[...] Michela Murgia nel nuovo bel libro “Ave Mary” ci ricorda che, nella Mulieris Dignitatem, Giovanni Paolo II, esaltando l’originalità femminile, ha confermato che comunque l’uomo e la donna sono pari in dignità davanti a Dio. Menomale. Questa dignità è intaccata, secondo me non credente, dal modo in cui la Chiesa, negando l’uguaglianza, intende la differenza, che non è quella sostenuta da una parte del femminismo [...]
Vergini, madri martiri o suore
di Natalia Aspesi (la Repubblica/Velvet, n. 56, luglio 2011)
Che uomini e donne siano diversi lo sappiamo, e ne siamo contentissime; però dovrebbe essere scontato che abbiano gli stessi diritti (e doveri), ma in realtà non è ancora così, questo lo sappiamo, sulla nostra pelle.
Michela Murgia nel nuovo bel libro “Ave Mary” ci ricorda che, nella Mulieris Dignitatem, Giovanni Paolo II, esaltando l’originalità femminile, ha confermato che comunque l’uomo e la donna sono pari in dignità davanti a Dio. Menomale. Questa dignità è intaccata, secondo me non credente, dal modo in cui la Chiesa, negando l’uguaglianza, intende la differenza, che non è quella sostenuta da una parte del femminismo.
E’ chiaro che le donne continuano ad essere imbarazzanti, poco gestibili, per la Chiesa, soprattutto per i papi. Non so quante donne, in questo caso credenti, aspirino alla santità, ma se ce ne sono, sappiano che la strada sarà meno ampia che per gli uomini. Per esempio, durante 27 anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha canonizzato 482 persone, di cui 248 laici: fondatori di banche e associazioni caritatevoli, politici, eroici carabinieri e altri beatificati o nominati servi di Dio. Tutti maschi.
Papa Wojtyla, scrive la Murgia, “ha elevato agli altari molte donne, soprattutto martiri, ma anche suore comuni e fondatrici di ordini religiosi. Solo una non aveva preso voti ...”. Gianna Beretta Molla, qualificata dal sito del Vaticano come “madre di famiglia”, santa nel 2004: medico, cattolica praticante come il marito, madre di tre bambini, nel ’61, a 39 anni, durante la quarta gravidanza, le fu riscontrato un voluminoso tumore benigno che richiedeva l’asportazione immediata, il che avrebbe comportato l’interruzione della gravidanza. La signora rifiutò, anche se in un caso come il suo la Chiesa, pur giudicando l’aborto un male, l’avrebbe considerata incolpevole: nacque una bellissima bambina e la madre morì. Esaltando con la canonizzazione il martirio che lasciava un padre solo con quattro figli, si mostrava che la nuova via alla santità femminile era la maternità, soprattutto se costava la vita. Non si conoscono maschi fatti santi per aver accettato di essere padri sino al sacrificio di sé.
Più facile diventare sante in quanto suore, com’è stato per Madre Teresa di Calcutta, cui è stato assegnato il Nobel per la Pace ’79, per aver dedicato la vita ai poveri e agli ultimi del mondo. Quanto alla santità, certo è stata affrettata dalla sua guerra ad aborto, contraccezione, divorzio. Comunque la santificazione femminile privilegia le “morte in verginità”, le donne che, per difendersi dallo stupro, sono state ammazzate. Ovviamente Maria Goretti, non più indicata alle adolescenti come modello, e Antonia Mesina, “martire della purezza”, sedicenne sarda fatta fuori a colpi di pietra dall’assalitore, e altre.
La santità delle donne laiche, e non quella degli uomini, passa insomma attraverso la morte, eventuali opere di bene contano niente.
