ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente della Repubblica
BERLUSCONI (CON I SUOI COM-PARI) RUBA LE CHIAVI DI CASA DELL’ITALIA INTERA, REALIZZA UN COLPO DI STATO, E IL PARLAMENTO E IL CAPO DELLO STATO PERMETTONO A 17 ANNI DI DISTANZA ANCORA L’ESISTENZA DEL SUO PARTITO!?!
DUE PRESIDENTI (1994-2011) GRIDANO "FORZA ITALIA"!!! E si pensa ancora che sia tutto una barzelletta!!! (fls)
di Gaetano Azzariti (il manifesto, 10.02.2011)
«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.
Se, invece, si dovesse prendere sul serio l’affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall’evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un’entità divisa.
Una barzelletta se s’immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.
A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l’esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l’autonomia e l’indipendenza del potere, mira a delegittimare l’ordine della magistratura nel suo complesso.
Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell’accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».
Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d’indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.
Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l’accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.
Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d’indagine che non servono a nulla, avendo sin dall’inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l’innocenza di ciascun indagato.
Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l’onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l’operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?
Il Paese Bordello
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2011)
‘Bordello State’ e ‘Whoreocracy’, che tradurrei con ‘il governo delle puttane’, sono probabilmente le due espressioni che meglio di altre caratterizzano l’immagine dell’Italia negli Stati Uniti. La prima deriva da un articolo di James Walston, su Foreign Policy del 14 settembre 2010; la seconda da un commento a proposito di uno scritto di Alexander Stille sulla New York Review of Books dell’ 8 aprile 2010, dal titolo ‘The Corrupt Reign of Emperor Silvio’. Pochi giorni or sono, la parola ‘bordello’ capeggiava in un articolo del New York Times. Questa volta, però erano dei manifestanti che reggevano un cartello con la scritta, ‘L’Italia non è un bordello’.
SIAMO DUNQUE riusciti a conquistarci presso l’opinione pubblica americana il poco invidiabile titolo di ‘stato bordello’ o ‘stato in cui governano le puttane’. Gli opinionisti diranno che la colpa è degli oppositori di Berlusconi che diffondono a piene mani stereotipi anti-italiani. La verità è che sono gli altri ad attribuirci immagini poco edificanti anche perché hanno occhi per vedere, e sanno ancora ragionare, un’arte ormai estinta in Italia. Gli stessi commentatori, va detto, riconoscevano i nostri pregi, all’epoca di Tangentopoli, quando pareva che l’Italia si fosse avviata su una strada di riscatto civile.
Si potrebbe concludere che gli aspetti della realtà italiana che maggiormente colpiscono l’opinione pubblica americana, o che i giornali trasmettono, sono lo scandalo politico a sfondo sessuale e l’uso disinvolto del potere, con forme di vera e propria buffoneria. Siamo insomma, come altre volte in passato, ridicoli e malati di maschilismo, oltre alla ormai consolidata immagine di una democrazia viziata da una diffusa e tollerata corruzione politica.
Agli occhi degli americani Berlusconi merita di essere deriso e disprezzato perché è un uomo di cui dei cittadini maturi non dovrebbero fidarsi in quanto non rispetta i requisiti minimi dell’integrità personale, a cominciare dall’essere leale, dal sapersi controllare, dal senso di responsabilità. Per gli americani il potere politico non è proprietà di chi governa, ma appartiene ai cittadini che lo affidano a dei rappresentanti, per un tempo limitato e sotto precisi controlli, affinché lo usino per il bene pubblico. Proprio perché è un potere importante non lo si può delegare a persone che si rendono ricattabili, che mentono, e che sono dominate da un sentimento di onnipotenza. Per loro dare il potere di governare a un politico che si comporta come il primo ministro italiano sarebbe come consegnare i sudati risparmi a un noto truffatore.
La domanda che l’opinione pubblica americana si pone a proposito dell’Italia non è tanto ‘che cosa succede?’, ma ‘come avete fatto a ridurvi così?’. Non sono tanto interessati ai fatti della cronaca politica ma a capire come e perché una nazione come l’Italia abbia permesso l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi e tolleri senza troppi sussulti i suoi metodi.
Quello che davvero non riescono a spiegarsi è come mai gli italiani, che pur vivono in democrazia da più di sessant’anni, non abbiano capito il principio fondamentale del liberalismo, quello che insegna a temere il potere illimitato, chiunque lo detenga. Più che moralisti sono saggi. Non capiscono come e perché gli scaltrissimi italiani si lascino governare da un uomo che possiede un impero mediatico e una ricchezza sterminata. I più benevoli cercano di consolarci dicendo: ‘Anche da noi il denaro condiziona la politica’. Ma si rendono subito conto che il loro più ricco politico non ha il potere di Berlusconi e che la democrazia americana ha difese molto più efficaci della nostra che sono da individuare, a mio giudizio, più nel costume che nelle istituzioni.
