L’ITALIA, IL "BIPOLARISMO PRESIDENZIALE", E I COSTITUZIONALISTI IN COMA PROFONDO (1994-2011). - con allegati
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
L’incredibile ritorno del Cavaliere
di Marcello Sorgi (La Stampa, 16.01.2014)
Qualche anno fa, parlando di ben altri personaggi come Fanfani e Andreotti, si sarebbe detto: rieccolo! La grande sorpresa del nuovo anno appena cominciato, infatti, è il ritorno di Berlusconi. Condannato definitivamente ad agosto 2013 dalla Cassazione, espulso dal Senato a novembre per effetto della decadenza prevista dalla legge Severino, e in attesa di sapere se dovrà scontare la pena agli arresti domiciliari o ai servizi sociali, il Cavaliere è stato riportato in scena, nientemeno, da Renzi, che ieri ha reso esplicito, alla sua maniera spiccia, quel che da giorni era nell’aria: l’intenzione, cioè, di chiudere con il leader di Forza Italia un accordo sulla nuova legge elettorale.
Certo, ci vuole coraggio. Chi si ricorda come andò a finire 16 anni fa, all’epoca della Bicamerale, la lunga trattativa tra D’Alema e Berlusconi - conclusa con il famoso «patto della crostata» siglato a casa di Gianni Letta e smentito il giorno dopo in Parlamento dallo stesso Cavaliere -, non può non vedere un azzardo eccessivo nel percorso scelto dal giovane segretario del Pd.
La minoranza del partito, tra l’altro con in testa dalemiani e bersaniani, è in subbuglio. L’antiberlusconismo, sopito per la progressiva emarginazione del Cavaliere, improvvisamente s’è risvegliato. La direzione di oggi, convocata ad appena un mese dalle primarie che hanno incoronato il sindaco di Firenze, potrebbe riservare qualche sorpresa, con il Pd pronto a dividersi come ha fatto in tutti i frangenti importanti di questa tormentata legislatura, a cominciare dall’assalto dei franchi tiratori nelle votazioni per la Presidenza della Repubblica.
Ma Renzi non sembra affatto turbato dai mugugni interni del suo partito, né disposto a cambiare idea, privilegiando prima un accordo interno alla maggioranza che sostiene il governo, e solo successivamente la trattativa con Forza Italia. A suo giudizio non basta mettersi d’accordo con Alfano, che in caso contrario minaccia la crisi di governo, e dopo di lui con Monti e Casini. Conti alla mano, il sindaco di Firenze spiega che la maggioranza di governo, al Senato, può contare solo su sette voti di vantaggio: otto senatori dissidenti basterebbero ad affossarla. Di qui l’insistenza sulla necessità di assicurarsi anche l’appoggio del Cavaliere.
Ma le ragioni vere che spingono Renzi ad accelerare, anche a rischio di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, come capitò a suo tempo a D’Alema, sono due. La prima, sembra incredibile, è che il segretario sente più aria di fregatura dalle parti di Palazzo Chigi, che non da quelle di Palazzo Grazioli. Lo ha detto chiaramente che lui e Letta non si prendono e il presidente del Consiglio non si fida. Inoltre, avendo scommesso sulla sua capacità di realizzare le riforme, a partire proprio da quella elettorale, non può permettersi di fallire al primo esordio.
La seconda è che il Berlusconi di oggi non è quello di ieri, e nei panni in cui si trova dovrebbe pensarci quattro volte prima di portare in giro Renzi, per buttarlo fuori strada all’ultima curva. Ridotto com’è ridotto, il Cavaliere in sostanza ha davanti l’ultima vera occasione di rientrare al centro del gioco, persa la quale, il suo destino politico e quello giudiziario non potrebbero che coincidere.
Resta da capire se una strategia come questa, specie se messa in pratica con il metodo e alla velocità di Renzi, porterà alla crisi di governo, perché Alfano e gli altri partners di Letta non accetteranno di farsi scavalcare, o se invece alla fine produrrà una nuova legge maggioritaria e bipolare e un riordino delle forze politiche, magari con la riunificazione dei due tronconi separati del centrodestra e con l’archiviazione conclusiva di ogni ipotesi centrista. Nell’un caso e nell’altro, va detto, il rischio di elezioni anticipate torna ad essere alto. Anche per questo nei prossimi giorni sarebbe utile, necessario, forse perfino indispensabile capire cosa davvero passa per la testa di Berlusconi. In altre parole: Cavaliere, se ci sei, batti un colpo!
DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava l’intera Costruzione ...
