ALLEGATI:
I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero (1786):
"In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare.
Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro?
Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri, li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione."
(Immanuel Kant: "Che cosa significa orientarsi nel pensiero" - 1786, a cura di Franco Volpi, traduzione di Petra Dal Santo, Adelphi edizioni, Milano, 1996, pgg. 62 - 63)
"Nessuna democrazia dotata di libera stampa ha mai sofferto una carestia"( Amartya Sen)
La sovranità privata
di Carlo Galli (la Repubblica, 10.06.2010)
«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di "Costituzione" mancava ancora questa: ma c’è da sperare che d’ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D’accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della "blindatura" - e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia - è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro.
Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l’opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa - la Costituzione, chi l’ha voluta in passato, chi la difende ora - come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell’azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all’uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi - esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale - è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del "comando efficace", libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi "sovranità": quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l’esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo).
È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l’elemento - che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano - del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell’Esecutivo).
Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti. Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall’investitura popolare.
Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un’autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d’azione "riformistiche" per l’avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull’articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso "infernale" proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo "discorso" - che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l’efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini - fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell’analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l’agire dei governanti.
Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall’altra chi la difende, consapevole che in questa difesa - si spera non rassegnata, né di maniera - consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.
Il sipario sugli scandali
di MARIO CALABRESI (La Stampa, 11/6/2010)
Ora cala il sipario. Il nostro lavoro si farà più incerto e faticoso e gli avvocati diventeranno compagni di banco di direttori e editori. Nonostante dibattiti, correzioni e appelli di ogni tipo, la legge che detta nuove regole per le intercettazioni e l’informazione viaggia spedita verso i suoi obiettivi.
Abbiamo più volte scritto e riconosciuto che in Italia ci sono stati problemi di rispetto delle vite private di persone coinvolte in indagini, ma ciò non può cambiare il giudizio totalmente negativo che abbiamo della nuova legge.
Il dovere di informare i lettori e il mestiere di giornalisti saranno resi più difficili perché le possibilità di raccontare le inchieste si ridurranno notevolmente, potremo darvi resoconti minimi e parziali, dovremo destreggiarci a fare brevi riassunti e mai citare dettagli o particolari determinanti. Tutto in una grande incertezza, che spingerà gli editori a sollecitare continui pareri legali per evitare le maximulte.
E’ forte l’amarezza per un gesto che non ha nulla a che fare con la privacy e la civiltà giuridica, ma ci parla solo della volontà urgente della politica di calare il sipario sulle inchieste e di mettersi al riparo dagli scandali, per garantirsi un tranquillo futuro di impunità e mani libere.
A PARTIRE DALLA TUA PERSONALE CARTA D’IDENTITA, UNA RIFLESSIONE SU CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINO O CITTADINA D’ITALIA.
Allegati:
Doc. 1: IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI.
LA LEGGE DELLA MONETA E LA COSTITUZIONE. COME LA SOVRANITA’ COSTITUZIONALE DI UN POPOLO DIVENTA LA SOVRANITA’ PRIVATA DI UN CITTADINO AL DI SOPRA DELLA COSTITUZIONE
Allegati:
Doc. 1: Meditazione su una moneta da due euro... di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
A proposito delle Tracce .... nel sito:
FOIBE: GIORNO DEL RICORDO. MEMORIE E VERITA’!!! «Non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica» (Il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano)
Fondando il Partito "Forza Italia", il Partito "Popolo della Libertà" il cittadino Silvio Berlusconi si è appropriato indebitamente della Parola: ITALIA, e della sua IDENTITA’. Si svolgano proprie riflessioni sul fatto, sotto forma di Lettera al Presidente della Repubblica, il cittadino Giorgio Napolitano:
ALLEGATI:
1. COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA: L’ITALIA E’ UNA REPUBBLICA (ART. 1), UNA E INDIVISIBILE (ART. 5). LA SUA BANDIERA E’ IL TRICOLORE (ART. 12)... E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E’ IL CAPO DELLO STATO E RAPPRESENTA L’UNITA’ NAZIONALE (ART. 87)
LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO (1994-2010). IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E IL SUO SOSIA GRIDANO ALL’UNISONO: FORZA ITALIA!!! LA DOMANDA E’: CHI E’ IL "PULCINELLA"?!, E CHI E’ IL "LUPO"?! E CHI IL PRESIDENTE DEL POPOLO DELLA LIBERTA’?!! IL ’GIOCO’ NON E’ ANCORA FINITO ...