MOLTI commentatori, per citare un solo esempio, sottolineano che se in America il presidente della Repubblica ricevesse ‘escort’ alla Casa Bianca, e organizzasse a casa sua serate con prostitute, l’indignazione nell’opinione pubblica e nel Congresso sarebbe tale da costringerlo a immediate dimissioni. Per non parlare poi dell’effetto che avrebbero gli attacchi ai magistrati e soprattutto le reiterate accuse alla Corte costituzionale rea di interferire illegittimamente sulle decisioni delParlamento votato dal popolo.
Per questo la domanda che nelle ultime settimane più spesso si pongono è se davvero siamo arrivati alla fine dell’era berlusconiana. Ma gli osservatori più attenti, come Jason Horowitz sul Washington Post del 14 dicembre, rilevano che il consenso parlamentare è ancora forte e che l’opposizione è divisa e non ha un candidato che paia in grado di vincere. In caso di elezioni anticipate potrebbe trionfare di nuovo Berlusconi e avere aperta la via per la presidenza della Repubblica.
Eppure, nel modo in cui gli americani seguono le nostre vicende traspare una preoccupazione che non ho mai riscontrato in passato. Se considerassero Berlusconi soltanto un caso di buffoneria e corruzione non si allarmerebbero molto. Nel mondo non mancano certo esempi da questo punto di vista anche più eloquenti. Avvertono invece che un sistema come quello che Berlusconi ha costruito in Italia potrebbe trovare imitatori in altri paesi democratici. Sarebbe insomma il futuro, non un altro esempio del malcostume politico italiano.
Strappi e mimose
di Ida Dominijanni (il manifesto, 05.02.2011)
Per quanto tecnica sia la formula, l’aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch’esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l’ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.
Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c’è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l’unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall’altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all’ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com’è possibile?
È possibile, perché c’è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant’altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell’azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent’anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l’8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficacace.
La manifestazione
Palasharp di Milano, il 5 febbraio: ingresso libero
Berlusconi dimettiti!
Libertà e Giustizia raccoglie la domanda di mobilitazione che arriva dai commenti all’appello Resignation - DIMISSIONI. Il testo ha raccolto decine di migliaia di firme in Italia, in Europa e anche negli Usa. Rilanciato dai social network, dai blogger e dai siti d’informazione, porta le prime firme di Gustavo Zagrebelsky, Paul Ginsborg e Sandra Bonsanti. Ma migliaia sono stati i commenti di chi ha lasciato un messaggio: “firmare non basta”, “facciamo qualcosa”, “Berlusconi lasci il governo del paese”. Libertà e Giustizia risponde a questa richiesta con “una prima manifestazione - spiega Sandra Bonsanti, presidente dell’associazione - per testimoniare la storia, la voce di chi non ha accettato passivamente l’imbarbarimento prodotto dalla politica e dalla cultura di Silvio Berlusconi e per gridare un ‘Basta’ allo smantellamento dello Stato”. L’appuntamento è per sabato, 5 febbraio, a partire dalle 15 (cancelli aperti dalle 13 e 30), al Palasharp di Milano (via Sant’Elia, 33 - MM Lampugnano) con Umberto Eco, Paul Ginsborg, Roberto Saviano, Gustavo Zagrebelsky, e la partecipazione di molti testimoni della società civile (*).
L’ingresso è libero fino a esaurimento posti. La capienza del Palasharp è di 9 mila posti: si consiglia di arrivare con un certo anticipo.
Liberiamoci dalle macerie e cominciamo a ricostruire: come all’alba della Repubblica. La società civile chiede di partecipare attivamente e dare voce alle preoccupazioni sulla gravissima crisi politico-istituzionale scatenata dagli interessi privati di Berlusconi.
Troveremo insieme le parole per esigere le dimissioni prima di tutto e liberarci dal potere corrotto e corruttore di Silvio Berlusconi, dal fango, dagli attacchi alla Costituzione, alla magistratura tutta e in particolare alla Procura di Milano, all’informazione, alla dignità delle donne.
Con Zagrebelsky, Ginsborg, Eco e Saviano, tutti fortemente impegnati a fianco della società civile, mobilitiamoci allora per cominciare insieme a ricostruire l’Italia, il nostro Paese e per riappropriarci di parole che la storia e il sacrificio di milioni di italiani hanno reso eterne e inviolabili: libertà, giustizia, democrazia, repubblica, uguaglianza, lavoro, COSTITUZIONE.
Troveremo insieme anche i modi per proseguire in questa mobilitazione per le dimissioni del presidente del Consiglio che sarà dopo questo primo appuntamento, l’impegno costante della società civile.
