LA CACCIA AL CARISMA E LA COSTITUZIONE IN AGONIA
UN OMAGGIO A LIDIA RAVERA. Ciò che qui è ripresa è una ironica e brillante nota di Lidia Ravera, intitolata "AAA carisma cercasi". Per essere apprezzata a pieno, credo però che siano necessarie alcune precisazioni a margine, sia che intendiamo per "carisma" un dono della Natura, sia che lo intendiamo come un dono di Dio, sia che lo intendiamo come un dono della Tecnica Comunicativa (l’Arte della Persuasione, la Retorica).
Innanzitutto, è da dire che "carisma" è una parola che ci viene dal greco antico: "chàrisma", e richiama la "Charis" ("Grazia"), le "Chàrites" (le tre "Grazie") del mondo greco, legate alle arti e alla bellezza, e poi la "Charitas" (il Dio pieno di grazia del messaggio evangelico: "Deus charitas est": 1 Gv.: 4.8).
Detto questo, è chiaro che nel discorso sul "charisma", fatto da Lidia Ravera - ora come sempre nella nostra cultura - riafforano i problemi ancora non risolti della fusione del mondo greco, del mondo latino, del mondo cristiano, e del mondo cattolico-romano (la prima enciclica, con diritti di autore e a pagamento, di Benedetto XVI, è intitolata significativamente "Deus caritas est", che dice di un Dio che è "caro" nel doppio senso di "affetto" e di "prezzo").
Ora, considerato che tutti gli esseri umani sono dotati di "carisma" e che a tutti i cittadini e a tutte le cittadine - nella nostra società e nella nostra democrazia - è riconosciuta dalla Costituzione "la pari dignità"(art. 3), qualsiasi sia la fonte dei nostri doni e qualsiasi sia la loro grandezza (o piccolezza), il problema cambia e non è più quello della "caccia al carisma", ma dell’uso (o dell’abuso) che possiamo fare del nostro personale carisma.
Alla luce di questo, il discorso di Lidia Ravera diventa chiaro e importante, e se ne può ben comprendere a pieno tutto il senso implicito e la portata politica. In breve: i tre "Papi" che lottano per imporre la propria legge - quella della Natura (Scalfari), quella del Dio cattolico-romano (Benedetto XVI), quella della Tecnica Comunicativa (Berlusconi) - sono tutti e tre fuori strada e fuori Legge: contro la Costituzione, contro il Presidente della Repubblica, e contro l’Italia!!!
Federico La Sala
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AAA carisma cercasi
di Lidia Ravera (l’Unità, 14.10.2010)
Diceva Scalfari, discutendo delle “metamorfosi” nel corso del Festival dei Corti a Capalbio, domenica scorsa: «Il carisma o ce l’hai o non ce l’hai, puoi scoprire, a un certo punto della vita, di averlo e decidere di farlo pesare sul tavolo della politica, ma non puoi ottenerlo, apprenderlo». Infatti: il carisma è come la bellezza, un dono di natura. La differenza è che la bellezza, ormai, puoi acquisirla correggendo le imperfezioni con la chirurgia, il carisma no, non è a portata di bisturi (quanti ne vedresti, se così non fosse, in attesa davanti alla sala operatoria!). Nella teologia cristiana è una dote soprannaturale concessa da Dio a un fedele per il bene della comunità, fuori dalla teologia è la “forza di persuasione, l’ascendente innato di chi possiede grandi o indiscusse qualità personali”.
Da quando il centrodestra traballa e il centrosinistra cerca un leader capace di unificare tutte le sue anime e trarre vantaggio dal tracollo prossimo venturo, si è aperta la caccia al “carisma”. Ci si chiede ininterrottamente chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Si accavallano conversazioni affannose: Bersani è tanto bravo ma non ce l’ha. Vendola forse ce l’ha ma chissà poi che uso ne fa. Luca di Montezemolo ce l’ha? Soldi + presenza + alterigia uguale carisma? Ma no! Semmai soldi + potere + demagogia. Quello è Berlusconi: non possiamo mica candidarlo contro se stesso! Allora Fini: il carisma pare che non ce l’abbia, ma siamo d’accordo su tante cose. Fini? Mai! E se provassimo una donna? Ce n’è un sacco che il carisma ce l’hanno ma non l’hanno mai fatto vedere oppure l’hanno fatto vedere ma nessuno guardava. La Rosibindi, per esempio, così irreprensibile, la Finocchiaro, così autorevole. No. Piuttosto, un prete! Don Gallo? Don Ciotti? Un giovane! Un prete! Una donna! Un industriale! Sai che, secondo me, Bersani, in fondo...
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
COSMOTEANDRIA (COSMO- DIO - "UOMO") E ANTROPOLOGIA. LA "Logica carismatica", il "movimento femminista", e il messaggio evangelico...
Logica carismatica /3. Liberiamo i figli dai demoni
Le comunità restano vive se gli incontri del cammino le convertono
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 4 settembre 2021)
Nella nostra analogia tra comunità carismatiche attuali e la prima comunità cristiana, oggi guardiamo da vicino un noto episodio del Vangelo di Marco: «Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. Ed egli le rispondeva: "Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". Ma lei gli replicò: "Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli". Allora le disse: "Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia" » (7,24-30). Marco ci dice che Gesù si trovava in terra pagana (Tiro) non per evangelizzare, ma viene rintracciato da una donna siro-fenicia che le chiede la guarigione della figlia. Il dialogo tra i due riflette un problema, molto importante, delle prime comunità, cioè il legame tra la nuova comunità cristiana e i non-ebrei (o gentili); un tema immenso, che attraversa tutto il Nuovo Testamento, come tensione mai del tutto risolta.
Anche questa volta, come con l’indemoniato di Gerasa (Mc, 5), un pagano viene incontro a Gesù, non è quindi cercato da lui. Da qui il primo messaggio: Gesù non si era recato in quella regione con lo scopo di fare miracoli né di evangelizzare. Quella donna gli càpita, e pone Gesù di fronte a una scelta. La tradizione dà nome a queste due donne: la madre Husta, la bambina Bernike (Pseudo-Clemente, Omelie) - molta tradizione cristiana ha donato nomi agli anonimi personaggi dei Vangeli, continuando così l’amore che Gesù aveva per essi. La frase che Gesù pronuncia di fronte alla richiesta di una madre appare, ancora oggi, molto dura. Chiamare cani i non-ebrei (o "cagnolini", che comunque non era un vezzeggiativo), sebbene fosse linguaggio comune al tempo di Gesù, oggi ci disturba, anche se a dirlo è Gesù. Evidentemente siamo di fronte ad un passaggio che risente molto delle accese dispute del tempo. Ma un messaggio importante lo possiamo sempre leggere tra le righe: non tutte le parole della Bibbia, neanche tutte le parole dei vangeli possono essere usate oggi da noi per dire le nostre parole più buone. Ce ne sono alcune che, figlie del loro tempo, sono state nei secoli cristianizzate dalla storia irrorata anche dall’evento cristiano, rendendo "più cristiane" le stesse parole dei Vangeli. Grazie allo sviluppo dell’umanità e grazie alla maturazione delle parole di Gesù nella Chiesa e nella storia, noi oggi non useremo più "cani" per descrivere persone di altre fedi. Anche il Vangelo, anche le parole di Gesù sono state fatti migliori dalla storia fecondata dalla rivelazione, al punto di dimenticarne alcune - foss’anche solo questa. La Bibbia contiene molte parole che sono migliori delle nostre parole. La storia fecondata da quelle parole migliori ci ha resi nel tempo capaci di migliorare altre parole bibliche che nel frattempo non erano più all’altezza della civiltà che il Libro aveva generato.
Un giorno mia nipote Beatrice lesse per la prima volta in un quadro di casa la motivazione della medaglia d’oro "premio della bontà" che sua madre aveva ricevuto da bambina. In quel testo c’era dentro l’espressione "compagno di scuola handicappato". Beatrice lanciò una specie di urlo, perché la parola handicappato per lei era una sorta di parolaccia. Una generazione era stata sufficiente per far passare una parola già buona tra le parole sbagliate. Qualcosa del genere accade anche con le parole bibliche, che sono state fatte più belle dall’umanità migliorata dalla linfa spirituale della stessa Bibbia. È questa una delle meravigliose leggi della storia. Ed è molto probabile che questa stessa storia porterà tra qualche decennio ad aumentare il numero delle parole dei Vangeli che lo spirito evangelico di domani supererà. Per qualcuno questo superamento rappresenta una brutta notizia; in realtà mostra la misteriosa reciprocità che esiste tra la parola di Dio e le nostre parole: sono figlie della Parola, ma, come tutti i figli buoni, se non diventano anche padri e madri dei loro genitori finiscono per diventarne assassini o, ed è lo stesso, a dimenticarli nell’indifferenza. "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno"; ma tra le parole che non passano ce ne sono alcune che noi, grazie al Vangelo capiremo che non potremo usare se non vogliamo tradirlo.
E se non possiamo usare neanche tutte le parole della Bibbia e neanche tutte le parole di Gesù per dire le nostre cose buone, allora a fortiori le comunità carismatiche non possono né devono usare tutte le parole dei loro fondatori. La saggezza di ogni generazione di membri di una data comunità spirituale sta anche, e in certi passaggi soprattutto, dal sapere individuare quali parole usare e quali non usare, pur custodendole tutte nella tradizione (come ha fatto la Chiesa). Ma mentre le parole di Gesù che la stessa maturazione del cristianesimo ci ha insegnato a non usare più sono davvero pochissime, le parole dei fondatori che non si devono usare più nelle generazioni successive sono invece molte. Qui l’ordine si inverte: le parole "eterne" sono poche e quelle che attendono di essere superate sono molte. E quando una comunità non distingue e considera tutte le parole di ieri dotate dello stesso valore carismatico, questa comunità finisce, senza volerlo, per far invecchiare velocemente tutte le parole dei suoi inizi. Le parole teofore, inoltre, sono sale nella massa di tutte le altre parole. Non esiste un criterio per individuare quali sono queste parole-sale, e quasi sempre sbagliamo quando proviamo a riconoscerle, perché ne lasciamo alcune di sale nella massa e viceversa. Ma l’errore davvero mortale è non tentare questa operazione, e combattere chi la tenta. Sapendo, infine, che sale e massa insieme fanno il pane buono, ma solo nella giusta combinazione.
In quell’episodio evangelico c’è molto altro ancora. Gesù ha cambiato idea grazie agli incontri che ha fatto lungo le sue strade. La strada, dimensione essenziale della sua missione, non è sfondo ma contenuto del suo paesaggio esistenziale, gli ha insegnato cose nuove. Qui incontra una donna, che parla della sua bambina malata, e grazie a quella donna pagana con cui entra in dialogo, Gesù scopre una nuova dimensione della sua missione: l’universalità. Cambia idea. L’insistenza di una donna gli fa cambiare idea. Non abbiamo buone ragioni esegetiche per pensare che questo racconto sia stato composto da Marco, e quindi non risalga alla tradizione orale antica. E allora se anche il Figlio dell’uomo ha cambiato idea dialogando con la sua gente, allora il dialogo deve far cambiare idea anche a noi, e il non cambiare mai idea non è buon segno cristiano.
La prima risposta che Gesù dà alla donna è una affermazione di buon senso, è parte del diritto naturale di ogni civiltà: non è etico sfamare i più lontani se non si è prima sfamato chi è vicino, occuparsi degli altri senza avere ancora risolto i problemi della famiglia. È la prassi del buon padre di famiglia, delle madri, delle comunità, di chi non sfama chi è fuori se non riesce a sfamare chi è dentro, di chi non dà un denaro in elemosina se con quel denaro deve comprare il necessario per un figlio. Eppure Gesù, nel Vangelo di Luca, narrerà la parabola del Buon Samaritano, costruita esattamente sulla tesi opposta a questa del buonsenso: il prossimo non è il vicino (i vicini della vittima erano il sacerdote e il levita), e il dovere di amare il prossimo non segue la gerarchia della vicinanza affettiva o naturale. Quella donna pagana, anche se non lo sapeva, stava raccontando a Gesù la parabola del buon samaritano. E Gesù si lasciò convertire dal suo Vangelo raccontato da una madre.
Il Vangelo e, poi, la Chiesa sono strapieni di persone che si convertono alle parole di Gesù: in questo racconto è Gesù che si converte (cambia sguardo) alle parole di una donna pagana. E continua a farlo lungo la storia, tutte le volte che il suo Vangelo si è convertito, attraverso i secoli, alle parole di donne e uomini, che, cristiani e no, hanno spiegato alla Chiesa il suo stesso Vangelo, con parole che parlavano di diritti umani, di rispetto, di uguaglianza, di fraternità. E qualche volta la Chiesa ha imparato, si è convertita al suo Vangelo che è diventato "più cristiano" grazie a quelle parole in terra "pagana".
