialista in relazioni internazionali presso la rivista romana La Civiltà Cattolica. «Ha anche cambiato la sua immagine. È il campione dei critici della mondializzazione! Accanto a lui Benedetto XVI fa la figura di un bravo ragazzo». Il predecessore, effettivamente, tutto introversione teologica, sempre incline a condannare, appare come un musone guastafeste vicino al misericordioso argentino, piuttosto portato a perdonare. Ma, in fondo, «la sua forza è soprattutto quella d’interrogare l’insieme di un sistema», pensa il padre de Charantenay.
Ecco che cosa dice precisamente questo primo papa gesuita e americano: l’umanità porta la responsabilità del degrado generalizzato e lascia che il sistema capitalista neoliberale distrugga il Pianeta, «la nostra casa comune», seminando le disuguaglianze. Essa deve quindi rompere con un’economia in cui, come dice l’economista - e anch’egli gesuita - Gaël Giraud, «da Adam Smith e David Ricardo in poi la questione etica è esclusa dalla fiction «della mano invisibile» che si ritiene regoli il mercato (5). Essa ha ormai bisogno di una «autorità mondiale», di norme cogenti e soprattutto dell’intelligenza dei popoli, al servizio dei quali è necessario porre d’urgenza l’economia. Perché la soluzione politica si trova nelle loro mani e non in quelle delle élite, sviate dalla «miopia delle logiche del potere».
Per il papa la crisi ambientale è innanzitutto morale, frutto di un’economia disgiunta dall’umano, nella quale si accumulano i debiti: fra ricchi e poveri, fra Nord e Sud, fra giovani e vecchi. Nella quale «tutto si collega»: povertà-esclusione e cultura dello scarto, dittatura del termine-corto e dell’alienazione-consumismo, riscaldamento climatico e glaciazione dei cuori. Così che «un vero approccio ecologico si trasforma sempre in un approccio sociale». Chiamata a reagire, l’umanità deve quindi dotarsi di una «nuova etica delle relazioni internazionali» e di una «solidarietà universale», ciò che il papa Francesco perorerà all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU) il 25 settembre, in occasione del lancio degli Obiettivi del millennio per lo sviluppo.
Certo, si arguirà, tutto questo non è totalmente nuovo. «Francesco s’iscrive con una assai bella continuità nella linea del Concilio Vaticano II (che si è tenuto fra il 1962 e il 1965 e il cui scopo era di aprire la Chiesa al mondo moderno)», constata a Roma, per esempio, Michel Roy, segretario generale della rete umanitaria Caritas Internationalis. Di fatto, il pontefice rimanda al Vangelo, rivisita la dottrina sociale della Chiesa elaborata nell’era industriale e, soprattutto, aggancia queste convinzioni a quelle di Paolo VI (1963-1978), nel quale il padre de Charanteney vede il suo «maestro intellettuale e spirituale».
Primo papa della globalizzazione e dei grandi viaggi intercontinentali, Paolo VI, sulla traccia del riformatore Giovanni XXIII (1958-1963), è colui che ha fatto uscire fisicamente il papato dall’Italia, ha internazionalizzato il collegio dei cardinali, moltiplicato le nunziature (ambasciate della Santa sede) e i rapporti bilaterali con gli Stati (7). È anche colui che ha condotto la Chiesa a superare le sue ristrette competenze di gendarme delle libertà religiose per renderla «solidale con le angosce e le pene dell’intera umanità (8)». Per Paolo VI lo sviluppo era il nuovo nome della pace; una pace intesa non come un dato di fatto, ma come il processo dinamico di una società più umana, aperta su una ricchezza condivisa.
Tuttavia, se anche vi è continuità e perfino, per alcuni, una sorta di realizzazione del grande sconvolgimento cattolico avviato negli anni ’60, è difficile ignorare che il pontefice argentino si distacca nettamente dai suoi predecessori. Anche se essi non erano, neppure loro, avari di discorsi antiliberisti, i pontificati del polacco Giovanni Paolo II e del tedesco Benedetto XVI, questi santi padri del rigore, sono stati segnati dal loro ancoraggio dottrinale. L’ultimo, di Benedetto XVI, inoltre, è stato infangato da qualche «affaire» che l’amministrazione vaticana ha avuto qualche difficoltà a gestire, come lo scandalo VatiLeaks: la diffusione di documenti confidenziali che accusavano l’amministrazione della Santa Sede di corruzione e di favoritismi, in particolare per certi contratti stipulati con imprese italiane.
