di Armando Torno (Corriere della Sera, 25 marzo 2011)
Il Cortile dei Gentili è cominciato ieri alle 15 nella sala XI dell’Unesco, a Parigi. Dopo il primo incontro di Bologna, che sotto la torre Eiffel qualcuno ha graziosamente definito apéritif, il dialogo tra credenti e non credenti è stato avviato dai saluti delle autorità («la ragione non riesce a fondare la fraternità», ha detto Getachew Engida, direttore generale aggiunto) ma anche dalle parole del cardinale Gianfranco Ravasi.
Utilizzando un felice tocco di retorica, il porporato ha scelto una parabola per l’esordio di questo progetto destinato a raggiungere ogni parte del mondo. Ravasi, inoltre, cita Goethe, ricorda le frasi dell’apostolo Paolo per descrivere Gesù nell’antico cortile, utilizza Wittgenstein per parlare dell’indagine e dei confini della nostra conoscenza.
Poi si succedono gli ambasciatori del Marocco, della Repubblica Ceca, del Congo, nonché Giuliano Amato, protagonista di un intervento che fa pensare. Evidenzia lo spostamento dei confini del bene e del male che è in atto, sottolinea che la democrazia non è il regno del relativismo ma è basata su valori assoluti, invita a un’alleanza tra credenti e non credenti per ridare senso ai fondamenti morali del vivere. Merita un plauso, tra gli altri, l’intervento di Fabrice Hadjadj, filosofo e scrittore, che rammenta il bisogno di ognuno di elevarsi al cielo; inoltre, con un affondo, paragona il mistero della Parola alla volontà di potenza, invitando a cercare l’uomo non nell’efficienza ma «nell’epifania del suo volto».
Oggi, invece, dopo le credenziali politiche e diplomatiche, il Cortile dei Gentili avrà una giornata parigina intensissima. Alle 9 si comincia alla Sorbona con personalità quali Jean-Luc Marion, Julia Kristeva e, tra gli altri, il genetista Axel Kahn; alle 15 si passa all’Institut de France, dove gli accademici di Francia (tra loro si chiamano «immortali» ) renderanno onore all’iniziativa: da Gabriel de Broglie a Jean Clair, da Claude Dagens a Jean-Claude Casanova.
Alle 19 si terrà al Collège des Bernardins una tavola rotonda, dove Patrick de Carolis animerà un confronto sul progetto globale del Cortile. Intanto, alle 19.30 comincerà davanti a Notre-Dame un’animazione musicale, che lascerà il posto a una proiezione e alle 21 all’intervento su grande schermo di papa Benedetto XVI. Quindici minuti sono previsti per le parole del pontefice. Poi canti gregoriani, video, una danza sul «Cantico dei Cantici» e altro ancora. Sino al silenzio della notte, accolto nella cattedrale dalle meditazioni dei Fratelli di Taizé.
A FREUD, GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
«Fede e umanesimo laico dialogano grazie a Freud»
intervista a Julia Kristeva,
a cura di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 25 marzo 2011)
Il Bisogno di credere: prepolitico, prereligioso. A questo istinto dell’uomo Julia Kristeva ha dedicato un libro (edito in Italia da Donzelli) e l’intervento che pronuncerà questa mattina, alla Sorbona, nella seconda giornata del «Cortile dei Gentili». Uno spazio di dialogo e di confronto tra mondo religioso e intellettuali non credenti, alla ricerca dei valori comuni e della complementarità, dove la grande semiologa «bulgara d’origine, francese di nazionalità, europea di cittadinanza e americana d’adozione» ripercorrerà i grandi momenti dell’umanesimo secondo questa traiettoria: Erasmo, Diderot, Sade, Freud.
«L’opera di Freud - spiega la Kristeva - è la cerniera tra le due frontiere dell’esperienza umana: lo scatenamento delle passioni da una parte e la morale dall’altra. Solo la teoria freudiana permette di coordinare questi due aspetti».
Ormai da qualche anno la moda del tempo, anche e soprattutto tra gli intellettuali non credenti, è demolire l’opera di Freud, accusata di essere una falsa scienza dal Libro nero della psicoanalisi (Fazi) fino agli ultimi saggi di Michel Onfray.
«Sono solo fenomeni mediatici, che non mi interessano. Non vedo come si possa affrontare la questione della religione senza tenere conto di ciò che Sigmund Freud ci insegna sull’essere umano, e cioè che l’homo sapiens è homo religiosus: il bisogno di sapere si traduce in un bisogno di credere, il sapere può decostruire il credere, ma non può esistere senza il credere. Ci siamo abituati ad attaccare l’opera di Freud perché ha detto che le religioni sono un’illusione e questo infastidisce molto gli uomini di fede; è vero, i fenomeni religiosi talvolta portano alla nevrosi se non all’oscurantismo e all’integralismo, ma Freud non si limita a questo. Mostra anche come la psicanalisi sia la sola delle scienze umane in grado di avvicinare il fenomeno religioso in maniera delicata, riconoscendone il radicamento profondo nell’uomo. Penso che il dialogo che cominciamo in questi giorni a Parigi possa avvenire a partire da questo tipo di approccio. Con delicatezza».
Lei come si definisce in rapporto alla religione?
«Mi interessa l’umanesimo, la differenza tra l’umanesimo cristiano e quello dei Lumi, e come quest’ultimo può rispondere alle questioni della nostra epoca, dalla libertà sessuale al ruolo della donna, alle crisi dei giovani e del multiculturalismo. Non si tratta di distruggere la religione, come hanno tentato di fare i totalitarismi, ma neanche di accettarla: serve un lavoro di rivalutazione della memoria».
Questo umanismo è ateo, agnostico o credente?
«Io appartengo alla variante dell’umanesimo dei Lumi: un ateismo in senso sartriano, che è quindi un’"esperienza crudele e di lungo respiro". Cerco di continuare quel lavoro».
Nell’intervento, Julia Kristeva citerà L’esistenzialismo è un umanesimo di Jean-Paul Sartre (Mursia) e la Lettera sull’ «umanismo» di Martin Heidegger (Adelphi).
«Sartre parla molto della libertà, l’esistenza dell’uomo precede l’essenza, ed è una libertà che si conquista con scelte e rischi; dalla parte di Heidegger il problema è più complesso: non si pone né per Dio né contro Dio né nell’indifferentismo, ma cerca di cogliere l’uomo in rapporto al linguaggio. Ma solo Freud riesce a mettere in relazione la follia umana e il bisogno di valori. Come diceva Jung, il credere non può essere cancellato, può essere solo sublimato. Il percorso psicanalitico è in fondo un modo di sublimare questo bisogno di credere».
Julia Kristeva crede molto nell’utilità di spazi di confronto come «Il Cortile dei Gentili», «che non può restare un’occasione isolata». Il suo progetto è creare un’istituzione permanente, un luogo di studio che aiuti a «rispondere al malessere dell’uomo moderno in modo post-religioso, ma tenendo conto dell’apporto delle religioni».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud) *
Un libro su Santa Teresa d’Avila, una serenata in forma di fiction
Lacan e Kristeva come godono i santi
Un’analisi dedicata alla beata spagnola e alla sua estasi. Come interpretare questa forma sublime di rapimento? Perché il sesso non spiega tutto
di NADIA FUSINI (la Repubblica, 27.01.2009) *
Teresa, mon amour è non solo il titolo dell’ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l’attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l’autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura.
E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell’anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l’amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c’è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via.