(*) Hanno confermato la loro partecipazione:
Giovanni Bachelet
Bice Biagi
Carla Biagi
Daria Bonfietti
Susanna Camusso
Lorenza Carlassare
Nando dalla Chiesa
Concita De Gregorio
Beppino Englaro
Beppe Giulietti
Irene Grandi
Maurizio Landini
Gad Lerner
Milva
Moni Ovadia
Giuliano Pisapia
Maurizio Pollini
Enrico Rossi
Elisabetta Rubini
Oscar Luigi Scalfaro
Salvatore Veca
Lorella Zanardo
Il diritto di sognare un’Italia pulita
di Roberto Saviano (la Repubblica, 5 febbraio 2011)
L’Italia oggi non è un paese libero. Sia chiaro: non sto dicendo che la situazione italiana sia in qualche modo comparabile con i totalitarismi del passato. Niente a che vedere con fascismo o comunismo, è ovvio. Ma ciò non ci deve impedire di dire che oggi chiunque attacchi il governo sa che subirà un’intimidazione, una forma di ritorsione.
Sa che potrebbe essere colpito, lui, o i suoi cari, da una qualche velina infamante che cercherà di sporcarlo davanti all’opinione pubblica. La libertà non può esistere solo come costruzione astratta o peggio come principio. "La libertà politica - scriveva Salvemini - è sostanzialmente il diritto del cittadino di dissentire dal partito al potere. Da questo diritto di opporsi al potere nascono tutti gli altri diritti". In Italia, certo, si può dissentire: ci mancherebbe altro. Ma a che prezzo? Al prezzo di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango. Lo abbiamo visto in passato con Boffo, con Fini, con il giudice Mesiano, ora con Ilda Boccassini. Lo vedremo ancora.
Parlo da trentenne. L’odio che senti vicino quando ti poni contro certi poteri mi ha stupito. Guicciardini aveva ragione quando definiva l’Italia un paese di contrade. Temo che se queste contrade non saranno dismesse non potremo andar lontano. Sembriamo condannati a dividerci su ogni cosa. Ci si può essere antipatici, ma in questo momento non c’è spazio per sottolineare le differenze, per misurare chi è più critico e chi è più puro, chi ha la corona del miglior antagonista o dell’Italia migliore. Questo è il momento non dico dell’unità, ma almeno delle affinità. La purezza non serve più. Ricordo quel che diceva Don Milani: "A cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?". Sporcarsi le mani non ha nelle parole del parroco della scuola di Barbiana nessun significato di corruzione, è ovvio: vuol dire la necessità di fare, anche sbagliando, di realizzare cose che possano essere difficili, ma utili. Unirsi nelle diversità è cosa complicata ma ormai imperativa. Certi che da questa unità verrà del bene per tutti.
Monicelli poco prima di morire auspicava una rivoluzione. Oggi la parola rivoluzione in me non evoca banchetti di sangue né vendette, né palazzi d’inverno né Moncada. Ancor meno fucilazioni e "uomini nuovi". E’ invece la parola che mi fa tornare alla mente la lezione di Piero Gobetti: oggi ho la sensazione che sia rivoluzionario non considerare gli elettori di un’area avversa come perduti. Che sia rivoluzionario sentirci tutti partecipi di uno stesso paese ed un unico destino. O si riparte da questo o non saprei proprio il motivo di impegnarci, intervenire, "sporcarsi le mani".
Sento di poter scrivere queste parole proprio perché vengo da una terra dove la legalità significa vita e libertà in maniera forse più chiara che qui a Milano. E perché non appartengo alla generazione che ha creduto nel socialismo reale. Non ho amato i rivoluzionari tramutati in dittatori. Non ho creduto in sogni di società perfette divenuti inferni in terra. Appartengo alla generazione che ha visto i caduti della sua resistenza morire per costruire un paese dove le opportunità, il talento, il diritto, fossero cose reali. Gianni Falcone, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Carlo Alberto Dalla Chiesa. non muoiono mentre stanno portando avanti la loro professione di magistrati a difesa del diritto e perseguendo i reati. Almeno, non solo per questo. Fanno molto di più.
Così come Giancarlo Siani, Pippo Fava, De Mauro non muoiono perché inciampano in verità indicibili. Ma perché scrivendo rendono pubbliche le verità che conoscono: e molti uomini e donne che hanno verità possono trasformare lo stato di cose. Per questo vengono condannati a morte. Per la loro parola.
In questa battaglia la mia generazione è cresciuta. In un Paese dove lo Stato non era un monolite tutto corrotto o tutto rivolto al bene. Ma dove una parte di Stato corrotto era affrontato quotidianamente dall’altra parte dello Stato. Vivere costruendo le possibilità di essere felici è una necessità dell’uomo, l’unica alternativa ad una rassegnata, cupa disperazione: un sogno che non può non farti combattere con tutto te stesso contro l’impossibilità di far affermare il merito, l’impegno, il talento. L’ingiustizia è di questo mondo. Ma sono di questo mondo anche gli strumenti peraffrontarla. In questa fase in Italia non sembra possibile. Il governo e l’area culturale che lo sostiene non si difende mai dalle accuse - così evidenti, così manifeste - dicendo: non si fanno certe cose.