Due tipi d cause possono essere ipotizzate per l’attuale rinnovamento: le une riguardano il contesto; le altre sono inerenti all’uomo. «Su un piano etico-politico Francesco riempie un vuoto a livello internazionale», constata François Mabille, professore di Scienze politiche al Politecnico di Lilla e specialista della diplomazia pontificia. Egli è il papa del dopo-crisi finanziaria del 2008, come Giovanni Paolo II lo era stato per la crisi del comunismo. «Procedendo a un aggiornamento della dottrina sociale, Francesco introduce un pensiero sistemico, nel quale tutto fa sistema, e occupa con successo la nicchia della sollecitudine contestataria». Vi era urgenza, aggiunge Mabille: «Il tempo della Chiesa non era più quello del mondo. Per Benedetto XVI tutto si svolgeva troppo rapidamente. Era necessario essere nell’anticipazione e non più nella reazione».
Prima di andare a scuotere il mondo, il nuovo papa ha quindi messo sottosopra la sua casa. Adepto di una sobrietà che condivide con Francesco d’Assisi, del quale ha preso il nome, ha instaurato, se così si può dire, un papato «normale», che egli vuole sia esemplare. Ha messo in soffitta gli ultimi attributi onorifici d’abbigliamento della sua funzione e ha stabilito la sua dimora in un bilocale di 70 mq, che ha preferito ai lussuosi appartamenti pontifici. Il papa ama il simbolo e spesso unisce il gesto alla parola, ciò che è ripagante in una società dell’immagine.
Così, con una bonomia che sembra fare di lui il curato del mondo, appare diretto, spontaneo, e chiama gatto un gatto - rischiando qualche deragliamento diplomatico, che poi portavoce e nunzi riescono (o no) a recuperare. Designato dai suoi pari per riformare in profondità la Curia, vale a dire l’apparato dello Stato della Santa Sede, ha elencato senza tanti riguardi i quindici mali che affliggono l’Istituzione, segnata da un clientelismo all’italiana. Fra queste calamità: l’«Alzheimer spirituale» e, al primo posto, l’abitudine a «credersi indispensabili» (9).
Teologia della liberazione non marxista
Per governare, Francesco si è circondato di una guardia ravvicinata di otto prelati radicati sul territorio. Ha avviato commissioni per riformare le finanze e la comunicazione; moltiplicato gli esperti laici per consigliare la sua amministrazione; creato un Tribunale vaticano per giudicare i vescovi che hanno coperto i preti pedofili; nominato un primo gruppo di una quindicina di nuovi cardinali, futuri elettori del suo successore; il prossimo papa sarà scelto mentre lui sarà ancora in vita, come aveva voluto Benedetto XVI per sé stesso. Francesco l’ha ripetuto prima di fare visita a Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador: egli è contro i «leader a vita».
I suoi nuovi ussari porporati il papa li sceglie fra coloro che hanno sgobbato là dove sono aperte le ferite sociali, come ad Agrigento, diocesi della quale fa parte Lampedusa, l’isola dell’emigrazione clandestina. Va a cercarli in Asia, nei profondi spazi dell’Oceano Pacifico, in Africa, in America Latina, affrancandosi così da regole non scritte: fine delle arcidiocesi che meccanicamente avviavano i loro titolari verso l’alta gerarchia romana aumentando il peso dell’Europa nel conclave e, lì dentro, quello dell’Italia (10).
«Questo papa rompe i tabù, dà calci al formicaio, senza prendere troppe precauzioni», constata un diplomatico francese, osservando l’azione pontificale. «Ha capito di essere Capo di Stato. La funzione lo afferra. È pragmatico e molto politico». Tutto questo scolora la Chiesa, perché Francesco «è» la Chiesa, come egli stesso ha ricordato, non senza una maliziosa dolcezza persuasiva di gesuita «un po’ astuto» (così definisce sé stesso), a coloro che si preoccupavano se l’istituzione lo avrebbe seguito.
«Ci si accalca per vederlo!», gongola sull’altra sponda, dal lato delle nunziature, un consigliere pontificio. In due anni più di cento Capi di Stato sono stati ricevuti in Vaticano. Alcuni cercano la sua mediazione: gli Stati Uniti e Cuba, il cui riavvicinamento egli ha reso più facile; la Bolivia e il Cile, si sussurra, per quanto riguarda l’accesso della prima all’Oceano e via via fino all’organizzazione guerrigliera delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) che gli chiedono la sua intercessione quando passerà per Cuba... Così sono i desideri del papa, che fa riaprire a Roma un ufficio di mediazione pontificia. Senza successo garantito: nel giugno 2014 fare pregare insieme, molto mediaticamente, il Presidente palestinese Mahmoud Abbas e il Presidente israeliano Shimon Peres nei giardini del Vaticano non ha impedito i sanguinosi attacchi di Israele si Ghaza, un mese dopo.