La Chiesa non avrebbe detto le parole che oggi dice sulle donne senza il movimento femminista che, a volte da fuori di essa, le ha ricordato Paolo: "Non c’è né uomo né donna", e glielo ha spiegato. Molti economisti cristiani non avrebbero capito cosa è oggi la povertà senza il magistero laico di Amartya Sen e Muhammad Yunus. È la splendida reciprocità terra-cielo di cui ci parla l’umanesimo biblico, dove l’uomo impara il cielo da Dio e Dio impara la terra dagli uomini e dalle donne.
Le comunità scoprono il proprio carisma incontrando la gente lungo le strade, soprattutto nelle strade al di là dei confini. Se leggiamo le loro storie più belle, ci accorgiamo che quasi sempre i fondatori hanno capito cose nuove, a volte opposte a quelle che credevano all’inizio, incontrando persone concrete, che gli hanno ricordato e svelato il loro stesso ideale. Hanno compreso dimensione nuove del loro carisma perché qualcuno ha raccontato loro parabole del buon samaritano, prima che fossero scritte. E le comunità continuano a essere altrettanto vive e generative se continuano a farsi convertire dalla gente che incontrano per strada, se sono capaci di cambiare idea anche quando queste conversioni sembrano portarle lontano dalle parole dei primi tempi, incluse le parole che erano state già frutto delle conversioni dei fondatori. Le comunità invece muoiono, o declinano, perché smettono di incontrare le madri siro-fenice al di fuori dei loro confini, o perché, semplicemente, non escono più di casa. Per paura di ascoltare le storie sbagliate e tradire le radici, non ascoltiamo nessuno e tradiamo il futuro. Le comunità avrebbero solo bisogno di figli capaci di amare i ’padri’ aiutandoli a diventare più grandi delle loro parole, vivendo con loro quella reciprocità tra uguali che in vita non hanno quasi mai conosciuta. Chissà quante donne "pagane" ci stanno narrando oggi parabole evangeliche, e noi non lo sappiamo. E i demoni non lasciano dormire i nostri bambini: «Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato».
CHARISMA: I COLORI DELLO SPIRITO
Un pittore teologo. Arte, emozioni, spiritualità. Tutto questo in: “CHARISMA: I COLORI DELLO SPIRITO“, una mostra straordinaria che potrete ammirare presso la chiesa ex-parrocchiale di Pozzo d’Adda, sabato 26 e domenica 27 maggio. *
L’artista Massimiliano Ferragina - Ph_Fulvio Mandrini
L’ARTISTA
Massimiliano Ferragina nasce a Catanzaro il 17 settembre 1977. Si trasferisce giovanissimo a Roma, dove si laurea in filosofia e teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. La sua espressione artistica è influenzata notevolmente sia dal suo percorso accademico, sia da un viaggio di tre mesi in Sud America e da tre formative residenze d’artista a Parigi (2005), Dublino (2011) e Copenaghen (2012). Esordisce in Italia nel gennaio 2012, con il premio Open Art, presso le sale del Bramante a piazza del Popolo (RM). I suoi numerosi progetti artistici, presenti in tutta Italia e in vari Paesi del Nord Europa, hanno sempre un profondo ed introspettivo messaggio, in cui il mondo interiore è protagonista e “motore immobile“.
Massimilano Ferragina alla conferenza di apertura della personale “Charisma: i colori dello Spirito” - Ph_Fulvio Mandrini
La sua arte e la sua formazione teologica si fondono completamente, dando forma, nella forza dei colori primari, al potente mondo spirituale di Massimiliano. Un mondo che, per mezzo dell’emozione, vuole interrogarvi, porvi domande, condurvi alla riflessione, dialogare con quello che è il vostro mondo interiore e la vostra spiritualità. La pittura di Ferragina nasce dalla preziosa radice della meditazione, che si apre in una testimonianza che diviene dialogo spirituale, che difficilmente può lasciare indifferenti.
Fiamme
Lo Spirito soffia dove vuole - Acrilico e stucco su tela Ph_Fulvio Mandrini
LA MOSTRA
La mostra “CHARISMA: I COLORI DELLO SPIRITO”, promossa dall’Arcidiocesi di Milano-Unità pastorale S. Antonio Abate SS. Redentore a cura di p. Michele M. Pirotta, è l’idea di un percorso creativo ispirato allo Spirito Santo, che irrompe nel giorno di Pentecoste nel cenacolo e infiamma i cuori degli apostoli che trovano il coraggio di alzare la testa ed annunciare quello che hanno vissuto. Quello di Ferragina è il tentativo di decifrare, dal testo biblico, lo Spirito Santo e la sua azione, per mezzo dei colori che esplodono sulla tela.
Blu
Come rombo di tuono - Acrilico e stucco su tela - Ph_Fulvio Mandrini
Il “come rombo di tuono” dell’evento di Pentecoste - così come ce lo descrive l’autore degli Atti - si può davvero percepire, quasi fisicamente, nelle spirali circolari fatte di un blu intenso, alternate a lampi che rifulgono di un giallo accecante, che paiono voler colpire proprio il nostro sguardo di osservatori.
Pentecoste - Acrilico e stucco su tela-Ph_Fulvio Mandrini
Il fuoco spirituale che discende e infiamma l’umanità degli apostoli, si concreta invece in rosse pennellate di colore sul giallo corporeo dei protagonisti, fiamme che danno nuova vita alla finitezza degli uomini, come fosse una seconda creazione.
Vieni Spirito Santo - Pointilisme acrilico - Ph_Fulvio Mandrini
Si può quindi ammirare la molteplicità delle genti e delle lingue riunite dalla forza dello Spirito, nella suggestiva galassia di punti di colore, distinti, tuttavia tenuti insieme dalla forza divina. I passi biblici o di antiche liturgie, accompagnano il percorso espositivo, quadro dopo quadro, opera dopo opera, creando un legame perfetto tra parole e immagini. Il tutto nella cornice della chiesa ex-parrocchiale, che è un edificio suggestivo, da poco restaurato, che è un luogo naturale per chi voglia dialogare con il proprio io più profondo.
Quadro3 Come lingue di fuoco. Acrilico e stucco su tela - Ph_Fulvio Mandrini
Personalmente trovo che il confronto con un’arte tanto potente, nata da un’interiorità così genuina e profonda, sia veramente un’esperienza da sperimentare. Dapprincipio forse, soprattutto se abituati alle forme dell’arte figurativa classica, si potrebbe provare un senso di straniamento, al cospetto stavolta di opere di arte sacra contemporanea. Ben presto però, l’incontro emozionale tra i mondi spirituali di Ferragina e di chi osserva le sue opere, ne chiarisce in modo naturale la comprensione, ponendo interrogativi e riempiendo di curiosità, spunti di riflessione e di quel senso di pienezza che deriva dalla contemplazione del bello. Una bellezza che, in virtù dello scambio spirituale costante, sta sì nei dipinti, ma che anche, di riflesso, vive anche dentro di noi.
Quadro4 Bagna ciò che è arido. Acrilico e stucco su tela - Ph_Fulvio Mandrini
Se volete regalarvi un tempo che sia solo per voi, a Pozzo d’Adda, alle porte di Milano, sabato 26 e domenica 27 maggio, potete perciò trovare quella vera e propria oasi che, nel nome dell’arte e della spiritualità, è pronta non solo a farvi delle domande, ma forse, a darvi anche delle risposte.
INGRESSO LIBERO
sabato 26 maggio: 10-12/15-18.30;
domenica 27 maggio: 10-12.
Tutte le foto di: Fulvio Mandrini
* FONTE: "MaQ": MILANO AL QUADRATO. (ripresa parziale, senza immagini).
L’ETICA CATTOLICA E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO NARRATIVO. IL "CARISMA" E LA SINDROME PARASSITARIA...
Far vivere l’albero degli ideali
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 11 novembre 2017)
Le comunità, le associazioni, i movimenti, le istituzioni e le imprese vivono grazie a molte forme di capitali. Una di queste è il capitale narrativo, una risorsa preziosa in molte organizzazioni, che diventa essenziale nei momenti di crisi e nei grandi cambiamenti dai quali dipendono la qualità del presente, la possibilità del futuro, la benedizione o la maledizione del passato. È quel patrimonio - cioè munus / dono dei padri - fatto di racconti, storie, scritti, a volte poesie, canti, miti. È un autentico capitale perché, come tutti i capitali, genera frutti e futuro. Se gli ideali della organizzazione o della comunità sono alti e ambiziosi, come accade in molte Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), anche il suo capitale narrativo è grande. È una risorsa preziosa durante le prime difficoltà, quando raccontarsi l’un l’altro i grandi episodi di ieri dà il coraggio per continuare a sperare, credere, amare oggi.
Il capitale narrativo, poi, è anche il primo meccanismo di selezione dei nuovi membri dell’organizzazione o della comunità. Noi amiamo molte cose, ma soprattutto amiamo le storie meravigliose, quelle che risvegliano la parte più profonda e vera dell’anima, che ci fanno diventare migliori semplicemente ascoltandole. Più grandi sono i nostri ideali, più grande la nostra anima, più grande deve essere la promessa contenuta nel capitale narrativo per attivarci e farci diventare parte di quella stessa storia. Le storie piccole attraggono persone con desideri e ideali piccoli, le grandi storie conquistano le anime grandi, storie straordinarie attirano persone straordinarie.
Nei primi tempi della fondazione questo capitale narrativo è l’unico bene che una comunità possiede, soprattutto quelle comunità-movimenti che nascono da ideali spirituali - dentro e fuori le religioni. Ci si nutre della vita che si genera, delle prime storie e dei "miracoli", della vita e le parole dei fondatori che si vivono e si raccontano.
La nuova vita è immediatamente un vangelo, una buona nuova novella. Chi viene raggiunto da quella storia generativa vi riconosce il suo proprio racconto, passato e futuro. In quei primi tempi il tasso di accumulazione del capitale narrativo è molto alto, e la sua crescita è esponenziale. Nei primissimi anni, a volte nei primi mesi o giorni, si forma la gran parte di questo patrimonio speciale. La sua "produttività" è straordinaria e sbalorditiva: è sufficiente evocare, in ogni ambiente, quei primi racconti per assistere ad autentici miracoli, come e (a volte) più impressionanti dei primi. Dire e ripetere le frasi e i fatti dell’inizio produce effetti letteralmente straordinari, che oltre a far crescere la comunità alimenta in chi annuncia la convinzione della verità e forza dell’ideale annunciato, in un circolo virtuoso (storie-annuncio-frutti-rafforzamento-nuovo annuncio...) potentissimo e mirabile.
Se il "carisma" all’origine di queste esperienze è ricco e innovativo, e il fondatore è generoso e creativo, ci si può nutrire per decenni - per secoli - delle storie e delle parole dei primi tempi, senza avvertire il bisogno di aggiungerne neanche una nuova. Ma è dentro questa ricchezza che si sviluppa la cosiddetta sindrome parassitaria. Quasi inevitabilmente e sempre inintenzionalmente gli immensi frutti che generano i racconti del passato diventano un ostacolo alla creazione di nuovo capitale narrativo. E si comincia oggi a vivere con le rendite di ieri - come quell’imprenditore che smette di innovare e generare nuovo reddito perché vive molto bene delle rendite dei capitali del passato. Più è grande il primo capitale narrativo più lunga è la fase della vita alimentata dalla rendita. È questa una forma del cosiddetto "paradosso dell’abbondanza" (o "maledizione delle risorse"), quella trappola nella quale cadono Paesi ricchissimi grazie a una sola risorsa naturale, che finiscono per impoverirsi proprio a causa di quella enorme ricchezza.
Un fondatore e un carisma spiritualmente ricchissimi possono, senza né volerlo né saperlo, trasformarsi da "benedizione" in "maledizione" se la ricchezza spirituale del suo carisma fa scattare più facilmente e più velocemente la sindrome parassitaria (che può iniziare già durante la vita degli stessi fondatori che smettono di innovare per nutrirsi soprattutto del proprio passato). Perché, paradossalmente, più grande è la ricchezza spirituale, più è probabile che si attivi la sindrome parassitaria. Comunità con fondatori e carismi semplici hanno altri problemi, ma non conoscono la sindrome parassitaria, che è una tipica malattia della ricchezza.
Ma a differenza dei capitali finanziari o immobiliari, che possono consentire un flusso costante o crescente di rendita, i capitali narrativi se non vengono aggiornati e rinnovati iniziano a invecchiare e a ridursi. Per loro è massimamente vera la frase di Edgar Morin: «Ciò che non si rigenera degenera».
Un’obsolescenza/degenerazione che nei momenti di accelerazione della storia (come è il nostro) può essere estremamente e drammaticamente rapida. Da un giorno all’altro ci si ritrova con una grave carestia di storie da raccontare. Quei primi racconti che fino a ieri convincevano e convertivano, che erano il nostro grande tesoro, che ci avevano incantato e avevano fondato la nostra vita individuale e collettiva, diventano muti, freddi, morti. La distanza tra il linguaggio e le sfide del presente e i racconti del passato diventa enorme - i giovani sono, anche qui, sentinelle, i primi che segnalano la malattia.