Ma sostenendo l’autoassolutoria tesi del "così fan tutti". L’accusa maggiore a chi chiede un paese diverso è l’accusa di essere un ipocrita: "Berlusconi fa quel che tutti fanno o vorrebbero fare". Non è vero, non è così, dobbiamo ribellarci al ritratto di un Paese piegato e corrotto, accomunato in una specie di complicità collettiva. C’è un’Italia che ha il diritto e il dovere di venire alla luce e di prendere voce: un’Italia che crede nelle regole, nella legalità, che crede che non sia normale avere un premier che, preda di una senile ossessione sessuale, paga le minorenni, mente allo Stato per proteggerle e sfugge ai magistrati.
Albert Camus diceva che la sofferenza, come la morte, non si può sconfiggere: ma che il nostro dovere è di riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Io in questo credo: nella possibilità di ridurre aritmeticamente il dolore. Forse un mondo migliore non esiste, ma credo nella possibilità di migliorare il mondo. Per questo sento che è il tempo per tornare a sognare.
Non sembri scontato e retorico e anche se lo fosse ben venga. Ma sognare un paese diverso non può che essere il carburante vivo e persino divertente del tentativo di cambiare le cose. Di cercare una felicità possibile. Una felicità semplice, fatta di un lavoro dignitoso, della possibilità dell’individuo di provare quanto vale. Di ricevere quanto merita. Non è il sogno di un paradiso inesistente ma di un luogo un po’ diverso, dove l’ingiustizia, il favore, la raccomandazione del potente di turno per ottenere un lavoro o addirittura un posto in consiglio regionale o in parlamento, non esistano più. I valori che ci fanno in questo momento stare insieme sono sepolti con l’urgenza di identificare ciò che non siamo ciò che non vogliamo. Ora è il tempo di dire anche ciò che siamo e ciò che vogliamo.
FEDERALISMO
Berlusconi di nuovo all’attacco
"L’Italia commissariata dalle Procure"
Il premier: "Federalismo? La bicamerale era solo un artifizio, spero che non ci siano problemi con Napolitano". "L’opposizione è contraria agli interessi del Paese". "La maggioranza sta per allargarsi". "Ruby? Mai avuto colloqui diretti". E rilancia il nome di Forza Italia *
ROMA - "L’Italia è una repubblica giudiziaria commissariata dalle Procure". Silvio Berlusconi abbandona rapidamente la linea del "dialogo" e torna ai consueti affondi aggressivi contro toghe e opposzione. Lo fa a proposito del caso Ruby, parlando con i giornalisti al suo arrivo a Bruxelles per il vertice Ue. Dopo le toghe tocca all’opposizione, "contraria agli interessi del Paese".
Ieri sera, invece, il premier aveva cenato con i deputati che hanno formato il gruppo dei cosidetti "responsabili", definendo la commissione bicamerale 1 "un semplice artifizio", e negando "forzature sul federalismo". "Abbiamo la maggioranza sia alla Camera che al Senato, la Commissione bicamerale è un artificio" aveva aggiunto il Cavaliere, sostenendo che da parte del Quirinale non dovrebbero esserci problemi a firmare il decreto legislativo. Tesi ribadita anche oggi a Bruxelles: "Contrasti con Napolitano? Spero di no".
"Maggioranza più larga". "Presto arriveranno altri quattro parlamentari a rafforzare i ’Responsabili’, due dall’opposizione e due dai liberaldemocratici". Così il premier, che ha poi annunciato ai suoi alleati di voler rompere ogni rapporto con l’Udc anche sul territorio. Da Bruxelles conferma: "Abbiamo una maggioranza per potere lavorare e credo che potremo lavorare bene su molti temi anche per riforme importanti per il Paese. Senza Fli è più facile lavorare".
Caso Ruby: "Facciamo cappotto...". "Se continua così, la prossima volta facciamo cappotto...". il presidente del Consiglio ha gioito per il voto positivo per l’esecutivo ottenuto alla Camera sulla richiesta per il caso Ruby. E, nel merito, avrebbe assicurato di non aver mai avuto colloqui diretti con la ragazza: "E’ solo una ragazza che mi è stata segnalata, nulla di più". Colloqui e incontri diretti che invece sarebbero testimoniati dai tabulati dell’inchiesta di Milano. "Il fatto è - ha concluso - che sono uno generoso, se qualcuno mi dice che non può comprare una macchina io la regalo. Di solito regalo mini Cooper...".
Torna Forza Italia? Il nuovo partito di Silvio Berlusconi si dovrebbe chiamare Forza Italia. Secondo quanto viene riferito dalla cena è stato lo stesso Cavaliere a dirlo, sottolineando che ora si tratta di "convincere gli ex An".