ANTROPOLOGIA, COSMOLOGIA, E TEOLOGIA. LA LEZIONE E LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ... CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE. IL MESSAGGIO DELLA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA (1608) RITROVATO A CONTURSI TERME (SALERNO). Documenti e materiali sul tema
Il “gendercidio”, punta avanzata della discriminazione sessuale
La denuncia: una strage silenziosa
L’Onu: metà del mondo non è per le donne
I POVERI. In molte nazioni le braccia femminili sono considerate un peso insostenibile
I RICCHI. Anche nell’India avanzata resiste lo stereotipo e muoiono 600 mila bambine l’anno 100 milioni di fantasmi. Sono le donne che mancano all’appello nel mondo secondo una stima (del 1990) del Premio Nobel Amartya Sen
1152 stupri ogni giorno. È l’orrendo primato della Repubblica Democratica del Congo, dopo l’Afghanistan il Paese più pericoloso per le donne
87 per cento di analfabete. Il regime dei talebani ha lasciato un’eredità drammatica: in Afghanistan moltissime donne non sanno leggere né scrivere
134 neonati maschi. Sono i bambini che nascono in Cina ogni 100 bambine: una sproporzione dovuta agli aborti selettivi e al pregiudizio culturale
di Francesca Paxi (La Stampa, 16.06.2011)
Correva l’anno 1985, quando la studiosa americana Mary Anne Warren denunciava, pioniera, i rischi dello sterminio volontario di un genere sessuale nel saggio «Gendercide: The Implications of Sex Selection». È passato un quarto di secolo e lungi dal rivelarsi un’iperbolica previsione, il «gendercidio», punta avanzata della crescente violenza contro le donne, si è trasformato in drammatica attualità. Ieri cinque agenzie dell’Onu hanno firmato a Ginevra una dichiarazione contro l’aborto selettivo delle bambine diffusissimo in Asia sud-orientale, mentre uno studio del Fondazione Thomson Reuters rilascia ora la classifica dei Paesi più pericolosi per la popolazione femminile, uccisa prima o dopo la nascita, socialmente discriminata o marginalizzata fino al silenzio.
È noto che povertà e sottosviluppo non favoriscano le pari opportunità. Con l’87% delle donne analfabete e il 70% costrette a matrimoni combinati, l’Afghanistan guida la lista nera della Fondazione Reuters. Seguono il Congo con l’orrendo primato di 1152 stupri al giorno, il Pakistan degli oltre mille delitti d’onore l’anno, l’India e i suoi 3 milioni di prostitute, il 40% delle quali minorenni, e la Somalia, dove il 95% delle ragazze ha subito mutilazioni genitali. Eppure il benessere economico non sembra serva da antidoto contro la mattanza, che già nel 1990 il Nobel Amartya Sen stimava aver impoverito il mondo di almeno 100 milioni di esseri femminili. Taiwan e Singapore, per dire, sono campioni di crescita, ma mostrano una sproporzione nel numero di fiocchi azzurri che sarebbe biologicamente impossibile senza l’intervento umano.
C’è poi la Cina, dove secondo la Chinese Academy of Sociale Sciences entro il 2020 un uomo su 5 non potrà sposarsi per mancanza di potenziali mogli, decimate dalla selezione «innaturale» che già oggi «produce» 134 neonati ogni 100 neonate. Sbaglierebbe anche chi attribuisse la moria al perdurare atemporale del comunismo o alla famigerata politica del figlio unico. Il fenomeno infatti è in ascesa anche nei Paesi a dir poco allergici all’eredità sovietica, come Armenia, Azerbaijan e Georgia, o nella modernissima India, modello globalmente esaltato di democrazia liberista.
«Crescere una figlia è come innaffiare l’orto del vicino», recita un proverbio indù, alludendo all’inutile investimento sulla prole destinata alla famiglia del futuro marito. Il risultato è che la più grande democrazia della Terra guadagna capacità tecnologica, ma perde ogni anno 600 mila bambine (più esposte a morte precoce perché trascurate). E non conta che dal 1994 il governo abbia bandito l’aborto selettivo: se un tempo la diagnosi prenatale costava 110 dollari e prometteva ai genitori di far risparmiare i 1100 dollari della dote, oggi con 12 dollari lo scanner a ultrasuoni è alla portata dei meno abbienti e più interessati ad allevare braccia maschili. Figurarsi gli altri, benestanti e dunque convinti a riprodursi in modo contenuto e ottimale in termini di benefici futuri. Il tutto con buona pace della legalità.
L’impressione di studiosi come il demografo dell’American Enterprise Institute Nick Eberstadt è dunque che il «gendercidio» abbia poco a che fare con l’arretratezza economica e culturale, ma dipenda piuttosto dall’atavica preferenza per il maschio, dal boom delle famiglie ridotte e dalle tecnologie diagnostiche, una miscela letale di pregiudizi antichi e nuovi bisogni. Qualcuno in realtà comincia già ad invertire la marcia. La Corea del Sud, fino al 1990 assestata su standard cinesi, ha compensato il dislivello maschifemmine con un’impennata di matrimoni misti, che dal 2008 sono oltre l’11% del totale. L’alternativa è l’aggressività macha di città come Pechino, dove negli ultimi 20 anni la delinquenza è raddoppiata, o Mumbai, con gli uomini senza donne responsabili per almeno un decimo dell’aumento dei crimini.