Nato in Argentina, Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, «è il primo papa che comprende veramente gli scambi Sud-Sud, in materia di beni materiali o di beni simbolici, religiosi», pensa Sébastien Fath, membro del Gruppo società, religioni, laicità. «Egli sa che predicatori africani sono in rapporti con le Chiese brasiliane, che i gesuiti indiani partono in missione in Africa». È un «latino perfetto... che non parla inglese», completa Roy della Caritas. Nipote di immigrati piemontesi, «fa pensare a un papa europeo che abbia lasciato l’Europa: un’Europa no future!», riprende il nostro diplomatico francese. «Non ha una visione geopolitica del mondo, per essere precisi», afferma Roy. Un mondo che egli d’altra parte conosce poco: Francesco non ha quasi per niente viaggiato prima del papato. «Innanzitutto egli punta il dito contro un sistema, materialista, basato sulla promozione dell’individuo, che distrugge le solidarietà tradizionali e sprofonda i più fragili nella povertà». Per il consigliere pontificio «è un lanciatore di allarmi!».
Un tempo monello dei sobborghi di Buenos Aires, Bergoglio ha tuttavia la sua propria geografia dello spazio: meno un’opposizione fra Sud e Nord che fra un centro e le «periferie», siano esse spaziali (Paesi poveri, sobborghi, bidonville) o esistenziali (popolazioni precarie, esclusi, detenuti, ecc.). In questa visione vi sono tante periferie al Nord e aspetti colonialisti nei circuiti globalizzati ed è lì che egli vuole la sua Chiesa prioritariamente al lavoro.
Bergoglio ha scelto il suo campo: quello della «opzione preferenziale per i poveri» e i «piccoli» che, nei suoi discorsi, come a Santa Cruz, egli affronta personalmente: «straccivendoli», «raccoglitori d’immondizie», «venditori ambulanti», «facchini», «lavoratori esclusi», «contadini minacciati», «indigeni oppressi»», «emigranti perseguitati», «pescatori che possono appena resistere all’asservimento operato dalle grandi corporation»... È un Pastore con slanci missionari molto forti, così si dice. Non un diplomatico. È questo un problema? Per quello vi sono... i diplomatici, pilotati dall’esperto segretario di Stato Pietro Parolin, già uomo di missioni delicate in Venezuela, in Corea del Nord, in Vietnam e in Israele.
Il sinodo sulla famiglia presto concluso
«Il papa è convinto che l’avvenire sia con quelli che stanno sul territorio», riconosce Roy. Il papa diffida delle organizzazioni (cominciando dalla sua!), le cui derive portano, secondo lui, alla sterilità dei discorsi autoreferenziali lontani dalla realtà. Questo fa di lui un dirigente dall’approccio umano e manageriale di grande ascendente, constatano i diplomatici, mentre i suoi predecessori erano totalmente proiettati dal vertice verso la base. «Vi chiedo la vostra preghiera che è la benedizione del popolo per il suo vescovo», ha detto Francesco ai fedeli in piazza San Pietro, invertendo i ruoli, il giorno della sua elezione.
Questo attaccamento alle popolazioni, che gli conferisce accenti populisti (è stato vicino a un gruppo della gioventù peronista (11)), lo ancora concettualmente nella teologia del popolo, un ramo argentino non marxista della Teologia della Liberazione (12). La teologia del popolo: «Un teologia per il popolo e non dal popolo», riassume Pierre de Charentenay per sottolineare la differenza. «Il papa opera una specie di ripresa popolare e culturale della teologia della liberazione». Detto a mezza voce, non è pur meno una riabilitazione. Derivata dall’appropriazione latino-americana del Concilio Vaticano II negli anni ’70, la teologia della liberazione era soffocata da Benedetto XVI e Giovanni Paolo II per il suo approccio marxisteggiante. Nel settembre 2013 Francesco riceveva in udienza privata, a Roma, uno dei suoi illustri fondatori, il padre peruviano Gustavo Gutierrez. Nel marzo 2015 beatificava Mons. Oscar Romero, l’arcivescovo del San Salvador assassinato nel 1980 in piena Messa da militanti di estrema destra. I suoi predecessori non avevano nemmeno avviato l’istruzione della procedura di beatificazione. Secondo Leonardo Boff, uno dei capifila brasiliani del movimento, la visione di Francesco s’iscrive «nella grande eredità della teologia della liberazione». Il suo pontificato potrebbe perfino aprire una «dinastia di papi del terzo mondo» (13).