No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C’è di più. In quell’attacco c’è un vero e proprio passaggio all’ ex-sistenza, un passaggio in quell’"ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi.
In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest’ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave - la vera estasi è la scrittura - non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell’anima.
A dare più brio alla serenata, l’inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E’ meno sensibile alle differenze.
Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all’ espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all’idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l’appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze.
La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d’oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un’altra patria. E di farsi un nome!
In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell’avventura a una spiegazione della vita umana tutta - sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall’estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud)
INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma, detto questo, la studiosa ri-cade nelle braccia dell’autorità paterna (della versione cattolico-romana del cristianesimo ... ancora edipica)
Federico La Sala
IL COLLOQUIO. Parla Monsignor Ravasi: fede e scienza devono allearsi per battere la superficialità del momento
“La tecnica corre troppo e ci cambierà l’anima”
di Elena Dusi (la Repubblica, 25.06.2017)
ROMA. «La tecnologia corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire». Il cardinale Gianfranco Ravasi, 74 anni, teologo, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, non è però uomo che si dia per vinto. Con il “Cortile dei Gentili” e il “Tavolo permanente per il dialogo fra scienza e religione” sta cercando “alleati” fra coloro che hanno ancora fiducia nell’uomo e nel suo pensiero. «Atei, scienziati, persino chi ancora crede nelle ideologie. Non è più tempo di contrapposizioni ma di dialogo». Nell’ultimo incontro del “Tavolo” si è parlato di intelligenza artificiale e del rapporto fra umani e umanoidi.
Perché questo dialogo fra fede e scienza?
«Religione e scienza sono spesso considerati magisteri indipendenti, due rette parallele. E dal punto di vista del metodo è giusto che sia così. Ma condividono lo stesso soggetto e lo stesso oggetto. Non possono non incontrarsi, prima o poi».
Scienza e fede sono due tonalità di una stessa musica?
«La conoscenza del mondo da parte dell’uomo avviene attraverso molti canali: la scienza e la razionalità, ma anche la teologia, l’estetica, l’amore, l’arte, il gioco, il simbolismo, che è poi il primo modo di conoscere che abbiamo da bambini. Perderli o semplificarli vuol dire impoverirsi. E purtroppo è quello che sta avvenendo oggi».
Per colpa della scienza?
«No, per colpa dell’ignoranza. Stiamo vivendo una globalizzazione della cultura contemporanea dominata solo dalla tecnica o dalla pura pratica. C’è, ad esempio, una sovrapproduzione di gadget tecnologici di fronte alla quale non riusciamo a elaborare un atteggiamento critico equilibrato. Ci ritroviamo in un’epoca di bulimia dei mezzi e atrofia dei fini. La formazione scolastica e universitaria si occupa troppo poco degli aspetti relativi all’antropologia generale. Così, l’insegnamento di arte, letteratura, greco e latino, filosofia viene progressivamente ridotto».
Con quali conseguenze?
«Ci ritroviamo spesso appiattiti, schiacciati su un’unica dimensione. Un certo uso della scienza e della tecnologia hanno prodotto in noi un cambiamento che non è solo di superficie. Se imparo a creare robot con qualità umane molto marcate, se sviluppo un’intelligenza artificiale, se intervengo in maniera sostanziale sul sistema nervoso, non sto solo facendo un grande passo avanti tecnologico, in molti casi prezioso a livello terapeutico medico. Sto compiendo anche un vero e proprio salto antropologico, che tocca questioni come libertà, responsabilità, colpa, coscienza e se vogliamo anima».
La scienza corre troppo?
«Non tanto la scienza, quanto la tecnologia: corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire. Per questa via si può finire in una civiltà mediatica e digitale che sta diventando totalizzante. Parliamo di transumanesimo come una delle paure del futuro, ma per certi versi è già iniziato. I nativi digitali sono funzionalmente diversi rispetto agli uomini del passato. Capovolgono spesso sia il rapporto fra reale e virtuale, sia il modo tradizionale di considerare vero e falso. È come se si ritrovassero dentro a un videogioco. Inoltre, l’uomo, che è sempre stato un contemplatore e custode della natura, oggi è diventato una sorta di con-creatore. La biologia sintetica, la creazione di virus e batteri che in natura non esistono sono un’espressione di questa tendenza. Tutte queste operazioni hanno implicazioni etiche e culturali che devono essere considerate».
Scienza e fede come possono collaborare?
«Fra spiritualità e razionalità, tra fede e scienza, può instaurarsi una tensione creativa. Diceva Giovanni Paolo II che la scienza purifica la religione dalla superstizione e la religione purifica la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti».
L’ecologia è un altro terreno di incontro?
«Gli accordi di Parigi sono ora in difficoltà. Anche molti “laici” si riconoscono invece nella Laudato si’ di papa Francesco, che mi pare stia diventando il punto di riferimento della questione ecologica. D’altronde è scritto nei primi passi della Genesi che Dio ha affidato la Terra all’uomo per “coltivarla” ma anche per “custodirla”».
I suoi incontri con i laici ormai proseguono da qualche anno. Qual è il suo bilancio?
«Il fondatore del cristianesimo, Gesù di Nazaret, era un laico, non un sacerdote ebraico. Egli non ha esitato a formulare un principio capitale: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. La contrapposizione fra clericali e anticlericali ormai è sorpassata. Alcuni aspetti della laicità ci accomunano tutti e la teologia ha smesso da tempo di considerare la filosofia e la scienza solo come sue ancelle. I problemi piuttosto sono altri. Semplificazione, indifferenza, banalità, superficialità, stereotipi, luoghi comuni.
Una metafora del filosofo Kierkegaard mi sembra adatta ai tempi di oggi: la nave è finita in mano al cuoco di bordo e ciò che dice il comandante con il suo megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani. È indispensabile riproporre da parte di credenti e non credenti, i grandi valori culturali, spirituali, etici come shock positivo contro la superficialità ora che stiamo vivendo una svolta antropologica e culturale complessa e problematica, ma sicuramente anche esaltante».
Il cortile dei Gentili a casa dei Nobel
di Armando Torno (Corriere della Sera, 10 settembre 2012)
Questa settimana il Cortile dei Gentili - lo spazio di incontri voluto da Bendetto XVI e organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura - riprende a Stoccolma. La capitale svedese ospiterà dibattiti sul tema «Il mondo con o senza Dio?». Sono stati chiamati «duetti», giacché sono dei faccia a faccia tra personalità contrastanti. O forse saranno scontri. E per la bisogna si è messo in campo un argomento chiave che da sempre fa riflettere filosofi e teologi.
Tutto comincerà giovedì 13 settembre all’Accademia reale svedese delle scienze, con i saluti del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e dello scrittore Georg Klein. Poi il primo duetto. Su «Cosa significa credere e non credere?» si contrapporranno Ulf Danielsson (professore di fisica all’Università di Uppsala) e Ingemar Ernberg (biologo, autore del libro Cos’è la vita?); sarà poi la volta dell’incontro «Esiste un mondo non materiale?»: il confronto avverrà tra Antje Jackelén (vescovo della Chiesa di Svezia, diocesi di Lund) e lo scrittore-medico Per Christian Jersild. Tra l’altro, venerdì 14, secondo e ultimo giorno del Cortile svedese, si discuterà «Cosa significa credere e non credere?». Anders Carlberg, scrittore e fondatore del Fryshuset, dibatterà con Linnea Jacobsson, vicepresidente dei Giovani cristiani di sinistra.