I COSTITUZIONALISTI NELLA TRAPPOLA BIPOLARE
LA BANALITA’ DEL MALE: IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN.
LA COSTITUZIONE, IL LAVORO, E IL SOGNO ATEO-DEVOTO DELL’IMPRENDITORE-PAPA
La vittoria della società opaca
di Alexander Stille (la Repubblica, 11.06.2010)
L’argomentazione principale a favore di queste norme è più o meno questa: «Si immagina il povero cittadino che si vede sbattuto sulle prime pagine dei giornali - con sue frasi prese fuori contesto - e poi magari prosciolto perché il fatto non sussiste?», mi disse una volta Niccolò Ghedini, l’avvocato di Silvio Berlusconi e uno dei promotori della legge.In primo luogo, in tutti gli anni che ho girato l’Italia non ho mai sentito dire da un cittadino normale: «Quello che ci vuole in questo paese è una bella legge sulle intercettazioni telefoniche perché sono stufo di vedermi sbattuto in prima pagina per reati che non ho commesso!». Da cittadini normali ho sentito invece esprimere migliaia di volte il desiderio di essere liberi da un sistema soffocante di corruzione, clientela, favoritismi e crimineorganizzato che rappresenta una minaccia seria allo sviluppo dell’Italia e ai diritti più elementari dei suoi cittadini.
Il desiderio di una legge sulle intercettazioni l’ho visto esprimere solamente dai politici, e solo da una minoranza di essi, in genere quelli attorno a Silvio Berlusconi, il quale si è proprio stufato di vedersi sbattuto in prima pagina con conversazioni davvero imbarazzanti che rivelano frequentazioni assai discutibili e giochi di potere al confine tra il lecito e l’illecito. Il numero di persone intercettate - a differenza del numero di apparecchi messi sotto controllo - è in realtà stimato intorno ai 20.000 all’anno. Il telefono del primo ministro non è mai stato messo sotto controllo: ha soltanto la strana abitudine di parlare con frequenza allarmante con alcuni di questi 20.000 sospettati.
È non solo giusto ma importante che i cittadini conoscano gli indizi di reato, soprattutto in casi che riguardano l’amministrazione pubblica, prima di un processo. Immaginiamo per un momento che l’attuale proposta di legge fosse stata in vigore durante l’anno passato. Non sapremmo nulla dello scandalo della Protezione Civile e della "cricca" di appaltatori che ne hanno beneficiato. Il pubblico italiano continuerebbe a pensare che Guido Bertolaso è l’uomo dei miracoli e che il sistema della Protezione Civile - che salta le normali procedure d’appalto - è il modo migliore per fare opere pubbliche in Italia. Non sapremmo nulla dei massaggi e dei festini offerti a Bertolaso dall’imprenditore Diego Anemone. Il ministro Scajola sarebbe ancora al suo posto nel bellissimo appartamento comprato in buona parte con i soldi di Anemone. Le intercettazioni telefoniche probabilmente non sarebbero concesse in questo caso - non trattandosi di reati di mafia o di terrorismo - e, se fatte, non sarebbero state rese pubbliche.