SE DIO SI E’ FATTO PAROLA, IO NON POSSO GIOCARE CON LE PAROLE ... IL CATECHISTA NON USA MAI PAROLE EQUIVOCHE: PARLARE DI CARITÀ SIGNIFICA PARLARE DI GRAZIA
Il papa tuona contro l’aborto ma tace sulle rovine dell’Italia
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2011)
Il silenzio del Papa dinanzi alle rovine d’Italia. È una cosa che fa impressione. Perché in Vaticano sanno. Quello che sta avvenendo in Italia con il suo premier non è comparabile a nessun paese dell’Occidente democratico. E in nessuna nazione verrebbe accettato.
Giorni fa ho varcato le mura vaticane e sono stato a trovare un cardinale. Si parlava della prossima beatificazione di Wojtyla e della situazione della Chiesa. Poi, da sé, l’eminenza abborda la situazione italiana. “Con questa storia delle donne - dice - Berlusconi ha superato ogni limite”. Pausa. “E ci mette in imbarazzo, perché non possiamo approvare”. Il cardinale sviluppa il suo pensiero. “Al di là delle cifre vere o presunte delle donazioni date a queste donne, in un momento di crisi come l’attuale ci vorrebbe più sobrietà, più onestà”.
Bene ha fatto il presidente della Cei Bagnasco, continua il porporato, a esigere più decoro. “Un altro
seguita l’eminenza - lascerebbe il suo posto ad un politico diverso, magari per essere difeso
meglio. Lui no”. Un sospiro: “Non c’è alternativa. Tutti i ministri dipendono da lui. Ah la Dc ! Se
non andava bene l’uno, c’era sempre un altro pronto... Fanfani, Moro, Rumor, Colombo”. Il
cardinale guarda dinanzi a sé e conclude: “La situazione è difficile. Fini è finito. Nel simbolo ha
messo il Futuro, ma non ne ha. Chissà se riesce ad affermarsi un Terzo Polo?”.
Non è l’unico. Nel mini-stato del Papa molti comprendono la gravità della crisi italiana, avvitata in
un massacro di ogni regola per difendere l’indifendibile.
I cattolici chiedono di intervenire
NE SONO consapevoli anche alla Cei che l’insofferenza di Berlusconi ad ogni norma di equilibrio dei poteri e di controllo della legalità è sistematica e irrefrenabile. Il cardinale Bagnasco si è detto “sgomento” pubblicamente per i “comportamenti contrari al pubblico decoro” cui si sta assistendo. Poi su questa soglia la Chiesa si blocca. Benedetto XVI interviene sui temi etici generali: l’aborto, le staminali, il fine vita, le coppie di fatto, i finanziamenti alle scuole cattoliche. Ma non affronta il passaggio nodale di questo Paese, nella cui storia la Chiesa come realtà di popolo è profondamente coinvolta. Ancora ieri il Pontefice è intervenuto per condannare l’aborto terapeutico e ammonire che l’interruzione di gravidanza è una “ferita gravissima” alla coscienza morale. I medici, ha soggiunto, devono difendere la donna dall’“inganno” dell’aborto presentato come soluzione a difficoltà familiari, economiche, di salute.
Ma sulla malattia dell’Italia Benedetto XVI tace. Sostengono i clericali più arrabbiati (prevalentemente laici) che “quelli che protestano contro gli interventi del Papa sui temi etici, adesso chiedono che intervenga contro Berlusconi”. Posizioni del genere affiorano nelle lettera dei lettori di Avvenire. E’ una falsa obiezione. In uno stato democratico (lo ricordò il presidente francese Giscard a Papa Wojtyla) è il Parlamento che legifera. Liberi i deputati cattolici, i mass media cattolici, le associazioni cattoliche di fare le loro battaglie. Non tocca ai vertici ecclesiastici organizzare referendum o muovere parlamentari.
Ma qui non siamo in presenza di una delle tante battaglie politiche. Sui fallimenti di Berlusconi - uno zero nel rilancio dello sviluppo industriale, nella tutela economica delle famiglie, nel contrasto alla disoccupazione e al precariato, nella lotta alla corruzione, in politica estera dove è considerato “comico” - sono le forze politiche e sociali italiane a doversi misurare. Senza aiutini. Ma una questione più ampia, un nodo cruciale sta dinanzi agli occhi di tutti. Per salvare se stesso Berlusconi è pronto a scardinare il sistema costituzionale, stravolgere i processi, sanzionare l’informazione, attaccare la Consulta, insultare il lavoro del Parlamento. Tutto per affermare brutalmente la sua pretesa di immunità. E di immunità “personale” parla ora Bossi con gli abituali modi spicci.