Nelle storie ideali e carismatiche le prime storie continuano a parlare nella seconda e nelle future generazioni solo se accompagnate dalle seconde e terze storie. I francescani hanno tenuto vivo il francescanesimo e il cristianesimo aggiungendo le storie di Francesco a quelle dei Vangeli, e i francescani di oggi tengono vivo Francesco (e il Vangelo) aggiungendo i loro "atti" a quelli del Poverello di Assisi. Il primo patrimonio, il dono narrativo dei padri, non basta per continuare a vivere: è indispensabile anche il dono dei figli - che è anche dono per i padri, che riescono a non morire per sempre.
L’esaurimento del capitale narrativo è la causa più comune di crisi e di morte di una OMI. Non è facile sfuggire da questa sindrome mortale. Spesso ci si ammala e si soffre senza riuscire ad arrivare neanche alla diagnosi, e si attribuisce la crisi ad altre cause (mancanza di radicalità dei giovani, la cattiveria del mondo...). Altre volte si capisce che la crisi ha a che fare con la nostra incapacità di narrazione del cuore del carisma, si constata che il capitale narrativo non (ci) parla più, o non parla abbastanza, o parla alle persone sbagliate, ma si sbaglia la cura.
La cura errata più comune è l’aggiunta di nuove storie più facili da comprendere nel "secolo presente", ma che non hanno più il Dna della prima storia. Tanti finalmente capiscono, perché, semplicemente, stiamo raccontando un’altra storia. Così accade che una comunità nata da un carisma che voleva evangelizzare il mondo della famiglia, di fronte alla difficoltà di continuare a spiegare a loro stessi e a loro mondo le parole evangeliche della prima generazione, col tempo inizia a occuparsi di politiche familiari, adozioni, metodi naturali.
Queste nuove storie sono molto più vicine alla mutata sensibilità culturale, molto più facili da spiegare e da capire, più adatte per trovare finanziamenti e sostenitori. Ma il problema decisivo che si nasconde in simili operazioni, oggi comunissime, riguarda direttamente il capitale narrativo. La nuova associazione non può più utilizzare il primo capitale narrativo, che resta una risorsa per i soli archivi o per qualche frase per i biglietti di Natale. Qui non c’è innesto di nuove storie sul vecchio albero, ma soltanto la sostituzione del primo capitale narrativo con il nuovo. In certi casi, che sono una specie di questo stesso genere, in una prima fase la nuova parte del capitale narrativo cerca di mantenere il contatto con la sua componente originaria. Ma progressivamente le nuove storie di maggiore successo erodono le vecchie, fino a consumarle interamente.
Per molte persone queste trasformazione ed evoluzioni sono insite nella natura delle cose e della storia, ci sono sempre state, e sempre ci saranno. Altri, invece, vi vedono un problema grave e decisivo. Il nuovo capitale narrativo, semplice e facilmente comprensibile, non attrae vocazioni. La prima generazione era stata capace di conquistare persone disposte a dedicare la vita per quell’ideale, perché affascinate dalla profezia e dalla radicalità della promessa. Se la grande difficoltà di spiegare il primo messaggio genera progressivamente parole più semplici da capire perché depotenziate di carica ideale, ciò che accade è la trasformazione del tipo di persone attratte da quel messaggio. Quella persona che nella prima generazione aveva fatto di quell’ideale la o una dimensione identitaria della sua vita (questa è l’essenza di ogni vocazione) poco a poco scompare e al suo posto arrivano membri con una adesione sempre più leggera. In altre parole, il nuovo capitale narrativo non seleziona più vocazioni ma simpatizzanti, o lavoratori impiegati nelle opere (si spende la vita per Dio o per un mondo senza povertà, non per la "responsabilità sociale dell’impresa").
È così che si stanno estinguendo migliaia di comunità carismatiche e movimenti spirituali nati nel Novecento e nei secoli passati. Qualche volta dalla loro morte nascono nuove istituzioni, altre volte muoiono e basta, quando di fronte al probabile snaturamento dell’identità la comunità e i suoi responsabili reagiscono ostacolando o impedendo ogni aggiornamento del primo capitale narrativo. Si continuano a raccontare le prime storie, con lo stesso linguaggio, con le stesse parole che non affascinano più nessuno.
Un terzo esito, altrettanto infelice, è il riassorbimento del carisma dentro la tradizione che quel carisma avrebbe voluto innovare e cambiare. Di fronte alla difficoltà di spiegare, a se stessi e agli altri, il portato carismatico della propria comunità, si rinuncia alle componenti specifiche e nuove, e si "torna" a fare quelle stesse attività tradizionali che si volevano innovare - da giovani si voleva annunciare ad altre religioni e a non-credenti, da adulti si torna a fare catechismo per la cresima.
Questi e molti altri ancora sono gli scenari che approfondiremo e sviscereremo nelle prossime puntate di questa nuove serie. Cercheremo di capire quali buone strade di futuro esistono perché gli ideali possano continuare a nutrire la coscienza del mondo, perché l’innesto delle nuove storie sulle prime funzioni generi una nuova fioritura, nuovi frutti, nuovi colori. Ci chiederemo: è possibile davvero aggiornare, rigenerare, i capitali narrativi delle nostre comunità? Oppure la loro morte è inevitabile? Quali sono le trasformazioni generative? Come capire se stiamo tradendo la promessa o se la stiamo avverando? Domande e risposte difficili e rischiose, ma soprattutto necessarie.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LA’ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est"). Al di là della semantica e del paradigma degli affari e del "caro-prezzo" ("caritas").
PER UNA "ECONOMIA CIVILE" E UNA TEOLOGIA "CIVILE"!!!
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione .... *
PSICOLOGIA
Lo strano paradosso del potere
di Annamaria Testa, esperta di comunicazione *
Che cosa frulla nella mente delle persone di potere? Ce lo domandiamo - e capita non di rado - quando i loro comportamenti ci appaiono contraddittori, o poco comprensibili, o così arroganti da essere difficili da sopportare. Un recentissimo articolo uscito sull’Atlantic ci invita a porci la domanda in termini più radicali: che cosa succede al cervello delle persone di potere?
L’Atlantic cita un paio di pareri autorevoli. Secondo Dacher Keltner, docente di psicologia all’università di Berkeley, due decenni di ricerca e di esperimenti sul campo convergono su un’evidenza: i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subìto un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di considerare i fatti assumendo il punto di vista delle altre persone.
Sukhvinder Obhi è un neuroscienziato dell’università dell’Ontario. Non studia i comportamenti, ma il cervello. Quando mette alcuni studenti in una condizione di potere, scopre che questa influisce su uno specifico processo neurale: il rispecchiamento, una delle componenti fondamentali della capacità di provare empatia.
Ed eccoci alla possibile causa di quello che Keltner definisce paradosso del potere. Quando le persone acquisiscono potere, perdono (o meglio: il loro cervello perde) alcune capacità fondamentali. Diventano meno empatiche, cioè meno percettive. Meno pronte a capire gli altri. E, probabilmente, meno interessate o disposte a riuscirci.
Come polli senza testa
Inoltre. Spesso le persone di potere sono circondate da una corte di subordinati che tendono a rispecchiare il loro capo per ingraziarselo, cosa che non aiuta certo a mantenere un sano rapporto con la realtà.
E ancora: è il ruolo stesso a chiedere che le persone di potere siano veloci a decidere (anche se non hanno elementi sufficienti per farlo, né tempo per pensarci), assertive (anche quando non sanno bene che cosa asserire. O quando sarebbe meglio prestare attenzione alle sfumature) e sicure di sé al limite dell’insolenza.
I top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall’ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. L’ho sentito dire nel corso di una riunione riservata ai partner di un’assai nota società internazionale di consulenza, dal relatore più anziano e autorevole. Mi sarei aspettata qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: ampi segni di assenso.
Ho il sospetto che la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi guida le imprese, ma anche a chi governale istituzioni e le nazioni.
Il fatto è che le persone di potere “devono” andare dritte per la loro strada, infischiandosene di tutto quanto sta attorno. Questo può aiutarle a raggiungere i loro obiettivi (il che è molto vantaggioso a breve termine) ma ne danneggia le capacità di decisione, di interazione e di comunicazione, che nel lungo termine sono strategiche.
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti, che di potere sapeva abbastanza, citando Maurice de Talleyrand. Ma la citazione medesima contiene una dose consistente di protervia.
C’è una parola molto antica che descrive bene tutto ciò: hỳbris. Indica la tracotanza presuntuosa di chi ha raggiunto una posizione eminente e si sopravvaluta. È notevole il fatto che nel termine greco sia implicita anche la fatalità di una successiva punizione, divina o terrena: il fallimento, la caduta.
Si stima che il 47 per cento dei manager falliscano, scrive Adrian Furnham, docente di psicologia all’University College di Londra. È una percentuale molto alta. Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia.
C’è un paradosso: è facile ammirare e rispettare le persone carismatiche e fiduciose in se stesse. Ma non è così semplice distinguere il carisma dal narcisismo, che per molti versi ne è il lato oscuro. Sappiamo davvero individuare il confine che c’è tra assertività e prepotenza? Tra sicurezza e ostinazione? Tra fascino e manipolazione?Tra pragmatismo e cinismo?
C’è un ulteriore paradosso: prepotenza, ostinazione, manipolazione e cinismo possono perfino rivelarsi utili nelle battaglie per la conquista del potere, che sono spesso logoranti, sleali e feroci. Ma, una volta ottenuto il potere, per mantenerlo servirebbe proprio quella visione più aperta ed equilibrata che - l’abbiamo visto prima - il ruolo stesso sembra rendere difficilissima da procurarsi e mantenere. Il potere è l’afrodisiaco supremo, diceva Henry Kissinger.
Ma “difficilissimo” non vuol dire “impossibile”. D’altra parte, almeno nelle democrazie occidentali e nelle imprese moderne, il potere si conserva nel lungo termine solo attraverso il consenso. E la capacità di mantenere il consenso è direttamente proporzionale alla capacità di comunicare, di ascoltare e di interagire mettendosi a confronto.
Ehi, si può fare! Persone di potere dotate di un carisma privo di narcisismo esistono. In oltre quarant’anni, mi è perfino capitato di incontrarne alcune, tra politica e impresa, ma posso contarle sulle dita di una mano. Ce ne vorrebbero molte di più.
* Internazionale, 25 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO, NATURA, TECNICA COMUNICATIVA, E DEMOCRAZIA. IL "CHARISMA" DELL’ITALIA E IL "CHARISMA" DEGLI ITALIANI E DELLE ITALIANE. CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione di Lidia Ravera
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994).
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT
Federico La Sala
Il carisma politico della verità che manca all’Europa
di Roberto Napoletano ( Il Sole-24 Ore, 18 settembre 2016)
«La ragione ultima di esistenza di un governo consiste nell’offrire ai propri cittadini sicurezza fisica ed economica e, in una società democratica, nel preservare le libertà e i diritti individuali insieme a un’equità sociale che rispecchi il giudizio degli stessi cittadini. Coloro che nel secondo dopoguerra volsero lo sguardo all’esperienza dei trent’anni precedenti conclusero che quei governi emersi dal nazionalismo, dal populismo, da un linguaggio in cui il carisma si accompagnava alla menzogna, non avevano dato ai loro cittadini sicurezza, equità, libertà; avevano tradito la ragione stessa della loro esistenza».
Mario Draghi scandisce queste parole, al Teatro Sociale di Trento, nella sua lectio in occasione del conferimento del premio Alcide De Gasperi, e mi colpisce quel riferimento al linguaggio «in cui il carisma si accompagnava alla menzogna», ma anche la parola cittadini che ritornerà spesso dopo, il richiamo ai loro bisogni e ai loro timori, alla sicurezza, all’equità, alla libertà. In una parola, a tutto ciò che la menzogna, aiutata dal carisma, aveva tradito. La traccia ispirativa di De Gasperi(«In Europa si va avanti insieme nella libertà») è dichiarata, ma c’è qualcosa di politico, nella sua cifra recondita, che appartiene naturalmente all’argomentare del più innovativo dei banchieri centrali: racconta del passato, ma parla al futuro.
Riproduco un passaggio che riguarda la stagione d’oro dei Fondatori dell’Europa: «I padri del progetto europeo furono capaci di coniugare efficacia e legittimazione. Il processo era legittimato dal consenso popolare e trovava il sostegno dei governi: il progetto era diretto verso obiettivi in cui l’azione delle istituzioni europee e i benefici per i cittadini erano direttamente e visibilmente connessi; l’azione comunitaria non limitava l’autorità degli Stati membri, ma la rafforzava e trovava quindi il sostegno dei governi. A incoraggiare De Gasperi e i suoi contemporanei non fu solo l’esperienza fallimentare del passato, furono anche gli immediati successi a cui portarono queste prime fondamentali decisioni del dopoguerra. La costruzione della pace, questo risultato fondamentale del progetto europeo, produsse immediatamente crescita, iniziò la strada verso la prosperità. Al suo confronto stanno le devastazioni dei due conflitti mondiali. Il PIL pro capite in termini reali si riduce del 14% durante la Prima guerra mondiale e del 22% durante la Seconda, annullando gran parte della crescita degli anni precedenti. L’integrazione economica costruita su questa pace produce a sua volta miglioramenti significativi nel tenore di vita».