Le due giornate svedesi, oltre a evocare una questione sempre aperta, desiderano provocare per meglio far conoscere le ragioni della scienza e le speranze della fede. Inoltre, il Cortile si riunirà in due luoghi simbolo di Stoccolma: l’Accademia, che ha legato il suo nome al Premio Nobel, e il Fryshuset, centro leader di attività sociali, creato per accogliere e soccorrere ragazzi in difficoltà. E tutto questo nell’attesa di Assisi, il 5 e il 6 ottobre, con un Cortile che sarà ricco di sorprese. A Stoccolma non mancheranno scintille parlando di Dio. Ma è bene che sia così. Il cardinale Ravasi ci ha confidato: «A volte la tensione, forse la ferita impediscono la sonnolenza, l’indifferenza, il distacco». Si parla di «ferita» morale. Che, secondo il teologo Ratzinger, genera la bellezza nell’anima.
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SCIENZA, FEDE, E "SIDEREUS NUNCIUS": "VICISTI, GALILAEE"! PER KEPLERO (1611), GALILEO HA VINTO NON SOLO SUL PIANO SCIENTIFICO, MA ANCHE TEOLOGICO E POLITICO!!! COSI’ PER KANT ....
L’ILLUSIONE DI UN VATICANO SENZA MEMORIA: L’ITALIA RIDOTTA A SUO CORTILE! Come se il Galileo della Galilea e Galileo Galilei non fossero mai esistiti! La lettera scritta da Benedetto XVI al presidente Napolitano in occasione del 150° dell’Unità d’Italia commentata da Piero Stefani
(...) L’omissis più macroscopico è però un altro. Si tratta di un nome studiato anche in sede di letteratura italiana. Parliamo, è scontato dirlo, di Galileo, colui che scrisse in italiano quanto fino ad allora era riservato al latino. Per una Chiesa non ipocrita sarebbe stato il primo nome da citare, anche al fine di confutare, attraverso la sincerità, l’uso strumentale fattone da altri. Ciò vale anche per Savonarola e Giordano Bruno (...)
“Il Vaticano porta avanti una strategia di riconquista europea”
intervista a Martine Nouaille, a cura di Amanda Breuer Rivera
in “www.lemondedesreligions.fr” dell’11 marzo 2011
(traduzione: www.finesettimana.org)
Secondo il suo libro “Benedetto roi d’Italie. Chronique d’un pays à l’ombre du Vatican”, il papa domina la politica italiana...
Sì, per una ragione molto semplice, Silvio Berlusconi ha bisogno del Vaticano per conquistare una parte dell’elettorato e non gli rifiuta niente. Per questo, la Chiesa influenza la vita politica italiana negli ambiti che le interessano prioritariamente, cioè sui temi della morale e della bioetica, in nome dei valori superiori del cristianesimo. Per il Vaticano, la vita politica deve ispirarsi ai suoi valori. Ad esempio, il parlamento italiano delibera attualmente una legge mirante a proibire alle persone malate in fin di vita di ricorrere all’eutanasia passiva. Questa legge fa riferimento al caso Eluana del 2008. In stato vegetativo da anni, suo padre voleva lasciarla morire tranquillamente. Ma la Chiesa cattolica vi si è fermamente opposta.
C’è un’influenza crescente della Chiesa cattolica sulla politica italiana?
È difficile dirlo, perché il suo potere è molto legato alla personalità del presidente del Consiglio. Pur essendo in maggioranza cattolica e legittimista con il papa, la società italiana ha un comportamento laico e molto secolarizzato. Niente dovrebbe impedire ai politici di prendere le distanze dall’influenza del Vaticano sulle istituzioni e sui partiti. Eppure, fino ad ora, Silvio Berlusconi ha avuto bisogno del sostegno del Vaticano e ha potuto riceverne un appoggio. Ma questo sostegno comincia a sbriciolarsi a causa della sua vita personale molto contestata.
In Francia esiste una relazione simile tra il potere e il Vaticano?
No, la Francia è un paese laico. Certo, il presidente Nicolas Sarkozy ha affermato che i valori cristiani fanno parte della nostra eredità e ha aggiunto che i preti sono superiore ai maestri. Nonostante tutto, tanto le istituzioni che le mentalità non sono affatto disposte a subire uno stretto rapporto con il Vaticano. L’Italia è un caso particolare per ragioni storiche. Per molto tempo i papi hanno avuto un potere temporale su Roma e si sono opposti fino all’ultimo all’unificazione italiana per conservare questo potere. Dato che l’unificazione è recente, il Vaticano conserva una forte influenza sul paese, ma in Francia non è così. Il Vaticano non ha qui una grande rete e non può imporre la sua legge. Tuttavia i poteri politici possono fargli delle concessioni, come ad esempio sulle leggi di bioetica.
Nel suo libro, lei sviluppa la tesi di una strumentalizzazione della religione da parte di certi regimi democratici. Può chiarire meglio?
Le nostre società liberali, come le conosciamo noi, attualmente non hanno più punti di riferimento culturali ed ideologici. Quindi certi politici, come Silvio Berlusconi o Nicolas Sarkozy, cercano di riempire questo vuoto con riferimenti al religioso. Ma in Francia il religioso non è più un patrimonio comune a tutti. Nicolas Sarkozy ha una concezione della laicità diversa da quella della Chiesa. Se la “sana laicità” del papa è una laicità che riconosce i valori cristiani come valori che devono guidare la società, la “laicità positiva” del presidente assegna alla religione un ruolo di legame sociale e di gendarme ideologico. Tuttavia, quando valorizza le “radici cristiane della Francia”, non si rende conto che questa rivendicazione indebolisce i legami sociali che erano basati sulla “laicità francese”, quella in cui le religioni sono un fatto privato e non devono intervenire nelle scelte politiche in quanto tali.
Quali sono le conseguenze?
Penso che con il dibattito attuale sulla laicità, promosso dall’UMP e da Nicolas Sarkozy, si finisce per offuscare dei riferimenti importanti della vita in società. Non si sa più esattamente che cosa sia la laicità, la separazione tra Chiesa e Stato o la differenza tra ambito privato e ambito pubblico. C’è un certo indebolimento della laicità che è la base della nostra Repubblica.
L’indebolimento della laicità in Francia può essere una porta aperta al Vaticano?
In ogni caso, è l’obiettivo del papa. Sotto la sua influenza, il Vaticano è partito nel tentativo di riconquista spirituale dell’Europa. Non perde la speranza di rimettere in discussione questa laicità alla francese per far avanzare una “sana laicità”. Su scala europea, non ha rinunciato a rimettere in discussione certe leggi adottate attualmente da tutti i paesi democratici sulla morale, sull’unione omosessuale, sul diritto all’aborto, sul diritto di scegliere la propria vita nella dimensione più intima... Quindi anche se il Vaticano ha perso molte anime, continua a voler controllare i corpi.
Con quali mezzi pensa di riconquistare spiritualmente l’Europa?