Wojtyla e l’Unità d’Italia
QUESTO passaggio storico interpella anche la Chiesa. Venti anni fa, con l’esplodere del secessionismo leghista e i rischi di disgregazione dell’Italia, il Vaticano si trovò dinanzi ad un nodo storico di eguale rilevanza. Papa Wojtyla, sensibile come polacco al ruolo della nazione, intervenne incisivamente. Agì perché il cattolicesimo si schierasse per l’unità del Paese (e ne sono un riflesso le iniziative del cardinale Bagnasco e il preannunciato messaggio di Benedetto XVI per i 150 anni dell’Unità), lanciò la Preghiera per l’Italia, indirizzò l’Osservatore Romano su una linea rigorosa. Il giurista Carlo Cardia ricorda in una recente pubblicazione come nel 1996, in occasione del cosiddetto “Parlamento padano”, l’Osservatore elencasse ad una ad una le mosse disgregatrici leghiste: l’appello alla resistenza fiscale e alla disobbedienza civile, le formazioni paramilitari, la creazione di un “governo” secessionista. Fino alla conclusione del giornale del Papa: “Siamo ben oltre le provocazioni. Non si tratta più di questione settentrionale o meridionale... Qui si esiste ormai una questione Italia”.
È questa consapevolezza che non si riscontra oggi nella politica - in senso alto - del Pontificato ratzingeriano rispetto alla vicenda italiana. Certo se Benedetto XVI guarda soltanto il Tg1, se si affida unicamente alla rassegna stampa della Segreteria di Stato (che nel febbraio del 2010 censurò le polemiche di Feltri contro i presunti mandanti vaticani del falso documento su Boffo), se continua a non ricevere persone di varia estrazione a differenza di Wojtyla, che aveva ospiti a colazione e a pranzo, è difficile che possa avvertire il polso vibrante degli eventi, guardando all’Italia soltanto attraverso la lente dei suoi collaboratori ufficiali e dei rapporti che gli arrivano sul tavolo. Dovrebbe essere la Segreteria di Stato ad assisterlo. Ma da tempo affiora nella strategia politica della Santa Sede una carenza di sistematicità. Specie in campo internazionale. Interventi puntuali del Papa o documenti importanti come quello del Sinodo sul Medio Oriente si alternano a fasi in cui il Papato appare assente o marginale sulla scena internazionale.
Sta accadendo così anche in queste settimane con le rivolte nel Maghreb e il conflitto sanguinoso in Libia (benché l’Osservatore documenti ampiamente gli eventi). Il Papa, come leader di una delle tre grandi religioni monoteiste, avrebbe molto da dire su una sponda con cui il confronto è ineludibile, mentre gli arabi sono alla ricerca di una nuova statualità. Invece la sua voce non si sente. E se c’è una visione, non viene trasmessa.
Soggetti alla legge ma non al capo
di Roberta De Monticelli (Saturno, 25 febbraio 2011)
MENTRE UN VENTO di rivolta soffia a sud della Penisola, incendiando i paesi islamici dal Nord Africa all’Iran, ci si può chiedere se la millenaria riflessione occidentale sul potere, la legge e la disobbedienza potrà ancora aiutarci a decifrare il futuro di questa che già la nostra speranza chiama “la caduta dei tiranni”. Ma se rivolgiamo di nuovo lo sguardo al presente italiano, un dubbio ancora più forte ci assale. Ovvero se le categorie filosofiche dell’obbedienza e della disobbedienza, sulle quali si fonda in definitiva quanto di meglio abbiamo saputo dire sui fondamenti del potere politico nella coscienza delle persone, possano servirci ancora. In questa Italia, «terra di nefandezze, abiure, genuflessioni e pulcinellate». In questo nostro Paese che «attraverso Machiavelli, ha mostrato al mondo il volto demoniaco del potere»; «che ha inventato il fascismo»; dove «la politica si è definitivamente trasformata in crimine, ricatto, delazione, scandalo, imbroglio». Parole vigorose.
Parole di uno scrittore, Ermanno Rea, che si fa leggere d’un fiato dalla prima all’ultima pagina nel suo La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli). Questa fabbrica è l’Italia. Rea attraversa la questione morale passando per i nostri classici, l’Unità tradita, il fascismo, il dopoguerra democristiano, la svolta degli anni Ottanta, fino al presente di «un regime così corrotto e maleodorante che non si sa più con quale aggettivo bollarlo».
UN CORREDO DI SUDDITANZA E MENZOGNA
MA QUESTO libro pone una domanda, semplice e per così dire spettacolare. La stessa dei saggi su Rinascimento Riforma e Controriforma di Bertrando Spaventa, che proprio dagli studi del filosofo napoletano trae ispirazione e respiro. Noi siamo stati i primi. Abbiamo inventato il cittadino responsabile con l’Umanesimo e il Rinascimento. Com’è successo che a questi centocinquant’anni di splendore sia seguita la nostra lunga servitù civile e morale, con il suo corredo di arti della sudditanza, della menzogna, dell’opportunismo e del cinismo, che ritroviamo tanto ben descritte nelle pagine dei nostri classici da Guicciardini a Leopardi?