Articolo 41 : Scelta di civiltà
di Raniero La Valle
Articolo per il prossimo numero di Rocca, rubrica “Resistenza e pace” *
Il sovversivismo delle classi dirigenti, a suo tempo diagnosticato nella analisi gramsciana, si attua oggi nell’attacco portato all’integrità e unità dell’ordinamento dello Stato. In questo senso l’azione del governo ancora in carica, anche se si è fermata un attimo prima di mobilitare la piazza contro i magistrati, si pone in obiettivo contrasto anche con il Quirinale. Il presidente della Repubblica ha infatti un ruolo peculiare come rappresentante dell’unità nazionale e garante dell’unità dei distinti poteri e delle diverse funzioni dello Stato: del potere esecutivo, che deriva dalla nomina che a lui compete del presidente del consiglio e dei ministri; del potere legislativo, condizionato dalle sue firme di autorizzazione e di promulgazione delle leggi; della magistratura, di cui presiede il Consiglio Superiore; delle Forze Armate di cui ha il comando, presiedendo anche il Consiglio Supremo di Difesa. Rompendo l’unità dell’ordinamento, sottraendosi come imputato al controllo di legalità, mettendo il governo contro l’ordine giudiziario e lanciando i ministri nell’esercizio delle loro funzioni contro il presidente della Camera, Berlusconi rompe anche l’unità rappresentata dal presidente della Repubblica e dunque obiettivamente si pone in alternativa a lui.
La prova estrema di questa volontà di disgregazione del sistema sta nella volontà, dichiarata dal governo, di cambiare l’art. 41 della Costituzione, con il falso argomento di dare maggiore libertà all’impresa privata, che dall’art. 41 non è affatto coartata e che a Pomigliano come a Mirafiori ha dimostrato di essere anche fin troppo libera di fare quello che vuole. L’art. 41 è quello che sancisce la “costituzione economica” del Paese: né liberismo assoluto, né pianificazione centralizzata. In questo sapiente articolo della Costituzione c’è una scelta di civiltà. Se è stata presentata come una scelta di civiltà quella tra liberalismo e comunismo, altrettanto è una scelta di civiltà quella tra un liberismo selvaggio, inteso solo al profitto privato, e un’economia memore della sua dimensione sociale.
Questa scelta di civiltà si fece all’assemblea costituente: il suo presupposto furono la rinuncia dei comunisti, espressa dallo stesso Togliatti, di postulare un’economia pianificata, e il rifiuto dei democristiani, dei socialdemocratici e degli altri partiti laici di un capitalismo puro alla von Hayek.
Che cosa c’è da rimproverare all’art. 41? Esso richiede che l’attività economica non si svolga “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; ma al di qua di questi confini essa è libera di determinare i propri fini; era molto più esigente e vincolante il testo che era stato proposto all’Assemblea dalla Commissione dei 75 presieduta da Ruini, il quale imponeva un dover essere all’attività economica, la quale doveva “tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo”; con questa formulazione la ricerca del puro profitto privato sarebbe stata illegittima e sarebbero state costituzionalmente precluse le speculazioni finanziarie: della globalizzazione quale è oggi non si sarebbe nemmeno potuto parlare, e perfino delle televisioni di Mediaset ci si sarebbe potuto chiedere se siano necessarie ai bisogni individuali e al benessere collettivo.
L’assemblea costituente votò invece la sobria e netta affermazione della libertà dell’iniziativa economica privata, le pose il limite di non causare nocività sociale, e quando si trattò di prevedere un intervento pubblico perché essa “fosse indirizzata e coordinata a fini sociali”, rinunziò a usare la parola “piani” (che avrebbe potuto alludere a una pianificazione centralizzata) e grazie a un accordo tra il democristiano Taviani e il socialdemocratico Arata, usò la dizione “programmi e controlli opportuni” che sarebbe stato compito della legge determinare ai fini di assicurarne l’utilità sociale; e, essendo caduta la specifica norma antimonopolistica proposta da Einaudi, fu inclusa in questa attività del legislatore il compito di contrastare i monopoli. La lotta per abbattere l’art. 41 non è dunque rivolta né a rivendicare una libertà già esistente, né a impedire una pianificazione oppressiva; serve semplicemente a cancellare ogni significato e destinazione sociale dell’attività economica, e a consegnarla, nella migliore delle ipotesi, al mercato, e nella peggiore delle ipotesi alla speculazione, allo sfruttamento e all’usura.
L’art. 41 non è solo uno dei 139 articoli della Costituzione; ne è l’architrave, al pari dell’art. 1 che fonda la Repubblica sul lavoro. Tutto l’edificio dei diritti umani fondamentali poggia su di essi; tolti quegli articoli, il resto crolla; ma crolla anche la nostra appartenenza a una comunità internazionale di diritto, e crolla anche la nostra cittadinanza europea, se l’Europa ha un ruolo da svolgere per forzare la globalizzazione a fini umani, per fondare dignità e diritti, per promuovere un’economia sociale di mercato.
Raniero La Valle
Il Dialogo, Venerdì 04 Febbraio,2011 Ore: 14:58: http://www.ildialogo.org/elezioni/dibattito_1296828002.htm
Per il presidente della Camera "si tratterebbe di una questione
di rispetto dell’esecutivo nei confronti del parlamento"
Finanziaria, Fini: "No alla fiducia
su maxiemendamento governo"
E respinge il ’presidenzialismo di fatto’: "Lusso che non possiamo permetterci"
"Serve equilibrio tra i poteri dello Stato, senza mortificare alcun ruolo" *
ROMA - No del presidente della Camera Gianfranco Fini a una eventuale fiducia alla legge finanziaria utilizzando il solito meccanismo del maxiemendamento: "Il presidente della Camera sarebbe in grossa difficoltà se la fiducia non fosse posta su un testo che esce dalla commissione ma su un maxiemendamento del governo", afferma la terza carica dello Stato.