Ma Bergoglio stona anche perché è un vero capo di chiesa, un papa manager, il primo ad aver concretamente esercitato responsabilità territoriali extra-diocesane a livello nazionale. Dal 2005 al 2011 è stato Presidente della conferenza episcopale argentina (14). Di conseguenza «le truppe [in Vaticano] sono molto meglio organizzate», constata un osservatore romano, «la sua personalità, le sue implicazioni personali, hanno ri-dinamizzato la diplomazia della Santa Sede».
Con la sua direzione Francesco ha fissato una rotta per la sua multinazionale. Abilmente ha dimensionato l’attacco in funzione del bersaglio e attribuisce al suo progetto l’aspetto noto dell’«internazionalismo cattolico» (15): partecipare alla pacificazione delle relazioni fra Stati, promuovere la democrazia, insistere sulle strutture di dialogo internazionale, sulla giustizia per i popoli, il disarmo, il bene comune internazionale, tutti temi che talora conferiscono alla Chiesa cattolica aspetti di pura organizzazione non governativa (ONG). E all’interno, ai suoi colleghi cardinali alla sua elezione, il gesuita argentino ricorda l’essenziale: evangelizzare, certamente. Ma anche fare uscire la Chiesa da sé stessa, dal suo «narcisismo teologico», per andare senza aspettare verso le «periferie» (16).
Alcuni [cardinali] sembrano non aver valutato a chi essi confidavano le Chiavi. Perché per evangelizzare Francesco non brandisce la sua croce come Giovanni Paolo II il quale, fin dal suo primo sermone, passava all’offensiva: «Non abbiate paura! Spalancate le porte al Cristo (...), aprite le frontiere degli Stati, dei sistemi politici ed economici (17)...». Il papa argentino ha un altro senso politico. Egli non esita a fare lavorare la Chiesa con movimenti popolari che sono ben lontani dal condividere la sua fede. Ha compreso che se la Chiesa restasse universale non sarebbe più il centro del mondo - ma tutt’al più una «esperta in umanità», come la presentava Paolo VI.
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[...] CONTINUAZIONE --- Il papa contro lo «sterco del demonio»
Queste nuove inclinazioni non nascondono le difficoltà. Nel Vicino Oriente, dove Francesco nel 2013 lanciava il ritorno della diplomazia vaticana chiedendo la pace in Siria, quando la Francia e gli Stati Uniti volevano staccarsi dal regime di Bashar al-Assad, alla fine la Santa Sede ha dovuto fare marcia indietro di fronte all’urgenza: un anno più tardi egli chiedeva alle Nazioni Unite di «fare di tutto» per contrastare le violenze dello stato Islamico (Daesh), responsabile di «una specie di genocidio in atto» che costringeva i cristiani all’esodo. I fondamentalismi non sanno che farsene del dialogo interreligioso.
Allo stesso modo in Asia, regione percepita come un giacimento per lo sviluppo, la diplomazia vaticana procede con difficoltà. Se le relazioni con il Vietnam stanno rianimandosi, in Cina un’intera corrente cattolica, controllata dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, struttura statale, continua a sfuggire al vescovo di Roma. Certamente Francesco ha fatto di tutto per ammansire il presidente Xi Jinping - evitando in particolare di incontrare il Dalai-Lama - e ha riconosciuto un’ordinazione vescovile avvenuta in luglio a Anyang (provincia dello Henan), ciò che non era accaduto da tre anni ad oggi. Ma la realtà è molto lontana dai sogni missionari: negli ultimi mesi, riferisce l’agenzia Chiese d’Asia, le autorità cinesi hanno fatto distruggere a decine le croci sulle chiese, troppo ostensibili, specialmente nella provincia dello Zhejiang. Infine, in India, l’infima minoranza cattolica (2,3% della popolazione) subisce regolarmente offese ai beni e alle persone.