Com’è potuto accadere che questa storia si sia inesorabilmente ripetuta dopo grandi, in qualche modo miracolose, accensioni di speranza? Il Risorgimento finì di morire col fascismo, e la Costituzione nata dalla Resistenza si vede oggi che fine rischia di fare. Ecco, sarebbe molto miope chi vedesse nella risposta di Rea una semplice riedizione di quella di Spaventa: colpa della Controriforma! Ciò che conta non è di chi o di cosa sia la colpa, ma l’analisi spietata di come si fabbrica la servitù del cuore e la prigionia della mente - che sono l’esatto contrario di tutte le figure di una coscienza delle leggi, antiche e moderne. Delle figure, cioè, dell’obbedienza e della disobbedienza. Del dovere e del diritto. Che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. L’opposizione è la stessa che corre fra “I care” e “me ne frego” - come già aveva notato don Milani nel suo L’obbedienza non è più una virtù.
A differenza della legge, il potere è «alla ricerca di un’obbedienza sempre contingente e perciò da rinnovare continuamente, senza mai esigere... una responsabilità totale, prolungata nel tempo». Che sia ottenuta con la dipendenza spirituale, con la tecnica della confessione e del perdono, oppure con la dipendenza materiale, il favore e il ricatto: la distruzione dello “spirito delle leggi” è una cosa sola con la polverizzazione dell’impegno personale. Cioè la riduzione della necessità del dovere alla contingenza della soggezione, del valore della promessa al prezzo dello scambio - in una parola, la demolizione della responsabilità personale, che obbedienza e disobbedienza autentiche presuppongono.
Ci aiuta a vederlo Raffaele Laudani con il suo Disobbedienza (Il Mulino): un testo che, come ogni prima lezione di filosofia del diritto, si apre nel duplice segno del Socrate platonico e dell’Antigone sofoclea. «E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?».
SIAMO UNA FABBRICA DI SERVI VOLONTARI
QUESTO DICONO le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più che padre e madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Howard Zinn, cantore americano della disobbedienza civile, non perdonava a Socrate il suo atto di obbedienza.
Eppure è proprio dai tempi dell’Umanesimo e del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Etienne La Boétie che lo sappiamo: un tiranno non ha altra forza che quella che gli conferiscono i suoi sudditi, perché non c’è altra fonte di sovranità che il libero volere degli individui. È questa coscienza, infine, che ha permesso di intendere non solo la disobbedienza, ma anche l’obbedienza come un modo della libertà: l’obbedienza, s’intende, alla legge e non al capo. L’auto-obbligazione responsabile dei cittadini, che ha dunque come ultima fonte di legittimità nient’altro che il rispetto della pari dignità di ognuno. In questa autolimitazione del potere che ci fa, governanti e governati, uguali di fronte alla legge,è il valore della legalità e il senso delle istituzioni democratiche. Come la divisione e la relativa autonomia dei poteri. Oggi respiriamo l’onda maleodorante fatta di abusi condoni favori tangenti impunità soprusi e perdoni. È la palude stigia che abbiamo fatto della nostra anima, con un sì dopo l’altro alla ventennale svendita della legalità in cambio di consenso.
Chiamiamola pure “democrazia bloccata”: Ermanno Rea ci insegna che l’impunità assurta a stile di vita non è che l’ultimo capitolo della storia di minorità morale e cinismo cui ha condotto l’intimo matrimonio delle coscienze e della Controriforma. Solo una parola cambieremmo, al titolo. Non la fabbrica dell’obbedienza, ma della servitù - questo abbiamo fatto e continuiamo a fare dell’Italia. Allora sarà più chiaro che non abbiamo scusanti: perché non c’è servitù se non volontaria.
«Destra e sinistra scendano in piazza a difesa della Carta»
Contro il premier e gli attacchi alla Costituzione, la manifestazione del 12 marzo promossa da Articolo 21, Anpi, Libertà e Giustizia. E che registra adesioni anche da destra, Farefuturo compreso, ma senza simboli di partito.
di Alessandra Rubenni (l’Unità, 25.02.2011)
In una mano la Costituzione, nell’altra il Tricolore. Dal pienone al Palasharp di Milano, il 5 febbraio scorso, alla piazza delle donne, l’agenda delle mobilitazioni contro il governo Berlusconi continua, nel segno della difesa della nostra Carta. Appuntamento il 12 marzo con il C-day, «A difesa della Costituzione». Per dire «basta» a chi mira a «oscurare i diritti della persona» e a una riforma della giustizia «per introdurre leggi a uso e consumo» del Cavaliere nazionale, come dicono i promotori della nuova adunata.