Presentando un libro nella Sala del Mappamondo alla Camera, in vista dell’imminente esame della manovra finanziaria, Fini ha spiegato che se il governo ponesse la fiducia su un maxiemendamento questo significherebbe "per il Parlamento non poter svolgere il suo compito. Non tutte le fiducie hanno lo stesso impatto politico, in questo caso si tratterebbe di una questione di rispetto del governo nei confronti del parlamento".
Riforme. Fini respinge dunque qualunque ipotesi di "presidenzialismo di fatto": "E’ vero, da qualche tempo c’è una sottolineatura del ruolo dell’esecutivo: io non considero questo negativo, non sono un cultore dell’assemblearismo, ma se si accentua il ruolo dell’esecutivo dobbiamo anche rafforzare il controllo parlamentare e il ruolo del parlamento".
"Non possiamo stare così come siamo adesso, è un lusso che non ci possiamo permettere - ha concluso Fini -. Io non inorridisco davanti alla parola presidenzialismo, una democrazia deve essere rappresentantiva ma anche governante, mi rifiuto di mettere in contrapposizione questi due termini. A un capo dell’esecutivo forte deve corrispondere un Parlamento forte, non si stabilisce un equilibrio se si mortifica il ruolo dell’uno o dell’altro".
* la Repubblica, 25 novembre 2009
Con una nota del Quirinale il capo dello Stato torna sul tema del centocinquantennale
"Nella lettera a Berlusconi il presidente aveva chiesto con urgenza spiegazioni"
Unità d’Italia, Napolitano insiste
"Servono un chiarimento e fondi certi" *
ROMA - Dopo il dibattito delle ultime settimane, e il suo forte appello di qualche giorno fa, Giorgio Napolitano torna sul tema dei 150 anni dell’unità d’Italia (che cadranno nel 2011). E lo fa attraverso una nota diffusa dal Quirinale, in cui torna a insistere sulla necessità di un chiarimento su come verrà celebrata la ricorrenza. E anche sulla necessità di fondi certi con cui affrontare l’evento.
"In relazione al dibattito in corso sulle celebrazioni del 150/mo anniversario dell’Unità d’Italia - è scritto nel comunicato - si precisa che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella lettera inviata lo scorso 20 luglio al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva sottolineato come occorra ormai con la massima urgenza un chiarimento: se necessario, un esplicito e preciso ripensamento selettivo, e dunque ridimensionamento del programma di investimenti infrastrutturali, tenendo conto delle disponibilità del bilancio pubblico (Stato, Regione ed Enti locali). E nello stesso tempo, una soddisfacente definizione delle iniziative più propriamente rispondenti al carattere e agli scopi di una seria celebrazione dell’evento. Su questa base ed entro limiti che dovranno e vorranno porsi, certezza delle risorse su cui poter contare".
"Si fa altresì presente - prosegue la nota - che nella lettera inviata il 23 luglio al Presidente del Comitato Italia 150 di Torino, professor Antonio Saitta, il capo dello Stato aveva espresso l’auspicio che "possano superarsi i ritardi e si giunga ad approvare finalmente un programma articolato su pochi ma significativi progetti di carattere prevalentemente culturale, pedagogico e comunicativo, diretti a rappresentare e rafforzare la nostra identità nazionale".
* la Repubblica, 21 agosto 2009
Sette domande al Primo Ministro italiano, Signor Silvio Berlusconi - di Carlo Cosmelli *
NASCITA DI UN LADRO
a c. di don Aldo Antonelli
Il N. 42 di CRITICA LIBERALE dell’8 Luglio ripercorre, sotto forma di domande, la nascita e la crescita del Ladro.
Che si sappia!
Ed anche se le disposizioni di legge contamplano l’istituto della prescrizione, nella coscienza dei cittadini certi comportamenti, ancorché reiterati, soprattutto se sono l’espressione del DNA di una persona, non sono soggetti a termini di scadenza.
Potrà fare quello che vuole, potrà imbandire tavole di beneficenza a iosa, iscriversi ai mille circoli di Dame della Carità, farsi la doccia con le acquesante benedette nei Sacri Palazzi, celebrare pontificali su Libertà e Democrazia: a meno che non pervenga ad una pubblica, vera conversione, è e resterà un Ladro accomparato con la Mafia e affiliato alla P2. Il plauso del popolo squalifica il popolo stesso e non gli ridona nessuna verginità.
Aldo Antonelli
Ecco l’articolo di Critica Liberale:
Sette domande al Primo Ministro italiano, Signor Silvio Berlusconi *
Al Primo Ministro della Repubblica Italiana sono state rivolte dieci domande circa le sue relazioni con una ragazza minorenne invitata più volte anche a cene ufficiali. Fino ad ora si è rifiutato di rispondere. Si potrebbe fare uno sconto al Signor Silvio Berlusconi, chiedendogli di rispondere a sette domande.