Tutto cambia, quando si passa all’oggi: «Con il referendum del 23 giugno i cittadini del Regno Unito hanno votato a favore dell’uscita dall’Unione europea. Per alcuni dei Paesi dell’Unione questi sono stati anni che hanno visto: la più grave crisi economica del dopoguerra, la disoccupazione, specialmente quella giovanile, raggiungere livelli senza precedenti in presenza di uno stato sociale i cui margini di azione si restringono per la bassa crescita e per i vincoli di finanza pubblica. Sono anni in cui cresce, in un continente che invecchia, l’incertezza sulla sostenibilità dei nostri sistemi pensionistici. Sono anni in cui imponenti flussi migratori rimettono in discussione antichi costumi di vita, contratti sociali da tempo accettati, risvegliano insicurezza, suscitano difese».
Questa la fotografia, poi un altro passaggio che riguarda i nostri giorni e ripropone la straordinaria attualità del pensiero degasperiano: «L’impianto dell’integrazione europea è saldo, i suoi valori fondamentali continuano a restarne la base, ma occorre orientare la direzione di questo processo verso una risposta più efficace e più diretta ai cittadini, ai loro bisogni, ai loro timori e meno concentrata sulle costruzioni istituzionali. Queste sono accettate dai cittadini non per se stesse ma solo in quanto strumenti necessari a dare questa risposta (...). Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili (...). Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa».
Mi tornano in mente il carisma e la menzogna e mi rendo conto che anche la verità ha bisogno di carisma, ha bisogno di donne e uomini che si riconoscono nel leader politico carismatico, se ne facciano portabandiera. Ha bisogno di una comunità che abbia fiducia in chi lo governa, di modo che scatti la scintilla emotiva, si avvertano i benefici, si percepisca il trasporto, c’è bisogno di una comunità che si senta parte attiva di un progetto di vita e di un disegno condiviso di sviluppo e di equità. Rispondere subito ai timori e ai bisogni dei cittadini, in fondo è questo il messaggio più alto della politica, è il segno costitutivo della lectio di Draghi.
A suo modo, è stata la cifra di una vita di un uomo come Ciampi che ha avuto in Italia tutte le responsabilità e mi piace ricordarlo in questi giorni che se ne è andato. Li chiamano “tecnici”, semplificando molto, rappresentano in realtà la passione e l’intelligenza politica di cui ha bisogno la verità di un’Europa che non può tornare indietro e non riesce ad andare avanti.
SUL TEMA, due TWEET:
L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
Le due anime di Mandela
di Pino Arlacchi (l’Unità, 16.12.2013)
HO CONOSCIUTO NELSON MANDELA E L’HO INCONTRATO PIÙ VOLTE ANCHE IN PRIVATO. CI SONO TRE COSE DI LUI CHE HANNO LASCIATO UN’IMPRONTA INDELEBILE IN ME STESSO.
La prima è il suo carisma personale, nel senso di Max Weber. Quel dono soprannaturale, enigmatico, posseduto solo dai leader supremi. La sua presenza si avvertiva subito intorno a lui, e sono pochi quelli che lo hanno conosciuto di persona a non esserne rimasti colpiti. Mandela era un capo naturale, e non a caso era re e figlio di un re tribale. Esprimevano una generosità e grandiosità semplicemente sconfinate, avvolte in una semplicità d’approccio che disarmava tutti. Amici e nemici. Durante il mio mandato all’Onu, tra il 1997 e il 2002, ho incontrato quasi tutti i grandi della terra, ma solo due di essi mi hanno fatto sentire qualcosa di strano nella vicinanza fisica alla loro persona. Nelson Mandela e Papa Giovanni Paolo II.
Il carisma di Mandela non era quello di un capo politico e militare. Era quello di un profeta, di un leader religioso laico in grado di trascinare a farsi obbedire in virtù della fede nelle sue qualità personali. Fu ciò che mi venne in mente nel 1999, durante una serata trascorsa a Johannesburg con i suoi compagni di battaglia diventati ministri del primo governo dopo l’apartheid. Gente che era stata incarcerata, torturata, menomata. Gente che aveva visto figli, padri, madri, fratelli, massacrati dal fanatismo sadico dell’oligarchia bianca. E che venivano ora invitati da Nelson Mandela a «riconciliarsi» con i carnefici e non a vendicarsi, e neppure a chiedere giustizia. «Quello che ci chiedi è contro la natura umana. Dobbiamo perdonare chi ha ancora le mani sporche del sangue dei nostri cari?», dicevano. «Si. So quanto vi costa, perché costa anche a me. Se mi volete bene, però, dovete accettarlo. Sono io a chiedervi questo sacrificio». Era la risposta di Nelson. E non aggiungeva molto altro. Dava per scontato che i suoi compagni comprendessero che il senso della sua missione era quello di unificare il Sudafrica costruendo un Paese le cui radici non affondassero nell’odio.
Di tutte le cose fatte da Mandela lungo la sua carriera di combattente e di padre della patria, questa della riconciliazione, dell’amnistia e del perdono è stata senza dubbio la più difficile. E anche la più controversa. Non sappiamo quanto a lungo questa idea sopravvivrà alla sua scomparsa, ma è certo che solo lui era in grado di farla accettare.
La seconda cosa che mi ha colpito in modo speciale è stata la sua gentilezza d’animo. I lunghi sacrifici induriscono i cuori. Ma Nelson Mandela, a differenza di tanti altri, aveva sviluppato durante i 27 anni di carcere una misura di umanità fondamentale che arrivava ad includere anche i nemici più irriducibili, ed era pronta a rivolgersi anche contro gli eccessi dei compagni di lotta: «nella mia vita ho combattuto contro la dittatura dei bianchi...e anche contro quella dei neri..».
L’assenza di risentimento in Mandela è stata notata da molti. Ma essa non scaturiva da una scelta etica o religiosa. Era una pietra angolare del suo carattere, maturatasi nel tempo, e partendo da una base esattamente opposta. Il Mandela arrabbiato e intransigente degli anni che precedono il suo arresto del 1963 imbarazza i suoi estimatori più superficiali, ma è da questo nucleo che si sono formate le basi della sua grandezza. Mandela era stato l’ispiratore e il capo dell’ ala armata e clandestina del suo partito. Aveva imposto all’Anc di rompere con la tradizione gandhiana delle origini, e di accettare la guerriglia, il sabotaggio e gli attentati incruenti come una componente decisiva della lotta contro l’apartheid. Non furono in pochi, anche dentro l’Anc, a diffidare di questo giovane avvocato dalla testa un po’ calda che voleva rispondere con la violenza alla violenza di un regime implacabile, che avrebbe reagito in modo letale per il partito alla sfida armata.
Fu lui stesso a spiegarmelo, questo paradosso, in un incontro a tu per tu, rispondendo ad una mia domanda affettuosamente provocatoria su dove fosse finito il guerrigliero di sinistra do un tempo. Eravamo a New York. La mattina di quel giorno Nelson era stato l’ospite d’onore dell’Assemblea Generale dell’Onu, osannato da tutti, mentre i compagni dell’Anc gli dissi si lamentavano per avere le mani legate dalla Commissione per la riconciliazione istituita da lui e dall’ arcivescovo Tutu. «Ricordati che il mio soprannome tribale equivale a “bastian contrario”. Sono andato contro corrente allora, all’inizio degli anni 60, perché la lotta armata era quello che bisognava fare per abbreviare la vita del regime». Mi rispose un Mandela serissimo, che aveva abbandonato per un attimo il suo gusto della battuta e dell’ aneddoto. «E sto andando controcorrente adesso, quando molti miei compagni si vogliono vendicare, non vogliono voltare pagina, e ciò impedisce loro di vedere chiaro nel destino del Sudafrica».
E questa è la terza cosa che non dimentico di Mandela: la sua genialità politica, che gli ha consentito di cogliere lo spirito del tempo per ben due volte. Un guerrigliero o un capo militare, un Garibaldi o un Che Guevara, non diventa mai uno statista. I posti del Pantheon sono uno per persona, perché non si possono vivere due vite.
Intuire che il Sudafrica non avrebbe seguito la traiettoria degli altri paesi africani che negli anni 50 e 60 si decolonizzavano più o meno pacificamente, e che era necessario usare la forza per mostrare ai coloni bianchi che avrebbero perso anche la sfida armata, non era cosa alla portata di tutti. Resistere poi senza la minima alterazione a una lunghissima carcerazione, crescendo anzi in prestigio e capacità strategica fino a diventare un icona mondiale, per poi capovolgere la linea dura del passato, trattare con il nemico e farlo arrendere senza un bagno di sangue finale, tramite normali elezioni, è impresa che solo Nelson Mandela poteva portare a termine.
L’Occidente ha bisogno di soluzioni radicali. Come in Vaticano
Il falò delle leadership
Obama, i premier europei, i politici italiani: sbiadiscono immagine e carisma delle élite Soltanto papa Francesco (per ora) resiste
di Massimo Franco (Corriere della Sera/La Lettura, 04 agosto 2013)
Si continua a citare la rapidità con la quale il Conclave dei cardinali cattolici ha eletto papa Francesco il 13 marzo scorso come un esempio invidiabile e inimitabile. È stata una sorprendente prova da parte di una Chiesa additata come lenta, in profonda crisi di identità e reduce da torbidi conflitti vaticani: una situazione così grave da avere indotto Benedetto XVI alle dimissioni, primo caso dopo oltre sei secoli. L’ammirazione è giustificata. Ma il rimpianto per l’incapacità della classe politica italiana di fare altrettanto forse non basta; né è sufficiente constatare che in Occidente molti personaggi di rilievo che guidano le loro nazioni hanno un’immagine appannata, quando non di impotenza.
D’altronde, con una crisi economica che dura da oltre un quinquennio (e in Italia, di fatto, da molto più tempo), sarebbe strano se le classi dirigenti non fossero logorate: soprattutto perché non offrono visioni nuove. L’insuccesso percepito ormai dall’opinione pubblica è associato ad alcune figure di vertice. Ma sta diventando sempre più chiaro che il problema non sono solo le persone, quanto il sistema di valori e il modello che esprimono. Senza una modifica del terreno di gioco, delle regole, dei punti di riferimento, il falò delle leadership presenti e future sarà inevitabile: o saranno distrutte o si autodistruggeranno.
Non solo: non esiste più un’«accademia» che forgi le leadership politiche. Da circa vent’anni, con rare eccezioni, l’Italia le ha prese in prestito da altri mondi di competenza, si trattasse di industria, università o magistratura. L’atteggiamento di rifiuto verso un malinteso professionismo della politica ha creato e radicato una nomenklatura di dilettanti, percepiti alla fine come professionisti solo in senso deteriore. Il risultato è sconfortante. La lezione è quella del fallimento di una democrazia e di un potere verticali e personalizzati. L’idea che una figura solitaria potesse da sola, o con pochi docili esecutori, risolvere i problemi si è rivelata un’illusione amara. Invece di ricostruire una classe dirigente, ne ha creato una caricatura, ricorrendo di volta in volta a «invenzioni» e scorciatoie che, alla fine, ne hanno impoverito il livello, e ritardato qualunque ipotesi di ripresa. Senza un progetto condiviso da una maggioranza che si fa fatica a identificare soltanto con quella elettorale o di uno schieramento, qualunque «capo», declinato al maschile o al femminile, è destinato a scontrarsi con resistenze e abitudini radicate e alla fine vincenti. Sembra difficile ripartire senza prendere atto che una stagione è finita, e che perpetuarla significa arretrare; ed eludendo una selezione dei futuri leader pensata in maniera radicalmente diversa dal passato.
Da questo punto di vista, il caso di Jorge Mario Bergoglio è molto istruttivo. Il Papa argentino è figlio di una Chiesa cattolica che si è sentita pericolosamente vicina al collasso. E rappresenta la risposta radicale, sebbene non ancora la soluzione, a questa deriva. È dunque il prodotto di una sorta di trauma salutare, di successione-choc preparata e ottenuta da quanti hanno capito che era necessario un rivolgimento totale, perché i paradigmi del passato stavano affossando il governo vaticano. Senza questa acuta consapevolezza di dover rompere col passato, non si registrerebbero l’interesse e le attese provocati dal Pontefice.
La sua elezione è stata possibile grazie a una scuola di leadership a rete, globale, non improvvisata ma forgiata nelle realtà e nell’esperienza degli episcopati locali, che hanno permesso di «pescare» il nuovo capo della Chiesa in un lembo periferico e remoto del cattolicesimo. L’ansia involontaria con la quale gli elementi più retrivi della Curia tendono a minimizzare la portata della novità fa riflettere. Conferma che la cesura è così vistosa da indurli a suggerire e quasi invocare minacciosamente una frenata, per evitare che crolli tutto. Ma la leadership di Francesco funziona e fa breccia solo se mette in discussione il sistema precedente e prosciuga le sacche dell’immobilismo; se accoglie il segnale disperato dato da Benedetto XVI con la propria rinuncia al papato.