Niente bandiere né simboli di partito, punto d’arrivo la stessa piazza che il 13 marzo si è riempita all’inverosimile per la protesta delle donne. A quasi un mese di distanza, si replica con la giornata promossa da un cartello di associazioni, a cominciare da Articolo 21, con Cgil, Anpi, Libertà e Giustizia, Valigia Blu, Libera, Giuristi Democratici, Popolo Viola, Unione degli Universitari, ma anche Farefuturo (almeno in parte) come annuncia il direttore Filippo Rossi su Ffwebmagazine, il magazine della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, come pure l’Idv. A sostenere la manifestazione, anche l’Unità che sul suo sito web ha chiesto: «Tu ci sarai?». Interrogativo al quale hanno risposto in migliaia, pronti a scendere in piazza.
Ancora prima come spiega il portavoce di Articolo 21, Giuseppe Giulietti questa mobilitazione, che si inserisce fra le tante che nelle scorse settimane hanno riempito le piazze di tutta Italia, è nata da diversi appelli e da un’idea di Vincenzo Vita, un senatore Pd, insieme a un esponente di destra, come Fabio Granata, deputato di Fli. «È la prima volta si unisce un mondo così variegato, che non sarà mai un partito né una coalizione di governo. Speriamo si uniscano a noi tanti semplici cittadini, ai quali chiediamo per un giorno di riconoscersi semplicemente nella Costituzione, contro il tentativo di chi vuole oscurarla e sottrarre diritti alla collettività», scandisce Giulietti.
La manifestazione principale, dunque, si svolgerà a Roma, con il corteo che partirà alle 14 da piazza della Repubblica per dirigersi verso piazza del Popolo. Con uno slogan che riprende quello del 13 febbraio: «Se non ora quando?». In contemporanea, i cortei e sit-in che si stanno organizzando a Firenze, Torino, Trieste, Pavia, ma anche a Sud, Bari, Lecce, Palermo, e all’estero, a partire da Londra e Praga, che per il tamtam puntano su facebook. Tutti i dettagli disponibili si trovano sul sito www.adifesadellacostituzione.it ( nei prossimi giorni anche su www.cday.it), che si arricchirà di informazioni man mano che la macchina organizzativa procederà nella messa a punto.
«Di fronte a un presidente del Consiglio che dice “questa volta nessuno mi potrà fermare”, usando tono e parole da resa dei conti più adeguati ad un film d’azione degli anni ’80 che ad un civile dibattito istituzionale, le possibilità sono poche», scrivono gli organizzatori. Ma ora, «si tratta di immaginarci da qui a trent’anni» e di immaginare quale Italia vogliamo consegnare ai nostri nipoti.
Rivoluzione di giovani per la dignità
di Vittorio Cristelli (vita trentina”, 27 febbraio 2011)
L’Africa settentrionale è in fiamme. L’insurrezione, partita dalla Tunisi dove è sparito nel nulla il dittatore Ben Ali, ha infiammato l’Egitto mettendo in fuga Mubarak. E si è estesa poi allo Yemen e negli ultimi giorni sta mettendo sotto sopra la Libia di Gheddafi.
Quello che è importante precisare è che non si tratta di una ribellione di massa per il pane - anche se effettivamente il pane manca -, bensì per la dignità umana, la libertà e la democrazia. Tant’è vero che protagonisti e attori sono i giovani tra i 25 e i 35 anni, anche con un lavoro, seppure precario.
Questo è emerso da una riunione del Cipax (Centro interconfessionale per la pace) a Roma il 3 febbraio scorso. Il teologo tunisino Adnane Mokrani, che insegna all’Università Gregoriana di Roma, ha segnalato che si tratta di rivendicazione di “dignità, fiducia e speranza”. Tant’è vero che lo slogan dell’insurrezione scoppiata a Tunisi recitava: “Siamo pronti a mangiare anche solo pane e acqua, ma vogliamo libertà e dignità”.
La prima scintilla è apparsa già in ottobre nel deserto marocchino del Sahara, dove 20 mila persone si erano asserragliate in un distretto chiamato “il campo della dignità”. Una rivolta soffocata nel sangue e nel silenzio dei mass media l’8 novembre. Il teologo Mokrani ha individuato la “novità” nel gesto disperato del giovane 26enne tunisino Mohammed Bou’azizi, che il 17 dicembre si è dato fuoco per protestare contro la requisizione del suo banchetto di frutta e verdura. Non quindi per fame, ma per sete di dignità e giustizia.