L’emancipazione femminile batte in ritirata? Al ritmo di due passi avanti e uno indietro c’è da sperare. Sebbene la crisi abbia colpito l’occupazione rosa e la violenza domestica avvicini tristemente Oriente e Occidente, un rapporto della Casa Bianca rivela che le donne contemporanee si laureano e brillano nel lavoro più dei maschi. Certo, i loro stipendi sono fermi al 70% di quelli dei colleghi ma gradi e responsabilità combaciano. La sfida è di genere, il pericolo però riguarda tutti: se crolla quella che Mao definiva l’altra metà del cielo è difficile che sotto qualcuno sopravviva.
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“Un aspetto positivo? Ora se ne parla di più”
5 domande a Tiziana Leone demografa
Ricercatrice alla London School of Economics Tiziana Leone ha studiato alla Sapienza di Roma e a Southampton, ha lavorato all’ufficio statistico dell’Onu e dal 2006 è alla London School of Economics
Sembra che il gendercidio sia andato avanti, da quando nel 1990 Amartya Sen denunciava 100 milioni di donne scomparse. È così?
«Purtroppo le proiezioni non sono buone. In India, in particolare, il modello patriarcale un tempo circoscritto alle regioni del nord sembra aver contagiato anche il sud portandosi dietro le sue peggiori conseguenze».
Perché nonostante la globalizzazione del sapere, lo sviluppo economico e la crescente attenzione per i diritti umani, la situazione delle donne in certe zone sta peggiorando?
«La spiegazione è in parte demografica: il fenomeno si è accentuato negli ultimi anni perché la fecondità decresce ma le famiglie continuano a desiderare il fiocco azzurro. Se pianifichi due soli figli invece dei sei di una volta hai meno chance di avere un maschio. Così, oltre all’aborto selettivo, cresce l’infanticidio: nei primi mesi di vita la differenza nella mortalità di bambine e bambini è spaventosa».
Le donne studiano e lavorano di più ma restano vittime della violenza maschile, sia nel mondo povero che in quello “evoluto”. Perché?
«I dati, in realtà, devono essere letti con attenzione. Alcune cose vanno peggio, è vero. Ma l’aumento dell’autonomia, dell’educazione e dell’occupazione femminile significa anche una superiore consapevolezza in termini di diritti che si traduce in maggiori denunce delle violenze subite. Insomma, forse se ne parla di più».
Come si può contrastare la resistenza diffusa del retaggio patriarcale?
«Credo che la cosa migliore sia coinvolgere di più gli uomini, specialmente a livello locale. La legge cambia poco, bisogna intervenire sul piano culturale, sulla mentalità. Il governo di Delhi, per esempio, ha vietato gli aborti selettivi e in tutti gli ospedali ci sono cartelli che lo ricordano. Ma basta una mancia al tecnico di turno perché una strizzata d’occhio riveli il sesso del feto indagato dai macchinari. In alcuni villaggi indiani manca l’acqua ma non lo scanner a ultrasuoni per la diagnostica prenatale».
Cosa caratterizzerebbe un mondo molto meno colorato di rosa?
«Superlavoro per gli psicologi, aumento della violenza e della prostituzione, concorrenza feroce per le mogli. La Cina sta già pagando il prezzo della selezione dei sessi». [FRA.PA.]
Dorothy Day e Merton, lettere sulla Bomba
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 17 giugno 2011)
«In coscienza, sento che non posso, in un momento come questo, continuare a scrivere solo su questioni come la meditazione. Penso di dovermi confrontare con le grandi questioni, le questionidi-vita-e-di-morte». «Il Catholic Worker è parte della mia vita, Dorothy. Sono sicuro che il mondo è pieno di gente che potrebbe dire lo stesso. Se non fosse esistito il Catholic Worker, io non sarei mai entrato nella Chiesa cattolica». A chi appartengono queste parole? E chi era questa Dorothy?
