Anche la fede ha bisogno del dubbio
Senza il confronto di idee qualsiasi opinione, morale o religiosa, perde capacità di persuasione
di Barbara Spinelli (La Stampa, 17/9/2009)
L’accusa più rilevante che può venire dal ragionamento filosofico e teologico è quella del relativismo. Difendendo la libertà incondizionata dell’opinione contraria alla mia, affermo infatti qualcosa di pericoloso: dico, in sostanza, che le più svariate e contrastanti opinioni si equivalgono, che non esiste la possibilità di una verità e convinzione morale sufficientemente solide. Espongo ambedue - verità e convinzione - ad attacchi periodici e logoranti.
La verità ha uno splendore che rischia di spegnersi, se messa in competizione con altre che aspirano a eguale splendore e per di più scintillano in maniere intensamente diverse. È un’obiezione molto seria e ha molti alleati, non solo appartenenti alla sfera religiosa. Grande è la paura, sia nelle Chiese sia nella pólis laica, di vivere in un mondo - i Dizionari dei Luoghi Comuni sono monotoni lungo i secoli - senza punti di riferimento stabili, fissi. Qui, in questa paura di smarrirsi e cadere nel vuoto, senza reti di sicurezza che raccolgano l’acrobata troppo audace, è il filo sottile che lega le due obiezioni, quella democratica e quella antirelativista: il timore di un collasso dei princìpi-guida le affratella, e le spinge a spostare l’obiettivo della ricerca da quel che è vero a quel che viene ritenuto utile o nocivo per la società o l’individuo, indistintamente. Nell’ottica di chi è preso da simili paure non è conveniente che il punto di riferimento stabile venga a mancare, dentro l’animo del cittadino, anche se il punto di riferimento non è pienamente dimostrabile e neppure tanto veridico.
Accade in tal modo che l’individuo libero venga due volte sopraffatto: come essere umano che cerca il vero, e come essere umano che con proprie risorse e un proprio metro tenta di far cose utili a sé e agli altri. Tedium vitae, appassire della passione politica, indifferenza s’insediano nella sua mente. Il principio che dovrebbe servire a orientarsi diventa valore cui urge conformarsi, ordine dall’alto che azzittisce la coscienza invece di tenerla in stato di veglia: che le addita, come vedremo nel paragrafo sulla battaglia dei valori, la via da seguire. C’è, in questo sovrapporsi dell’utile al vero, una dose cospicua di anti-intellettualismo: non spacchiamo il capello in quattro, col rischio di perdere tempo in ricerche non necessariamente proficue e forse anche parecchio dannose. Contro queste scorciatoie intimidenti si erge Mill quando cita la definizione che Thomas Carlyle dà dell’anti-intellettualismo in epoca vittoriana: una passione triste che dilagava in un’«età al tempo stesso priva di fede e terrorizzata dallo scetticismo».
Quel che conta, per chi cerca il vero nel solo orizzonte dell’Utile o del presunto Bene della Società, è avere opinioni cui appoggiarsi come ci si appoggia a una salda roccia: opinioni che agli esordi hanno magari conosciuto il fervore immaginifico dei tempi fondatori, ma che con l’andare del tempo vengono adottate non per intima persuasione ma per fiducia o fede, delegando ad altri il compito di spaccare - se proprio vogliono buttarsi in questa spericolata avventura di acrobati - il capello in quattro. Per i tutori del Bene le opinioni valide sono quelle in cui si crede, e che è dunque pericoloso esporre oltremisura al contraddittorio, alla miscredenza e perfino alla conversazione.
Ma il ragionamento non tiene: né dal punto di vista del vero, e neppure se quel che si cerca è la mera utilità. Se non viene confrontata con un parere altrettanto poderoso e argomentato, nessuna opinione morale o religiosa riesce a mantenere, alla lunga, la propria facoltà di persuasione e diffusione. Viene come prosciugata, svuotata, e quel che resta è un insieme di formule aride: che diventano insignificanti per i più, e che ineluttabilmente si fossilizzeranno in dogmi. La ragione non può che patirne, scrive Karl Popper in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, nel 1972: «Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere». [...]
Ma il vero precursore in materia resta John Stuart Mill, che già nel 1859 insorge contro l’aspirazione all’infallibilità, quale che sia il pulpito da cui proviene. Esclusa è solo la matematica: chi sostiene che due più due fa cinque cade manifestamente in errore e l’errore di questo tipo è, sì, una verità difficilmente oppugnabile. Non sono invece verità inoppugnabili quelle riguardanti la morale, la politica, la religione, la società, e in particolare i privati stili di vita (compreso il modo in cui ci si prepara alla propria morte), su cui anche oggi, come ai tempi di Mill, tanto si sorveglia e si legifera. Qui vale solo la coscienza della fallibilità, e solo la fallibilità consente di acquisire opinioni magari non ultime, magari non valevoli per l’eternità, ma abbastanza tenaci perché verificate razionalmente e via via corrette in modo da divenire princìpi di orientamento negli ambiti della politica, della morale, del costume o della religione.
