A proposito del terrorismo Jean Baudrillard scrive:
"Sono loro che l’hanno fatto, ma siamo noi che l’abbiamo voluto"
Risponde Umberto Galimberti *
Nel suo ultimo libro I miti del nostro tempo lei sollecita molte riflessioni. Mi dica se sbaglio, ma alcune possono sembrare ricollegabili agli ultimi fatti di cronaca relativi all’attentato terroristico sventato della Delta Airlines e eventualmente, se non le sembra azzardato, alle aggressioni al presidente del Consiglio e al Papa. Quando parla di terrorismo sostiene: "Non è fanatismo. È disperazione. È la logica violenta dell’impotenza che risponde alla logica violenta della potenza".
Aggiunge inoltre che il terrorismo è una sfida simbolica e questo mi sembra il punto focale, ossia il terrorismo colpisce simbolicamente la massa inerte e passiva e citando le parole di Baudrillard "la potenza visibile non può nulla contro la morte infima ma simbolica di pochi individui" e noi "non capiamo nulla della dimensione simbolica".
Le domando quindi se l’aggressione al presidente del Consiglio per mano di un soggetto "con problemi psichici" o il tentativo di abbracciare (o aggredire, secondo la cronaca) il Papa da parte di una "psicolabile" non siano da individuare nella pre-razionale sfida simbolica che noi "normali", "non terroristi", non "psicolabili" né "disturbati", ma ormai massa inerte e conforme non riusciamo neanche più a comprendere? Non è la conferma dell’ammonimento di Nietzsche, "chi pensa diversamente va spontaneamente al manicomio"? La prego, mi aiuti ancora a comprendere. Grazie
Artemide, Roma artbea@tele2.it
Come lei sospetta, accostare l’attentatore dell’aereo della Delta Airlines alle aggressioni subite dal presidente del Consiglio e dal Papa è effettivamente azzardato se le nostre considerazioni si svolgono sul piano razionale. Lo è di meno se ci collochiamo nella logica simbolica che, come scrive Baudrillard, "è la logica violenta dell’impotenza che risponde alla logica violenta della potenza".
Come ci ricorda l’antropologo James Frazer, quando un sovrano diventava troppo potente o accumulava troppe ricchezze, i primitivi procedevano all’uccisione rituale del re, perché la sua potenza gettava nell’impotenza qualsiasi diversa regolazione dei rapporti all’interno della tribù che non fosse quella prevista dal sovrano. Se la potenza rappresentata da una nazione, da un capo religioso o politico diventa l’unico ordine del mondo, o delle credenze non altrimenti interpretabili, o dei rapporti di potere non modificabili, allora si prepara il terreno alla sfida simbolica, la quale, come sempre avviene quando si chiudono tutte le possibilità di dialogo e di interlocuzione, si esprime nel gesto violento che, come sappiamo, è il sintomo del collasso della parola.
A differenza della rivoluzione, che può cambiare l’ordine costituito quando ha dalla sua sufficienti ragioni, il gesto violento e imprevedibile non cambia l’ordine costituito, ma diffonde quel sentimento di pericolosità come minaccia non identificabile e ovunque incombente, che in ogni luogo e in ogni ora ci può colpire, facendoci toccare con mano e con ansia tutta la nostra vulnerabilità.
Questa sensazione di vulnerabilità e di assenza di ragionevoli difese è la sfida simbolica che l’impotenza oppone alla potenza incontrastata. È il risvolto negativo della sicurezza che le nazioni potenti o gli uomini di potere tentano di garantire e diffondere come miglior garanzia della loro potenza e del loro potere. Non una rivoluzione che cambia l’ordine delle cose, ma un gesto che cambia il clima della quotidianità, rovescia la sicurezza in insicurezza, la prevedibilità in imprevedibilità, sbaragliando tutte le difese, perché l’attore del gesto non è in nessun luogo, in nessun tempo, e in nessuna persona davvero identificabile.
Se non capiamo nulla della dimensione simbolica, perché ci siamo definitivamente assestati nella dimensione razionale, dove, grazie alla nostra tecnologia e alle nostre misure di sicurezza riteniamo di poterci difendere da tutto, non sconfiggeremo mai il terrorismo e tanto meno quelle isolate aggressioni che sempre colpiscono chi ha costruito il suo potere proprio sulla dimensione simbolica, aggregando intorno a sé un consenso ottenuto con la mozione degli affetti, la fascinazione carismatica, l’adesione incondizionata e quasi mistica, che sono tutti fattori irrazionali dove il simbolico si muove a suo perfetto agio, gettandoci tutti, in barba alle nostre misure di sicurezza, nell’imprevedibile, per difendersi dal quale, l’umanità, fin dal suo sorgere, ha cercato come miglior difesa l’uso della ragione per contenere l’irrazionalità e quindi l’imprevedibilità del sentimento.
* la Repubblica/D, 13 febbraio 2010.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La magia del Ramo d’oro da Freud a Jim Morrison
Un secolo fa usciva il capolavoro di James Frazer che indagava sui riti e sulla forza della sovranità e che influenzò psicanalisi, filosofia, letteratura e cinema
di Marino Niola (la Repubblica, 17.11.2015)
Senza “Il ramo d’oro” di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi, iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia, credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe dell’eurocentrismo della sua epoca.
Il risultato è un monumentale compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.
Insomma una carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato. Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli inferi.
Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto - che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un regicidio di Stato - serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano, l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership. La grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma. Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione naturale, trasformando la physis in polis.
Questa Bibbia dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore edipico di Totem e tabù. Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul Ramo d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence, l’autore di L’amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia contagia la terra trasfor-mandola in una landa arida e senza vita.
Fino ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua volta ispirata all’opera di Frazer.
Il regista tesse una tela di ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che illuminano la conclusione del se- colo breve, il tramonto di una storia esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista, che sta trasformando il mondo in una terra desolata.
L’ex soldato modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al capitano Willard, ha le cadenze di un rito.
A confermarlo è la colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.
UNA QUESTIONE MORALE EPOCALE. SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
LA FAVOLA DI AMORE E PSCICHE. "Il mito, che unisce l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite, rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più brutto della terra".