Per Francesco gli ostacoli non si trovano soltanto in terre lontane non cristiane. Negli Stati Uniti, dove parlerà il 24 settembre davanti al Congresso, il suo tasso di popolarità è calato: dal 76% di opinioni favorevoli in febbraio al 59% in luglio, dopo l’enciclica e il discorso di Santa Cruz, soprattutto presso i repubblicani (45%) (18). Il tono, tanto quanto il fondo, non suona bene. Gli si rimprovera il suo tropismo, la sua scarsa considerazione per quello che il capitalismo ha potuto apportare ai Paesi poveri o per i suoi sermoni che non propongono soluzioni (19). A sinistra si sospetta un’offensiva di fascino per fare passare pillole più amare. Si nota che egli mantiene l’opposizione dottrinale alla contraccezione e non fa evolvere quella relativa all’uso del preservativo in materia di lotta contro l’AIDS. Che elude le conseguenze della demografia incalzante, tanto problematica quanto lo è il consumismo. «La crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale», assicura il papa al contrario. I conservatori, da parte loro, lo rimandano seccamente alle sue competenze teologiche e morali. «Io non mutuo la mia politica economica dai miei vescovi, dal mio cardinale o dal mio papa», ha dichiarato Jeb Bush, candidato repubblicano alla casa Bianca, convertito al cattolicesimo vent’anni fa (20). Il papa non si formalizza: «Non aspettatevi da questo papa una ricetta», «La Chiesa non ha la pretesa (...) di sostituirsi alla politica».
Più generalmente Francesco è atteso sulle questioni della società, sulle quali gli organi vaticani da due anni hanno messo la sordina. Nel 2014 egli ha aperto un vaso di pandora chiedendo ai vescovi, riuniti nel Sinodo, di lavorare sul tema famiglia. I lavori termineranno quest’anno, in ottobre. A più riprese egli è sembrato favorire un’evoluzione sulla questione, molto delicata nell’istituzione, dei divorziati risposati privati della comunione, o ancora sull’omosessualità - il suo risonante «Chi sono io per giudicare?», che tuttavia non gli ha impedito di congelare, in primavera, la procedura di nomina presso la Santa Sede di un nuovo ambasciatore di Francia, il cui orientamento sessuale era stigmatizzato specialmente dalla Curia.
All’interno più d’uno lo attende alla svolta. Egli vuole rompere con il centralismo romano, sviluppare la collegialità, rendere alle conferenze episcopali la loro parte di autorità dottrinale, promuovere l’introduzione della cultura nella liturgia. Di che scompigliare l’unità della sua Chiesa. Ora, egli ha già 78 anni... E la Curia, un universo che gli era ignoto, oppone una bella resistenza. «Vi si rompe i denti», osserva Pierre de Charantenay. «L’aratro si è bloccato in un terreno difficile». Per la famiglia Francesco si appella a «un miracolo». E d’altronde per il momento nulla dice che questo papa che dà fastidio riuscirà.
(1) Le pape reprend ici une expression de l’un des Pères de l’Eglise, Basile de Césarée, un ascétique précurseur du christianisme social.
(2) Bill McKibben, « The Pope and the planet », The New York Review of Books,13 août 2015.
(3) Pape François, Loué sois-tu. Lettre encyclique Laudato si’ sur la maison commune, disponible en France chez plusieurs éditeurs (Bayard, Cerf, Artège, Salvator, etc.), de 3 à 4,50 euros, et gratuitement sur Internet.
(4) « Naomi Klein prend fait et cause pour l’encyclique du pape », 2 juillet 2015 ; « Nicolas Hulot : “Le pape François sacralise l’enjeu écologique” », L’Obs, Paris, 28 juin 2015 ; « Edgar Morin : “L’encyclique Laudato Si’ est peut-être l’acte I d’un appel pour une nouvelle civilisation” », La Croix, Paris, 22 juin 2015.
(5) « Que penser des positions du pape sur l’économie ? », La Croix, 24 juillet 2015.
(6) Paul VI, inspirateur du pape François, Editions Salvator, Paris, à paraître le 24 septembre 2015.
(7) Le nombre des Etats avec lesquels le Saint-Siège entretient des relations est passé de 49 en 1963 à 84 en 1978. Il est actuellement de 180. L’Afghanistan, l’Arabie saoudite, la Chine, la Corée du Nord et le Vietnam comptent parmi la quinzaine de pays avec lesquels il n’en entretient pas.
(8) Philippe Chenaux, Paul VI, Editions du Cerf, Paris, 2015.