Signor Berlusconi, potrebbe rispondere pubblicamente a queste domande?
Premessa:
La Banca Rasini di Milano, di proprietà negli anni ’70 di Carlo Rasini, è stata indicata da Sindona e in molti documenti ufficiali di magistrati che hanno indagato sulla mafia, come la principale banca utilizzata dalla mafia per il riciclo del denaro sporco nel Nord - Italia.
Di questa Banca sono stati clienti Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Provenzano, negli anni in cui formavano la cupola della mafia.
In quegli stessi anni il Sig. Luigi Berlusconi lavorava presso la Banca, prima come impiegato, poi come Procuratore con diritto di firma e infine come Direttore.
1) Nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi ratifica un’operazione molto particolare: la banca Rasini acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società di Nassau legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d’amministrazione figurano Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona e monsignor Paul Marcinkus. Questo Luigi Berlusconi, procuratore con diritto di firma della banca Rasini, era suo padre?
2) Sempre intorno agli anni ’70 il Sig. Silvio Berlusconi ha registrato presso la banca Rasini ventitré holding come “negozi di parrucchiere ed estetista”, è lei questo Signor Silvio Berlusconi?
3) Lei ha registrato presso la banca Rasini, ventitré “Holding Italiane” che hanno detenuto per molto tempo il capitale della Fininvest, ed altre 15 Holding, incaricate di operazioni su mercati esteri. Le ventitré holding di parrucchiere, che non furono trovate ad una prima indagine della guardia di finanza, e le ventitré Holding italiane, sono la stessa cosa?
4) Nel 1979 il finanziere Massimo Maria Berruti che dirigeva e poi archiviò l’indagine della Guardia di Finanza sulle ventitré holding della Banca Rasini, si dimise dalla Guardia di Finanza. Questo signor Massimo Maria Berruti è lo stesso che fu assunto dalla Fininvest subito dopo le dimissioni dalla Guardia di Finanza, fu poi condannato per corruzione, eletto in seguito parlamentare nelle file di Forza Italia, e incaricato dei rapporti delle quattro società Fininvest con l’avvocato londinese David Mills, appena condannato in Italia su segnalazione della magistratura inglese?
5) Nel 1973 il tutore dell’allora minorenne ereditiera Anna Maria Casati Stampa si occupò della vendita al Sig. Silvio Berlusconi della tenuta della famiglia Casati ad Arcore. La tenuta dei Casati consisteva in una tenuta di un milione di metri quadrati, un edificio settecentesco con annesso parco, villa San Martino, di circa 3.500 metri quadri, 147 stanze, una pinacoteca con opere del Quattrocento e Cinquecento, una biblioteca con circa 3000 volumi antichi, un parco immenso, scuderie e piscine. Un valore inestimabile che fu venduto per la cifra di 500 milioni di lire (250.000 euro) in titoli azionari di società all’epoca non quotate in borsa, che furono da lei riacquistati pochi anni dopo per 250 milioni.(125.000 euro). Il tutore della Casati Stampa era un avvocato di nome Cesare Previti. Questo avvocato è lo stesso che poi è diventato suo avvocato della Fininvest, senatore di Forza Italia, Ministro della Difesa, condannato per corruzione ai giudici, interdetto dai diritti civili e dai pubblici uffici, e che lei continua a frequentare?
6) A Milano, in via Sant’Orsola 3, nacque nel 1978 una società denominata Par.Ma.Fid. La Par.Ma.Fid. è la medesima società fiduciaria che ha gestito tutti i beni di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e riciclatore di capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Carmelo Gaeta e altri boss - di area corleonese e non - operanti a Milano nel traffico di stupefacenti a livello mondiale e nei sequestri di persona. Signor Berlusconi, importanti quote di diverse delle suddette ventitré Holding verranno da lei intestate proprio alla Par. Ma.Fid. Per conto di chi la Par.Ma.Fid. ha gestito questa grande fetta del Gruppo Fininvest e perché lei decise di affidare proprio a questa società una parte così notevole dei suoi beni?
7) Signor Berlusconi da dove sono venuti gli immensi capitali che hanno dato inizio, all’età di ventisette anni, alla sua scalata al mondo finanziario italiano?
Vede, Signor Berlusconi, tutti gli eventuali reati cui si riferiscono le domande di cui sopra sono oramai prescritti. Ma il problema è che i favori ricevuti dalla mafia non cadono mai in prescrizione, i cittadini italiani, europei, i primi ministri dei paesi con cui lei vuole incontrarsi, hanno il diritto di sapere se lei sia ricattabile o se sia una persona libera.
P.S. Dato che lei è già stato condannato in via definitiva per dichiarazioni false rese ad un giudice in un tribunale, dovrebbe farci la cortesia di fornire anche le prove di quello che dice, le sole risposte non essendo ovviamente sufficienti.
