[...] La cura forzata è inquietante come la morte. Nel 2008 la Fondazione Don Gnocchi ha scritto che il “non rinunciare in alcun caso all’idratazione-nutrizione artificiale può rientrare nell’accanimento terapeutico da abuso di tecnica”. Di questo bisognerebbe parlare [...]
L’alleanza terapeutica tra Berlusconi e la Chiesa
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2011)
La legge sul testamento biologico da ieri in Parlamento non rappresenta lo sforzo di dare una risposta civile ed eticamente responsabile ad un problema delicato. Fotografa, invece, perfettamente la visione commerciale di Berlusconi. Diecimila euro per mantenere buone le squinzie dello staff postribolare di Arcore. Un baciamano a Gheddafi per fare affari con lui. La promessa di un bonus scuola per ammansire l’episcopato. Il “sondino di stato” per accontentare il Vaticano.
Anche personalità generalmente favorevoli alle istanze della Chiesa come Ferrara e Galli della Loggia respingono la rozzezza di un progetto, che disprezza la volontà del malato. Ma i vertici ecclesiastici, in nome dei “principi non negoziabili”, vogliono l’alimentazione e la nutrizione obbligatoria. Fiat lex, pereat mundus. Si faccia la legge a scapito dell’umanità.
Gli italiani a suo tempo si sono schierati dalla parte di Beppino Englaro, basta riguardare i sondaggi dell’epoca. Un’inchiesta dell’Ordine dei medici (Fnomceo) del 2007 ha rilevato che il 64 per cento di loro concorda sul rispetto della volontà del malato, che non vuole attuare o chiede di interrompere i trattamenti di sostegno vitale. La società civile si è già pronunciata. Berlusconi se ne infischia poiché vuole pagare questo prezzo al Vaticano. Ruby val bene la sorte di sofferenti anonimi.
Ma nella società mediatica il pensiero totalitario, che non ammette pluralità di opzioni etiche, deve per forza manipolare le parole per creare una parvenza di consensi. Dunque si dice che il coma vegetativo persistente (non stiamo parlando di tre mesi, ma di dieci anni) è una “grave disabilità”. La parola si smercia facilmente, evoca un portatore di handicap che i cattivi vorrebbero sopprimere.
Non è questa la posta in gioco. La Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat) riguarda chi si trova persistentemente privo di conoscenza, impossibilitato a riprendere coscienza e a recuperare una vita relazionale. Nessuno vuole sopprimere nessuno. Ma il cittadino ha il diritto sancito dalla Costituzione di decidere in autonomia se continuare o meno cure, che non cambieranno la sua sorte e si configurano come accanimento terapeutico ad oltranza.
La seconda falsità in circolazione è di far credere che una vera legge sul biotestamento potrebbe stabilire se certe vite sono “degne o non degne” di essere vissute. Hanno usato l’argomento le lobby delle assicurazioni private in America per sabotare il progetto di sanità pubblica di Obama. Il che dimostra quanto sia cinico e menzognero l’argomento. Ogni vita, infatti, è degna di essere vissuta. Ma ogni uomo e ogni donna hanno il diritto di scegliere se prolungare artificialmente una vita vegetativa (o un’esistenza inesorabilmente votata al soffocamento come quella di Welby) oppure accettare il corso della natura.
Il filosofo cattolico Giovanni Reale ha confutato una volta per tutte le falsità di chi agita lo spettro dell’eutanasia per impedire l’autodeterminazione. “Un conto è darsi la morte - ha dichiarato durante le polemiche sul caso Englaro - e un conto è lasciare che arrivi la morte”.
Ma poiché questo è un ragionamento comprensibile e condiviso dalla maggioranza degli italiani, ecco che i fautori della vita forzata scendono in campo con lo slogan dell’obbligatorietà dell’alimentazione e idratazione in quanto “sostegni vitali”. Elemento vitale è anche il sangue, eppure nessuno si sogna di obbligare un cittadino a fare una trasfusione se va contro i suoi principi o le sue scelte. Milioni di nostri nonni e nonne, cattolici e no, sono spirati per secoli serenamente, sussurrando ai loro congiunti di non forzarli più a mangiare e nessuno si è sognato di nutrirli con l’imbuto.