(9) « Les quinze maux de la curie, selon le pape François », Le Monde, Paris, 23 décembre 2014.
(10) Sur les 113 cardinaux-électeurs qui ont choisi François en mars 2013, 59 étaient européens dont 28italiens.
(11) Bernadette Sauvaget, Le Monde selon François. Les paradoxes d’un pontificat,Editions du Cerf, Paris, 2014.
(12) Juan Carlos Scannone, Le Pape du peuple. Bergoglio raconté par son confrère théologien, jésuite et argentin, entretiens avec Bernadette Sauvaget, Editions du Cerf, 2015.
(13) « “Mientras viva Ratzinger, no es bueno que Francisco me reciba en Roma” », El País, Madrid, 23 juillet 2013.
(14) Chez les jésuites, il avait été auparavant, entre 1973 et 1978, sous l’ère du général Jorge Rafael Videla, jeune provincial (patron) de la Compagnie de Jésus de son pays. Une polémique, non étayée, l’accuse d’un manque de fermeté vis-à-vis de la dictature.
(15) « L’internationalisme catholique », Diplomatie. Les grands dossiers, n°4, Paris, août-septembre 2011.
(16) Intervention de Jorge Mario Bergoglio devant les congrégations générales précédant le conclave l’ayant élu pape, le 13 mars 2013. Le texte, censé rester secret, a été diffusé quelques mois plus tard, avec l’accord du pape, par le cardinal Jaime Ortega, archevêque de La Havane.
(17) Lire Peter Hebblethwaite, « Le rêve polonais d’une chrétienté restaurée », Le Monde diplomatique, mai 1998.
(18) Sondage Gallup, 22 juillet 2015.
(19) « In fiery speeches, Pope renews critiques on excesses of global capitalism »,International New York Times, Paris, 13 juillet 2015.
(20) « Jeb Bush joins Republican backlash against Pope on climate change », The Guardian, Londres, 17 juin 2015.
Tutto il potere nelle mani di un pescatore
di Vito Mancuso (la Repubblica, 6 febbraio 2013)
Un paradosso incombe su Pietro, sia come personaggio storico sia come figura teologica. A livello storico il paradosso riguarda il fatto che egli è passato alla storia non con il suo nome effettivo (l’ebraico Shimeon, grecizzato nei Vangeli in Simone) ma con il soprannome datogli da Gesù che lo chiamava “roccia”, forse anche un po’ nel senso ironico di “testa dura” come si può dedurre da alcuni episodi evangelici. Ma Gesù parlava aramaico, quindi lo chiamava Kefa, così che è stato solo il greco degli evangelisti a fare di lui “Pietro”.
Abbiamo quindi che un uomo che si chiamava Shimeon è passato alla storia con la versione greca del suo soprannome aramaico. Quanto al personaggio effettivo, sappiamo dai Vangeli che era sposato (Gesù ne guarì la suocera), faceva il pescatore, rivestiva un ruolo speciale tra i discepoli, fu uno dei testimoni della risurrezione.
Dai testi emerge un carattere composito: focoso, perché aggredì con la spada un servo del sommo sacerdote tagliandogli l’orecchio; pavido, perché negò tre volte di conoscere Gesù; sincero, perché subito si vergognò di sé piangendo amaramente. Nell’insieme un emotivo, sanguigno, poco incline alle sfumature.
Dal libro degli Atti apprendiamo che aveva un ruolo di guida nella prima comunità e che non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso il 50 e l’aperta opposizione di Paolo verso di lui ad Antiochia.
Il Nuovo Testamento non fa menzione del suo viaggio a Roma, ma la tradizione parla del suo martirio sotto Nerone verso il 64 sul colle Vaticano, una testimonianza resa ancora più sicura dal fatto che nessun’altra chiesa ha mai rivendicato per sé di essere la sede del martirio di Pietro. Vi sono fondamenti storici per ritenere che la tomba nell’attuale basilica di San Pietro sia autentica, mentre molto meno certe sono le vicende legate al suo soggiorno romano, compresa la scena del Quo vadis? e la crocifissione a testa in giù.
Il paradosso di Pietro in quanto figura teologica consiste nel fatto che egli venne prescelto da Gesù quale fondamento su cui costruire la Chiesa (Matteo16,18: «Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa»), e però lungo la storia le più acute divisioni della Chiesa si ebbero proprio in ordine a Pietro e al suo potere.