Secondo l’iniziativa di Benedetto XVI, la riconquista spirituale dell’Europa si farà in parte attraverso il “Cortile dei gentili”. Questo nome si riferisce ad un passo del Vangelo in cui Gesù evoca il cortile del Tempio, luogo di discussione tra gli ebrei e i non ebrei. Il Vaticano vuole dialogare con i non-credenti, ma non con tutti. Secondo loro, non si pone neanche la possibilità di discutere con Michel Onfray, ad esempio. Ma sono pronti a discutere con un certo tipo di non-credenti ad esempio quelli che si interrogano sul vuoto lasciato dalla perdita del religioso. L’iniziativa del “Cortile dei gentili” si svolgerà in Francia alla fine del mese di marzo in tre luoghi emblematici: la Sorbona, l’Unesco, l’Académie Française, il Collège des Bernardins e il sagrato di Notre-Dame. Esiste quindi una strategia di riconquista cattolica. Ma si scontra con una secolarizzazione sempre più importante delle società. Quindi i giochi sono ancora tutti aperti!
(traduzione: www.finesettimana.org)
Martine Nouaille, Benedetto roi d’Italie. Chroniques d’un pays à l’ombre du Vatican (Stock, 2011)
L’identità di Cristo
di Franca D’Agostini (il manifesto, 30 marzo 2011)
Nel pontificato di Benedetto XVI si esprime un preciso disegno politico-culturale, che si annuncia chiaramente, e in tutta onestà, nella prima enciclica papale: la Deus caritas est, del 2006. Qui il pontefice dice senza mezzi termini che la dottrina sociale della Chiesa deve prendere il posto lasciato vuoto dalla koiné marxista; deve cioè sostituirsi al marxismo (un «sogno svanito») nella sua opera di mobilitazione convergente delle coscienze umane. Consapevole di quanto la fine del bipolarismo mondiale e la cosiddetta «crisi delle ideologie» abbiano portato e stiano portando a un nuovo orizzonte politico e ideologico, il papa ipotizza dunque che il messaggio cristiano, di cui la Chiesa è prima autorevole interprete, possa e debba porsi alla testa del mutamento.
La sua fisionomia politica
L’ipotesi sembra rischiosa e nello stesso tempo plausibile. Rischiosa perché potrebbe essere l’inizio di un tipo di teocrazia intellettuale che urta contro tutte le conquiste del pensiero politico moderno. Plausibile perché l’idea del marxismo, o più in generale dei movimenti libertari dell’Ottocento, come forme di secolarizzazione (o realizzazione-dissoluzione) del messaggio cristiano, è ben presente alla nostra memoria culturale. L’intera opera di Benedetto XVI - e prima ancora di Joseph Ratzinger - si colloca in equilibrio su questo discrimine.
Questo papa, che oltre a essere un teologo e un sacerdote è anche, chiaramente, un intellettuale pubblico, sembra aver lavorato soprattutto nella prima direzione. Ma per chiunque sia interessato alle sorti dell’umanità globalizzata, è utile vedere da vicino con quali argomenti si giustifica l’ipotesi. E in questo senso i due libri del papa su Gesù di Nazareth costituiscono un’ottima risorsa, perché affrontano il problema in modo diretto e preliminare, chiedendosi: che cosa ha detto e fatto Gesù? Che significato ha per noi la sua figura?
La politica di Gesù. Il primo libro, uscito nel 2007, riguarda il periodo Dal battesimo alla Trasfigurazione, il secondo, appena uscito (a cura di Pierluca Azzaro, e tradotto da Ingrid Stampa), va Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (Libreria Editrice Vaticana). Questo secondo libro può definirsi decisamente politico.
Il suo tema dominante è la questione della regalità di Gesù Cristo. È questo in effetti il tema centrale dell’ultima fase della vita di Gesù, che incomincia con l’ingresso in Gerusalemme, tra la folla che lo acclama, culmina con il processo e la condanna, precisamente a causa del suo presentarsi come Re d’Israele e Figlio di Dio (bestemmia! urla Caifa, stracciandosi le vesti), e si conclude con il trionfo della Resurrezione.
Benedetto XVI avverte che Gesù separa religione e politica, in precedenza intrecciate, nella prospettiva tradizionale giudaica. Eppure, tutto il testo è destinato a mostrare che in Gesù si esprime una nuova forma di regno e di potere, un nuovo modo di essere giusti e concepire la giustizia, un nuovo tipo di agire pubblico. Dunque tutti gli aspetti del «politico» che riconoscono i filosofi: il potere (Schmitt, Foucault), la giustizia (Rawls), l’agire (Arendt), sono coinvolti.
Il punto è che questi aspetti sono praticati e concepiti da Gesù in modo nuovo. I termini «nuovo», «novità», dominano nel libro. Ma in che cosa consiste, esattamente, la novità? Il papa individua sostanzialmente due categorie-chiave: il sacerdozio, e la verità. Il potere di Gesù è potere sacerdotale, e comporta una speciale (nuova) visione del sacerdozio; il regno di Gesù è il regno (inedito) della verità.
La sua fisionomia rivoluzionaria
Gesù rivoluzionario? Intuitivamente, e al di là di ogni raffinata analisi teologica, si sarebbe portati a dire che la novità di Gesù consiste nel «rovesciamento» per cui si afferma il primato dei deboli, degli umili, dei poveri e degli oppressi (ciò di cui si lamentava appunto Nietzsche). La concezione cristiana della giustizia si presenta subito, nelle parole della più tranquilla tra i personaggi evangelici: Maria. Nel Magnificat appare con chiarezza un Dio che «rovescia i potenti dai troni», e «innalza gli umili», che «ricolma di beni gli affamati» e «rimanda a mani vuote i ricchi». E tutto ilseguito della narrazione conferma questa intuizione preliminare.
In ciò effettivamente il cristianesimo potrebbe facilmente sostituirsi al «sogno svanito» del marxismo, o forse correggerlo e integrarlo: è l’intuizione di Simone Weil, e di molti altri. Ma non è questa la via intrapresa dal Papa. Il tema di Gesù difensore dei poveri e dei perseguitati non è del tutto assente nell’analisi di Benedetto XVI. Però, insistendo in questa direzione, il Papa avrebbe dovuto sposare la causa delle teologie politiche, specie quelle della liberazione, o quelle femministe. Perciò, tanto nel precedente volume quanto nel secondo, l’autore ha una cura del tutto speciale non nel discutere, ma piuttosto nel disattivare e attenuare una simile ipotesi interpretativa.
In questo nuovo volume i conti con le teologie libertarie vengono fatti rapidamente, nella riflessione sulla «purificazione del Tempio», quando Gesù adirato rovescia i tavoli dei cambiamonete. Qui il Papa scrive che sì, il gesto di Gesù esprime uno zelo speciale, ma l’idea del riscatto promesso da Gesù così come è concepito dalle «teologie della rivoluzione» equivale all’idea di una legittimazione della violenza «come mezzo per instaurare un mondo migliore»; ed è pertanto inaccettabile nella luce del messaggio evangelico.
In realtà, non è necessario legittimare la violenza per riconoscere che l’integrità di Gesù indica agli esseri umani un modo preciso di essere giusti, e di promuovere la giustizia. Ma per Benedetto XVI questo e altri gesti fanno di Gesù non un rivoluzionario, né un «rovesciatore» di ordini e gerarchie, ma piuttosto un Sommo Sacerdote di un tipo particolare.
La chiave interpretativa del «sacerdozio» di Gesù è una costante in tutto il testo. Gesù è un sacerdote di tipo nuovo, che è venuto per servire, e non per essere servito, che compie la sua opera nel sacrificio di se stesso (in tal modo ponendo fine alla consuetudine dei sacrifici animali), e facendosi tramite della verità. Il suo zelo è amore per il Tempio, la casa di suo padre. Evidentemente questa prospettiva permette al Papa di allacciare meglio il Nuovo Testamento all’Antico, enfatizzando la continuità del Cristianesimo con l’ebraismo. Ma gli permette anche di minimizzare un aspetto che è altrimenti evidentissimo: l’anticlericalismo di Gesù, un altro dato ben noto, e inequivocabile.
In modo insistente, Gesù manifesta una netta e sistematica avversione per le gerarchie ecclesiastiche («guai a voi scribi e farisei!»), e proprio da queste viene condannato e ucciso. Prevede lui stesso che «dovrà soffrire molto» a causa degli «anziani, degli scribi, dei sacerdoti». E non è un caso che il suo unico e solo gesto violento siano proprio quei tavoli rovesciati, contro la corruzione del Tempio. Se davvero Gesù di Nazareth è da vedersi come un sacerdote di un genere particolare, allora il senso del suo sacerdozio non risiede soltanto nel «sacrificio di sé» ma anche (e piuttosto) nel lanciare l’autocritica della Chiesa come apparato sacerdotale. In questo senso, Caifa aveva le sue ragioni: Gesù costituiva un serio pericolo.
Il Regno della Verità. Ma il punto cruciale dell’analisi compare proprio al centro del libro. Il potere di Gesù è il potere della verità, scrive l’autore. «Gesù qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza della verità». Anche in precedenti opere, e nel suo confronto con i filosofi «laici», Joseph Ratzinger ha fatto della verità il concetto-chiave del suo magistero. Resta però sempre in gioco la questione di Pilato: che cosa è la verità? Che cosa intende Benedetto XVI per «verità»?
Ora è interessante notare che la verità di cui si tratta non è tanto e propriamente «l’adeguamento dell’intelletto alla realtà oggettiva», come scriveva Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio, richiamando la formula tomistica dell’adaequatio intellectus et rei. L’autore del Gesù di Nazareth ci dice infatti che questa nozione di verità è appropriata, ma funziona solo per una verità parziale, umana, che è sempre imperfetta e incompiuta. Nell’ottica umana «la verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare». Invece, la vera verità è qualcosa di cui dispone Dio, e vale allora la «formula lapidaria» di San Tommaso: Dio è la prima e somma verità. Dunque: gli umani non hanno vera verità, questa proviene da Dio e Dio solo ne dispone.
Una teocrazia intellettuale
In questi passi Benedetto XVI si rivela in perfetto accordo con molta filosofia laica del Novecento. Non soltanto, per esempio, con Hilary Putnam, che assegna la vera verità allo «sguardo di Dio», ma anche con il maestro di tutti i relativismi, Richard Rorty, che vede nel concetto stesso di veritàl’espressione di una visione «teologica» della conoscenza. L’unica variazione è che mentre per Putnam (ebreo) la verità resta l’enigma inaccessibile di Dio, e per Rorty non c’è verità perché non c’è nessun Dio, per Benedetto XVI Dio c’è, e la sua verità è accessibile, ma attraverso Gesù Cristo, e cioè attraverso la Chiesa, interprete autorizzata del suo messaggio.
Esattamente come i relativisti, Benedetto XVI ritiene che le facoltà umane non abbiano accesso alla verità. «Dare testimonianza alla verità» non significa dunque per lui dire le cose come stanno, ma piuttosto: «mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e delle sue potenze». Le conseguenze sono molto problematiche, tanto sul piano politico quanto sul piano dottrinale. Qui ha origine, in sordina ma inequivocabilmente, la teocrazia intellettuale di cui si diceva. «La moderna dottrina dello Stato», scrive il Papa, riconosce che il mondo umano non dispone di verità; ma allora: «quale giustizia sarà possibile», visto che non ci sono criteri per distinguere la vera giustizia? Ecco dunque la Chiesa venire in soccorso degli Stati smarriti, senza fondamenti e senza vero: il messaggio cristiano deve dettare agli organismi statali la regola del vero, perché evidentemente «senza verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, e si lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti».
L’obiezione però è fin troppo facile: se i contenuti della verità sono stabiliti dalla dottrina ufficiale della Chiesa, quali garanzie abbiamo che questa verità sia esente dalla parzialità e dal difetto che per definizione affliggono ogni tentativo umano di sapere? Chi ci assicura che questa pretesa verità non sia ancora la voce «del più forte»? Se si ignorano queste perplessità siamo di nuovo daccapo: siamo al Sinedrio che non fa trionfare affatto la verità, ma anzi, tutto al contrario: manda a morte Gesù.
L’altra verità. Si può in effetti sostenere che proprio la difesa della verità è un dato intrinseco al messaggio di Gesù, e che nel cristianesimo la verità diventa davvero «categoria politica». È essenziale però chiarire che forse non si tratta della summa veritas, come ritiene Joseph Ratzinger, ma più semplicemente: della verità umile e banale, per cui è vero significa così stanno le cose. In questa prospettiva molto cambia.
In primo luogo, spostare l’accento sul potere della verità significa dire: la realtà, proprio quella realtà che urta i nostri corpi, ferendoli, quella realtà fisica che ci fa morire, e soffrire, ed è teatro delle guerre, dell’ingiustizia, e dell’oppressione dei più deboli, ha un potere inequivocabile e primario nelle nostre vite. Questa idea schiettamente naturalistica della vita umana è ben presente nell’operare di Gesù, non per nulla attento a curare i corpi, e pronto a commuoversi per la morte di Lazzaro e per il dolore degli esseri umani che incontra. Verità è la proprietà delle parole (umane) che dicono onestamente e con giustizia questi fatti. Di qui l’estrema importanza del logos - parola, ragione, discorso - per il vangelo di Giovanni.
In secondo luogo, questa verità, cioè dire l’urto dei fatti contro chi vorrebbe occultarli per nascondere e legittimare l’ingiustizia, non è un requisito di Dio, ma degli uomini. Come dice J. C. Beall, in Spandrels of Truth (Oxford University Press, 2009), la verità è una dotazione caratteristica del linguaggio umano. È il nostro linguaggio, che occulta, devia, sbaglia, e ha bisogno di chiarire e generalizzare, a richiedere il predicato ’è vero’. Dio non ne ha alcun bisogno. Dunque il quadro si rovescia: la verità è affare degli uomini, non di Dio, e non per nulla Gesù la difende e ne fa il centro del suo potere: esattamente perché il suo potere è attento agli uomini, e alle loro specifiche fragilità.
In terzo luogo: anche il bisogno del papa di distinguere la rivoluzione di Gesù dalla violenza degli «zeloti», o dei «terroristi», da questo punto di vista potrebbe ricavarne qualche vantaggio. Infatti richiamarsi alla verità, che in definitiva è una proprietà di discorsi, e non di azioni, significa che la trasformazione e l’emancipazione avvengono anzitutto attraverso la parola, non attraverso la violenza. Ecco dunque il senso del potere salvifico del logos come potere non violento, «senza eserciti né legioni».
In questa prospettiva, si direbbe, il lavoro politico di Gesù è equivalente al lavoro politico svolto dai «Tribunali della verità» sorti in Sud Africa contro l’apartheid; o equivalente a tutte le discussioni che oggi riguardano la giustizia globale, ai faticosi tentativi di cambiare le cose con organismi nonsolo nominalmente «umanitari», o alla «parola contro la mafia» di Roberto Saviano e di altri. È vero allora che, intesa in questo modo, la luce innovativa di Gesù Cristo, da quegli sperduti paesi della Palestina «cresce» ed è cresciuta «lungo i secoli», come scrive il papa.