Scriveva così Thomas Merton (1915-1968), il grande monaco trappista americano, convertito al cattolicesimo da posizioni ateiste e marxiste, celeberrimo per il suo libro autobiografico La montagna delle sette balze (Garzanti). E lei era Dorothy Day (1897-1980), la fondatrice del movimento sociale Catholic Worker, da sempre impegnata per i diritti degli ’ultimi’ nelle metropoli statunitensi in nome del Vangelo. Una credente segnata anche dal dramma di un aborto prima della sua stessa conversione, oggi sulla via della santità: l’arcidiocesi di New York anni fa aprì il suo processo di beatificazione.
Due giganti del cattolicesimo yankee, dunque, dei quali oggi si può apprezzare la saldissima intesa, culturale e spirituale, attraverso la rispettiva corrispondenza. Sono numerose le missive che la Day spedì a Merton, ora consultabili nel recente All the Way to Heaven, libro che raccoglie le «selezionate lettere di Dorothy Day», appena uscito negli Usa a cura di Robert Ellsberg (Marquette University Press, pp. 454, $ 35).
Nello scambio epistolare - quelle di Merton si possono dedurre nel bellissimo A Life in Letters (HarperOne, uscito Oltreoceano nel 2008: a quando una traduzione italiana?) - i registri dei due interlocutori sono variegati: la Day punta molto sull’autobiografia, Merton ’vola alto’. «Il 25 luglio andrò a Montreal per fare un ritiro con quanti sono interessati alla famiglia spirituale di Charles de Foucauld - scrive l’attivista di New York a giugno del 1959 - . Sto cercando di entrare sia nel movimento laicale che nella loro associazione. Ma non sono sicura che essi mi vogliano». Per poi comunicare il 22 gennaio 1960: «Ti ho detto che sono una postulante nella Fraternità della Carità di Gesù nella famiglia di Charles de Foucauld? Prega per me».
Alcune confidenze ci mettono al corrente dell’impegno sociale a forte rischio della Day: «Abbiamo già ricevuto due minacce di bombe e sono stata minacciata in pubblico ad un incontro all’Onu» (novembre 1965). Tra i due interlocutori non mancano gli scambi letterari: «Il tuo bellissimo saggio su Pasternak mi ha tenuto sveglia fino alle quattro del mattino», scrive la Day al monaco.
E Merton rilancia (29 dicembre 1965): «Il tuo Catholic Worker per me ha un significato molto importante: lo associo ai domenicani inglesi, a Eric Gill. E a Maritain». L’esponente del Catholic non lesina elogi al trappista scrittore: «Non mi ricordo se ti ho ringraziato per il tuo splendido articolo su Camus [e la Chiesa] che ha avuto vasta ripercussione». La Day nel 1960 paragona Merton a un grande santo dell’Ottocento: «I tuoi scritti hanno raggiunto molte, molte persone e le hanno indirizzate nel loro cammino. Sii sicuro di questo. Questa è l’opera che Dio vuole da te, non importa quanto tu voglia starne lontano. Proprio come il Curato d’Ars».
Saldissimo il legame tra i due, l’uno nel ritiro monastico della sua Abbey of Gethsemani, nel Kentucky, l’altra nel vortice di marce e proteste nella frenetica New York del dopoguerra. Ad esempio, sulla questione della guerra: «Non esiste una singola voce cattolica che si sia sentita nel Paese, eccezion fatta per Dorothy Day del Catholic Worker. Ma chi l’ascolta?», chiede Merton nel 1962 ad un amico. Per poi rincarare, scrivendo all’amica (anno 1961, piena guerra fredda): «Perché questo vergognoso silenzio e apatia da parte dei cattolici, clero, gerarchia, laici, su questa terribile questione della guerra nucleare dalla quale dipende la reale continuazione della razza umana?». Da rilevare, sulla questione della bomba, il ’minimalismo’ della Day, che cita una mistica medievale: «Sulla strategia della guerra nucleare: Giuliana di Norwich diceva che il peggio è già successo ed è stato riparato. Niente di male può mai succederci».
Nel 1963 la Day poi compie un pellegrinaggio ’pacifista’ a Roma, in occasione del Concilio, digiunando - con un gruppo di attiviste - perché i padri del Vaticano II mantengano una posizione anti-militarista. In quell’occasione incontrerà il cardinale Tisserant, già prefetto della Congregazione per le Chiese orientali e autorevole rappresentante di Curia; ma anche il pensatore gandhiano Lanza del Vasto e frère Roger di Taizè. Scriverà all’amico Merton il 15 novembre 1965: «Il Catholic Worker ha sopportato il peso della guerra per 33 anni protestando contro vari conflitti, quello cinogiapponese, la guerra in Etiopia, in Spagna, la seconda guerra mondiale, Corea, Algeria, e ora questa: le bombe accidentali sui villaggi amici [in Vietnam], il napalm sulle nostre stesse truppe. È inevitabile che le proteste aumentino».