Si pensi anzitutto a quelle avvenute nella Chiesa cattolica, per secoli spesso divisa tra papi e antipapi, fino a giungere al cosiddetto scisma di occidente (1378 1417) con ben tre papi regnanti contemporaneamente. Gli antipapi sono stati una quarantina, il primo dei quali, per accrescere il paradosso, è stato anche dichiarato santo (Sant’Ippolito).
Ma le divisioni più dolorose, perché tuttora persistenti, sono quelle che portarono alla lacerazione della cristianità: nel 1054 tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, nel 1517 tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti.
Ebbene, se si va a vedere il motivo principale di queste divisioni, si scopre che esso consiste nell’esercizio del potere papale, e il risultato non cambia se si va a vedere che cosa impedisce oggi la riunificazione delle Chiese, soprattutto tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Quindi quel Pietro che secondo Gesù doveva tenere unita la sua Chiesa, in realtà spesso l’ha divisa e la divide.
Una cosa infatti deve essere chiara: fino a quando il papa successore di Pietro godrà del potere assoluto di cui gode oggi, non vi sarà nessuna possibilità di riunificazione dei cristiani. Ha scritto il gesuita americano John McKenzie, celebre biblista: «Lo sviluppo del potere posseduto dalla Chiesa e da Pietro in una forma di tipo monarchico è estranea alla teologia biblica». Il futuro della cristianità dipenderà da quanto Pietro vorrà tornare a essere fedele a Kefa.
Del "Deus charitas est" (1 Gv., 4.8) o del "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)?!: "Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio, e di quale Dio parlano quando parlano di Dio? La domanda è cruciale. Infatti non è per niente chiaro, non è sempre lo stesso, e sovente non è un Dio innocuo" (Raniero La Valle, "Se questo è un Dio", pag. 9)
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
MESSAGGIO PER LA QUARESIMA
Credere nella carità suscita carità
di Benedetto XVI (Avvenire, 1 febbraio 2013)
Cari fratelli e sorelle,la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.
1. La fede come risposta all’amore di Dio.
Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva... Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un ”comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione - che include tutte le nostre facoltà - alla rivelazione dell’amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo.
L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell’«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore - «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) -, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.
«La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! ... La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce - in fondo l’unica - che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).
2. La carità come vita nella fede
Tutta la vita cristiana è un rispondere all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20). Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).
La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).
3. L’indissolubile intreccio tra fede e carità
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall’attivismo moralista.
L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario.
E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).
In sostanza, tutto parte dall’Amore e tende all’Amore. L’amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l’annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell’Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri. A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10).
Si percepisce qui che tutta l’iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente.
La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.
4. Priorità della fede, primato della carità
Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all’azione dell’unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l’unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell’amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5).
Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l’Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall’umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13).
Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
di Giordano Frosini
in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013
Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.
Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.
Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.
Le tre fasi post-conciliari
Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.
Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».
Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).
Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.
La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.
Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?
Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.
Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.
La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.
La rivolta dei teologi
I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.
Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.
Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».
Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.
Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.
Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.
Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.
Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».
Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.
La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.
«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».
Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.
Il pensiero di Pino Colombo
È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.
Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.
Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.
Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.
Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.
È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.
Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.
Un necessario recupero
Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.
A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.
Noi, cattolici, ci rifiutiamo di condannare “il genere”
di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 27 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Siamo delle cristiane e dei cristiani, fedeli al messaggio del vangelo, e viviamo lealmente questo attaccamento all’interno della Chiesa cattolica. La nostra esperienza professionale, i nostri impegni associativi e le nostre vite di uomini e di donne ci danno la competenza per analizzare le evoluzioni dei rapporti tra gli uomini e le donne nelle società contemporanee, e per discernervi i segni dei tempi.
Abbiamo preso conoscenza delle raccomandazioni del nostro Santo Padre, papa Benedetto XVI, rivolte al Pontificio Consiglio Cor Unum, nelle quali esprime la sua opposizione nei confronti di quella che chiama “la teoria del genere”, mettendola sullo stesso piano delle “ideologie che esaltavano il culto della nazione, della razza, della classe sociale”. Riteniamo questa condanna infondata ed infamante. Il rifiuto che l’accompagna di collaborare con ogni istituzione suscettibile di aderire a questo tipo di pensiero, è ai nostri occhi un errore grave, tanto dal punto di vista del percorso intellettuale che della scelta delle azioni intraprese a servizio del vangelo.
Affermiamo qui, con la massima solennità, che non possiamo aderirvi.