Mill ricorda come la stessa Chiesa cattolica romana, quando decide di canonizzare un fedele trapassato, intenti nei suoi confronti un processo (un processo di trial and error, direbbe Popper, di prova ed errore) e giunga persino a istituire la figura, contrapposta al relatore, dell’avvocato del diavolo e delle sue animadversiones.
Anche se travestito da diavolo, il pubblico ministero ha il diritto di cercare ogni possibile falla nel discorso
dominante - nel caso specifico sulla santità ipotetica del defunto - concentrandosi su ciascun dettaglio ed esplorando ogni anfratto della sua vita e delle sue opere che dovesse contraddire quella che viene congetturata come giusta dottrina. L’invenzione dell’advocatus diaboli conferma come il dubbio penetri fin dentro il tabernacolo delle fedi assolute. Penetra fin dentro la religione cattolica, che nel momento decisivo non esita a mostrare diffidenza verso le congetture considerate infallibili dai più e dalle stesse massime autorità. Che dà uno spazio ampio e ufficiale a chi potrebbe smontare tali congetture, lasciandogli indossare la veste diabolica dell’Avversario: per raggiungere il vero, le argomentazioni giuste occorre saggiarle, provarle nel crogiolo della tribolazione che è il contraddittorio. Dio stesso «saggia i cuori e le reni dell’uomo» (la formula è ricorrente nell’Antico Testamento), prima di forgiarne il destino o lasciare che sia l’uomo stesso a forgiarlo.
L’avversario è il nostro saggiatore, il nostro verificatore, nel conflitto militare e ancor più nella disputa dialettica: è «la forma che assume il nostro problema», scrive Carl Schmitt. È il pubblico ministero che mette in causa quello che Giovanni Paolo II, nell’enciclica del 1993, chiamò Splendore della Verità.
Anche quando l’intenzione è quella di preservare un’unica consistente verità, la prudenza è d’obbligo e dello scetticismo non c’è da avere terrore: se la verità viene fatta propria senza un convincimento profondo, essa diventa una fede ereditata anziché conquistata, che s’impone con l’ortodossia e con l’uso del potere politico necessario a ogni ortodossia. -Occorre che esistano almeno due ragioni contrastanti perché una verità possa apparire superiore: nessuna può esserlo in assoluto, e forse per ciò bisognerebbe rinunciare a questo aggettivo troppo usato - assoluto - sia quando si parla di una verità o di un bene, sia quando si denuncia un male o una contro-verità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
LA "DOTTA IGNORANZA" E L’IMMAGINARIO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA.... *
Dio secondo Stefano Levi Della Torre
Dal nostro lato
di Sergio Massironi *
«Colonizzazione immaginaria dell’inspiegato». Così Stefano Levi Della Torre definisce la religione in un piccolo volume dal titolo lapidario: Dio (Torino, Bollati Boringhieri, 2020, pagine 160, euro 12). Voce di un ebraismo laico, culturalmente ricco e poliedrico, l’autore non va oltre le convinzioni di Feuerbach e, pur muovendosi a suo agio nel Novecento scientifico e filosofico, rimane fermo nell’idea ottocentesca per cui Dio non è che proiezione degli uomini. E solo per questo interessante: «Dio rappresenta una domanda, anche se si vorrebbe fosse una risposta». A chi non provi fastidio per un agnosticismo dogmatico - inconfessato quanto rigoroso - il volume sarà di nutrimento, dal momento che dell’idea di Dio consente un’ampia recensione, lontana dall’inaccessibilità linguistica di molta teologia. Pagine che si divorano, nel dinamismo multidisciplinare con cui attraversano la tradizione occidentale. All’insegna, certo, di un criterio di lettura fermo e coerente, elemento di forza e insieme di debolezza del libro: «Che il mistero esista è una constatazione di cui fa fede la nostra ignoranza. Non l’ignoranza di ciò che ancora non sappiamo, ma che un giorno sapremo, bensì l’ignoranza inamovibile. L’ignoranza del perché del tutto, essendo il perché un interrogativo che si agita ma entro i limiti umani della nostra mente, preoccupata di dare al tutto un senso, cioè un movente e un fine».
Bonhoeffer e con lui la migliore teologia del secolo scorso hanno mostrato lo scarto tra il “Dio tappabuchi”, a cui Levi Della Torre non rileva alternativa, e un Dio al centro del mondo conosciuto, delle cose sapute, della vita vissuta: il Dio che in Cristo sospende le proiezioni umane e dice altrimenti di sé. Non lasciare che Dio parli chiude, prima che inizi, il riflettere “teo-logico”, ma ciò nonostante il volume tocca i nodi della modernità. Quest’ultima ha incorporato, spesso inconsapevolmente, molti effetti della novità cristiana. Primo fra tutti il valore del soggetto, nella sua autonomia e maturità che, per quanto opposte in senso emancipativo a un’idea di legge e a un’esperienza di potere troppo spesso eteronome, hanno una radice biblica. Dove biblica significa trascendente, destabilizzante le proiezioni umane, figlie a loro volta di una cultura e di un immaginario tutt’altro che a noi connaturati. Si tratta, insomma, di spingere più a fondo le intuizioni che legano il nostro autore alla sua genealogia ebraica: «Il Dio della Bibbia sa benissimo che il suo popolo cade a ogni passo nell’idolatria, ingannato dalle varie forme di essa in cui non sa ogni volta riconoscerla, dal fondamentalismo al nazionalismo. Dio sa di essere lui stesso una tentazione idolatrica, per questo dice: non pronunciate il mio Nome». Questa coscienza, che ha statura di conoscenza, oppone alle facili soluzioni agnostiche una via difficile e non idolatrica di incontro con l’Altro. Presente nel libro come un seme nascosto, può dal lettore essere coltivata.
Levi Della Torre offre in tale direzione, quasi suo malgrado, non pochi squarci che motivano e rimettono in cammino. La stima per il Lògos è più decisiva, infatti, delle conclusioni che l’autore presume logiche. Così, chi rifiuti di veder relegata la propria religiosità nei territori dell’irrazionale, apprezzerà e sosterrà il “dia-logo”, almeno interiore, che il volume innesca.
In effetti, secondo il Salmo 62, «una parola ha detto Elohim, due ne ho ascoltate: l’una è la Parola di Dio, l’altra la parola umana, a reciproca testimonianza». Di qui la complessità di ogni via anti-idolatrica. «Dal “suo lato” (mitisidò, in ebraico), dal lato cioè della sua essenza imperscrutabile, Dio è unico e unitario; dal “nostro lato” (mitsidenu, in ebraico), ci si presenta secondo diversi aspetti, secondo quanto ciascuno sappia intuire e interpretare, mentalmente e in pratica. E quando la voce del Roveto in Esodo 3, 14 dice ehijé asher ehijé e ne cogliamo la forma al futuro, potremmo tradurre “sarò Colui che sarò”. Alla luce di Esodo 15, secondo cui il Dio unico è inteso “dal nostro lato” secondo l’intendimento di ciascuno, potremo allora interpretare: “Sarò quello che tu saprai farmi essere per te”».
Questo approccio, che rappresenta una vera e propria postura, un modo rivoluzionario di abitare la realtà, è più fedele al Lògos e alla sua luce di quanto non si sperimenti sul binario morto in cui il volume conclude la sua corsa. L’approccio positivista, infatti, si conferma impossibilitato a tenere insieme ciò che l’autore sino all’ultimo contrappone: i Lumi della conoscenza e il buio dell’ignoranza, i territori sicuri della scienza (e della democrazia) e il caotico abisso che sospingerebbe alla fede. «Il prevalere del paradigma della proporzione tra causa ed effetto ha animato la secolarizzazione moderna. La sua intelligibilità, non solo scientifica, ma anche empirica, ha favorito la democratizzazione del sapere e lo sviluppo della coscienza individuale. [...] Paradossalmente, il paradigma fluido, che sembra quello più attuale a livello scientifico e filosofico, ha risvolti affini al modo antico di percepire il mondo. L’indeterminato, lo smisurato, la sproporzione, ispiravano in antico il senso del sacro, e quindi la religione per sua interpretazione, contenimento e riduzione alla misura umana. Oggi il non sapere, o l’eccesso di informazione in cui l’arbitrio dell’opinione si sente legittimato a prevalere sul sapere, il senso di andar perdendo il controllo cognitivo degli eventi e della propria vita ripropone forse l’inquietudine del sacro e quindi forme religiose e di fede, nuove o tradizionali, a suo rimedio».
E invece la via di Israele è quella di un luminoso conoscere che sospinge alla fede, come emblematicamente colto da un autore (troppo poco) citato: quel Nicolò Cusano che da gigante dell’Umanesimo mise le basi di un’altra modernità, ancora da esplorare. Una modernità che non separa, ma connette, che coglie in Cristo la coincidenza degli opposti e la leggibilità di un universo dai forti tratti d’imponderabilità. La via intravista dal cardinal Cusano, troppo ardita per la sua stessa Chiesa, coltivando approcci multidisciplinari e persino contraddittori radica in Dio dignità e responsabilità di ogni soggetto umano.
D’altra parte, Stefano Levi Della Torre intuisce come sin dalla prima pagina della Genesi (in ebraico bereshit) il discorso biblico disponga della chiave smarrita dalla moderna illusione di un sapere oggettivo. Seconda lettera dell’alfabeto ebraico, «la beth di bereshit ci avverte che quell’“in principio” non è proprio l’inizio, ma piuttosto un cambiamento di stato. Sottotraccia, è l’esito di una grande battaglia tra l’informe e la forma, tra il disordine e l’ordine, tra il tohu vavohu (massa tenebrosa, vorticosa, caotica) e l’intelletto divino, e quindi di quello umano, che è “a sua immagine e somiglianza”. Una battaglia mai finita; anzi, è sempre in atto, vi siamo immersi». Ecco la chiave che riapre le conclusioni del libro e impedisce di leggerci su un binario morto. Il Dio biblico non sta sul lato della massa tenebrosa e chiama alla sua somiglianza.
La chiave sta in un pronome bistrattato, cui sono legate le sorti della modernità e della stessa rivelazione biblica. «Se la seconda lettera, la beth, non designa un inizio assoluto, la prima lettera, l’alef, in qualità iniziale compare a un certo punto, nel mezzo della narrazione biblica con la parola anokhì, “io”. Una prima volta lo dice Adam di sé in Gen 3, 10; un’altra volta lo dice Dio sul Sinai, in apertura delle “Dieci Parole” [...]. Questo anokhì in cui sia l’uomo sia Dio riconoscono se stessi come soggettività [...] non nasce dall’inerzia, ma dallo sforzo di un distacco e di una nascita della coscienza di se stessi, a confronto con l’altro e col tu». La via difficile implica che “Dio” e “io” vivano solo insieme. In modo ben più serio e vertiginoso dell’essere l’uno illusione o proiezione dell’altro.
* Fonte: L’ Osservatore Romano, 04 febbraio 2021
Nota:
L’IMMAGINARIO MITOLOGICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA:
AL DI LA’ DELLA "DOTTA IGNORANZA" DEL CARDINALE CUSANO E DELLA "TEORIA" DEL "TRITTICO DI MERODE":
#MENSCHWERDUNG. - #Come nascono i bambini: ripartendo dal #sapere di non sapere,
Niccolò Cusano ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440 la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427).
FLS
I valori penultimi delle democrazie
di Remo Bodei (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
Nella maggior parte delle cosiddette lingue indoeuropee (a partire dal sanscrito dva o dvi, che significa «due» e in analogia con il latino dubium o il tedesco Zweifel) il dubbio indica incertezza dinanzi ad alternative pratiche o teoriche, il trovarsi davanti a un dilemma o, come nel simbolo pitagorico Y, davanti a un bivio, graficamente rappresentato, quale simbolo della difficoltà di prendere decisioni.
Soppesare le scelte, non farsi trascinare dalle circostanze o dagli impulsi spontanei è stata - e continua a essere - una conquista che spetta a ogni persona e a ogni civiltà nel corso della propria evoluzione. Governare le passioni, non significa ancora, tuttavia, porsi dei dubbi di natura teorica. Ma il primo passo, quello dell’astrarsi dal contesto, del fermarsi a riflettere, è stato compiuto e lo spazio di perplessità creato e aperto.
Il ragionare prima di decidere la propria linea di condotta o di articolare il proseguimento dei propri pensieri è segno di raggiunta maturità. Certo, tutto ciò ancora non basta. Occorre evitare il pericolo più ovvio: che il dubbio si trasformi in paralisi, in alibi o in fatalistica pigrizia che lascia andare alla deriva i comportamenti, le idee, le fantasie. Per questo, quasi avesse bisogno di un’àncora, il dubbio è stato spesso diametralmente contrapposto non tanto alla verità logica o empirica (quella sottomessa al «tribunale della ragione» e capace di rettificare i suoi eventuali errori), quanto alla verità rivelata o imposta con la violenza.
I totalitarismi del secolo scorso hanno preteso che i loro capi (il Duce, il Führer, il Caudillo, il Conducator, il Piccolo Padre, il Grande Timoniere) incarnassero l’indiscutibile verità e l’esemplare moralità: «Il Duce ha sempre ragione» o «Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse, approverebbe la tua azione». Ogni pensiero autonomo e ogni dubbio sono considerati sovversivi perché minano l’autorità del Capo o del Partito. Devono essere stroncati. Per fortuna, come disse Mussolini al giornalista tedesco Emil Ludwig, la disposizione dell’uomo moderno a credere ha dell’incredibile. Proprio per questo viene sollecitato il comportamento gregario, condensato nel motto delle SS («Il mio onore si chiama fedeltà») e, nell’ambito del fascismo italiano, nello slogan «Credere, obbedire e combattere» (dove, si noti, il «credere» occupa il primo posto).
Che le masse si lascino facilmente guidare, è convinzione profonda anche di Hitler: «È una bella fortuna per gli uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si tratta di impartire un ordine o di assicurarne l’esecuzione. Se fosse diversamente la società umana non potrebbe sussistere». Non potendo impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio del dubbio. Da qui l’invito - o, meglio, il comando - a praticare una «entusiastica intolleranza» non solo contro quanti dubitano, ma anche contro coloro che dimostrano troppa volontà di sapere, raffigurati come soggetti a ipertrofia intellettualistica. Il dubbio si trasforma in una malattia.
Giovanni Paolo II ha parlato, con espressione paradossale, di «dittatura del relativismo», per dire che, specie dopo la fine del comunismo, la democrazia occidentale, avrebbe esaurito le sue energie: marcet sine adversario virtus . Sarebbe cioè diventata più evidente la sua propensione a lasciare ai cittadini un’eccessiva libertà dai valori della tradizione, che sconfina nella licenza e nell’anarchia.
La democrazia però non è soltanto relativistica. È vero che le democrazie moderne nascono dall’onda lunga delle guerre di religione che hanno insanguinato il Cinquecento e il Seicento, facendo scorrere tanto sangue - secondo un contemporaneo - da far girare le ruote dei mulini e da mostrare un grado d’intolleranza che oggi noi attribuiamo ad altre culture e religioni. La stanchezza per il sangue versato ha, tuttavia, provocato un salutare passo indietro dai valori ultimi - assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la forza - ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza.
In questo senso, il richiamo che, negli anni della Guerra fredda, Norberto Bobbio rivolgeva agli intellettuali («seminare dubbi» piuttosto che «raccogliere certezze») costituisce l’antidoto a ogni schieramento ideologico a priori, perché, come lo stesso filosofo ha insistito più tardi, lo scopo di ogni persona ragionevole, e, in particolare, di chi sceglie l’intelligenza quale strumento di lavoro, dovrebbe essere «l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose».
di Mirella Camera
in “a latere...” (http://alatere.myblog.it) del 13 febbraio 2013
Questo versetto del Salmo 61, stupenda apertura alla vastità della comprensione a cui Dio ci chiama e perentorio invito all’uso della nostra libertà, secondo me può illustrare a meraviglia perché oggi Benedetto XVI sia un testimone eroico e coraggioso, nell’interrompere il suo ministero prima che esso possa venire devastato dalla mancanza “del vigore del corpo e dell’animo”, nello stesso modo in cui Giovanni Paolo II è stato un testimone eroico e coraggioso nel portare avanti il suo ministero fin dentro all’estremo scandalo della sua malattia devastante.
Due scelte non solo diverse, ma addirittura opposte. E noi, abituati oramai da tempo alla logica del bipolarismo e della contrapposizione o, peggio, dello scontro a tutti i costi - perfino nelle cose dello spirito - rischiamo di rimanere disorientati.
Anche il timore di indulgere un po’ troppo al relativismo, il nuovo terribile peccato dei nostri tempi secondo Ratzinger, finisce per spingerci a trovare sempre un’unica, ortodossa chiave di lettura per i nostri giudizi e per i comportamenti degli altri.
Dunque, qual’è la scelta giusta? Chi ha fatto bene e - di conseguenza - chi ha sbagliato? Invece no. E’ assurdo contrapporre le due scelte e pretendere di trovare argomenti che ne giustifichino solo una, escludendo l’altra.
Il bello della vocazione umana è che non è una lista della spesa. Questo magari è quello che vorrebbero i Grandi Inquisitori di tutti i tempi: ti sollevano dal "peso" della libertà per evitarti la fatica del discernimento, ti dicono cosa fare e cosa non fare, ti depredano della tua responsabilità dicendoti che è un fardello troppo pesante, creano regole e dottrine come labirinti intorno alla coscienza in modo che alla fine, stremato, tu gliela consegni.
Ma la vocazione umana è un cammino verso il bene esercitato sempre e solo nella libertà di ciascuno.
In una recente omelia, un amico ha scritto:
Rabbi Bar di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro Rabbi Giacobbe di Lublino: "Indicami un cammino universale al servizio di Dio!": Ed il maestro rispose: "Non si tratta di dire all’uomo quale cammino deve percorrere, perché c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e un’altra con la preghiera, una con il digiuno e un’altra mangiando. E’ compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze".
Un discepolo chiese al Rabbi di Zloczow: "Quando la mia opera raggiungerà quella dei Padri Abramo, Isacco, Giacobbe?". Ed Egli rispose:"Ciascuno in Israele ha l’obbligo di riconoscere di essere l’unico al mondo: se infatti fosse già esistito un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Finché questo non accade, sarà ritardata la venuta del Messia".
Rabbi Sussja, in punto di morte, disse: "Nel mondo futuro non mi si chiederà perché non sono stato Mosè, ma perché non sono stato Sussja!".
Sembrerebbe semplice. E forse lo è, visto che i bambini ci riescono benissimo. Ma più si accumulano sovrastrutture sull’anima e sulla mente, più diventa difficile. E dopo ci vuole un vero lavoro di liberazione.
Figuriamoci per un papa, con addosso un fardello secolare di cultura esegetica, teologia, precettistica, dottrina, normative, protocolli e quant’altro. Senza contare fardelli più mondani come le opportunità “politiche”, il giudizio umano, l’incomprensione, le paure dello scandalo, la perdita del potere, il timore del cambiamento.
E forse, il peggio di tutto in questo caso, l’esempio eroico e recentissimo di un altro papa, che ha scelto di mostrare con coraggio la malattia, la decadenza e la debolezza umana per riscattarne la dignità di fronte a un mondo ostile verso tutto ciò che lo mette in crisi con domande spiacevoli, scomode e ultime.
Papa Ratzinger è riuscito a sciogliere questa montagna di legami e a disfarsi di tutte le sovrastrutture che gli stavano addosso. E persino a sottrarsi all’ultima tentazione, il paragone con la croce mirabilmente portata al suo predecessore.
Si è liberato e ha deciso di percorrere la sua via. Il teologo ha deposto la sua scienza, il papa si è spogliato dei panni del suo ruolo e l’uomo ha contemplato la realtà, semplicemente: non ce la faccio più, le forze mi mancano, sono vecchio. Il mare è in burrasca, le onde ci sbatacchiano. Devo passare la mano e affidare il timone a qualcun altro. Quel che posso fare ora è pregare (cosa non da poco). Grande Benedetto, questo tuo gesto di libertà finale è il più profondo insegnamento del tuo pontificato.
La sinistra non tiene il passo di Fini di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 08.08.2010)
Alla fine, la rottura fra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera è avvenuta sull’elemento che più caratterizza il regime autoritario di Berlusconi: il rapporto del leader con la legalità, quindi con l’etica pubblica. È ormai più di un decennio che il tema era divenuto quasi tabù, affrontato da pochi custodi della democrazia e della separazione dei poteri.
Agli italiani la legalità non interessa, ci si ostinava a dire, né interessano la giustizia violata, la corruzione più perniciosa che è quella dei magistrati, l’obbligo di obbedienza alle leggi, il patto tra cittadini che fonda tale obbedienza. Anche per la sinistra, nostalgica spesso di una democrazia sostanziale più che legale, tutti questi temi sono stati per lungo tempo sovrastruttura, così come sovrastruttura era il senso dello Stato e della sua autonomia.
Fini ha ignorato vecchie culture e nuovo spirito dei tempi e ha guardato più lontano. Ha intuito che uscire dalla crisi economica significa, ovunque nel mondo, uscita dal malgoverno, dai costi enormi della corruzione, dall’imbarbarimento del senso dello Stato. Ha visto che il presente governo e il partito che aveva fondato con Berlusconi erano colmi di personaggi indagati e spesso compromessi con la malavita. Ha visto che per difendere la sua visione privatistica della politica, Berlusconi moltiplicava le offese alla magistratura, alla stampa indipendente, alla Costituzione, all’idea di un bene comune non appropriabile da privati. E ha costretto il premier a uscire allo scoperto: lasciando che fosse quest’ultimo a rompere sulla legalità, sul senso dello Stato, sull’informazione libera, ha provocato un’ammissione indiretta delle volontà autoritarie che animano il capo del governo e i suoi amici più fedeli.
In qualche modo, Berlusconi ha chiesto a Fini e ad alcuni finiani particolarmente intransigenti (Fabio Granata) di scegliere la cultura dell’illegalità contro la cultura della legalità che il presidente della Camera andava difendendo con forza. Non solo: più sottilmente ed essenzialmente, ha chiesto loro di scegliere tra democrazia oligarchica e autoritaria e democrazia rappresentativa. Il capo del governo infatti non si limita a anteporre la sovranità del popolo elettore alla separazione dei poteri e a quello che chiama il «teatrino della politica politicante». La stessa sovranità popolare è distorta in maniera micidiale, a partire dal momento in cui essa si forgia su mezzi di informazione (la tv) che il capo-popolo controlla in toto. La dichiarazione contro Fini dell’ufficio di presidenza del Pdl, il 29 luglio, erge i disvalori come proprio non segreto emblema quando afferma: «Le sue posizioni (sulla legalità) sono assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà».
La sinistra non ha avuto né il coraggio né l’anticonformismo del presidente della Camera. Fino all’ultimo ha congelato la presa di coscienza italiana sulle questioni delle legge e della giustizia, ripetendo con pudibonda monotonia che «l’antiberlusconismo non giova al centrosinistra». E per antiberlusconismo intendeva proprio questo: combattere il Cavaliere sul terreno dell’etica pubblica, della legalità, della formazione dell’opinione pubblica attraverso i media. I problemi erano sempre altri: quasi mai erano la tenuta dello Stato di diritto, l’informazione televisiva manipolata, la corruzione stessa. C’erano sempre «questioni più gravi» da affrontare, più urgenti e più alte, prima di scendere nei piani bassi della legalità.
L’incapacità congenita della sinistra di vietare a chi fa politica un conflitto d’interessi, specie nell’informazione, nasce da qui ed è destinata a divenire il vecchio rimorso e il vizio assurdo della sua storia. In fondo, venendo anch’egli da una cultura totalitaria, Fini ha fatto in questo campo più passi avanti di quanti ne abbiano fatto tanti uomini dell’ex Pci (lo svantaggio di tempi così rapidi è che le sue truppe sono labili).
Questo parlar d’altro, di cose che si presumono più alte e nobili, è la stoffa di cui è fatto oggi lo spirito dei tempi, non solo in Italia. Uno spirito che contagia anche le gerarchie ecclesiastiche (non giornali come Famiglia Cristiana), oltre che molti moderati e uomini della sinistra operaista. È lo stesso Zeitgeist che in Francia, in pieno scandalo delle tangenti versate illegalmente da Liliane Bettencourt alla destra, spinge politici di rilievo a far propria l’indignazione dell’ex premier Raffarin contro la stampa troppo intemperante: «I francesi e i mezzi di comunicazione sono incapaci di appassionarsi per i grandi temi». Chi chiude gli occhi davanti al marcio che può manifestarsi nella politica sempre vorrebbe che i cittadini non vedessero la bestia, dietro l’angelo e i suoi grandi temi.
Invece l’imperio della legge fa proprio questo: rivela all’uomo la sua bestialità, gli toglie le prerogative dell’angelo. Nel descrivere il Decalogo mosaico, che della Legge è essenza e simbolo, Thomas Mann parla di «quintessenza della decenza umana» (La Legge, 1944). Alla stessa maniera, la quintessenza dell’esperienza berlusconiana è il rapporto distorto e irato con la legge e i poteri che la presidiano: un male italiano che non è nato con lui, ma che lui ha acutizzato. Un male che conviene finalmente guardare in faccia, perché è da qui che toccherà ricominciare se si vuol costruire meglio l’Italia. Se si vuol dar vita a un’opinione pubblica veramente informata, perché munita degli strumenti necessari alla formazione della propria sovranità democratica.
Per questo la dissociazione di Fini dai disvalori del Popolo della Libertà non è una frattura del bipolarismo, né tanto meno un ritorno a vecchi intrugli consociativi. È il primo atto di un’uscita dall’era di Berlusconi, da una seconda Repubblica che non ha riaggiustato la prima ma ne ha esasperato monumentalmente i vizi: ed è un atto che per forza di cose deve essere governato da un arco di partiti molto largo. Il termine giusto lo ha trovato Casini: si tratta di creare un’«area di responsabilità istituzionale», non diversamente dal modo di operare di chi predispose il congedo dal fascismo. Nell’inverno scorso, lo stesso Casini parlò di Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale che nel 1943 associò tutti gli oppositori al regime mussoliniano. Spetta a quest’area preparare elezioni davvero libere, dunque creare le basi perché le principali infermità della repubblica berlusconiana siano sanate. In seguito, il bipolarismo potrà ricostituirsi su basi differenti.
In effetti, Berlusconi non è una persona che ha semplicemente abusato del potere. Le sue leggi, le nomine che ha fatto, il conflitto d’interessi di cui si è avvalso: tutto questo ha creato un’altra Italia, e quando si parla di regime è di essa che si parla. Un’Italia dove vigono speciali leggi che proteggono l’impunità. Un’Italia dove è colpito il braccio armato della malavita anziché il suo braccio politico, e dove i pentiti di mafia sono screditati e mal protetti come mai lo furono i pentiti di terrorismo. Un’Italia in cui la sovranità popolare non potendosi formare viene violata, perché un unico uomo controlla le informazioni televisive e perché il 70 per cento dei cittadini si fa un’opinione solo guardando la tv, non informandosi su giornali o Internet.
Un governo che non curasse in anticipo questi mali (informazione televisiva, legge elettorale che non premi sproporzionatamente un quarto dell’elettorato, soluzione del conflitto d’interessi) e che andasse alle urne sotto la guida di Berlusconi non ci darebbe elezioni libere, ma elezioni coerenti con questo regime e da esso contaminate.
Il grande sacco dell’Italia
dl BARBARA SPINELLI (La Stampa, 4/10/2009).
Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra.
Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni.
È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l’Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.
E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.
Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d’omissione che mescola vizi antichi e nuovi.
È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe.
Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60.
Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.
Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano).
La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.
È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio.
L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.
Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po’ come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del ’500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.
L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio.
Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre.
Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità.
Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.
Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D’un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua.
Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità.
Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c’è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina.
Come osi dire "Padre"? Ma CHI è il "Padre" tuo?
Una breve considerazione di Erasmo, ad onorem di tutte le gerarchie (laiche e religiose) del nostro tempo.
di Erasmo da Rotterdam *
Quale preghiera, vorrei sapere, recitano i soldati durante [le] messe? Il Pater noster?
Faccia di bronzo! Osi chiamarlo "padre", tu che vuoi tagliare la gola al tuo fratello?
"Sia santificato il tuo nome". Che cosa c’è che disonori il nome di Dio più che queste vostre risse?
"Venga il tuo Regno". Preghi così tu, che con tanto sangue hai edificato la tua tirannide?
"Sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra". Lui vuole la pace e tu prepari la guerra?
"Dacci il nostro pane quotidiano". Chiedi al Padre comune il pane quotidiano tu, che incendi le messi del fratello e preferisci morire di fame tu stesso, piuttosto che egli se ne giovi? Con che fronte pronunci queste parole:
"E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori", tu, che ti appresti alla strage fraterna?
"E non ci indurre in tentazione". Scongiuri il pericolo della tentazione tu, che con tuo rischio provochi il rischio del tuo fratello?
"Ma liberaci dal male". Chiedi di essere liberato dal male tu, che dal male sei ispirato a ordire il male estremo del tuo fratello? (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 1509)
* Il Dialogo, Sabato, 31 gennaio 2004
«Berlusconi? Ci ha narcotizzati con un’ideologia simil-comunista
Un Paese atrofizzato. Ha agito secondo schemi monolitici, come negli anni ‘70. E quando denuncia i poteri forti in realtà attacca i contrappesi democratici
La filosofia e la politica sono affascinate dall’idea dell’Uno, che si traduce nella ricerca di verità e consenso. Ma senza contraddittorio nessuna tesi può persuadere: è la chiave del libro di Barbara Spinelli, «Una parola ha detto Dio. Due ne ho udite. Lo splendore delle verità» (Laterza, pp. 86, euro 8).
Pensiero unico. Il suo progetto è quello di abolire le diversità Solo se la bolla scoppia usciremo da questo incantamento
L’autocensura preventiva. L’informazione oggi vive nel senso di pericolo e obbedisce con la fretta di arrivare prima ancora che giunga l’ordine
Elisabetta Ambrosi intervista Barbara Spinelli (l’Unità, 27.09.2009)
Un sogno sciagurato di unanimismo e di abolizione del conflitto, della diversità, delle opposizioni»: è l’Italia di Berlusconi, secondo Barbara Spinelli, scrittrice e autorevole voce del giornalismo italiano. Un’Italia che appare assai più vicina al suo vecchio avversario “comunista” di quanto il suo premier non voglia far credere. «La sinistra extraparlamentare era caratterizzata da sprezzo dello Stato, delle istituzioni, della maestà della legge, della costituzione. Bene, da questa atrofizzazione del pensiero non siamo ancora usciti, l’opera di distruzione continua pur essendosi spostata a destra. Ci vorrebbe una rottura di continuità, sia rispetto agli anni ‘70 sia rispetto agli anni Berlusconi, due fenomeni che sono facce apparentemente diverse della stessa medaglia».
Il suo ultimo libro è un elogio del pluralismo, della verità che emerge per contrasto. Secondo lei anche un certo pensiero liberale è attratto dalla tentazione dell’unanimità?
«Alla fine del comunismo, che era un’idea monolitica del mondo, non abbiamo risposto riscoprendo le verità diverse, ma cercandone ancora una volta una unica, intollerante verso le competizioni. L’idea che circolò di una “fine della Storia” pretendeva di rompere con l’ideologia della verità unica e inoppugnabile, ma in realtà la riproduceva tale e quale: la democrazia occidentale aveva vinto, altro spazio non c’era per qualsivoglia idea alternativa. L’Uno era la grande illusione di ieri e lì siamo restati: ancora non abbiamo iniziato a contare almeno fino a due».
Di questa sorta di virus del pensiero unico sembra tuttavia essere affetta anche un’opinione pubblica che appare sempre più silente, assopita. Forse disincantata.
«Più che di disincanto, parlerei di incantamento, di narcosi. E dalle bolle dell’ultimo ventennio non solo finanziarie ma soprattutto mentali, compresa quella di Berlusconi e della politica spettacolo solo il disincanto ci salverà, solo se la bolla scoppia apriremo gli occhi a quel che succede. La fedeltà alla Costituzione non produce incanto. È qualcosa di asciutto, di secco, ed è anche una passione, che tanti servitori dello Stato hanno pagato con la vita».
Anche le donne, a suo avviso, sono vittime di questo incanto, come dimostra il loro silenzio, nonostante siano sempre meno rappresentate e sempre più vilipese (come ha mostrato la «faccenda escort»?)
«Non mi sembra che il silenzio femminile sia più accentuato rispetto a quello degli uomini, e in genere non mi piace l’idea di un gruppo - ̆tanto meno un genere ̆- dotato di speciali diritti o obblighi identitari. Mi sembra inoltre sbagliato giudicare i doveri e diritti della protesta con i criteri degli anni ‘70. Certo, rispetto a quell’epoca tutto appare affievolito, depotenziato, ma non dimentichiamo che le idee degli anni ‘70 sono state anche rovinose. Quanto a Berlusconi, infine, forse smetterei di parlare di “faccenda delle escort”. Lo scandalo non sono le escort, ma la natura ormai ibrida di palazzo Grazioli, abitazione privata e al contempo luogo pubblico; e l’idea che Berlusconi si fa delle donne in politica e della vocazione politica in sé: bellezza, seduzione fisica, e soprattutto estrema, incondizionata disponibilità nei confronti del capo».
Come usciamo, allora, dal sortilegio in cui siamo caduti?
«Ricordando Montesquieu: il potere necessariamente tende a dilatarsi abusivamente e per questo sono necessari contropoteri forti, autonomi, che lo frenino. Tende a dilatarsi abusivamente anche il potere della maggioranza e dell’opinione pubblica maggioritaria, che pure fondano la democrazia. Quando Berlusconi denuncia i poteri forti, denuncia in realtà la forza dei contropoteri».
Come la stampa. Che in realtà, più che forte, appare vulnerabile.
«La stampa oggi è in pericolo non solo a causa di Berlusconi; è in pericolo se non fa il suo mestiere, se vive nel sentimento del pericolo. Spesso si ha l’impressione che i giornali italiani si censurino in anticipo, temendo chissà quali ritorsioni. I tedeschi chiamano questo atteggiamento, fortissimo durante il periodo nazista, vorauseilende Gehorsamkeit: l’obbedienza che corre con la fretta di arrivare prima ancora che giunga l’ordine. I giornali tuttavia sono in pericolo comunque, con o senza Berlusconi: ovunque siamo in crisi e perdiamo lettori perché non sappiamo più dare un’informazione diversa qualitativamente da internet e televisione. Non opponendoci ci rendiamo non solo vulnerabili, ma alla lunga anche poco credibili verso i lettori» ❖.