Ma certo la distorsione che la lettura di Benedetto XVI imprime alle interpretazioni libertarie del Vangelo complica la situazione. La parola di Gesù viene assorbita nella voce della Chiesa, delle sue istituzioni dottrinali, dei suoi sacerdoti; il potere eversivo della verità libera dai vincoli delle convenzioni diventa potere non di Dio, ma dei suoi interpreti autorizzati. In questo senso, il cristianesimo non è più l’erede e il sostituto del «sogno svanito», ma il suo affossamento, la sua definitiva cancellazione dalla storia. Il rischio che con ciò si cancelli anche la promessa del Cristianesimo stesso, e se ne oscuri la luce, deve però essere preso in seria considerazione.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Dalla cattedra al cortile
di Piero Stefani (Il pensiero della settimana, 26 febbraio 2011: http://pierostefani.myblog.it/)
Una delle intuizioni più profonde del card. Martini fu di istituire la «cattedra dei non credenti». L’esempio di Milano fu imitato da molti, in modi non sempre felici. Invero, nel succedersi delle edizioni, anche nella diocesi ambrosiana l’iniziativa perse progressivamente di smalto. Assunse, infatti, più l’aspetto di «liturgia culturale» che di vero e proprio confronto. Ciò non toglie la geniale originalità dell’iniziativa.
Il suo fulcro era ben espresso dal titolo scelto. Un vescovo, a cui spetta, per definizione, la cattedra, dava voce a insegnamenti che provengono dall’esterno e giungono fino all’interno. Per comprenderlo occorre aver a mente che l’impostazione degli incontri non si concentrava sul confronto tra persone dotate o sprovviste di fede. Questo aspetto non era escluso, ma non era il più significativo.
La qualifica di «non credente» è spesso riduttiva o addirittura impropria, dominata com’è da una pura negazione. Nella «cattedra» era invece propria; e lo era perché il senso più autentico della proposta stava nell’affermare che le ragioni più serie della non credenza venivano considerate una forma di interlocuzione, esterna e interna, indispensabile perché ci fosse una fede matura. Analogamente la testimonianza di un credente pensoso non era avvertita priva di significato da parte di chi, in virtù della sua riflessione e della sua coscienza, era indotto a negare l’esistenza di una realtà trascendente o, quanto meno, nutriva dubbi al suo riguardo.
Si comprende, allora, sia perché Martini parlasse del dialogo con il non credente che è in noi, sia perché dichiarasse che la vera distinzione non era quella che sussiste tra credenti e non credenti, ma quella che divide le persone pensanti dai non pensanti. Si potrebbe tentare una sintesi: le persone pensanti sono coloro che danno spazio dentro di sé alle ragioni dell’«altro»; lo fanno non per consegnarsi all’incertezza, ma per render più mature le proprie convinzioni. Ciò avviene solo nel caso in cui il confronto sia sincero e alieno tanto da interessi di parte quanto da convenienze reciproche; condizioni queste ultime ormai estremamente rare.
In luogo della «cattedra dei non credenti», la Chiesa universale ora lancia un’iniziativa chiamata «cortile dei gentili». Affidata al Pontificio Consiglio della Cultura (prefetto card. Ravasi), il «cortile» è stato preinaugurato un paio di settimane fa a Bologna; mentre l’avvio ufficiale avverrà a Parigi verso fine marzo.
La scelta dell’espressione è stata spiegata da Benedetto XVI nel suo discorso tenuto alla Curia romana a fine 2009. Si prendono le mosse dal fatto che, sentendo parlare di «nuova evangelizzazione», persone agnostiche o atee (le quali «devono stare a cuore a noi come credenti») forse si spaventano. Tuttavia in loro rimane presente la questione Dio. Come primo passo dell’evangelizzazione bisogna perciò tener desta la loro ricerca di Dio. A tal proposito, aggiunge Ratzinger, vengono in mente le parole di Gesù che, sulla scorta di Isaia, presentano il tempio di Gerusalemme come casa di preghiera per tutti i popoli (Mc 11,17; Is 56,7).
Gesù pensava «al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prender parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio». Si pensava cioè a persone che conoscono Dio solo da lontano: «che desiderano il Puro e il Grande anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cfr. At 17,23)». «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorte di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
È noto che l’esegesi biblica non ha alcun peso nei documenti ufficiali della «Chiesa docente», perciò non val la pena di impegnarsi a mostrare quanto sia inesatta l’interpretazione del passo evangelico qui proposta. Il punto serio è altrove; esso sta nel fatto che, in questa immagine, la Chiesa prende il posto del tempio (e di Israele). La sua cura e generosità sono però tali da aprire una dependance in cui è concessa ospitalità ad alcuni incerti ricercatori di Dio. Nel suo interno, la Chiesa celebra il mistero e nessuna crepa solca il suo levigato seno. In questa prospettiva sarebbe un vero e proprio ossimoro parlare della parte non credente che è in noi e sarebbe addirittura inconcepibile che le ragioni serie del dubbio e della negazione siano meritevoli di ascolto al fine di liberare la propria fede da sovrastrutture improprie. In realtà, però, a dover essere purificato non è solo il cortile, è anche e soprattutto l’interno del tempio.
In definitiva, il «cortile» che si sta inaugurando presuppone un dialogo senza ascolto. A quanto si può immaginare (e l’impressione è confermata dalla prime avvisaglie), nessuno accederà a essa per mettersi in discussione; dichiaratamente non lo faranno mai i credenti (si può, dunque, già ipotizzare quale sarà la lista degli invitati). Se i fatti confuteranno queste previsioni, saremo ben lieti di ricrederci.
Del resto mettersi in discussione è difficile per tutti. Le drammatiche vicende libiche di queste ore dovrebbero indurre l’Italia a mobilitarsi (ma non ne vediamo tracce consistenti) e ad aprire un profondo ripensamento a proposito della sua storia (in Cirenaica Badoglio e Graziani non si comportarono meglio di quanto faccia Gheddafi nei suoi ultimi giorni di potere), del suo passato prossimo e dei suoi affari presenti. Sono considerazioni che non valgono per la Grecia, Cipro e Malta.
Questi ultimi giorni dimostrano, ancora una volta, che anche ottanta o settanta anni fa i governi e le società erano fatti di uomini esattamente come siamo noi che peraltro siamo, volenti o nolenti, molti più informati di allora. In Libia si compiono stragi e qui ci si preoccupa del prezzo del petrolio e della possibile invasione degli immigrati; mentre, quando si passa ad altro compartimento stagno, si riesce, per esempio, persino a scandalizzarci che alla fine degli anni trenta l’Inghilterra mandataria contingentasse l’immigrazione ebraica in Palestina.
di Armando Torno (Corriere della Sera, 26 marzo 2011)
Notre Dame, ieri notte. Finisce qui, tra le forme medievali della cattedrale, il Cortile dei Gentili di Parigi. Dopo una giornata gremita di idee, immagini, luci e inviti, il dialogo tra credenti e non credenti viene affidato ai fratelli di Taizé. Il canto, ma soprattutto il silenzio e la meditazione, scrivono la fine di una rassegna densissima. In essa, fatto eccezionale, c’è stato anche un intervento poco dopo le 21 di papa Benedetto XVI, proiettato sullo schermo davanti al solenne edificio. Le parole del Papa erano rivolte a tutti, anche a coloro che non hanno fede. Il Pontefice è apparso in video nel «cuore della città dei Lumi», dove due secoli e qualche anno fa i rivoluzionari issarono sull’altare la statua della dea Ragione.
Dopo aver sottolineato l’importanza di questo dialogo che si riallaccia alla tradizione del Tempio di Gerusalemme, Benedetto XVI ha proferito parole coraggiose e forti. «Se si tratta di edificare - ha detto il Pontefice - un mondo di libertà, uguaglianza e fraternità, credenti e non credenti devono sentirsi liberi di esserlo, uguali nei loro diritti di vivere la loro vita personale e comunitaria fedeli alle loro convinzioni, ed essi devono essere fratelli tra loro». Non è stata una sfida all’Illuminismo, ma una versione riveduta e corretta dei principi della Rivoluzione francese, realizzata in nome del dialogo che a Parigi con il Cortile si è trasformato in due giornate dense di idee e di immagini. Dopo aver ricordato il celebre passo evangelico «la verità vi farà liberi», il Papa ha anche sottolineato che «le religioni non possono aver paura di una giusta laicità» che consenta a donne e uomini di vivere in conformità alla loro coscienza. Parole pesanti?
Davanti a Notre Dame lo sono diventate, soprattutto perché rivolte a «cari giovani» , a «cari amici»; anzi, esse sono state la premessa per chiedere una preghiera a tutti: alcuni la potevano rivolgere al Dio conosciuto della fede, gli altri al «Dieu Inconnu». E dopo questo invito Benedetto XVI ne ha aggiunto altri, dando un appuntamento a Madrid per le Giornate mondiali della gioventù e ripetendo la frase che ha cadenzato molti appelli di Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura!», per esempio «paura dello straniero, di colui che non vi assomiglia».
Va anche ricordato che queste aperture del Papa hanno coronato una giornata con un programma fittissimo. Al mattino, in Sorbona, Julia Kristeva, tra gli altri, ha saputo toccare alcuni punti nevralgici della filosofia; anzi c’è stato anche un momento di colta emozione quando, in un successivo intervento, una lettura da Pascal ha suscitato un applauso. Al pomeriggio, all’Institut de France, sede degli Immortali, François Terré ha notato che se si cerca la «sovversione» si può trovare nel Sermone della Montagna. Di più: Ivano Dionigi, rettore dell’ateneo di Bologna, a cui è stata affidata la conclusione, ha proferito parole da meditare: «La politica precede l’economia e l’amministrazione: ma dov’è oggi la politica, la sola capace di anteporre il bene comune al business economico e all’interesse privato?». E infine: «La complessità planetaria, la diversità delle culture, le nuove frontiere della ricerca ci vedono sostare in attesa di fronte alla porta della legge e chiedere al guardiano di entrare; e ci consegnano, dopo venticinque secoli, la stessa domanda che Alcibiade rivolse a Pericle: "Dimmi, cos’è la legge?"».
Poi, alle 19, mentre ancora era in corso la tavola rotonda ai Bernardins, sono stati avviati i dialoghi, le animazioni musicali, le proiezioni di filmati, le danze dedicate al «Cantico dei Cantici», le meditazioni di Fabrice Hadjadj su Giobbe. Si è parlato dell’esistenza umana nel cosmo, della fragilità del vivere, delle vie che conducono all’amore e alla bellezza. C’erano poeti come Francis Combe o Jean-Pierre Lemaire, c’erano editori quali Elisabeth Azoulay, ma non mancava una sorpresa, un invito fatto dal cardinale Ravasi qualche giorno fa e subito accettato: Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose. Ma è anche vero che questi dialoghi non avevano dei relatori precisi, perché tutti si sono sentiti coinvolti, realizzando il vero spirito del Cortile dei Gentili che si rivolge a ogni uomo, anche se passa nei templi del sapere e nelle istituzioni. Infine, le luci sulla facciata della cattedrale, una creazione di Bruno Sellier, hanno consegnato la giornata ai fratelli di Taizé. Il cardinale Ravasi è intervenuto ovunque e ha avviato questo progetto parlando da par suo e omaggiando silenziosamente Richelieu e Mazzarino. Delresto, il primo è sepolto all’ingresso della Sorbona e il secondo - sussurra qualche mala lingua- si aggira ancora come fantasma nelle austere sale dell’Institut de France.
«La nuova fraternità tra credenti e no»
Benedetto XVI
Il Papa: «Varcate insieme questo magnifico portale e rivolgete una preghiera al Dio conosciuto nella fede, o al Dio Ignoto»
«La questione di Dio non è un pericolo per la società, non deve essere assente dai grandi interrogativi del nostro tempo. Non chiudete la vostra coscienza»
«La prima delle azioni che potete compiere insieme è rispettare, aiutare e amare ogni essere umano, poiché esso è una creatura di Dio e in un certo modo la strada che conduce a Lui»
Cari giovani, cari amici!
So che vi siete riuniti numerosi sul sagrato di Notre-Dame di Parigi, su invito del cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, e del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Vi saluto tutti, senza dimenticare i fratelli e gli amici della Comunità di Taizé. Sono grato al Pontificio Consiglio per aver ripreso e sviluppato il mio invito ad aprire, nella Chiesa, dei ’Cortili dei gentili’, immagine che richiama quello spazio aperto sulla vasta spianata vicino al Tempio di Gerusalemme, che permetteva a tutti coloro che non condividevano la fede di Israele di avvicinarsi al Tempio e di interrogarsi sulla religione. In quel luogo, essi potevano incontrare degli scribi, parlare della fede ed anche pregare il Dio ignoto.
E se, all’epoca, il Cortile era allo stesso tempo un luogo di esclusione, poiché i ’Gentili’ non avevano il diritto di entrare nello spazio sacro, Cristo Gesù è venuto per «abbattere il muro di separazione che divideva » ebrei e gentili, «per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunziare pace ...» ( Ef 2 , 14 -17 ), come ci dice san Paolo.
Nel cuore della ’Citè des Lumières’, davanti a questo magnifico capolavoro della cultura religiosa francese, Notre-Dame di Parigi, un grande spazio si apre per dare nuovo impulso all’incontro rispettoso ed amichevole tra persone di convinzioni diverse. Giovani, credenti e non credenti presenti questa sera, voi volete stare insieme, questa sera come nella vita di tutti i giorni, per incontrarvi e dialogare a partire dai grandi interrogativi dell’esistenza umana. Al giorno d’oggi, molti riconoscono di non appartenere ad alcuna religione, ma desiderano un mondo nuovo e più libero, più giusto e più solidale, più pacifico e più felice.
Nel rivolgermi a voi, prendo in considerazione tutto ciò che avete da dirvi: voi non credenti volete interpellare i credenti, esigendo da loro, in particolare, la testimonianza di una vita che sia coerente con ciò che essi professano e rifiutando qualsiasi deviazione della religione che la renda disumana. Voi credenti volete dire ai vostri amici che questo tesoro racchiuso in voi merita una condivisione, un interrogativo, una riflessione. La questione di Dio non è un pericolo per la società, essa non mette in pericolo la vita umana! La questione di Dio non deve essere assente dai grandi interrogativi del nostro tempo. C ari amici, siete chiamati a costruire dei ponti tra voi. Sappiate cogliere l’opportunità che vi si presenta per trovare, nel profondo delle vostre coscienze, in una riflessione solida e ragionata, le vie di un dialogo precursore e profondo. Avete tanto da dirvi gli uni agli altri. Non chiudete la vostra coscienza di fronte alle sfide e ai problemi che avete davanti. Credo profondamente che l’incontro tra la realtà della fede e quella della ragione permetta all’uomo di trovare se stesso. Ma troppo spesso la ragione si piega alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscere quest’ultima come criterio ultimo. La ricerca della verità non è facile. E se ciascuno è chiamato a decidersi, con coraggio, a favore della verità, è perché non esistono scorciatoie verso la felicità e la bellezza di una vita compiuta. Gesù lo dice nel Vangelo: «La verità vi renderà liberi».
Spetta a voi, cari giovani, far sì che, nel vostro Paese e in Europa, credenti e non credenti ritrovino la via del dialogo. Le religioni non possono aver paura di una laicità giusta, di una laicità aperta che permette a ciascuno di vivere ciò che crede, secondo la propria coscienza. Se si tratta di costruire un mondo di libertà , di uguaglianza e di fraternità , credenti e non credenti devono sentirsi liberi di essere tali, eguali nei loro diritti a vivere la propria vita personale e comunitaria restando fedeli alla proprie convinzioni, e devono essere fratelli tra loro.
Una delle ragion d’essere di questo Cortile dei gentili è quella di operare a favore di questa fraternità al di là delle convinzioni, ma senza negarne le differenze. E, ancor più profondamente, riconoscendo che solo Dio, in Cristo, ci libera interiormente e ci dona la possibilità di incontrarci davvero come fratelli.
Il primo degli atteggiamenti da assumere o delle azioni che potete compiere insieme è rispettare, aiutare ed amare ogni essere umano, poiché esso è una creatura di Dio e in un certo modo la strada che conduce a Lui. Portando avanti ciò che vivete questa sera, contribuite ad abbattere le barriere della paura dell’altro, dello straniero, di colui che non vi assomiglia, paura che spesso nasce dall’ignoranza reciproca, dallo scetticismo o dall’indifferenza. Siate attenti a rafforzare i legami con tutti i giovani senza distinzioni, vale a dire non dimenticando coloro che vivono in povertà o in solitudine, coloro che soffrono per la disoccupazione, che attraversano la malattia o che si sentono ai margini della società.
Cari giovani, non è solo la vostra esperienza di vita che potete condividere, ma anche il vostro modo di avvicinarvi alla preghiera. Credenti e non credenti, presenti su questo sagrato dell’Ignoto, siete invitati ad entrare anche all’interno dello spazio sacro, a varcare il magnifico portale di Notre-Dame e ad entrare nella cattedrale per un momento di preghiera. Per alcuni di voi, questa preghiera sarà una preghiera ad un Dio conosciuto nella fede, ma per gli altri essa potrà essere anche una preghiera al Dio Ignoto. Cari giovani non credenti, unendovi a coloro che stanno pregando all’interno di Notre-Dame, in questo giorno dell’Annunciazione del Signore, aprite i vostri cuori ai testi sacri, lasciatevi interpellare dalla bellezza dei canti e, se lo volete davvero, lasciate che i sentimenti racchiusi in voi si elevino verso il Dio Ignoto. S ono lieto di aver potuto rivolgermi a voi questa sera per questo momento inaugurale del Cortile dei gentili. Spero che vorrete rispondere ad altri appuntamenti che ho fissato, in particolare alla Giornata mondiale della gioventù, quest’estate, a Madrid. Il Dio che i credenti imparano a conoscere vi invita a scoprirLo e vivere di Lui sempre più. Non abbiate paura! Sulla strada che percorrete insieme verso un mondo nuovo, siate cercatori dell’Assoluto e cercatori di Dio, anche voi per i quali Dio è il Dio Ignoto.
E che Colui che ama tutti e ciascuno di voi vi benedica e vi protegga. Egli conta su di voi per prendersi cura degli altri e dell’avvenire, e voi potete contare su di Lui!
Benedetto XVI
Le strutture religiose accolgano gli immigrati
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 27.3.2011)
Sarebbe bello che le istituzioni religiose aprissero almeno una parte delle proprie strutture per dare un’ospitalità decente alle migliaia di immigrati, in primis ai minori non accompagnati, che arrivano a Lampedusa in fuga dall’incertezza e dai pericoli dei loro paesi in conflitto. Sarebbe non solo una doverosa compartecipazione all’azione di solidarietà collettiva cui tutti siamo chiamati a fronte di questa emergenza umanitaria, ma un atto di restituzione di un mancato introito per il bilancio pubblico (stimato in 70-80 milioni di euro) in un periodo di tagli alla spesa sociale che colpiscono soprattutto i cittadini più vulnerabili.
Soprattutto sarebbe una, sia pure temporanea, dimostrazione che effettivamente quelle strutture hanno finalità religiose e assistenziali e non commerciali e quindi la giustificazione formale del sostanzioso sconto Ici di cui beneficiano gli immobili destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive o per uso culturale" ha un effettivo fondamento.
Ricordo che, nonostante il parere contrario della Corte di giustizia Europea che giustamente ha parlato di trattamento di favore lesivo della concorrenza, il governo lo ha mantenuto e introdotto anche nel decreto sulla fiscalità municipale, anche se, specie per le "strutture ricettive", è spesso davvero difficile non definirle commerciali. Non basta la pur benemerita opera della Caritas, oggi in prima linea anche a Lampedusa, a giustificare perché i vari conventi trasformati in strutture alberghiere a Roma come a Venezia e in altre città debbano pagare meno Ici di qualsiasi altro albergo, pensione o bed and breakfast, facendo anche concorrenza sleale. Questo è il momento di dimostrare che sono innanzitutto dedicate allo svolgimento d attività assistenziali ed anche ricettive non commerciali.
Sarebbe anche opportuno che il governo ripensasse alla sua decisione di non avere un unico election day, buttando al vento centinaia di migliaia di euro. E’ stata una scelta sconsiderata in sé, appunto in un periodo di tagli dolorosi, ma lo è tanto più ora, quando le immagini dei profughi ridotti in condizioni disumane non possono non lasciarci pieni di vergogna. Lo scarto tra spreco e bisogno è letteralmente intollerabile.
Sarebbe infine bello che quest’anno lo Stato, a fronte di tagli alla spesa sociale e viceversa crescenti domande di sostegno in una situazione in cui una emergenza sociale non ne cancella un’altra, indicasse due-tre priorità sociali su cui si impegna a spendere l’8 per mille che gli verrà destinato nelle dichiarazioni dei redditi. Offrirebbe ai cittadini una alternativa effettiva, invogliando una quota maggiore di contribuenti ad indicare il proprio destinatario di elezione: tra le diverse chiese e confessioni religiose e, appunto, lo Stato.
E’ bene ricordare, infatti, che solo una minoranza dei contribuenti indica un destinatario dell’8 per mille. Chi non sceglie, è convinto che i soldi rimangano nel bilancio pubblico. Ma non è così. L’intero ammontare dell’8 per mille delle entrate è ripartito sulla base delle scelte effettuate. Chi conquista la maggioranza della minoranza che sceglie, conquista perciò anche la maggioranza dell’intero ammontare. Come nelle elezioni, chi si astiene di fatto è come se votasse con la maggioranza. In una situazione di risorse scarse e bisogni gravi crescenti, mi sembra davvero non solo poco democratico, ma uno spreco non mettere i cittadini di fronte a possibilità di scelta effettiva sugli obiettivi concreti, in campo sociale, su cui distribuire l’8 per mille.