In primo luogo, è sterilizzante. Infatti, nel campo del pensiero, rifiutare di prender conoscenza di certe opere, o di affrontare argomenti con certi partner senza mostrare a priori un atteggiamento benevolo e disponibile al dibattito non è il modo migliore per progredire in direzione della verità.
Che cosa sarebbe successo se Tommaso D’Aquino si fosse astenuto dal leggere Aristotele, con il pretesto che non conosceva il vero Dio e che le sue opere gli erano state trasmesse da traduttori musulmani?
Del resto, sul campo, sapere se si deve o meno collaborare con soggetti animati da idee diverse dalle nostre, è una decisione che può essere presa solo in quel luogo e in quel determinato momento, in funzione delle forze presenti e dell’urgenza della situazione. Cosa sarebbe successo, a proposito della lotta contro il nazismo e il fascismo, se i resistenti cristiani avessero rifiutato di battersi accanto ai comunisti, atei e solidali di un regime criminale?
Veniamo ora al tema in questione: smettiamola di lasciare che si dica che la nozione del genere è una macchina da guerra contro la nostra concezione di umanità. È falso. Essa è frutto di una lotta sociale, e cioè la lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne, che si è sviluppata da circa un secolo, inizialmente nei paesi sviluppati (Stati Uniti d’America ed Europa), e di cui i paesi in via di sviluppo cominciano ora a sentire i frutti. Questa lotta sociale ha stimolato la riflessione di ricercatori in numerose discipline delle scienze umane; queste ricerche non sono terminate, e non costituiscono affatto una “teoria” unica, ma un insieme diversificato e sempre in movimento, che non bisognerebbe ridurre ad alcune sue espressioni più radicali.
Il vero problema non è quindi ciò che si pensa della nozione di genere, ma ciò che si pensa dell’uguaglianza uomo/donna. E, di fatto, la lotta per i diritti delle donne rimette in discussione la concezione tradizionale, patriarcale, opposta all’uguaglianza, dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne nell’umanità.
Nelle società in via di sviluppo in particolare, la situazione delle donne è ancora tragicamente lontana dall’uguaglianza. L’accesso delle donne all’istruzione, alla salute, all’autonomia, al controllo della loro fecondità si scontra con forti resistenze delle società tradizionali. Peggio ancora: in certi luoghi è costantemente minacciato perfino il semplice diritto delle donne alla vita, alla sicurezza e all’integrità fisica.
Non si può, come fa il papa nei suoi interventi a questo proposito, pretendere che si accolga come autentico progresso l’accesso delle donne all’uguaglianza dei diritti, e continuare al contempo a difendere una concezione di umanità in cui la differenza dei sessi implica una differenza di natura e di vocazione tra gli uomini e le donne. C’è in questo una contorsione intellettuale insostenibile.
Come negare infatti che i rapporti uomo/donna siano oggetto di apprendimenti influenzati dal contesto storico e sociale? Pretendere di conoscere assolutamente, e col disprezzo di ogni indagine condotta con le acquisizioni delle scienze sociali, quale parte delle relazioni uomo/donna deve sfuggire all’analisi sociologica e storica, manifesta un blocco del pensiero del tutto ingiustificabile.
Dietro questo blocco del pensiero, sospettiamo un’incapacità a prender posizione nella lotta per i diritti delle donne. Eppure, questa lotta non è forse quella delle oppresse contro la loro oppressione, e il ruolo naturale dei cristiani non è forse quello di rovesciare i potenti dai troni?
Levarsi a priori contro anche solo l’uso della nozione di genere, significa confondere la difesa del Vangelo con quella di un sistema particolare. La Chiesa ha fatto questo errore due secoli e mezzo fa, confondendo difesa della fede e difesa delle istituzioni monarchiche, e più tardi dei privilegi della borghesia.
Rifacendo un errore analogo, ci condanneremmo ad una emarginazione ancora maggiore di quella in cui ci troviamo già attualmente. Come non temere che questa condanna frettolosa sia uno dei tasselli di una crociata antimodernista mirante a demonizzare un’evoluzione contraria alle posizioni acquisite dell’istituzione?
Per questo motivo, con viva preoccupazione, ci appelliamo ai fedeli cattolici, ai preti, ai religiosi e alle religiose, ai diaconi, ai vescovi, affinché evitino alla nostra chiesa questa situazione di impasse intellettuale, e perché sappiano riconoscere, dietro a una disputa di termini, le vere poste in gioco della lotta per i diritti delle donne, e il giusto posto della loro Chiesa in questa lotta evangelica.