La conferma è venuta da un comunicato della Conferenza episcopale del Nord Africa, emanato il 3 febbraio scorso. In esso i vescovi affermano che le manifestazioni rappresentano una rivendicazione di libertà e di dignità e nascono dalle “generazioni più giovani della nostra regione, che si traducono nella volontà che tutti siano riconosciuti come cittadini e cittadini responsabili”. Precisano inoltre che la rivolta non è mossa da vessilli di una fede dominante, ma unisce nella piazze cittadini di appartenenze diverse attorno ad obiettivi di cittadinanza ed è dunque una grande occasione laica di dialogo e convergenza.
Fa loro eco il gesuita egiziano p. Henry Boudlad dicendo che il vero protagonista è il popolo e specificando che “non è il popolo vissuto sempre nella paura e nella sottomissione, ma una categoria molto precisa: i giovani appena diplomati e tuttavia disoccupati, frustrati, senza impiego, senza alloggio, senza prospettive di un avvenire”.
Il teologo Mukrani ammonisce anche l’Occidente e segnatamente l’Italia perché “se pensa di lottare contro l’immigrazione clandestina sostenendo dittature che producono povertà e quindi emigrazione, è fuori strada”.
Il nostro ministro degli Interni Maroni ha pienamente ragione e diritto di sollecitare un maggiore coinvolgimento dell’Europa nell’affrontare l’emergenza di migliaia di maghrebini che fuggono dai loro paesi in crisi per rifugiarsi sulle coste italiane. Ma dovrà pur chiedersi se non è stato un errore madornale affidarsi ai dittatori per fermarli. E come spiegare l’uscita del premier Berlusconi che, a chi lo invitava a telefonare a Gheddafi, ha risposto di non volerlo “disturbare in questo momento”? Disturbare, mentre sta facendo che cosa? La risposta è rintracciabile nei comunicati quotidiani che parlano di centinaia tra morti e feriti nella repressione.
Ma un altro dato deve risvegliare i politici. I giovani anche in quei paesi non si informano attraverso i comunicati ufficiali dei governi in carica, ma attraverso Internet, You-Tube, Facebook e Twitter. Attraverso quei canali si parlano e organizzano le manifestazioni., Spero bene che non si procede a oscurare anche quei canali, perché allora si verificherebbe un trapianto di dittatura. E se quei canali fossero gli stessi che hanno fatto scendere in piazza i nostri giovani - studenti, ricercatori, diplomati e laureati, ma precari? La domanda è retorica.
Un ultimo rilievo. Dice nulla che a far scendere in piazza masse di donne e di giovani sia la parola “Dignità”?
Elogio della disobbedienza
di Elisabetta Ambrosi (Europa, 25 febbraio 2011)
Critica del potere. Protesta. Rivolta. Sono queste le parole che rimbalzano da quei paesi del mediterraneo da troppo tempo ridotti al silenzio e alla povertà. Ma anche in Europa, e soprattutto nel nostro paese, riprende vigore il dissenso e, dopo un quindicennio di conformismo berlusconiano, si irrobustiscono le voci critiche. La trasgressione del senso comune sembra finalmente tornare un valore. Più che di rivoluzione però, nel nostro caso si assiste soprattutto al ritorno del Soggetto con la maiuscola, quello che sceglie secondo coscienza. E magari arriva a decidere che ciò che è ovvio per tutti (e insieme quello che i politici che dovrebbe rappresentarlo vanno dicendo), non fa per lui. Peggio, non corrisponde al vero, è falso.
Non si tratta però, con l’eccezione di Saviano, di un ritorno degli intellettuali, spariti da tempo dalla scena pubblica; ma di individui singoli che scelgono strade di radicale diversità: è il caso di Simone Perotti, di cui è appena uscito, per Chiare Lettere, Avanti tutta. Manifesto per una rivolta individuale, seguito del fortunato volume con cui l’autore quarantenne raccontava la sua decisione di lasciare il lavoro e vivere una vita sotto il segno della libertà. «Si può vivere con poco, e soprattutto si può vivere bene», continua a sostenere oggi Perotti, in pagine dove racconta dell’insensatezza di una vita breve, mortale e tuttavia spesa quasi interamente per lavorare in aziende brutte, disorganizzate, dove i talenti vengono sprecati. Luoghi dove si spreca contraddittoriamente quel denaro che appare al tempo stesso come l’unica divinità in circolazione.
Smettere di piangere su stessi, avere coraggio, fare scelte di libertà che vadano contro quello che appare socialmente ben visto, suggerisce invece Perotti. Una scelta difficile, perché se è vero che «il Sistema ci fa consumare, abitare, muovere in modo spesso insensato e disumano», al tempo stesso ci protegge dalla responsabilità: «Mettendoci al riparo dalle scelte, quel mondo ci assolve! Qualunque cosa capiti non è affar nostro, non è colpa nostra».