Nessuno di questi signori è stato processato ed è del tutto possibile che nessuno di loro sarà condannato. Ed è giusto che sia così: le prove devono essere molto consistenti e i magistrati devono seguire procedure giudiziarie molto precise per garantire i diritti degli imputati. Ma qualcuno davvero pensa che sarebbe meglio se non sapessimo nulla di tutta questa palude? I magistrati sono costretti dalla legge, durante un’inchiesta, a fornire prove prima di arrestare un sospetto criminale o al momento di chiedere il rinvio a giudizio. A questo punto, molte prove - comprese le intercettazioni - diventano di dominio pubblico. Anche se gli imputati possono essere eventualmente scagionati, è giusto che il pubblico abbia la possibilità di conoscere il loro contenuto.
In primo luogo questo dà la possibilità alla società di reagire al malcostume, di cambiare rotta, di sostituire ufficiali pubblici sospettati di reati o semplicemente colti in comportamenti poco etici ma forse non illegali. In secondo luogo, il fatto che certi passaggi importanti non avvengano nel buio è una garanzia del funzionamento del sistema giudiziario e politico. Siccome nessuno è perfetto, compresa la magistratura, è giusto che l’opinione pubblica serva come controllo sia alla magistratura sia al mondo politico. È la ragione per cui i processi avvengono in aule aperte al pubblico. In Italia, abbiamo visto tanti processi affossati e finiti nel nulla nonostante prove agghiaccianti.
Poi, lavorando senza malafede, la magistratura può archiviare un caso sulla base di considerazioni tecniche. Il lavoro del giudice non è di stabilire la verità; ha un compito molto più limitato: stabilire se le prove, raccolte e presentate secondo criteri molto precisi, sono sufficienti per portare a una condanna. Il tribunale - per proteggere lo stato di diritto e semplificare una realtà potenzialmente infinita - limita molto il tipo di prove che può esaminare. È costretto a scartare alcuni elementi di prova per ragioni puramente tecniche: prove raccolte illegalmente o la parola di testimoni che non si presentano in aula. E poi anche il semplice passare del tempo - specialmente in Italia con la sua legge sulla prescrizione - può vanificare un processo.
Questo non ha niente a che fare con la ricerca della verità che è il compito dello storico ma anche un diritto dell’opinione pubblica e quindi un dovere del giornalista. Molte prove hanno una grande importanza anche se non costituiscono un reato. Per esempio, intercettazioni fatte su Giuseppe Mandalari, un commercialista di Corleone considerato dalla polizia italiana come il fiscalista del boss Totò Riina, poco dopo le elezioni del 1994 hanno prodotto rivelazioni sconvolgenti. «Bellissimo, tutti i candidati amici miei e tutti eletti!», ha detto Mandalari dopo che il "Polo del Buongoverno" capeggiato da Berlusconi aveva vinto 54 seggi su 61 seggi in Sicilia. Poi nei giorni successivi tre politici della nuova coalizione vincente - due senatori e un deputato - hanno telefonato a Mandalari per ringraziarlo e uno gli ha mandato un fax con il curriculum di suo figlio. I tre parlamentari in questione non sono stati incriminati perché, evidentemente, non c’erano altre prove per dimostrare piena collusione con la mafia. E quindi con la nuova legge non sarebbero mai venute alla luce. Ma è giusto che siano state rese pubbliche anche in tempi rapidi. Il cittadino ha tutto il diritto di sapere se i suoi rappresentanti parlano con mafiosi o furfanti anche se fare ciò può non essere un reato.
Ormai, è un fatto acquisito, tra economisti e politologi, che la trasparenza sia fondamentale per una democrazia sana e che la trasparenza vada di pari con altre cose positive: la crescita economica, la libertà di stampa e lo stato di diritto. Nel novembre del 1999, la Transparency International ha rilevato che i costi di costruzione della metropolitana di Milano sono scesi del 57 per cento dopo l’inchiesta di Mani Pulite. Ma l’Italia da un po’ di tempo sta andando nella direzione sbagliata. Dal 2004 al 2009, l’Italia è scesa dal 42esimo al 63esimo posto nella graduatoria di Transparency. La corruzione, invece, cresce nel buio. Secondo la Corte dei conti, i contribuenti italiani perdono tra 50 e 60 miliardi di euro all’anno a causa della corruzione. Questa legge introduce buio dove finora c’è stata un po’ di luce.