Perché la vera minaccia è che una “civiltà tecnologica totalizzante voglia sostituirsi alla natura” (Giovanni Reale) oppure che - più umanamente - medici terrorizzati da cause di un qualsiasi parente o erede intubino per mettersi al sicuro e si rifiutino di disporre altrimenti.
L’ultima manipolazione delle parole, messa in campo da chi esalta la Vita ma non si occupa mai della “vita durante” (le famiglie in difficoltà, i giovani precarizzati in eterno, i cittadini in azienda privati del diritto di scegliersi un delegato: vedi modello Marchionne osannato dal ministroSacconi) è l’invocazione dell’ “alleanza terapeutica”. Parola bellissima, che vale tuttavia quando medico e paziente decidono d’amore e d’accordo cosa fare e il paziente non è mai obbligato a sottoporsi ad un’operazione o un trattamento medico o a continuarlo senza limiti.
Qui, invece, nella Santa Alleanza creatasi tra Papi e l’istituzione ecclesiastica, “alleanza terapeutica” vuol dire che il medico può fare l’opposto di quello che ha disposto il malato o chiede il suo fiduciario.
La cura forzata è inquietante come la morte. Nel 2008 la Fondazione Don Gnocchi ha scritto che il “non rinunciare in alcun caso all’idratazione-nutrizione artificiale può rientrare nell’accanimento terapeutico da abuso di tecnica”. Di questo bisognerebbe parlare.
Il biotestamento autoritario
di Adriano Sofri (la Repubblica, 10 marzo 2011)
Sapete come va, per lo più, la vita: dal tempo delle promesse a quello della gara accanita e poi delle abitudini, al bilancio delle realizzazioni mancate o dimezzate, fino a un umile augurio finale: "Lasciatemi morire in pace". La legge sul fine vita, come si chiama ora, è una manomissione anticipata della preghiera di morire in pace. La sua vicenda è esemplare: comincia col desiderio battagliero di regolare per legge un dignitoso modo di accomiatarsi dal mondo
Un modo che rispetti la libertà della persona e il diritto alla cura - dunque a essere curati e a non esserlo più. Al battagliero progetto manca però, a differenza che nell’opinione pubblica, che lo condivide larghissimamente, una maggioranza parlamentare, che al contrario milita, per convinzione e per convenienza, in favore di una feticistica "indisponibilità della vita", espropriata in concorrenza dallo Stato, dai politici, dai medici, dai magistrati, e finalmente, per conto di Dio, dalla Chiesa cattolica.
Questa maggioranza si oppone strenuamente alla legge sul cosiddetto biotestamento, finché (specialmente per amore di Eluana Englaro o in odio a Beppino) la sua eminenza grigia si accorge che una resistenza di retroguardia è destinata a fallire, e capovolge la strategia: ora è lei a volere la legge, e a farne un proprio cavallo di battaglia, fissando quella che finora era un’impensata assurdità, cioè che non sia lecito in extremis alle persone consentire o dissentire dalle cure, al punto di rendere obbligatoria, anche contro l’espressa volontà del "paziente" (nome appropriato per difetto), la nutrizione e l’idratazione forzata. I fautori originari della legge, attaccati al principio dell’autodeterminazione delle persone, siccome sono anche un po’ ingenui, ci mettono un po’ a capire che continuare su questa strada significa tirarsi addosso un macigno. Così, mentre l’altra parte non fa che rincarare esosamente le proprie pretese di sequestro preventivo di persona a fine vita, si affannano a cercare di limitare i danni, invece di ripiegare sulla nitida ammissione che nessuna legge è meglio che una orribile legge, e di avvalersi della benvenuta compagnia di personalità e gruppi che, pur in seno alla maggioranza vescovista (ma lo Spirito soffia, e anche fra i vescovi ci sono differenze) non è disposta a spingersi fino a un’invasione così grave delle vite degli altri. Dovrei dire delle morti degli altri, di ciascun altro, e a chi sia pronto a riflettere senza pregiudizio apparirà chiaro come in questo punto cruciale vite degli altri e morti degli altri diventino sinonimi, e l’enormità del sequestro del fine vita coincida col sequestro delle vite.
Qui, da Rodotà e altri, è stata argomentata la forzatura costituzionale di una legge che vanifica e anzi irride il "testamento"-Dat, la "Dichiarazione anticipata di trattamento". Il mio punto di vista è più comune: quello di uno con gli occhi chiusi e la bocca muta al cui capezzale si disputi di che cosa farne. Pensate ai grandi affreschi del Giudizio con gli angeli e i demoni che si contendono le anime - e i corpi - dei defunti, tirandoli di su e di giù, verso il cielo e l’inferno. Qui, al nostro capezzale, corporazioni di preti e medici, parlamentari e magistrati, tirano ingordamente di qua e di là il nostro corpo, già esanime - siamo ancora noi però, se non altro per esserlo stati, e aver detto la nostra parola. Dice qualche ispirata esponente di maggioranza che si tratta di impedire l’invadenza dei giudici - in pro dell’invadenza dei politici. Dicono molti politici che si tratta di garantire la scienza e coscienza dei medici - benché tanti medici spieghino che loro hanno giurato di curare, non di sopraffare.
Dicono voci religiose che si tratta della sacralità della vita, che va difesa dunque da tutti, "anche da se stessi". "Difendere le persone anche da se stesse": così. È la radice di un autoritarismo paternalistico che saprebbe arrivare, contro ogni intenzione iniziale, al totalitarismo, e arriva intanto alla moltiplicazione dei proibizionismi: difendere i drogati da se stessi, e intanto buttarli a crepare in una cella. Fantastico altruismo, lo conosco bene. È quella premura che fa sequestrare al prigioniero i lacci delle scarpe, perché debba escogitare sistemi più orrendi per impiccarsi. La premura che fa di tutti i cittadini dei sudditi, e di tutti i sudditi dei bambini, e di tutti i bambini degli sventati autolesionisti - e dello Stato un grande severo sollecito Direttore d’asilo. Non sopportano "il potere della persona di disporre del proprio corpo" - che è, oltre che un principio costituzionale, una tautologia, a meno di scempiare la persona dal corpo, e il corpo dalla persona.
La dignità umana, proclamano questi nemici assoluti di ogni relatività, anche la più sobriamente relativa, non è più assoluta se le si pone un limite nell’autodeterminazione. Dunque la dignità umana è tale grazie, al limite, all’eterodeterminazione? Temo che pretendano in realtà che la dignità umana non abbia un limite nella morte, nel fatto che siamo mortali, e in nome dell’assoluto vogliano derubarci della nostra sorella morte. Assoluta è l’eternità, per chi la pensi tale, ma non compete alla società umana e tanto meno ai suoi parlamenti. Oggetto della loro legge è imporre la continuazione non voluta di una persistenza vegetativa senza speranza, invece del contrario, la continuazione di quella esistenza per chi, "paziente" o parente o curante, la voglia. Qui è il punto vero, e la vera necessità mancata di un’alleanza fra concezioni e speranze diverse.
Seguo, per circostanze personali, il lavoro di medici rianimatori e anche l’esperienza di cura e di ricerca di centri come quello bolognese degli "Amici di Luca". Per quest’ultimo, Fulvio De Nigris invita a liberarsi dalla contrapposizione fra "diritto di cura" e "libertà di scelta", e non si può che concordare, perché diritto è altra cosa dall’obbligo di cura. De Nigris allude a una "terza via" fra movimento "pro life" e "pro morte", e non so concordare, perché la dizione "pro morte" è arbitraria e violenta, e non si adatta certo alla vicenda di Piero Welby e dei suoi compagni, né a quella della famiglia Englaro. È del tutto condivisibile invece l’impegno a sostenere le migliaia di famiglie che continuano a sperare per i loro cari in stato vegetativo, che confidano in una ricerca mai esausta, che guardando un tubo che entra nella pancia non si sentano ridotte all’interrogativo "terapia o non terapia". Ma appunto questa comprensione solidale non è l’alternativa, ma il complemento alla libertà di decisione di ciascuna persona e dei suoi delegati.
Ieri si è annunciato un emendamento alla legge (che, dopo l’eventuale voto di aprile, dovrà comunque tornare in Senato) a firme distanti come quelle di Bondi, Manconi, Pecorella, Mazzarella e altri, che mira a ridurre il danno. Non so valutarlo, benché sia evidente il doppio disastro di un Parlamento che riapre una simile questione di vita e di morte "a tempi di discussione contingentati", e che lo fa in buona parte perché il presidente del Consiglio proclama che "su temi etici e scuole cattoliche terrà conto delle indicazioni della gerarchia ecclesiastica". Ecco mostrata una connessione stretta fra il corpo e il capezzale del presidente del Consiglio, quelli delle sue ospiti nell’imbarazzo, e quelli di tutti noi. Un ennesimo Uomo della Provvidenza.
Dio non spadroneggia
intervista ad Antonio Autiero,
a cura di Eleonora Martini (il manifesto, 8 marzo 2011)
Il professor Antonio Autiero insegna teologia morale nella facoltà di teologia cattolica presso l’università di Münster, nella regione Nord Reno-Westfalia, in Germania, ma il testo di legge sul testamento biologico approdato ieri in aula alla Camera lo conosce bene.
Cominciamo con il punto più dolente: nutrizione e idratazione artificiale. Secondo il ddl non possono essere considerate terapie ma sostegno vitale, un’attività di cura, quindi non possono essere rifiutate o sospese. Lei cosa ne pensa?
Bisogna innanzitutto tenere in considerazione il fatto che questa discussione non riguarda soltanto gli aspetti giuridici, su cui ho paura che il parlamento stia focalizzando troppo la discussione, ma anche etici. Nel pensiero bioetico e medico ci sono molte domande aperte e diversità di vedute per qualificare inequivocabilmente l’alimentazione e l’idratazione non naturali.
La domanda è aperta, dunque, ma qual è l’orientamento prevalente?
In questa discussione aperta prevale la visione generale della persona, la visione olistica, nella quale il tema dell’alimentazione è generalmente parlando non una terapia ma la modalità con cui assicuriamo il sostegno vitale. Tuttavia qui non stiamo parlando di alimentazione in termini generali, e neppure di alimentazione sostitutiva a quella naturale in situazioni contingenti ed occasionali temporanee, dove il tema del rischio vitale non compare. Nel qual caso nessuno nega che sia un sostegno vitale che non può essere sospeso. Il problema serio si pone quando la questione nutrizione artificiale si colloca nella fase finale della vita, allora cambia anche la qualità di attribuzione che questo gesto può avere. In sostanza, nella discussione bioetica questa differenza si fa non a partire dal gesto che compiamo ma dal contesto nel quale questo gesto viene compiuto. In alcuni casi, poi, non è così chiara la soglia di distinzione tra somministrazione con finalità di supporto alla vita e una che invece ha bisogno di una serie di componenti di carattere farmacologico.
Per i cattolici la propria vita, oltre che quella altrui, è un bene indisponibile e l’intero testo di legge ruota attorno a questo dogma tentando di evitare che ceda il passo al principio di autodeterminazione. Dal punto di vista di un teologo cattolico, come va interpretata l’"indisponibilità" della vita? Vuol dire che non si può scegliere come e quando morire?