Insomma, Francesco si consolida come leader se dimostra di avere dietro una classe dirigente ecclesiastica che ne condivide gli obiettivi e perfino i metodi. Per questo si aspetta di capire come riplasmerà il governo del Vaticano dopo avere rivoluzionato in quattro mesi l’immagine del pontificato. Senza quel passaggio, il logoramento minaccia di indebolire anche quanto ha fatto finora e, appunto, la sua stessa leadership. Ma pensare di «imitare» il Papa nella politica italiana e europea rischia di essere illusorio e fuorviante. Il carisma e i margini di comando che l’uomo all’apice delle gerarchie vaticane possiede non sono paragonabili a quelli di un leader politico. E viene da dire: per fortuna.
È indicativo che il cancelliere Angela Merkel sia avviata alla vittoria alle elezioni di autunno in Germania, eppure non escluda di dar vita a un governo di unità nazionale. Evidentemente, in una fase così ostica anche le percentuali più trionfali vanno compensate con un consenso allargato. Le difficoltà che incontra Barack Obama negli Stati Uniti nascono dal tentativo frustrato di emanciparsi da una partisanship, cioè da un’appartenenza di partito, che lo limita. Il secondo mandato presidenziale sembra accentuarla al di là della sua volontà, incattivendo la minoranza repubblicana e togliendo smalto a una leadership nata con l’ambizione di unificare il Paese; e che dopo quasi cinque anni deve constatare di non esserci riuscita.
Nella stessa Europa, dove pure le quotazioni di Obama rimangono altissime in termini di popolarità - l’80 per cento, secondo un rapporto del 2012 del Pew Global Research -, la questione delle intercettazioni a tappeto ha creato tensioni con i governi alleati, solo parzialmente riassorbite. E proprio mentre si tendono i rapporti fra la Casa Bianca e il Cremlino per l’asilo politico concesso da Vladimir Putin all’ex agente della Cia, Edward Snowden, nelle nazioni centro orientali europee, che prima gravitavano intorno alla Russia e ora si sentono Occidente, si nota una punta di delusione per il «potenziale buttato» da Obama. L’accusa è di avere rinunciato alla leadership politico-strategica su questi Paesi: dalla Polonia alla Repubblica Ceca, all’Ucraina e agli Stati baltici.
Sull’ultimo numero della rivista polacca in lingua inglese «New Eastern Europe», uno studioso della Georgetown University di Washington, Filip Mazurczak, fa notare che George W. Bush visitò per sette volte l’Europa centro orientale durante i primi quattro anni di mandato; Obama lo ha fatto solo tre volte. E che nel suo recente viaggio europeo, il segretario di Stato Usa, John Kerry, si è limitato a toccare alcune capitali occidentali. Ma l’aspetto che investe più direttamente anche l’Italia è l’appannamento delle istituzioni europee. Si tratta di una tendenza accentuata dalla rinascita di nazionalismi in Stati che in realtà sono per primi in crisi. L’Ue fa registrare una doppia carenza di guida: a livello nazionale e sovranazionale. Basta scorrere i guai che colpiscono i maggiori Paesi, dalla Spagna alla Francia, all’Italia, alla Gran Bretagna, che pure cerca di scaricarli chiamando in causa l’invadenza burocratica di Bruxelles fino a minacciare un referendum entro il 2017.
L’immagine dei leader è quella di esponenti politici costretti a inseguire e tacitare un’opinione pubblica nervosa per un livello di vita in declino; e soprattutto per l’assenza di prospettive di recupero a breve termine. L’affanno delle istituzioni politiche dell’Unione la riflette. Ed è diventata così vistosa da far dire che il «vero» leader dell’Ue non si trova a Bruxelles o a Strasburgo, ma a Francoforte. A torto o a ragione, viene citato il numero uno della Banca centrale europea, Mario Draghi, che ha la sua sede appunto nella città tedesca di Francoforte. In parte, la percezione di uno spostamento del baricentro del potere appare inevitabile.
Quelle che fino alla guerra fredda e negli anni subito successivi erano priorità strategiche e geopolitiche, oggi sono diventate economiche e finanziarie. In passato il cosiddetto «vincolo esterno», che condizionava molte scelte anche di politica interna, era la Nato, oltre all’Ue. Adesso il riferimento obbligato non è la sicurezza nazionale in termini militari, ma una sorta di «sicurezza finanziaria internazionale»: fra l’altro, l’esigenza di ridurre la spesa pubblica colpisce in modo tangibile quella militare. A guardar bene, anche nella scelta di papa Francesco di aggredire subito i misteri e le inefficienze torbide dello Ior, la cosiddetta «banca vaticana», si può avvertire un’eco simbolica di questo cambio di priorità strategiche. Ma la natura ibrida della Bce finisce per non sancire un nuovo equilibrio. Ufficializza, invece, i limiti, le contraddizioni e l’incompiutezza di quanto è stato costruito finora a livello di istituzioni.
L’Italia rappresenta, in proposito, un ottimo esempio di occasioni mancate: è la miniatura esagerata, e uno dei capri espiatori a intermittenza, delle disfunzioni europee. Lo sfarinamento della maggioranza berlusconiana del 2008, che pure era schiacciante in Parlamento, è avvenuta in meno di tre anni e per contraddizioni tutte interne alla coalizione. E quella che l’ha sostituita, prima con Mario Monti e poi con Enrico Letta, è quanto di più «innaturale» si potesse immaginare. Eppure, le cosiddette «larghe intese» rappresentano la maggioranza obbligata e insostituibile in una fase di transizione nella quale nessuno ha i voti per governare.
Più che di leader, si sente il bisogno di cambiare schema, mostrare unità di intenti, cancellare l’immagine di precarietà patologica che accompagna l’Italia. L’eterodossia delle «larghe intese» è, in realtà, la premessa per affermare un nuovo sistema e leadership inclusive, che non diventino alibi per l’immobilismo. Il dubbio è che la nomenklatura politica di oggi sia inadatta a questo compito. È cresciuta in una cultura della parzialità e della rissa che esalta «ragioni» frammentate; inoltre rispecchia una società aggrappata alle sue posizioni di rendita. I consensi sono stati costruiti intorno a blocchi di interessi che fino a pochi anni fa, forse, erano ancora un elemento di forza; oggi, invece, esprimono pezzi di società minoritari, perfino residuali.
Bisogna chiedersi perché nessun esponente della cosiddetta Seconda Repubblica sia stato un candidato vincente alla Presidenza della Repubblica. A sinistra, i nomi proposti non hanno ricevuto neppure tutti i voti dei propri parlamentari. Evidentemente, c’è uno steccato invisibile che disconosce leadership istituzionali condivise. È stato necessario prolungare il settennato di Giorgio Napolitano, che si presenta anche come il vero garante del governo Letta. E la rapidità con la quale si gonfia il fenomeno dell’astensionismo suona come bocciatura implicita dell’offerta politica. Il dramma è che non si vede chi possa ricomporre un quadro sociale, prima che partitico, a rischio di lacerazione.
Anche perché l’impopolarità è in agguato, e nessuno sembra proporre una visione che vada oltre le prossime elezioni. Anzi, c’è chi si illude di sopravvivere evocando le urne. È una miopia che si sta pagando a caro prezzo. L’ipoteca dei vecchi equilibri fa somigliare in modo preoccupante l’Italia al Vaticano: non a quello di Francesco, ma al precedente, diviso e acefalo, che per sperare di salvarsi ha dovuto sbattere contro la realtà inedita delle dimissioni di Joseph Ratzinger. La differenza è che un epilogo del genere, in Italia, dà i brividi. Nonostante ambizioni e velleità, la fabbrica delle leadership tende a produrre al massimo «esperimenti» o cloni del passato.
Massimo Franco
DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava l’intera Costruzione ...
SE DIO SI E’ FATTO PAROLA, IO NON POSSO GIOCARE CON LE PAROLE ... IL CATECHISTA NON USA MAI PAROLE EQUIVOCHE: PARLARE DI CARITÀ SIGNIFICA PARLARE DI GRAZIA
MEDICO, CURA TE STESSO! O, ALTRIMENTI, IL LUPO PERDE IL PELO, MA NON IL VIZIO. Note sul tema:
La riforma elettorale guardi all’uomo
di Bruno Forte * (Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2012)
Si parla molto di legge elettorale. Lo fa con autorevolezza il Capo dello Stato, pungolando parlamentari e partiti a procedere con sollecitudine alla riforma della legge che dalla fine del 2005 ha modificato il sistema elettorale italiano. L’accordo sulla necessità e l’urgenza di questa riforma è - a parole - quasi generale. Eppure, finora non si è ottenuto nulla.
L’impressione che molti hanno è che le forze politiche stiano considerando più i vantaggi e gli svantaggi che a esse verrebbero dalle possibili modifiche del l’attuale normativa che non l’interesse del Paese e quello della gente comune. Ecco perché, senza entrare in merito a proposte tecniche per le quali non ho competenza, vorrei provare a considerare la questione sotto il profilo etico, partendo da ciò che mi pare di cogliere fra la gente, accanto alla quale il mio impegno quotidiano di pastore continuamente mi pone.
Visto dal basso, il difetto principale che si avverte nel sistema in vigore è che l’elettore può votare solo per liste bloccate, senza possibilità di scegliere fra i candidati. L’elezione dei parlamentari dipende quindi completamente dalle decisioni e dalle graduatorie stabilite dai partiti, con il risultato che spesso gli eletti non hanno e non avranno alcun rapporto vero con il territorio di cui sarebbero espressione.
Con una certa durezza, qualcuno osserva che così la "casta" semplicemente clona se stessa. E poiché non è detto che i cloni siano migliori dell’originale, si profilerebbe lo scenario imbarazzante di un inevitabile, progressivo peggioramento della qualità della classe politica. C’è perfino chi osserva maliziosamente che, su questa strada, la sola speranza per il Paese potrebbe essere quella di arrivare a una qualità dei suoi rappresentanti talmente scadente, da impedire ad essi stessi di rendersi conto di un’eventuale miglioramento che li metterebbe da parte così da non saper attuare strategie per difendersi da esso!
Al di là di questi scenari preoccupanti, non mi pare difficile constatare che l’attuale rappresentanza politica non gode di quella rappresentatività dei problemi reali della gente e del territorio, che aveva caratterizzato la grande stagione della nascita della Repubblica e l’esercizio ritrovato della democrazia parlamentare nel dopo guerra. Il Paese ufficiale sembra essersi insomma scollato dal Paese reale. Se prima l’uomo della strada generalmente sapeva più o meno chi fosse il referente politico da cui sentirsi rappresentato e a cui rivolgersi per avere attenzione, direttamente o attraverso i canali dei partiti e delle organizzazioni socio-politiche, oggi la gente si sente priva di riferimenti affidabili, come se non ci fosse a livello politico chi possa dar voce a quanti non hanno voce.
I più deboli sono ovviamente i più svantaggiati da una tale situazione: chi potrà rappresentare i loro interessi? Chi potrà provvedere ai loro bisogni? Chi sarà in grado di dare loro speranza e di lavorare al loro fianco perché questa speranza prenda corpo nella vita reale? Il parlamentare imposto dai partiti, spesso scelto in base a meriti che non paiono andare oltre a quello dell’ossequio ai capi, potrà mai essere voce dei poveri e operatore di giustizia per essi?
Se si considera poi il processo di personalizzazione della politica, che ha portato sempre più a sostituire i bagagli ideali delle forze politiche con la figura del leader di turno, fino a legare il nome stesso delle parti in gioco a quello del personaggio carismatico più o meno forte, si comprende fino a che punto sia giunta la spoliazione di reale rappresentatività dei rappresentanti del popolo.
L’"eletto" carismatico prende voti da tutte le parti del Paese per la sua sola faccia o per il fascino del suo nome, senza di fatto rappresentare i mondi reali da cui gli sono stati espressi i consensi. In termini morali, questo processo rischia di essere una sorta di furto perpetrato ai danni della democrazia reale, con il conseguente drammatico slittamento del compito del politico dal rappresentare i bisogni della gente al tutelare e promuovere interessi personali o di gruppo più o meno influenti.
Che cosa allora chiedere ai nostri parlamentari impegnati a riformare la legge elettorale? Alcuni punti mi sembrano chiari: che si faccia di tutto perché i poveri abbiano voce. Che l’eletto sia uno vicino alla gente, in ascolto della vita reale, delle sofferenze e delle inadeguatezze del mondo del lavoro e della scuola, della vita familiare e delle forme di servizio proprie dello stato sociale. Che come fu per molti dei rappresentanti dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, il parlamentare si getti in politica per servire il popolo e non per servirsi del potere acquisito a vantaggio proprio o della casta.
Tutto questo richiede che agli elettori venga restituita la possibilità di scegliere non solo fra bandiere diverse, ma anche fra donne e uomini differenti, fra programmi legati a impegni personali e di gruppo che siano affidabili e verificabili attraverso il rapporto costante e diretto fra la base e gli eletti. Se da una parte ciò esige la presenza di candidati competenti, generosi, onesti, animati da forti tensioni ideali e da virtù non comuni, dall’altra domanda che il legislatore dia fiducia alla maturità del nostro popolo di saper discernere fra possibilità diverse e di sapersi affidare a chi è sentito più vicino alla gente per storia, passione, vocazione e missione.
Andrebbe poi garantito un effettivo e costante rapporto fra il parlamentare e il territorio di cui è espressione. Solo così la politica, restituita al Paese reale, potrà assumere connotati nuovi: certamente non quelli di un affare su cui investire, quanto piuttosto quelli di una vocazione cui rispondere e di una missione da svolgere.
Scriveva una delle voci più autorevoli del personalismo d’ispirazione cristiana, Emmanuel Mounier: «L’essere personale è generosità; per questo esso fonda un ordine che è opposto a quello dell’adattamento e della sicurezza... La persona rischia e si prodiga senza badare al prezzo... Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro» (Il personalismo, 97 e 68).
Politici per vocazione, non per affari, per missione, non per guadagno: riusciremo a trovare una legge elettorale che dia spazio a persone del genere, vicine alla gente, capaci di farsi voce dei più deboli e dei più poveri e di servire la causa del bene comune al di sopra di tutto?
*Arcivescovo di Chieti-Vasto
PER LA RIFORMA DELLA CHIESA, NEL SITO, SI CFR.:
RINUNCIARE AI FASTI, RICOMINCIARE A PARLARE AL TEMPO PRESENTE. MONS. CASALE DÀ LA SCOSSA AL SINODO
36838. ROMA-ADISTA. La sonnacchiosa vigilia che precede la celebrazione, in Vaticano, dal 7 al 28 ottobre prossimi, della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi è rotta dalla accorata lettera aperta che un anziano vescovo, mons. Giuseppe Casale, ha voluto indirizzare ai padri sinodali per esortarli a mettere mano ad alcune urgenti questioni che premono alle porte di una Chiesa ancora ciecamente arroccata a difesa della propria gerarchia e di assetti legati ad un anacronistico passato. Si tratta, scrive Casale, di riforme ancora inevase, appuntamenti mancati con i bisogni spirituali profondi di questo tempo: povertà, collegialità, ministero ordinato, parrocchie, nuova evangelizzazione, comunità di base. Ma Casale, arcivescovo emerito di Foggia, tra i pochi esponenti dell’episcopato italiano ancora saldamente legati alla Chiesa conciliare, richiama anche alla sempre più urgente necessità di dare testimonianza al popolo di Dio della propria radicale sequela del Vangelo: «Dobbiamo cominciare noi vescovi insieme al papa a dare l’esempio. Al termine del Concilio, molti vescovi chiesero che la Chiesa riscoprisse la gioia della povertà evangelica. La rinuncia al fasto esteriore e ai titoli onorifici, la scelta della vita semplice e senza lusso, la condivisione della povertà di tanta gente sono ancora un traguardo lontano».
Dei temi di questa lettera, appena pubblicata dalla casa editrice la Meridiana con il titolo Guai a me se non annuncio il Vangelo. Riformare la Chiesa. Lettera aperta al Sinodo dei Vescovi (euro 12: il libro può essere richiesto ad Adista, tel. 06/68801924, e-mail: abbonamenti@adista.it, oppure acquistato online sul sito www.adista.it), abbiamo parlato con l’autore, il vescovo Casale. (valerio gigante)
La collegialità fu uno degli argomenti più dibattuti al Concilio. Alla fine della Lumen Gentium, la Costituzione che trattava della funzione e dell’organizzazione della Chiesa, il papa decise di inserire la celebre “nota esplicativa previa” che riduceva di molto la portata della deliberazioni dell’assemblea in tema di collegialità. Poi venne il Sinodo, che per molti costituisce una risposta non adeguata alle richieste che venivano dall’assemblea conciliare. Lei ai partecipanti al prossimo Sinodo scrive oggi una lettera aperta: crede che il Sinodo possa ancora rispondere all’esigenza di una maggiore partecipazione dell’episcopato al governo della Chiesa?
Il limite fondamentale dell’istituto del Sinodo è il suo valore esclusivamente consultivo. Le sue conclusioni sono infatti sottoposte all’approvazione del papa, che arriva di solito parecchi mesi dopo la conclusione del Sinodo, quando ormai i temi portati alla sua attenzione dall’episcopato hanno perso gran parte della loro “urgenza” pastorale.
Grazie anche alla sua composizione, il Sinodo, che vede la presenza di delegati scelti direttamente dal papa oppure di delegati episcopali, che sono però spesso espressione del ceto dominante all’interno delle conferenze episcopali, non sempre esprime esigenze realmente avvertite dal popolo di Dio. Non riesce così, al di là delle sue intenzioni, a fotografare la vera realtà delle Chiese locali, le istanze che da esse vengono, le difficoltà pastorali che esse vivono. L’assemblea sinodale finisce quindi per ridursi ad una lunga maratona oratoria che tiene i delegati impegnati per giorni, dalla mattina alla sera, in discussioni articolate e complesse, con interventi che si susseguono in modo praticamente ininterrotto, nella lingua ufficiale della Chiesa, cioè il latino. Dibattiti che alla fine si stemperano nel riesame che viene fatto a livello di Curia di ciò che è emerso dal confronto tra i padri sinodali e che rende ancora più inefficaci i tentativi di sintesi fatti in assemblea. Per questo, anche se di Sinodi se ne sono tenuti tanti, generali e continentali, non si sono mai visti risultati apprezzabili. Del resto, se non è possibile una risposta immediata ad un problema teologico o pastorale urgente, i documenti prodotti, che dovrebbero incarnarsi nelle realtà diocesane, in realtà restano quasi sempre nient’altro che sulla carta.
La sua, quindi, più che una lettera al Sinodo, per i problemi scottanti che tocca, è piuttosto una lettera ad gentes...
È una lettera aperta al papa, ai partecipanti al Sinodo e, certo, soprattutto al popolo di Dio, perché si risvegli tra i credenti la coscienza della necessità di una partecipazione corale alla vita della Chiesa, attraverso i rappresentanti delle comunità ecclesiali locali, che vivono giorno per giorno i problemi che riguardano i fedeli. Per questo pongo sul tavolo, sin dall’apertura della mia lettera, le questioni cui mi sembra più urgente dare risposta oggi nella Chiesa. Anzitutto il tema della Chiesa povera, cioè come effettivamente rinunciare ai fasti, ai titoli ed ai privilegi che caratterizzano tanti uomini e strutture della Chiesa ed interrompere relazioni, talvolta anche discutibili, con potenze economiche che gravitano attorno alla Chiesa e che riescono talvolta a condizionarne l’azione ed il governo. Poi chiedo una effettiva collegialità: il papa deve esercitare il suo primato in maniera sinodale. Ritengo che con un coinvolgimento maggiore delle Chiese locali il primato del papa non venga intaccato; semmai arricchito. Oggi invece il papa condivide le sue scelte con i soli membri della Curia romana, composta da persone magari ottime, ma oggettivamente lontane dalla concreta realtà delle comunità locali, dalle ansie e dalle attese del popolo di Dio. C’è poi la questione della ricerca della “verità” che la Chiesa deve pensare in una prospettiva storica, non in quella di cui spesso parla e discetta, che è astratta, metafisica. La verità per la Chiesa deve diventare sempre più quella dei popoli sofferenti che attendono da lei risposte concrete ed immediate. Ancora, nella mia lettera chiedo di dare un assetto nuovo alle parrocchie: piccole chiese “di condominio”, costituite da gruppi di famiglie, strettamente legate al territorio in cui sono inserite, in maniera da divenire segni effettivi ed efficaci strumenti di azione pastorale. Infine, chiedo con urgenza la riapertura del dialogo con le comunità ecclesiali di base. Mi stupisce tanta premura nei confronti dei seguaci di Lefebvre e tanta disattenzionese, quando non rifiuto e diniego, per chi vive un impegno quotidiano ed incarnato nelle contraddizioni della Chiesa e della società come fanno le comunità di base, pur tra alcune esagerazioni e posizioni radicali che vanno attentamente vagliate.
Una parte importante della sua lettera è dedicata ai viri probati...
Io credo che sia maturo il tempo di introdurre questa novità nella Chiesa, e che ne sia forte l’esigenza; ma nella gerarchia resta la paura che i viri probati portino con sé la fine del celibato. Non è così! Il celibato rimane come dono, come carisma. Quella dei viri probati è invece una risposta alle attuali contraddizioni delle unità pastorali, che sono solo un espediente amministrativo per far fronte alla carenza di preti, ma che non assicurano una reale ed assidua cura pastorale delle comunità, specie di quelle più piccole, con le loro ricchezze e tradizioni. A loro serve una guida che non sia un prete di passaggio, un “pendolare” dei sacramenti, talmente impegnato nella cura di tante parrocchie e di tante anime da riuscire solo a consacrare o a confessare, a celebrare funerali o matrimoni. Serve qualcuno che venga dall’interno delle comunità di fede, uomini sposati che per autorevolezza umana e spirituale siano ritenuti idonei ad assumere il compito di “anziano” e che alimentino la vitalità spirituale dei loro fratelli e delle loro sorelle.
I diversi temi che abbiamo toccato richiamano alla mente le parole dell’ultima intervista del card. Martini sulla povertà nella Chiesa e sulla Chiesa povera, come anche quelle sulla Chiesa in ritardo di 200 anni. La sua visione sembra però più fiduciosa rispetto a quella dell’ex arcivescovo di Milano...
Ho voluto molto bene a Martini, mi sono ritrovato con lui su tante delle posizioni che ha espresso durante gli anni del suo ministero episcopale. Lui ha concluso la sua esperienza terrena con molta sofferenza e con un po’ di pessimismo nei confronti della Chiesa. Nel suo libro Colloqui notturni a Gerusalemme diceva di aver fatto molti sogni di una Chiesa che «procede per la sua strada in povertà e umiltà», «che non dipende dai poteri di questo mondo», «che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto», «che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori». «Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni», concludeva. E anche la sua ultima intervista è piena di una amarezza che ci deve profondamente interrogare. Ma io, nonostante tutto, resto fiducioso: credo che lo Spirito irromperà in questa nostra Chiesa e ci mostrerà una realtà diversa. Certo, ci vorrà tempo. E pazienza. E in questa attesa succederà che qualcuno sarà forse costretto a pagare per il coraggio delle sue posizioni. È successo a Martini, capiterà ad altri vescovi. Bisogna essere pronti. Io lo sono e ho cercato - vendendo quel poco che avevo e tornando a vivere nella mia prima diocesi, a Vallo della Lucania - di dare attuazione alla testimonianza di una Chiesa che riscopre Gesù povero tra i poveri e i semplici.
A cinquanta anni di distanza dalla sua indizione, quale delle istanze conciliari le pare più disattesa, se non tradita?
La povertà è senz’altro l’aspetto più disatteso. Oggi, invece che di una Chiesa povera tra i poveri facciamo piuttosto quotidianamente esperienza di una Chiesa che ha bisogno dei paramenti di Armani per celebrare le proprie pompose liturgie. Stiamo tornando indietro, altro che riscoprire la semplicità evangelica! Ma se non facciamo presto a liberarci dalla schiavitù del denaro e dalla collusione con il capitalismo finanziario globalizzato, il demonio, invece che limitarsi a diffondere il suo fumo, darà zampate laceranti sul tessuto “griffato” di questa Chiesa. Noi vescovi denunciamo spesso gli assalti che giungerebbero da fuori della Chiesa, dal laicismo e dalla secolarizzazione. Ma i pericoli veri vengono dall’interno, da una Chiesa che continua a perdere la lucentezza e la genuinità del messaggio evangelico. (v. g.)
* FONTE: Adista Notizie, n. 33, 22/09/2012
Ragionamenti
La fine dei capi carismatici
Il super leader e il rischio di populismo e antipolitica
Va distrutto il mito allucinatorio del carisma personale e va ricostruito un altro orizzonte immaginario fatto di partiti, associazioni e movimenti civici democratici
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 05.07.2012)
PICCONATO DALLE REPLICHE DELLA STORIA, IL FANTASMA RESISTE IMPAVIDO. E NON C’È MODO DI ESTIRPARLO. È IL FANTASMA DEL «CAPO CARISMATICO, e della doppia sindrome che lo accompagna: populismo e antipolitica. Come mai nonostante le rovine dei totalitarismi novecenteschi, sindrome e fantasma riemergono ancora? Di nuovo al centro c’è l’Europa. Nazionalismi, xenofobia periferici certo. Ma anche corposi fenomeni sia pur di minoranza in Francia, in Gran Bretagna, Mitteleuropa, Paesi slavi, Grecia, ma anche Olanda, Danimarca e altre realtà scandinave. Per non parlare dell’’Italia, che dopo il caso Dreyfus, è stato la culla vincente di populismo e carismatismo, al punto da far scuola col fascismo. Fino a rifar scuola col berlusconismo, forma di populismo light ma altresì rovinosa e protratta. Eppure, si dice, i partiti personali sono finiti, almeno in Italia, e Pdl e Lega docent, visto il vortice distruttivo in cui hanno trascinato se stessi, a furia di strappi, arbitri e familismi. Quei due partiti personali hanno dissolto politicamente il blocco sociale di cui pure erano portatori, consegnandolo all’astensione, o allo spettacolo corrosivo di Grillo (altro esempio di capo carismatico, radicalmente più comico del Cavaliere).
Ma ciò che più inquieta è questo: il fascino discreto del capo carismatico alligna anche nello schieramento progressista. Nel fondamentalismo delle primarie intese come atto fondativo del partito liquido e imperniato sul leader. Ovvero, Il partito personale programmatico, su cui Michele Prospero ha scritto cose incisive nel suo ultimo libro (Il partito politico, Carocci, 2012): traviamento della stessa lezione di Max Weber e che non esiste nemmeno negli Usa. E alligna quel fascino persino in un certo gradimento che anche a sinistra paiono avere presidenzialismo, premierato a elezione diretta e semi-presidenzialismo.
Benché sia evidente che acclamazione e potere del leader codificato in Costituzione rappresentino una de-strutturazione tanto del partiti come corpi intermedi democratici, quanto uno spiantamento integrale della repubblica parlamentare. Ma allora perché il fantasma del carisma infuria ancora e così nel profondo? Perchè, visto che poi né gli Usa col loro presidente bilanciato e le loro primarie di partito, né l’Inghilterra, né tutti gli altri Paesi di lunga tradizione democratica compresa la Francia dell’anti-carismatico Hollande valgono come esempi realizzati di carisma e partito personale in politica? Il sospetto è che si tratti di una malattia latente della modernità, anche di quella tarda e globale.
Come è noto il capo carismatico è invenzione di Max Weber in Economia e società, anno 1922 (Comunità, 1961). Un’idea ricavata dal ruolo che Weber assegnava al ruolo del «sacro nella secolarizzazione: un’irruzione teologica e mistica, antitradizionale. Nel fuoco dell’inerte potere burocratico legale, paralizzato dai divieti incrociati, dal «politeismo dei valori e dalla gabbia della tecnica. Weber si ispirava ai doni spirituali elargiti agli apostoli (i carismi), alla grazia per dono. E distingueva il carisma trasmesso in continuità dall’istituzione ecclesiastica e ispirata al servizio paolino verso la comunità, dal nuovo carisma della «democrazia dei capi. Gladstone era il suo eroe liberale, che manteneva però un nesso con la macchina partitica, l’unica in grado di generare altri capi e di routinizzare il carisma. Dunque una specie di dialettica, di rotture e discontinuità, dove l’alone del capo riproduceva sempre l’antico statu nascendi dei movimenti carismatici nella storia, concentrandoli in una figura del destino, oggetto di agnizione emotiva da parte dei sottoposti. Si sa, il liberalismo europeo, da Weber a Croce e anche Einaudi, non disdegnava le maniere forti per domare il movimento operaio, benché fosse molto al di qua di certe torsioni autoritarie. Resta però delineato in embrione il nucleo di un ben preciso corto-circuito: la fusione masse e capi. Che travalica i partiti e le assemblee «discutidore. Spaccando classi e ceti, e riunificando gli individui atomizzati nella calamita immaginaria del decisore plebiscitato.
LE RIFLESSIONI DI GRAMSCI
Ne parla anche Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, teorizzando una sorta di modernità antimoderna: «una fase primitiva dei partiti di massa...che ha bisogno di un papa infallibile. E che torna in certe fasi di «crisi organica, quando lo scontro sociale non permette la vittoria di un gruppo su un altro, e la situazione immediata «diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate da uomini provvidenziali e carismatici ( e cfr. Q. 2, 75, e Q. 13, 23, ed. Gerratana, Einaudi, 1975). Inutile dire che per Gramsci il cesarismo è sempre primitivo ancorché possa essere «progressivo (Cesare, Napoleone). E resta inteso che per il pensatore del carcere un capo, anche carismatico, ha senso solo se aiuta la formazione di gruppi dirigenti e la nascita di altri capi.
All’interno di un modello in cui il vero capo è il partito come intellettuale collettivo, agente di liberazione democratica di soggetti e gruppi subalterni. Sta di fatto che Gramsci intende bene la patologia del fenomeno, frutto di un processo molecolare catastrofico e per lo più reazionario.
Ma c’è un altro autore decisivo che capisce molto bene la sindrome: Sigmund Freud. Nel 1921, in Psicologia delle masse masse e analisi dell’Io ( Bollati Boringhieri, 1975), sostiene: «i seguaci mettono il capo al posto del proprio ideale dell’io. Che significa: identificazione eroica e immediata dei soggetti con la potenza del leader. Fine dell’io. Fine di ogni morale soggettiva e senso critico. E alienazione in una «Servitù volontaria, che fa regredire i singoli alle fasi più primitive maniacali e onnipotenti della formazione del sé. Il tiranno introiettato come nel celebre pamphlet cinquecentesco di Etienne La Boétie fa diventare tutti tiranni in sedicesimo. Con i benefici del sado-masochismo di massa e del gregarismo condiviso. Tutte cose su cui torneranno anche Adorno e Horckheimer.
Ma che c’entra tutto questo con la dimensione post-moderna o post-industriale? C’entra. Perché media, finanza e capitalismo globale non solo hanno distrutto le forme di coscienza collettiva e di conflitto incarnate in radici politiche. Colonizzando in senso edonista e narcisista la politica (anche a sinistra). Ma hanno condotto l’area Euro-americana sull’orlo dell’abisso, creando di nuovo i presupposti di quella che Gramsci definiva «crisi organica, con ciò che ne consegue: liquefazione dell’individuo e delle sue difese, odio per i partiti, invocazione di un capo e omogeneità populista.
Ecco perché occorre ricominciare di qui. Dalla distruzione del mito allucinatorio del «carisma personale. E dalla ricostruzione di un altro orizzonte immaginario: partiti, associazioni e movimenti civici democratici. Ma soprattutto dai partiti di massa come espressione valoriale di interessi. Prima che la crisi organica ci consegni ad altri incantatori di serpenti. Tecnici, comici o aziendalisti che siano.
La linea d’ombra del comando
di BARBARA SPINELLI *
CI VIENE spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi ferree leggi, la sapienza del comando. Quest’arte ruvida, che in democrazia è sempre guardata con un po’ di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima. C’è diffidenza perché l’immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando. Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità, che del comando è la logica conseguenza, in qualche modo l’ornamento. Ma la responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il comandoha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite, quando tutto, salvezza o disastro, dipende da chi è al comando, sempre che qualcuno ci sia. L’esempio lo conosciamo ormai: ce l’ha dato Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare frasi sull’inaudita trasgressione appena commessa: l’abbandono del posto di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.
Difficile dimenticare il tono di quell’ingiunzione a rispettare le regole: incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s’era udita a Capodanno, inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattore e al tempo stesso ne profitta - le parole sono di Mario Monti - "mettendo le mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse". È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca. Manca d’altronde non solo da noi ma anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce perché è assente, ai vertici dell’Unione, l’occhio in più che dia l’ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in salvataggio di tutti.
Ma in Italia la questione è incandescente, perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l’urlo di chi s’indigna e l’urlo di chi dall’alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la potenza accumulata dalla cultura dell’urlo. L’intimazione stentorea di autorità emblematiche come il comandante di Livorno o le Guardie di finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto in de Falco un eroe ma non è un eroe. Il suo modo d’essere dovrebbe essere la normalità: è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a amici complici in irresponsabilità, e impunemente s’avvolgono nella propria incuria come in un manto.
Chi ha letto Joseph Conrad sa le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il protagonista di Tifone: "Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva, per quanto concerne l’aspetto esteriore, una fisionomia che rispecchiava fedelmente l’animo suo: non presentava alcuna distinta caratteristica di fermezza o di stupidità; non aveva caratteristiche pronunciate d’alcun tipo; era soltanto comune, insensibile e imperturbabile".
Il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C’è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n’è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un’emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell’imperio della legge e del carisma.
Torniamo ancora a Conrad, quando narra la nostra Linea d’ombra: d’un colpo scorgiamo innanzi a noi "una linea d’ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch’essa, la dobbiamo lasciare addietro". Il protagonista del racconto affronta a quel punto la massima prova esistenziale: l’esercizio del comando. Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il prezzo - in dolore, rimpianto, vita d’angoscia - del peccato originale commesso quando abbandonò la nave. La linea d’ombra, in Italia, è come se non la scorgessimo mai. C’è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l’autorità, la legge, lo Stato.
Stentiamo a capire una cosa, dell’ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è quello che ci protegge dall’esplosione dell’urlo scomposto, dal caos propizio allo Stato d’eccezione. Fu con l’urlo che Hitler s’affacciò al mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal ’31 quel che nel futuro dittatore più spaventava: "Non l’uomo in sé, che non esiste. Ma il rumore, che egli scatena". Stentiamo a capire soprattutto in Italia, perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide - era il ’79, dilagava il terrorismo - nell’apologo Prova d’Orchestra. Il tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come degenera in urlo, e perché degenera.
L’Italia benpensante accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell’autore buie propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio, perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non ebbe. "Tutto è prova d’orchestra", disse il regista. E sulla pellicola capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista, clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.
Qualcosa di simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di ammansire l’ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell’Italia smarrita e infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l’autorevolezza che accresce l’autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti, e a chieder conto. Non dimentichiamo la fine del film di Fellini: il direttore d’orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla scomposte, mescolando vocaboli italiani e parole d’ordine naziste. "Estrema pazienza e estrema cura", questo il comando secondo Conrad: oltrepassata la linea d’ombra, sempre possiamo mancare la prova, sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco perché la via di Monti è così stretta.
* la Repubblica, 25 gennaio 2012
L’insano bisogno di un leader
di Vittorio Cristelli ("vita trentina”, 22 maggio 2011)
Si sa che i sintomi sono importanti per individuare una malattia. Ma si sa anche che per curarla e per guarire non basta prendere di mira i sintomi. Negli ultimi tempi si parla sempre più di leader. Anche nella provincia di Trento il governatore Dellai guardando alle elezioni del 2013 ha detto che deve emergere un leader nel centro sinistra perché non ci siano pericolosi scombussolamenti. Non così il centrodestra perché un leader nazionale, regionale e comunale unico ce l’ha già in Silvio Berlusconi. Anche nei dibattiti televisivi una delle deficienze che il centro-destra imputa al centrosinistra è quella di non avere un leader unico e indiscutibile.
Bisogna verificare però se questo bisogno di un leader è il sintomo di una malattia o è la malattia stessa. Del leader Silvio Berlusconi è stata fatta una diagnosi accurata nel documentario di Roberto Faenza e ne è uscita questa descrizione: l’amore di sé anima il personaggio e ne guida i comportamenti nel conseguimento degli obiettivi. Quando li raggiunge la sfera si allarga e il successo da attingere si estende: dal potere del denaro alla dominanza mediatica e poi a quella politica. Più sale in atto e più cresce
L’amore di sé fino alla megalomania e all’egolatria.
L’ultima meta in ordine di tempo se l’è posta l’altro giorno quando da capo del governo ha prospettato una diminuzione del potere del Presidente della Repubblica in favore appunto dell’esecutivo. Una leadership che è tutto tranne che carismatica, se è vero che il carisma è quel dono che uno riceve non a proprio vantaggio ma a beneficio degli altri e della comunità.
Basterebbero le leggi "ad personam" già ottenute o richieste per dimostrare che il carisma è completamente assente. Una leadership invadente e universale nel senso che la sua faccia fa da trainer in tutte le elezioni siano esse politiche nazionali o regionali, provinciali o comunali.
E’ interessante e istruttivo rilevare come questo leaderismo si sia fatto avanti a causa della crisi dei partiti e questo è avvenuto proprio nel momento in cui una legge elettorale, definita dagli stessi inventori una "porcata", dà alle segreterie dei partiti la facoltà di scegliere i candidati. Così il leader riconosciuto non rappresenta solo il partito ma può pure scegliere anche chi entrerà nelle assemblee legislative e chi ricoprirà cariche nelle giunte e nei governi.
Intendiamoci, dei leader devono esprimerne anche i partiti e se non lo fanno è segno che sono malati di gerontocrazia, preludio al loro tramonto. Ma in democrazia sono leadership che si qualificano per la loro capacità di promuovere e volere il bene comune e non il proprio, peggio se solo personale. E vuoi vedere che a questa personalizzazione del potere ha contribuito visivamente anche il fatto che sui manifesti non appare solo il nome e il cognome dei leader, ma anche la loro fotografia! Ma non è persa ogni speranza e lo dimostra la crescita esponenziale della stima nel popolo italiano per il presidente della Repubblica. Anche quello è un leader, ma in quanto garante della Costituzione.