Il rapporto tra obbedienza al sistema, e insieme alla legge, e la loro violazione è al centro anche di un colto pamphlet dello studioso di politica Raffaele Laudani, Disobbedienza (Il Mulino), da ieri nelle librerie. Si tratta, secondo l’autore, di una relazione tormentata, perché se da un lato i miti fondativi della cultura occidentale - da Adamo ed Eva ad Antigone - fanno della rottura della norma il «punto di partenza del Soggetto moderno, l’atto che consente all’individuo di uscire dallo stato di minorità»; dall’altro, « dal punto di vista politico la disobbedienza resta un tabù, attività proibita e scabrosa».
Ma soprattutto - è un tema centrale di tutta la filosofia politica - se la legge si fonda sulla verità, la verità può non coincidere con l’opinione della maggioranza. In questa non coincidenza del vero con ciò che è creduto dai più, ma che spesso è politicamente e socialmente vincolante, sta il tormento del cittadino, diviso tra ascolto delle proprie intime convinzioni e la loro dissonanza con ciò che sembra giusto a tutti gli altri. Non è un caso che Simone Perotti racconti che il sentimento più diffuso di tutti i lettori che gli hanno scritto è il sollievo scaturito dalla scoperta di non essere pazzi, di non essere gli unici a vivere con dolore il contrasto tra ciò che si avverte come autentico e ciò che appare. Si tratta di un contrasto che ha sempre caratterizzato, scrive a sua volta Laudani, anche il pensiero cristiano, spesso combattuto, nonostante il principio del «dare a Cesare ciò che è di Cesare», tra l’obbedienza alla volontà di Dio e quella all’autorità statale. E che forse comincia ad essere oggi più avvertito, anche se la voce dei cattolici non allineati resta ancora flebile. Due sono le strade praticate per sottrarsi alla condizione di dipendenza da una tirannia (che può essere politica ma anche economico-sociale) e per riaffermare la propria condizione di esseri razionali e liberi.
La contestazione aperta al sistema, come hanno fatto nella storia, tra gli altri, il femminismo, il marxismo, il sessantotto fino ai contemporanei hacker; o la fuga da quel sistema, il ritiro in unazona remota e privata dove non sono in vigore norme che costringono all’inautenticità. Si tratta in entrambi i casi di scelte difficili, perché «la libertà non è a costo zero. E non è per tutti», sostiene Perotti. «Ogni giornata impone scelte, rimanda a noi la responsabilità di cosa fare, quando, a che costo, perché, come. Siamo individualmente e socialmente più esposti, non veniamo protetti da alcuno scudo condiviso» (anzi, aggiunge l’autore di Avanti tutta, «abbiamo perfino la responsabilità della felicità»).
Eppure, anche se non rivoluzionarie, le scelte dell’aperto dissenso, o della dissociazione silenziosa, sono capaci di cambiare la società e persino la storia. La disobbedienza, scrive Laudani, non è «soltanto una modalità di praticare il conflitto sociale (“Il progetto dell’esodo e della liberazione”) ma anche e soprattutto un modo d’essere della democrazia radicale». A differenza della rivoluzione violenta, è il «motore di un lungo processo di trasformazione che non mira alla presa del potere politico, quanto piuttosto alla crescita della nuova società nel guscio della vecchia». «Per capire quanto possa essere efficace un’arma come questa», ha scritto Hannah Arendt, una delle filosofe che più ha analizzato il tema della disobbedienza civile, «dobbiamo solo immaginare per un istante che cosa sarebbe accaduto a questi regimi se abbastanza gente avesse agito “irresponsabilmente”. Negando cioè il proprio sostegno, anche senza scatenare una ribellione o una resistenza attiva »
La ribellione che parte dalle donne
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 25 febbraio 2011
Se è vero che la legge sul "fine vita" è stata la moneta pagata da Berlusconi per rinsaldare il rapporto coi vertici vaticani nell’incontro celebrativo dei Patti Lateranensi, allora ha proprio ragione Ermanno Rea: ancora una volta la Chiesa di Roma si è rivelata come "la fabbrica dell’obbedienza". Eppure quest’ultimo libro di uno scrittore noto e amato (La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani, ed. Feltrinelli, marzo 2010) non è un libello anticlericale ma piuttosto una radiografia storica della debolezza morale dell’italiano.