Questa indisponibilità si fonda su una visione religiosa della vita, e in particolare sull’ottica cattolica, che è diversa da altre visioni religiose della vita. Anche nel discorso teologico, che è quello che riflette sulla matrice religiosa del pensiero, c’è uno spazio per poter avere un approccio differente a questo tema dell’indisponibilità. Se si considera la vita come un dono di Dio, non bisogna dimenticare che il Dio cristiano non è un arrogante padrone che spadroneggia sulla vita e sul diritto di disporne. Da un punto di vista teologico questo approccio al tema mi preoccupa molto, perché finisce per diventare un pensiero non più sanamente religioso. Noi abbiamo ridotto in maniera troppo rozza questa idea di padronanza sulla vita ad un’idea di signoria di Dio sulla vita. Dio non è il padrone della vita ma è uno che signorilmente ne fa dono, e mette nella mente, nelle mani, nella volontà e nella responsabilità di ciascuno la capacità di farne qualcosa di dignitoso. Allora il discorso dall’indisponibilità si sposta su cosa ne facciamo della vita donata e in che modo abbiamo coltivato questo bene vivendo dignitosamente questa vita, sulla cura della dignità e della preziosità del dono che ci è stato affidato.
Un altro punto importante toccato ieri nel dibattito alla Camera è la possibilità di rifiutare le cure solo "qui e ora" ma non "ora per allora", secondo i sostenitori del testo Calabrò, cioè non posso prevedere oggi cosa potrei scegliere in una determinata condizione domani. Per questo motivo, nel ddl le Dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) non sono vincolanti.
Trovo questo tipo di argomentazioni molto fragile, a partire dal fatto che noi in tutta la nostra esistenza facciamo delle scelte oggi che hanno effetto domani. Solo in questo caso, e tutto in una volta, dovrebbe quindi valere l’"hic et nunc" soltanto. Se nella vita dovessimo vivere solo di assunzioni di responsabilità "qui ed ora" non ci dovrebbe essere un discorso di programmazione sul futuro. Trovo dunque che questo ribaltamento delle logiche temporali sia un’argomentazione fragile, direi perfino faziosa, perché sta smentendo tutta quella forma di educazione al senso della nostra soggettualità, mentre il soggetto veramente responsabile è quello che sa prevedere di più e può prendere impegni seri "ora per allora". Inoltre questa visione esprime una sorta di sfiduciamento dell’essere umano, della sua capacità proiettiva e di essere responsabile per sé e per i suoi. Mi preoccupa anche un po’ questa sorta di "pessimismo antropologico" perché porterebbe a una sorta di farraginosità di tutto quello che facciamo, per esempio nei processi educativi, nella tutela dell’ecosistema, ecc. Invece questo appiattimento indecoroso sul presente mette a repentaglio quella che è la grande sfida della modernità.
Il comma 6 dell’articolo 3 (il testo integrale del ddl sul testamento biologico così come è stato emendato dalla commissione Affari sociali della Camera è pubblicato interamente sul sito del manifesto.it) dice che le dat assumono «rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e, per questo motivo, di assumere le decisioni che lo riguardano». Viene cioè allargata la platea non solo a chi si trova in stato vegetativo persistente. Cosa ne pensa?
Prendiamo atto però di un aspetto positivo: che nel testo si riconosce che una persona è soggetto di assunzioni di decisioni che lo riguardano. Questa è una cosa importante, perché vuol dire che il testo sottolinea la soggettualità della persona che è il contrario di quella tendenza al paternalismo medico che porterebbe nel circuito di competenza del medico di assumere la decisione finale. La contraddizione però avviene a due livelli: la rilevanza giuridica di questa assunzione di responsabilità perché si dice che le Dat devono assumere un valore di orientamento ma non di vincolo per il medico. La seconda disarticolazione dell’impianto teorico di un tale dettato di legge è cosa ne facciamo di situazioni in cui si è davanti a stati deboli di presenza a se stessi? E’ questo che ci porta a valorizzare molto di più delle figure che in altri parlamenti europei sono stati massimamente valorizzati, come quella del tutore o dell’accompagnatore. Non è un atto contro il medico, non si tratta di un disegno sovversivo che smantella la dignità della classe medica, tutt’altro: significa includere persone e promuovere fiducialità di relazioni antropologicamente importanti.