Ciccone, l’inventrice del post it giallo: difendiamo il diritto di conoscere
"Dal web alla piazza continueremo a protestare"
Contatteremo poliziotti, magistrati, giornalisti. Chiederemo a tutti come cambierà il loro lavoro con questa legge
di Tiziana Testa (la Repubblica, 11.06.2010)
ROMA - «Stiamo cominciando a contattare magistrati, poliziotti, giornalisti. Chiederemo a tutti di spiegare come cambierà il loro lavoro con questa legge. E poi lo racconteremo su volantini da scaricare online e da distribuire a ogni occasione. Nei quartieri, ai vicini di casa, sugli autobus, alle stazioni della metro. Perché la rete è importante, ma bisogna anche uscire dal web". Arianna Ciccone, 39 anni, giornalista, è l’ideatrice di Valigia blu, il network di cittadini mobilitati da mesi sulla libertà d’informazione in Italia. Parla in un’intervista a Repubblica tv, durante il lungo speciale dedicato al voto di fiducia al Senato sulla legge-bavaglio. E, dopo il risultato, parte alla carica. «Questa legge - dice - è contro tutti i cittadini. Danneggia il loro diritto di conoscere e anche il loro diritto alla sicurezza, visto che ostacola il lavoro dei magistrati. Farlo capire ai frequentatori della rete non è stato difficile, abbiamo già 206 mila iscritti al nostro gruppo su Facebook. Più complicato è portare il popolo della rete in piazza. E convincere chi non naviga in Internet. Perché il sentimento prevalente, oggi, è la sfiducia».
Il viaggio di Valigia blu è iniziato il 26 febbraio quando il Tg1, riferendosi al caso Mills, parlò di assoluzione invece che di prescrizione. La Ciccone si presentò davanti alla Rai con le firme di 155 mila persone che chiedevano una rettifica al direttore Minzolini. Oggi, con la battaglia sulle intercettazioni, la sua agenda è fitta: «Saremo a manifestare davanti a Montecitorio quando la legge tornerà alla Camera; chiederemo di assistere alla seduta, come abbiamo già fatto al Senato col post-it giallo sulla giacca; listeremo a lutto il nostro blog; parteciperemo a tutte le iniziative della Federazione nazionale della stampa». E Napolitano? «Invieremo mail al presidente per chiedergli di non firmare la legge. L’hanno già fatto 7 mila persone. Il capo dello Stato resta l’ultimo baluardo». E se Napolitano dovesse firmare? "Non ci fermeremo. Ci resta la raccolta di firme per il referendum".
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 11.06.2010)
È adeguato alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l’impostazione della legge è ormai definita. I poteri d’indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l’impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d’informazione d’attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente.
Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi.
Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l’opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l’auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell’opinione pubblica.
Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l’opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c’è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell’esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l’equilibrio sarà ristabilito.
Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un’espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all’interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell’insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell’Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata.
* * *
Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s’accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l’ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato...).
In ogni regime libero, l’informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l’interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell’onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c’entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d’informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l’interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell’informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione.
In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere - il potere dell’informazione - che ha la sua ragion d’essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un’anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un’anomalia non è, perché l’informazione appartiene a un’altra sfera e non può diventare un’appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l’informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l’autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta.
Da dove traiamo questo principio d’autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall’art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d’informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo.
Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L’art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale.
La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c’è di mezzo il diritto all’informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all’interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l’appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti.
* * *
Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto.
Con la crisi democrazie a rischio
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 20/6/2010)
In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.
Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato - l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 - ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».
La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.
Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(...) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).
La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.
È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.
In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali.
Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma - quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi - sta precipitando».
Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.
La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.
Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.
L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica.