FILOSOFIA, ETICA E POLITICA. Quando il cammello va avanti senza il coraggio di bere e di mangiare ("sàpere aude!"), non diventa leone (e nemmeno bambino), e finisce per morire sotto il peso delle tavole della Verità ...

FOUCAULT, HADOT, PROSPERI, VATTIMO. L’ "addio alla verità" degli antichi e la coraggiosa proposta della carità ("charitas"), oggi. Materiali sul tema - a cura di Federico La Sala

lunedì 6 luglio 2009.
 


-  La saggezza e la politica
-  Quella frattura tra l’antico e il moderno

-  Il nostro presente visto alla luce della tradizione della polis greca dove l’azione pubblica era importante quanto la riflessione
-  L’uomo inserito perfettamente nella vita quotidiana e tuttavia anche immerso nel cosmo
-  Massime che dovevano spiegare agli uomini la distanza che li separa dagli dei

-  di Pierre Hadot (la Repubblica, 03.07.2009)

Viviamo in una civiltà in cui l’ordine della scienza è del tutto autonomo, del tutto indipendente dai valori etici ed esistenziali. Ed è proprio questo il problema, se non il dramma della nostra epoca. Come potrà il mondo moderno ritrovare una saggezza, e cioè una forma di sapere, di coscienza, che non verta solo sugli oggetti del conoscere, ma sulla vita stessa intesa nel suo vissuto quotidiano, sul modo di vivere e di esistere? Questa separazione tra scienza e saggezza non esisteva nell’antichità greco-latina. I termini sophos e sophia, che traduciamo rispettivamente con "saggio" e "saggezza", quando fanno la loro precoce comparsa nella letteratura poetica o filosofica della Grecia antica, designano tanto l’abilità tecnica quanto l’eccellenza nell’arte musicale o poetica, e alludono a una competenza che è, al tempo stesso, il risultato dell’educazione impartita da un maestro, il frutto di una lunga esperienza, e il dono ricevuto grazie a un’ispirazione divina. È ai consigli di Atena che il carpentiere deve la sua sophia, l’abilità e il sapere nell’arte del costruire (Iliade XV, v. 411), ed è grazie alle Muse che il poeta sa cosa e come deve cantare (Esiodo, Teogonia, vv. 35-115). Troviamo qui quello che sarà un tratto costante della dottrina antica della saggezza: essa è anzitutto appannaggio degli dèi, il segno stesso della distanza che separa gli dèi dagli uomini.

I termini sophos e sophia si applicano anche alla competenza politica. Così è, in particolare, quando gli antichi parlano dei Sette Sapienti, figure storiche del VII e VI secolo a. C. divenute presto leggendarie, che possiedono a un tempo la competenza tecnica e quella politica. Sono legislatori ed educatori, come Solone. Le massime attribuite alla loro saggezza erano incise vicino al tempio di Delfi su una stele fatta incidere, con ogni probabilità nel III secolo, dal discepolo di Aristotele Clearco. Tra queste massime figurano formule celebri: «Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Riconosci il momento favorevole», «La misura è la cosa migliore», «L’esercizio è tutto».

Le massime delfiche erano destinate, tra l’altro, a rendere gli uomini consapevoli della distanza che li separa dagli dèi e dell’inferiorità del loro sapere, dunque della loro saggezza. La massima saggezza dell’uomo consiste nel riconoscimento dei propri limiti. O, più precisamente, come dirà Socrate citando proprio un oracolo di Delfi: «Il più sapiente tra voi (sophotatos) è colui che, come Socrate, si sia reso conto che, in quanto a sapienza (sophia) non val nulla» (Platone, Apologia di Socrate, 23b).

Con il IV secolo, per l’esattezza con Socrate e Platone, e con la riflessione sull’uso del termine philosophia (amore per la saggezza), si manifesta una svolta decisiva nella rappresentazione che ci si fa del saggio. Si diventa infatti consapevoli del carattere sovrumano della saggezza, stato trascendente e divino, rispetto al quale l’uomo non può che riconoscere di essere separato da una distanza immensa. Allo stesso tempo, la saggezza si identifica sempre più con l’episteme, ossia con un sapere certo e rigoroso, che non è mai concepito, del resto, come il nostro sapere scientifico moderno, perché coincide sempre con un saper fare, un saper vivere, insomma un certo modo di vivere. Dopo Platone, infatti, i Greci diventano profondamente consapevoli del fatto che non esiste vero sapere che non sia un sapere di tutta l’anima, che trasformi dunque la totalità dell’essere di colui che lo esercita. (...)

Contrariamente a un’opinione assai diffusa e tenace, il saggio antico non rinuncia all’azione politica. In nessuna scuola filosofica dell’antichità, infatti, il saggio abbandona il desiderio e la speranza di esercitare un’azione sugli altri uomini. E se la portata che egli vuol conferire alla propria azione varia a seconda delle scuole, il fine è sempre lo stesso: convertire, liberare, salvare gli uomini. Epicuro si sforza di farlo creando delle piccole comunità ferventi, in cui regna una serena amicizia. Platonici, aristotelici e stoici, da parte loro, non esitano a cercare di convertire intere città, agendo sulle costituzioni o sul re. Inoltre, diciamolo di sfuggita, in tutte le scuole si trovano descrizioni del re ideale più o meno ispirate al modello del saggio ideale. Quanto ai cinici, essi cercano di agire attraverso l’esempio impressionante del loro genere di vita.

Sarebbe comunque un errore pensare che la figura del saggio, descritta e imitata dal filosofo, autorizzi la fuga e l’evasione lontano dalla realtà quotidiana e dalle lotte della vita sociale e politica. Innanzitutto, la figura del saggio invita il filosofo all’azione, non solo interiore ma esteriore: agire secondo giustizia al servizio della comunità umana, dice Marco Aurelio. Ma soprattutto, la figura del saggio sembra in un certo senso ineluttabile. Essa è l’espressione necessaria della tensione, della polarità, della dualità inerente alla condizione umana. Da un lato, infatti, per sopportare la propria condizione, l’uomo ha bisogno di inserirsi nel tessuto dell’organizzazione sociale e politica, e nel mondo rassicurante, familiare e comodo del quotidiano. Questa sfera del quotidiano, però, non lo protegge interamente: egli si confronta inevitabilmente con ciò che si potrebbe chiamare l’indicibile, l’enigma terrificante del suo esserci, qui e ora, condannato a morte, nell’immensità del cosmo: diventare cosciente di sé e dell’esistenza del mondo è una rivelazione che rompe la sicurezza dell’abitudine e della quotidianità. L’uomo quotidiano cerca di eludere quest’esperienza dell’indicibile, che gli sembra vuota, assurda o terrificante. Certi uomini osano affrontarla: per loro, al contrario, è la vita quotidiana a sembrare vuota e anormale. La figura del saggio risponde dunque a un bisogno indispensabile: quello di unificare la vita interiore dell’uomo. Il saggio sarebbe così l’uomo capace di vivere su entrambi i piani: perfettamente inserito nella vita quotidiana, come Pirrone, e tuttavia immerso nel cosmo; votato al servizio degli uomini, eppure perfettamente libero nella vita interiore; consapevole eppure sereno; sempre memore di ciò che è essenziale; e, infine e soprattutto, fedele fino all’eroismo alla purezza della coscienza morale, senza la quale la vita non meriterebbe più di essere vissuta. Questo è quanto il filosofo deve cercare di realizzare. (Traduzione |di Barbara Carnevali)



-  Un testo di Michel Foucault sulla tradizione dell’Occidente

-  L’arte di vivere senza verità
-  Perché oggi ha vinto il cinismo

-  Con Manet, Bacon Baudelaire, Beckett ciò che sta in basso irrompe nelle forme artistiche elevate
-  La dottrina cinica nel mondo antico era popolare, oggi è un atteggiamento elitario e marginale

-  di MICHEL FOUCAULT (la Repubblica, 01.07.2009)

C’è una ragione che ha portato l’arte moderna a farsi veicolo del cinismo: parlo dell’idea che l’arte stessa, che si tratti di letteratura, di pittura o di musica, deve stabilire con il reale un rapporto che vada al di là del semplice abbellimento, dell’imitazione, per diventare messa a nudo, smascheramento, raschiatura, scavo, riduzione violenta dell’esistenza ai suoi elementi primari. Non c’è dubbio che questa visione dell’arte si sia andata affermando in modo sempre più marcato a partire dalla metà del XIX secolo, quando l’arte (con Baudelaire, Flaubert, Manet) si costituisce come luogo di irruzione di ciò che sta in basso, al di sotto, di tutto ciò che in una cultura non ha il diritto o quanto meno non ha la possibilità di esprimersi. A tale riguardo, si può parlare di un antiplatonismo dell’arte moderna. Se avete visto la mostra su Manet, quest’inverno, capirete quello che voglio dire: l’antiplatonismo, incarnato in maniera scandalosa da Manet, rappresenta a mio avviso una delle tendenze di fondo dell’arte moderna, da Manet fino a Francis Bacon, da Baudelaire fino a Samuel Beckett o a Burroughs, anche se non si identifica attualmente come elemento caratterizzante di tutta l’arte possibile.

Antiplatonismo: l’arte come luogo di irruzione dell’elementare, come messa a nudo dell’esistenza. Di conseguenza, l’arte ha stabilito con la cultura, le norme sociali, i valori e i canoni estetici, un rapporto polemico, di riduzione, di rifiuto e di aggressione. È questo l’elemento che fa dell’arte moderna, a partire dal XIX secolo, quel movimento incessante attraverso il quale ogni regola stabilita, dedotta, indotta, inferita sulla base di ciascuno dei suoi atti precedenti, è stata respinta e rifiutata dall’atto successivo. In ogni forma d’arte si può trovare una sorta di cinismo permanente nei riguardi di ogni forma d’arte acquisita: è quello che potremmo chiamare l’antiaristotelismo dell’arte moderna.

L’arte moderna, antiplatonica e antiaristotelica: messa a nudo, riduzione all’elementare del l’esistenza; rifiuto, negazione perpetua di ogni forma già acquisita. Questi due aspetti conferiscono all’arte moderna una funzione che in sostanza si potrebbe definire anticulturale. Bisogna opporre al conformismo della cultura il coraggio dell’arte, nella sua barbara verità. L’arte moderna è il cinismo nella cultura, il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa. Ed è soprattutto nell’arte, anche se non solo in essa, che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di quella volontà di dire la verità che non ha paura di ferire i suoi interlocutori. Restano naturalmente molti aspetti ancora da approfondire, e in particolare quello della genesi stessa della questione dell’arte come cinismo nella cultura.

Si possono vedere i primi segnali di questo processo, destinato a manifestarsi in modo clamoroso nel XIX e nel XX secolo, ne Il nipote di Rameau e nello scandalo suscitato da Baudelaire, Manet, (Flaubert?). Ci sono poi i rapporti tra cinismo dell’arte e vita rivoluzionaria: affinità, fascinazione reciproca (perpetuo tentativo di legare il coraggio rivoluzionario di dire la verità alla violenza dell’arte come irruzione selvaggia del vero); ma anche il loro non essere sostanzialmente sovrapponibili, dovuto forse al fatto che, se questa funzione cinica è al cuore dell’arte moderna, il suo ruolo nel movimento rivoluzionario è solo marginale, almeno da quando quest’ultimo è dominato da forme di organizzazione, da quando i movimenti rivoluzionari si organizzano in partiti e i partiti definiscono la "vera vita" come totale conformità alle norme, conformità sociale e culturale. È evidente che il cinismo, lungi dal costituire un legame, è un motivo di incompatibilità tra l’ethos dell’arte moderna e quello della pratica politica, sia pure rivoluzionaria.

Si potrebbe formulare lo stesso problema in termini diversi: perché il cinismo, che nel mondo antico aveva assunto le dimensioni di un movimento popolare, è diventato nel XIX e nel XX secolo un atteggiamento elitario e marginale, anche se importante per la nostra storia, e il termine cinismo viene utilizzato quasi sempre in riferimento a valori negativi? Si potrebbe aggiungere che il cinismo ha molti punti di contatto con un ’altra scuola greca di pensiero: lo scetticismo - anche in questo caso, uno stile di vita, più che una dottrina, un modo di essere, di fare, di dire, una disposizione a essere, a fare e a dire, un’attitudine a mettere alla prova, a esaminare, a mettere in dubbio.

Ma con una grandissima differenza: mentre lo scetticismo applica sistematicamente al campo scientifico questa attitudine, trascurando quasi sempre l’esame degli aspetti pratici, il cinismo appare incentrato su un atteggiamento pratico, che si articola in una mancanza di curiosità o in un’indifferenza teorica, e nell’accettazione di alcuni princìpi fondamentali. Ciò non toglie che, nel XIX secolo, la combinazione tra cinismo e scetticismo sia stata all’origine del "nichilismo", inteso come modo di vivere basato su un preciso atteggiamento nei confronti della verità. Dovremmo smetterla di considerare il nichilismo sotto un unico aspetto, come destino ineluttabile della metafisica occidentale, a cui si potrebbe sfuggire solo facendo ritorno a ciò il cui oblio ha reso possibile questa stessa metafisica; o come una vertigine di decadenza tipica di un mondo occidentale divenuto ormai incapace di credere ai suoi stessi valori.

Il nichilismo deve essere considerato in primo luogo una figura storica particolare appartenente al XIX e al XX secolo, ma deve anche essere inscritto nella lunga storia che l’ha preceduto e preparato, quella dello scetticismo e del cinismo. In altre parole, deve essere visto come un episodio o, meglio, come una forma, storicamente ben definita, di un problema che la cultura occidentale ha cominciato a porsi già da molto tempo: quello del rapporto tra volontà di verità e stile di esistenza.

Il cinismo e lo scetticismo sono stati due modi di porre il problema dell’etica della verità. La loro fusione nel nichilismo mette in luce una questione essenziale per la cultura occidentale, che può essere formulata in questo modo: quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che "niente è vero", come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell’arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità.

Traduzione di Stefano Salpietro



-  OLTRE IL MITO DELLA VERITA’ OGGETTIVA. "Addio alla verita’": un saggio di Gianni Vattimo.

-  MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”. Per i ‘Settanta’ di VATTIMO

-  STATO E CHIESA: UN PROBLEMA TEOLOGICO-POLITICO, NON STORICO. CON LA COSTITUZIONE IL POPOLO ITALIANO HA FATTO "LA RIFORMA", MA NE’ I CATTOLICI NE’ I LAICI LO HANNO CAPITO. A PIETRO SCOPPOLA, CHE AVEVA COMINCIATO A CAPIRLO, ALLA FINE GLI HANNO "SPEZZATO LE RENI".... E ORA ANCHE A NOI: "FORZA ITALIA"!!!

-  VERITA’, INTERPRETAZIONE, E .... COMUNICAZIONE.
-  DIEGO MARCONI, PRIMA DI GUGLIELMO MARCONI. CONTRO VATTIMO ("Addio alla verità"), A DIFESA DI SE STESSO ("Per la verità’").

-   "X"- FILOSOFIA. A FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.

-  ROMA BRUCIA. GRAZIE AL "TIMES" PER L’ALLARME, MA LONDRA NON RIDA (E ABBIA MIGLIOR CURA DI FREUD). L’incendio è generale. Un omaggio alla Sapienza di Oxford




-  La chiesa, l’inquisizione e i libri all’indice

-  La caccia all’eretico

-  Dai vescovi al papa
-  All’inizio scovare e perseguire l’errore era compito di vescovi e concili.
-  Poi con il tempo la condanna e la persecuzione divennero una specializzazione di corpi alle dirette dipendenze del papato

-  di Adriano Prosperi (la Repubblica, 30.06.2009)

Nella tradizione della chiesa cristiana d’Occidente la condanna dell’errore ha preso il nome latino di una istituzione dell’antica Roma: censura.

Non è solo una questione di parole. La lotta contro l’errore, per la Chiesa, ha cessato presto di essere la parola carismatica dell’apostolo che corregge Simon Mago per diventare la funzione di un potere regolato dal diritto. Da correzione fraterna dell’errante si è trasformata in volontà di uniformazione del consenso e domanda di adesione acritica secondo la formula recitata dall’eretico pentito: «Credo quod credit Sancta Mater Ecclesia» (credo quello che crede la santa madre chiesa). Il percorso storico è stato lungo ma lo spirito del dubbio e della disobbedienza è sempre stato identificato col volto di Satana, il tentatore. E col costituirsi della Chiesa come società gerarchica dominata da un potere sacrale accentrato la censura si è esercitata soprattutto contro gli ingegni indocili. La scelta personale ("eresia") fu la colpa da perseguire.

Se all’inizio scoprire l’errore e denunciarlo fu il compito di vescovi e concili, l’ascesa del potere papale portò a concentrare la censura delle opinioni e la persecuzione degli eretici nelle mani di corpi specializzati alla esclusiva dipendenza del papato: gli ordini religiosi domenicano e francescano. Dominanti nella predicazione e nell’insegnamento della teologia, i frati furono anche i titolari dell’ufficio dell’inquisizione. Fu così che i roghi di libri aprirono la via ai roghi di uomini.

La "rivoluzione silenziosa" del libro a stampa e quella del movimento luterano portarono a profonde modifiche. Fu allora che il papato accentrò nelle sue mani la censura. Il primo e più celebre degli indici dei libri proibiti fu pubblicato da Papa Paolo IV nel 1559 inaugurando una tradizione destinata a lunga durata. Da allora la censura divenne una funzione ordinaria del potere ecclesiastico che precedette quello statale. Si trattò di un’impresa gigantesca: oltre alla propaganda protestante ci si propose di passare al setaccio tutta la produzione libraria antica e moderna. L’esito fu micidiale per l’attività intellettuale e per l’editoria (quella veneziana perse la sua egemonia europea). Era un esito obbligato per un sistema teocratico: nella Ginevra calvinista, per salvare affari e religione, si ricorse all’astuzia di far pubblicare i testi pagani "licenziosi" sotto il falso luogo di stampa di Lione.

Nel mondo cattolico italiano i libri pericolosi furono distrutti (Machiavelli) o "espurgati" (Boccaccio). Ci furono autori di pasquinate anticlericali che pagarono la satira con la vita. Al popolo, considerato come un gregge da mantenere docile o come un fanciullo destinato a non diventare mai adulto, si fornì una cultura premasticata e innocua.

L’autodenunzia di Torquato Tasso, il rogo di Giordano Bruno, il processo a Galileo, sono gli episodi più celebri della svolta dell’attività intellettuale in Italia verso l’età dell’autocensura preventiva e dell’ossequio cortigiano.

Mentre la migliore cultura italiana trovava ospitalità fuori d’Italia, si svolse il lavoro assiduo dei laboratori della censura accentrati nella Roma papale: la Congregazione cardinalizia dell’Inquisizione (creata nel 1542) e la Congregazione dell’Indice (1571) hanno accompagnato la cultura cattolica e in modo speciale quella italiana fino al secolo XX inoltrato. Oggi la loro eredità sopravvive nell’opera della Congregazione Vaticana per la Dottrina della Fede.


-  IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: ARISTOTELE, L’ALLEANZA, LA FILIERA DEL SIMBOLO .... E IL VANGELO CATTOLICO-ROMANO del "LATINORUM" E DELLA MENZOGNA.
-  TUTTO A "CARO-PREZZO": QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". IL VANGELO DI RATZINGER, BERTONE, RUINI, BAGNASCO E DI TUTTI I VESCOVI.

-  LO PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA, I NOMI DI DIO, E IL FALSO E BUGIARDO CRISTIANESIMO ED ECUMENISMO RATZINGERIANO.

-  RADICI EUROPEE. EU-ROPA E AMORE ("CHARITAS") EU-ANGELICO. Che cosa significa essere "eu-ropeuo"
-  CHARITE’: BERLINO RICORDA A PAPA RATZINGER IL NOME ESATTO DELL’ OSPEDALE E DELLA FACOLTA’ DI MEDICINA.

-  "CARITAS IN VERITATE": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO. Una nota sul tema

-  ABUSO DEL NOME DI "CRISTIANI". I vescovi cattolici tedeschi citati in giudizio. Non dovranno più definirsi cristiani.

-  PRAGA. BENEDETTO XVI, IL SANTO PADRE, PORTA IN DONO AL "BAMBINO GESU’" UNA CORONA D’ORO: UN OMAGGIO AL SUO "DOMINUS IESUS". IL DIO DEL "CARO-PREZZO" ("Deus caritas est") rende e gli affari vanno bene.

-  DAL DISAGIO ALLA CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.

-  LA GABBIA E IL "FILO D’ORO" DI ELVIO FACHINELLI. LE AMARE RIFLESSIONI DI LEA MELANDRI, IL CORAGGIO DI P.A. ROVATTI, E IL RISVEGLIO DI DON PAOLO FARINELLA. Materiali per riprendere a pensare in modo "inattuale"->undefined


Il dibattito sul relativismo

NON SEPARARE RAGIONE § CARITA’

di Gianni Vattimo (La Stampa - Tuttolibri, 21.05.2005)

PERCHÉ oggi parliamo tanto di relativismo? Il tema è infatti diventato di bruciante attualità solo in tempi molto recenti, tanto che un libro serio e certamente frutto di una lunga riflessione come quello di Giovanni Jervis appena uscito da Laterza (Contro il relativismo, pp. 165, €10) rischia di apparire un instant book prodotto su due piedi per rispondere a una momentanea esigenza del mercato... Nell’interesse per questo tema, con cui la filosofia ha avuto a che fare fin dal tempo dei sofisti, confluiscono oggi stati d’animo e problemi molteplici. Non solo il multiculturalismo della nostra società, accentuatosi con la globalizzazione e l’immigrazione; ma soprattutto, da ultimo, il problema della «esportazione» della democrazia con la forza, giustificata da chi la pratica con l’argomento che le istituzioni democratiche sono un valore universale che val bene una guerra, anzi, come pare, anche una guerra infinita (dopo l’Iraq viene l’Iran, e poi chissà quali Paesi ancora). E ora le polemiche sul referendum diretto a modificare la legge sulla procreazione assistita: sebbene qui non ci sia effettivamente un contrasto tra «relativisti» e non, la discussione verte comunque sulla verità; sia essa quella che dovremmo trovare nella biologia (la quale però non è affatto unanime nell’attribuire all’embrione gli stessi diritti della persona formata, già «venuta al mondo»), sia quella dei doveri che avremmo verso la «vita» e il suo naturale diritto a svilupparsi comunque.

Sembra significativo che, mentre esce il libro decisamente «laico» di Jervis, venga ripubblicato anche, insieme a un lungo dibattito inedito tra Josef Ratzinger, allora semplice cardinale, Paolo Flores d’Arcais e Gad Lerner, un testo dello stesso Ratzinger che risale al 2000, intitolato significativamente La verità cattolica (in Dio esiste?, Il Fondaco di Micromega, pp. 111, €8).

E’ un testo di straordinaria chiarezza e di grande impegno teoretico, che si legge con viva ammirazione e che, anche per coloro che guardano con preoccupazione al papato di Ratzinger (il quale è pur sempre l’ex prefetto del Santo Uffizio, il guardiano dell’ortodossia cattolica, e anche della disciplina all’interno della Chiesa), giustifica la solida speranza che il pontificato che si apre ora sia in definitiva più ricco di discussione teologica, e quindi di libertà, di quello che si è appena concluso.

Come il lavoro di Jervis, anche il testo di Ratzinger insiste nel rivendicare la forza della ragione e la sua capacità di conoscere la verità, contro ogni tentazione relativistica. Naturalmente, mentre Jervis ha in mente la ragione come luogo delle verità scientifiche, delle quali i relativisti dubiterebbero anche per un malinteso senso di rispetto verso la pluralità delle culture, Ratzinger (e forse qui non si può che stare con lui) ha in mente un concetto di razionalità molto meno legato alle scienze sperimentali.

La ragione a cui egli pensa è quella che sa riconoscere l’esistenza di Dio e costruire una teologia naturale che la rende disponibile ad ascoltare la rivelazione che Dio fa di sé nella Bibbia e nell’insegnamento della Chiesa. Ratzinger ripete qui, in qualche modo, il discorso di Paolo all’Areopago, aspettandosi però un esito diverso.

La teologia naturale, già nel pensiero classico greco, incontraDio come fondamento supremodelmondo. Questo Dio rimane però una entità relativamente astratta, al punto che stoicismo e neoplatonismo, culmini della teologia antica, ammettono che egli si dia in simboli molteplici di stampo mitico, senza che con lui vi possa essere una vera relazione personale, nemmeno un vero e proprio culto.

Al Dio dei filosofi, come dirà più tardi Heidegger, non si rivolgono preghiere, né ci si prostra davanti a lui. E’ con l’annuncio evangelico che si unificano le due dimensioni sempre separate nella esperienza filosofica antica, quella del Dio garante dell’ordine del mondo e quella del bisogno di salvezza e di una relazione personale con lui. «Le due dimensioni della religione, che erano sempre separate l’una dall’altra, la natura eternamente dominatrice e il bisogno di salvezza dell’uomo che soffre e lotta, sono legate l’una all’altra» (p.57).

Come si stabilisca questo legame - quello che Paolo non riuscì a far riconoscere dai suoi ascoltatori ateniesi - non è detto chiaramente nel testo ratzingeriano. Difficile immaginare che la ragione operi da se stessa questo riconoscimento; tanto che, come hanno pensato tanti teologi e scrittori cristiani, anche il suo trovare Dio come fondamento della natura sembra possibile solo in virtù della rivelazione e della Grazia. Ma ciò che importa a Ratzinger non è dimostrare «razionalmente» la verità del cristianesimo, bensì mostrare che la rivelazione biblica risponde a una specie di attesa, o di vocazione, della ragione stessa.

La coincidenza delle due verità - quella della teologia razionale e quella della parola rivelata - si radica per lui nella unità del logos che, secondo il prologo di San Giovanni, era «in principio ». Quel logos è insieme razionalità e amore, e nell’unione di questi due aspetti del Verbo divino consiste tutta la verità del cristianesimo.

L’essere stesso, dunque, conformemente alla più radicata convinzione della metafisica (a cominciare da Socrate: il giusto non ha nulla da temere, né in questa vita né nell’altra, perché il mondo è retto da un principio razionale), è strutturato razionalmente, e per questo con la nostra ragione lo possiamo conoscere e ci possiamo conformare ad esso.

Qui però vale la pena di richiamarsi al razionalismo che permea il libro di Jervis: la verità oggettiva di cui egli parla, in contrasto con la molteplicità delle interpretazioni, ha alla propria base la stessa fede metafisica che ispira il discorso del cardinale. Come mai, però, in Jervis (e in tanto razionalismo moderno, anche in quello espresso da Flores d’Arcais nella discussione riportata nello stesso volume) non incontriamo alcuna apertura al messaggio cristiano e alla rivelazione biblica? Si badi che qui non poniamo una domanda polemica né a Jervis né a Ratzinger.

Rileviamo solo che quella razionalità che si è imposta nella tradizione occidentale con il pensiero greco, e che aveva tra i suoi esiti anche la teologia naturale, ha dato luogo, nella modernità, al razionalismo illuministico e allo scientismo di Jervis. Come se, di nuovo, i due aspetti della religione che Ratzinger considera uniti nel cristianesimo (la verità razionale di Dio e la rivelazione del suo amore per noi), si fossero di nuovo profondamente separati.

E’ lecito pensare che in questa separazione (forse mai davvero superata, nonostante San Tommaso e la teologia di Ratzinger), proprio il relativismo stia dalla parte dell’amore: la fede in Gesù e nella sua parola non ha bisogno di nessuna verità razionalmente dimostrata, e anzi, quando crede di allearsi ad essa rischia sempre di cadere nella violenza: amicus Plato, sed magis amica veritas. Se Platone diffonde l’errore, è giusto farlo tacere..).

Solo per l’amicizia che proviamo verso Cristo possiamo perdonare a Dio (senza le acrobazie della teodicea...) la tanta ingiustizia che ancora sempre domina nel mondo. Appunto perché, come dice un proverbio, l’amore è cieco: altro che razionalità rigorosa di impronta greca.

L’ostinazione con cui la Chiesa, anche per bocca del nuovo Papa, rivendica la forza cogente della ragione è sicuramente ispirata (oltre che da meno nobili motivi: se l’etica che la Chiesa predica coincide con quella della pura ragione umana, si può vietare il divorzio anche ai non credenti; eccetera) dalla volontà di affermare la dignità dell’uomo. Ma allora non si vede perché questa dignità dovrebbe consistere nell’assoggettarsi a un ordine oggettivo che così spesso non coincide, anzi per lo più confligge, con le esigenze della carità e della libertà.

Gianni Vattimo


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