La ricorrenza del 150° anniversario dell’unità politica impone a tutti una riflessione che vada al di là della cronaca del presente. Dalla ricca e interessante intervista di Simonetta Fiori a Emilio Gentile (Italiani senza padri, intervista sul Risorgimento, Edizioni Laterza) abbiamo imparato molto sul tentativo fallito delle classi dirigenti liberali del secondo ’800 di far nascere una religione civile.
Nelle celebrazioni del 1911 Ernesto Nathan integrò il santino patriottico della trinità laica Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi, con la figura di Mazzini come apostolo della religione civile. Ma lo scontro che ne nacque con la religione della Chiesa dimostrò quanto questa fosse ben più radicata nella mentalità degli italiani.
Rispetto a Gentile, Ermanno Rea si muove senza impacci su di una pista più lunga. Il suo è un libro-sfogo, nato dagli appunti di un corso per raccontare l’Italia a degli studenti sotto i limpidi e freddi cieli del Vermont: l’impresa dovette essere difficile già quando si svolse, ben prima che a renderla impossibile giungessero gli ultimi episodi (per ora), non solo delle feste e dei festini del nostro "Cesare" ma anche e soprattutto della confermata disponibilità ecclesiastica a coprirlo garantendo così l’indifferenza complice della società e coprendo di sacrale legittimazione il servile affanno del partito del padrone. Guardarsi nello specchio degli altri è sempre utile. Si legga il giudizio di Ingrid Thulin: "Per voi fare all’amore è peccato: da noi i bambini imparano a scuola come si fa... Voi vi raccomandate a Dio e ai filtri d’amore e vi assolvete confessandovi, noi paghiamo per i nostri sbagli... Per voi le donne sono come le lepri e le pernici, selvaggina; per noi sono individui".
Rea ha preso molto sul serio l’accenno alla confessione: è questa, secondo lui, la macchina inventata dalla Chiesa della Controriforma che ha la responsabilità originaria di avere creato questa Italia "corrotta e ridanciana, superstiziosa e corriva, irresponsabile e bigotta". Da allora, la storia degli italiani è quella di obbedienze servili e di ipocrisia, di lacrime di delinquenti pentiti accolti a braccia aperte - dall’Innominato manzoniano al devotissimo Bernardo Provenzano consumatore di feticci devoti in quantità industriale - e di rarissime, eccezionali ribellioni: quella di Giordano Bruno spicca su tutte. Ermanno Rea ha stilato un inventario di storie degli italiani come un popolo educato alla servitù, alla finzione e alla minorità irresponsabile sotto la guida di una religione maternamente comprensiva e pronta sempre a perdonare.
Le violenze di poteri vili e feroci si sono esercitate su di una popolazione che ha cancellato dai propri costumi perfino il principio fondamentale della "civiltà della vergogna", quella che impone all’eroe omerico Ettore di fare la sua parte e di non fuggire sotto gli occhi di tutti davanti all’invincibile Achille. Le agghiaccianti testimonianze dei disertori processati dopo Caporetto, raccolte anni fa da Enzo Forcella in un’opera memorabile documentano il fallimento della religione civile liberale e introducono al progetto fascista di una religione dello Stato con l’avallo e le benedizioni della Chiesa. Per Rea aveva ragione Curzio Malaparte a parlare del fascismo come il trionfo dello spirito della Controriforma.
Se oggi, osserva Rea, c’è ancora una metà della popolazione italiana che resta "fedele al suo ‘eroe’ nonostante i suoi festini, i suoi mercimoni, la sua rozzezza, il suo cattivo gusto, la sua disarmante comicità" è dunque per una debolezza morale radicata in profondità. Verrebbe voglia di sperare che non sia proprio così, di dire che forse qualcosa si muove nello stagnante scenario di un paese a lungo prigioniero di un grossolano ma efficace incantesimo.
Come valutare ad esempio i segni diribellione che trapelano dall’interno della Chiesa italiana? Mentre ai livelli "alti" della Chiesa è in atto l’arrembaggio a un governo debolissimo che non lesina concessioni fatte letteralmente sulla pelle degli italiani, ci sono cristiani praticanti che mandano vibranti lettere di protesta ai loro vescovi.
Un gruppo di "cristiani della Chiesa di Modena" ha inviato al proprio vescovo un documento di denunzia dello scambio in atto tra "privilegi per la Chiesa e legittimazione per il governo". I firmatari sono persone che si dicono "sconvolte" dal "degrado morale" e dall’arroganza della "classe politica che governa questo paese". E parlano di una crisi che "rischia di compromettere l’unità stessa della Nazione". Segni isolati, voci flebili: ma forse il tempo dell’obbedienza passiva sta terminando perfino in Italia. E a risvegliare la speranza è soprattutto la ribellione che ha assunto per la prima volta nella storia d’Italia il volto di un popolo di donne.