LA BATTAGLIA PER LA PARITA’
Settemila donne saudite al volante
Successo della protesta Woman2drive
Velate alla guida di auto
per sfidare il divieto e lottare
per l’emancipazione in un Paese in cui è proibito anche il voto
Finora nessuna è stata arrestata *
ROMA Iniziano a circolare in queste ore sul sito di micro-blogging Twitter le prime testimonianze di donne saudite che, sfidando il divieto di guida in vigore nel regno di Re Abdullah, oggi si sono messe al volante rispondendo all’appello rivolto da "Women2drive". Il gruppo ha lanciato nei giorni scorsi una mobilitazione attraverso i social network per spingere le donne della monarchia del Golfo a mettersi alla guida di un’auto, pratica vietata nel regno dove le donne non possono neppure votare o scegliere il marito. Secondo gli organizzatori, 7 mila donne avrebbero sfidato il divieto mettendosi oggi al volante.
Uno dei primi tweet "targati" Women2drive apparsi sul social network è stato scritto dall’utente "monaeltahawy". «Mona Eltahawy, prima! Siamo appena ritornati dal supermarket, ho deciso di iniziare la giornata guidando fino al negozio». Scrive un’altra utente: «Non ho visto altre donne al volante oggi, comunque io ho guidato per 15 minuti». Su Twitter si riferisce anche di decine di donne al volante sul lungomare di Damman, città dell’Arabia Saudita orientale.
L’iniziativa di oggi nasce anche come segno di solidarietà con l’attrice saudita Wajanat Rahabini, fermata sabato dalla polizia stradale di Gedda perchè guidava. E’ stata portata in commissariato e dopo alcune ore è stata rilasciata mentre la vettura si trova ancora sotto sequestro. L’attrice ha evitato il carcere sostenendo di essere stata costretta a mettersi alla guida a causa del ricovero del marito in ospedale e dell’assenza del suo autista personale.
In settemila, su Facebook, avevano preso l’impegno di partecipare alla protesta, che proseguirà - promette il comitato di "Women2drive" - fin quando le autorità saudite non estenderanno il diritto di guida alla popolazione femminile. Testimonianze e filmati di cittadine saudite che raccontano, con entusiasmo e determinazione, la loro esperienza alla guida stanno intasando i social network.
Al momento, secondo quando riferiscono le protagoniste della disobbedienza civile, la polizia ha chiuso uno o entrambi gli occhi sulle guidatrici, e non ci sono stati fermi. Una donna di Riad racconta su Twitter di aver superato due macchine della sicurezza, mentre accompagnava in auto i figli a scuola, e di non aver avuto alcun problema.
Un vademecum, diffuso nei giorni scorsi, invitava le donne ad usare l’auto solo per le proprie necessità quotidiane, in modo normale, senza strafare o partecipare a cortei. La protesta è dunque molto fluida, diluita. Impossibile da quantificare, così come da verificare, in un Paese immenso e di difficile lettura come è la penisola arabica. Tuttavia il senso di gioia e di liberazione è stato evidente sin dalle prime ore: a notte ancora fonda, 2Nassaf, questo il suo pseudonimo su Youtube, ha messo sul sito di condivisione un filmato che la ritrae coperta dal niqab (velo nero che lascia intravedere solo gli occhi) mentre guida per le strade semideserte di Riad. Safarzo, su Twitter, invita le compatriote ad evitare le provocazioni, mentre Hendny ricorda che la fede e la convinzione in una causa «possono smuovere le montagne».
Molti uomini, tra cui scrittori e intellettuali, si sono schierati al fianco della battaglia femminile. Altri però hanno organizzato siti e blog in cui invitano, in nome di un Islam ultraortodosso, a bloccare la protesta delle donne, anche ricorrendo alla violenza fisica. La battaglia, che per ora non sembra essere scoppiata per le strade, infuria quindi sui social network. Gli integralisti sembrano privilegiare twitter, dove non mettono i loro volti, ma si nascondono dietro l’icona a forma di uovo. Per questo sono stati chiamati per scherno dagli avversari i «saudieggs», le uova saudite.
* La Stampa, 17/06/2011