Proprio l’indebolimento dei vecchi partiti, la nascita di tante nuove formazioni politiche e le scorribande che contrappongono i vari poteri dello Stato con conati di criminalizzazione hanno fatto sì che gli interventi del Capo dello Stato siano diventati pressoché quotidiani. E non più solo formali come in passato ma sostanziali. Con tutto ciò, se la popolarità e la stima per la sua leadership cresce in tutti gli schieramenti è segno di patriottismo e di attualità della Costituzione repubblicana.
L’esito delle elezioni a Milano conferma queste considerazioni ed è uno spiraglio di speranza offerto dal basso. Dice infatti che il popolo non sa che farsene di un leader che guarda solo a se stesso e argomenta con la serie di problemi della città offerti come sfida e criterio per l’affidamento della propria sovranità sancita dalla Costituzione.
Bersani
"Poco carisma? Ma non mi va di dire balle"
la Repubblica 24.11.10
ROMA - «Il carisma è una cosa misteriosa». Intervistato da Oggi il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani parla di carisma e ammette: «Certo, posso cambiare, posso cercare di migliorare, ma la mia idea è che al dunque contano solo la sincerità e l’autenticità». E comunque, aggiunge, «io balle non ne ho mai raccontate e nessuno mi convincerà a iniziare adesso». Per Bersani «la politica è anche questo: uno si trascina i suoi difetti, basta che la gente li capisca. Un po’ come succede in famiglia, mica siamo perfetti!». Per il leader democratico quello che conta è «guardare ai fatti». Certo, aggiunge, «so che bisogna far sognare, ma i sogni devono avere gambe per camminare. Vorrei che la gente vedesse dai miei gesti concreti - e non dalle chiacchiere - di che pasta sono fatto».
Carisma: Per lodare l’uomo o per dar gloria a Dio?
“UN GOVERNANTE”, scriveva Senofonte, famoso storico e generale greco, “non solo dovrebbe essere migliore dei suoi sudditi, ma dovrebbe anche esercitare su di loro un forte ascendente”. Invece di ascendente oggi molti parlerebbero di carisma.
Naturalmente non tutti i governanti umani hanno carisma. Ma quelli che ce l’hanno se ne servono per suscitare nelle masse devozione nei propri confronti e asservirle ai propri fini. Forse l’esempio recente più tristemente noto è quello di Adolf Hitler. Nel 1933 “per la stragrande maggioranza dei tedeschi Hitler era già circondato, o doveva esserlo in seguito, dall’aureola di condottiero inviato dalla provvidenza”, scrive William L. Shirer nella sua Storia del Terzo Reich. “Gli ubbidirono ciecamente, come se fosse dotato di una mente divina, nei tempestosi dodici anni che seguirono”.
Anche la storia religiosa è costellata di leader carismatici che infiammarono gli animi dei loro seguaci ma che li portarono alla rovina. “Badate che nessuno vi svii”, avvertì Gesù, “perché molti verranno in base al mio nome, dicendo: ‘Io sono il Cristo’, e svieranno molti”. (Matteo 24:4, 5) Falsi Cristi dotati di carisma non comparvero solo nel I secolo. Negli anni ’70 del nostro secolo Jim Jones si proclamò “messia del Tempio del Popolo”. Venne definito un “ecclesiastico dotato di carisma” che esercitava “uno strano ascendente sulle persone”: nel 1978 fu l’istigatore di uno dei più grandi suicidi in massa della storia.
È evidente che il carisma può essere un dono pericoloso. La Bibbia però parla di un diverso tipo di dono, o doni, che Dio rende disponibile a tutti per il bene di tutti. Il termine greco che indica questo dono, chàrisma, ricorre 17 volte nella Bibbia. Un grecista lo definisce ‘un dono gratuito e immeritato, concesso a un uomo che non se lo è guadagnato, qualcosa che si ottiene per grazia di Dio e che non si sarebbe mai potuto raggiungere o avere con i propri sforzi’.
Distinti Saluti...con l’Inchino a chi lo usa correttamente; come Dio lo ha’ prescritto e concesso-gratuito- immeritato.
Per coloro che NON lo usano con tale proposito allora...... Sopportiamo le persone Moleste e preghiamo Dio che crepano presto.
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 14 ottobre 2010)
Le considerazioni che seguono sono sotto il segno di un celebre motto di Friedrich Schiller: «La lingua poeta e pensa per te». Nella lingua del nostro tempo, si nota la presenza sovrabbondante di un lessico che non sarà certo quello di Schiller ma è forse piuttosto quello di Berlusconi, dei suoi e dei loro mezzi di comunicazione che si esprimono come lui. E noi abbiamo cominciato a parlare come loro. Ciò può essere interpretato come un’intrusione nel nostro modo d’essere e di comunicare, oppure come un’emersione, che non crea nulla, ma solo dà voce.
In questo secondo caso, la radice sarebbe più profonda, la malattia più pervasiva. In ogni caso, l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di decadenza senile, è tale certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma - molto più grave - è il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio kitsch, forse proprio per questo largamente diffuso e bene accolto.
«Scendere» (in politica) Qual è la via che conduce alla politica? O dal basso o dall’alto. Dal basso, vuol dire dall’interno di un’esperienza politica che, mano a mano si arricchisce e porta all’assunzione di sempre più vaste responsabilità e di più estesi poteri. Ciò equivale a una carriera politica e corrisponde all’idea della politica come professione, nel senso classico di Max Weber. La legittimità dell’aspirazione al potere politico è interna alla politica stessa, alle sue esperienze, alle sue procedure e ai suoi rituali. Oppure la via può essere la discesa, quando si fanno valere storie, competenze e virtù maturate in altre e più alte sfere. La politica non è, allora, una professione, ma una missione. La legittimità dell’aspirazione politica è esterna alla politica come professione, anzi sta proprio nel suo essere estranea, aliena. (....) Trasferita dalla salvezza delle anime alla salvezza delle società, è la sempiterna figura della missione redentrice che un «salvatore» assume su di sé, lasciando la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù. Teologia politica allo stato puro, cioè trasposizione di schemi mentali e suggestioni dalla teologia alla politica.
C’è poco da ridere o anche solo da sorridere. È cosa seria. È una forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i salvatori che si accollano compiti provvidenziali. I «re nascosti», gli «unti del Signore» che gli uomini comuni devono riconoscere, fanno la loro apparizione nella storia dei popoli in ogni momento di difficoltà; gli «uomini della provvidenza», comunque li si denominino e quale che sia la forza provvidenziale che li manda e dalla quale sono «chiamati» (un Dio, la Storia, il Partito, la «Idea», la Libertà, il Sangue e la Terra, in generale il Bene dell’umanità) sono appena alle nostre spalle, anzi sono tra noi. La secolarizzazione del potere, premessa della democrazia, non li ha affatto scacciati. (....)
Quest’idea è pervasiva e va al di là degli schieramenti politici. L’invocazione di un «papa straniero», salvatore della Patria anch’esso, sia pure di segno provvidenziale opposto a quell’altro, è la dimostrazione che questa mentalità è penetrata profondamente ed estensivamente nel modo comune di considerare la politica e la salvezza politica. Certo, questa formula ha qualcosa d’ironico.
Ma c’è da scommettere che, se un tale personaggio, dal mondo della finanza, dell’industria o dell’accademia, farà la sua apparizione, questa sarà circondata dagli stessi caratteri: anche lui «scenderà» in politica e il suo non sarà un «ingresso» ma una «discesa». Si renda o non si renda conto del significato di questo linguaggio che, ormai entrato nell’uso, gli sembrerà del tutto naturale, ovvio.
La parola-chiave è dunque «scendere». Scendere da dove? Da una vita superiore. Scendere dove? In una vita inferiore. Per quale ragione? Per rispondere a un dovere, al quale sacrificarsi. Quale dovere? Salvare un popolo avviato alla perdizione. Con quali mezzi? Mezzi politici. Dunque: «scendere in politica». Non con i mezzi corrotti del passato però, ma con mezzi inediti e con compagni d’avventura nuovi di zecca. Tutto dev’essere reso «nuovo», generato a un’altra vita. Ciò che è vecchio sa di corruzione. Per questo, si deve scendere dall’alto, dove c’è virtù, purezza, capacità di buone opere, e non dare l’impressione di salire dal basso, da dove nascono solo creature che si alimentano e vegetano nella putredine.
«Contratto» Da dove si scende, è ben detto fin dall’inizio, in quel volumetto del 2001, intitolato Una storia italiana, dove la vita del protagonista, prima della «discesa», è rappresentata come un idillio familiare, intriso di buoni sentimenti, di felicità nel suo rapporto con la natura, come una sequela di successi professionali, come una dedizione, già allora, al bene di tutti coloro che hanno a che fare con lui. Ma ora, c’è un popolo intero che ha bisogno di soccorso. Non rispondere alla chiamata, sarebbe un atto d’egoismo. Noi miscredenti pensiamo che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, da agevolare dunque. Resistere alla chiamata o opporsi al chiamato significa volere il male del bisognoso (...).
Questi concetti, ripetuti poi infinite volte, dovrebbero essere analizzati uno per uno. Non sono detti a caso. Ci deve essere una mente: la condizione beata di partenza, il sacrificio personale consacrato al paese infelice e bisognoso d’aiuto, il soccorso, la chiamata, l’altruismo, le armi. C’è già in nuce tutto quanto seguirà. Compreso il rito elettorale, inteso non come laico confronto tra persone e programmi, ma come una sorta di giudizio di Dio affidato al popolo (vox populi, vox dei). Il programma elettorale diventa qualcosa di diverso da una proposta di governo. Diventa rivelazione della propria missione salvifica, «buona novella» che deve essere annunciata tramite «apostoli della libertà». L’investitura elettorale è la risposta all’annuncio. Il «contratto con gli Italiani» è cosa assai meno ingenua di quel che appare. È la sanzione dell’avvenuto riconoscimento del salvatore da parte dei salvati, da parte del suo popolo. La funzione mistica attribuita a questo «contratto», presentato come tavola fondativa d’un patto indistruttibile e sacro, è completamente al di fuori della logica della democrazia rappresentativa. Si spiega nella logica del disvelamento e del riconoscimento, della discesa dall’alto che incontra un bisogno e un’invocazione dal basso.
«Amore» Nel discorso con il quale fu dato l’annuncio (il Kérygma) della «discesa» in politica (26 gennaio 1994), un passaggio-chiave, una frasetta che sembra buttata lì, fu «L’Italia è il Paese che io amo». Così anche l’amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica, non senza conseguenze pervasive. Il neonato Partito Democratico, a sua volta, ritenne di non dovere essere da meno e rispose per le rime nel «Manifesto» fondativo del 2007, che inizia così: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell’imitazione nel campo della comunicazione politica. Le due dichiarazioni d’amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima («L’Italia è il Paese che io amo») è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere un altro luogo per vivere o per discendere sulla terra dei comuni mortali.
L’Italia, così, è la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l’amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione è tutt’altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto obbligato. Potrebbe un partito politico che, ovviamente, è dentro, non sopra il Paese al quale chiede consensi, dire: «Tu non mi piaci affatto». Questa dichiarazione, come dichiarazione d’amore, suona falsa perché è obbligata e l’amore obbligato che cosa è? Può essere un’adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt’altro modo, come un dono d’amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo?
E se non riama? Se l’amore non è corrisposto? Se non c’è corrispondenza a un amore così grande che è quasi un sacrificio, è perché qualcuno odia. Solo apparentemente, le parole d’amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, e riversate nella campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti, sono parole benevolenti. In realtà sono parole violente, destinate a provocare divisioni radicali, contrapposizioni e incomunicabilità, tra «noi che amiamo» e «voi che odiate».
Valga, tra le tante possibili, questa citazione: «Noi non abbiamo in mente un’Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un’altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un’Italia che sa anche e soprattutto amare» (L’Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 280). Se guardiamo all’Italia di oggi, possiamo tristemente riconoscere che la spaccatura è avvenuta e non sappiamo come si potrà sanarla.
«Assolutamente» Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l’appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto.
Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell’assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell’assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no». (...) Il predecessore dell’assoluto è il «categorico» d’un tempo, quando non c’era posto per le sfumature ma solo per le convinzioni granitiche, per gli «imperativi categorici» presi dalla filosofia morale e gettati nell’agone politico. Ciò che l’assoluto esclude è «il relativo». Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L’assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente. Il relativo è proprio dei deboli, perché è insidiato dal dubbio; l’assoluto è forte perché, insieme ai dubbi, esclude la possibilità di venire incontro, di cercare accordi e stabilire compromessi con chi non condivide i nostri «assoluti». Tra assoluto e fanatico c’è parentela stretta in uno stesso mondo spirituale. (....)
«Fare-lavorare-decidere» La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch’essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell’elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L’idea che la vita politica si basi su un legame sociale che - certamente - implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l’esprime. L’Italia è «l’azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell’azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi».
La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l’Italia. (.....) Ora, l’ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza.
Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l’oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell’agire. (....) Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell’espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d’opposizione (...) Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l’efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.
«Politicamente corretto» (....) Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l’ha inaugurato e anzi, all’inizio, l’ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d’amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.