Carlo Cosmelli
Ronde, come spaccare l’Italia
Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato percorrono le nostre strade con poteri incostituzionali di controllo del «territorio»
di Furio Colombo (l’Unità, 1.03.2009)
La secessione di Bossi assomiglia alla minaccia nucleare di Teheran. Il piano è già fatto, ma i pezzi arrivano un po’ per volta. La differenza è che, per ogni passo avanti dell’Iran, anche piccolo, anche simbolico, il mondo trasalisce e alza la voce. In Italia, invece, tutti assistiamo assenti o compiaciuti mentre, con espedienti o modalità diverse, la Lega smantella l’Italia. Non siamo ancora arrivati al federalismo fiscale che segnerà lo smembramento ufficiale e legale del Paese. Ma molti pezzi staccati di ciò che era l’Italia giacciono già, in esibizione penosa, sui prati dei «territori».
I cittadini non sono più uguali. I diritti condivisi sono stati spezzati. I sindaci-sceriffi si sono dotati di poteri che - in uno Stato normale - non hanno nulla a che fare con i compiti e le funzioni dei sindaci. Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato (o meglio da un ministro infiltrato dentro lo Stato di cui è avversario) percorrono le nostre strade con il nome civettuolo di “ronde” a cui si danno poteri di controllo del «territorio» che - in condizioni normali, e se vigesse la Costituzione - spetterebbero solo allo Stato.
Tenete conto della parola «territorio». Non esiste nella Costituzione, che infatti recita: «L’Italia è composta di Comuni, Province, Regioni». La Lega Nord ha imposto le parole «territori» e «popoli» perché non sa dire cos’è o dov’è la sua presunta patria, la Padania, e non sa come distinguere i suoi presunti cittadini “padani” da tutti gli altri italiani.
Il colpo di genio è venuto attraverso l’accordo-ricatto di Arcore: invece di svelare le amicizie pericolose di Berlusconi con la mafia (come aveva cominciato a fare «La Padania» nel 1999, pubblicando in prima pagina la foto di Berlusconi accanto a quella di Totò Riina), la Lega viene dotata di tutto il sostegno mediatico e finanziario necessario per sembrare un partito nazionale.
In tal modo un partito locale eletto quasi solo in due regioni italiane conquista punti cruciali di controllo nel governo e dello Stato italiano che era, invece, il nemico (ricordate “Roma ladrona”?).
Ma la strategia della Lega, mentre da un lato ricatta con successo tutto il versante berlusconiano e porta un partito nazionalista come An a sostenere con fervore ogni nuovo atto secessionista, dall’altro affascina e ipnotizza ciò che resta della sinistra. La prova più impressionante sono le «ronde di Penati», ovvero il disorientante sostegno alla cultura della Lega da parte del presidente della Provincia di Milano, già Ds, ora leader Pd, Filippo Penati . «Che c’è di sbagliato nell’associare ai sindaci carabinieri e poliziotti in pensione e mandarli a sorvegliare parchi, scuole, strade? Chiamiamoli presìdi e non ronde e le obiezioni verranno meno». (La Repubblica, 23 febbraio).
Che c’è di male? C’è che salta tutto l’impianto di legalità costituzionale di un Paese democratico. C’è che si nega il compito delle forze dell’ordine regolate dalla legge. C’è che si aboliscono i diritti garantiti dei cittadini. C’è che a Milano l’unico esponente Pd (cioè della normale cultura costituzionale italiana nelle istituzioni) abbraccia in modo pubblico e clamoroso la cultura della Lega che infaticabilmente lavora a divaricare l’Italia.
I governi, centrale e locale, vengono riorganizzati come agenti persecutori degli immigrati e di tutti gli altri cittadini (dai medici ai poliziotti ai giudici) che non intendono prestarsi al brutto gioco della divaricazione morale e della spaccatura fisica del Paese.
Intorno allo slancio della cultura rondista si forma un focoso rapporto plebiscitario e tribale fra sindaco ed elettori, dove tutto avviene al di fuori delle leggi e della Costituzione. I danni sono enormi, da Lampedusa che brucia agli attacchi di natura razziale frequenti, ripetuti, spinti fino all’omicidio e alle persone a cui danno fuoco sulle panchine. Gli ospedali diventano luoghi pericolosi da cui stare alla larga se si è clandestini, anche per chi è portatore di malattie contagiose. Le scuole hanno classi separate per i non italiani e test di «cultura locale» per tenere lontani dall’integrazione i figli degli immigrati, e tenere bassa e umiliante la qualità della scuola italiana.
Devastando con leggi nazionali e arbitrio locale la Costituzione italiana, la Lega ha fatto molto di più della secessione. Ha infettato di cattiveria persecutoria tutto il Paese, aperto la strada ai linciaggi, diffuso disprezzo e odio. La Lega, salita sulla groppa di Berlusconi, governa la Repubblica italiana. È peggio, molto peggio, della minaccia di secessione.
Lo Stato e le regole
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 1/3/2009)
La maggior presenza dello Stato nell’economia, resa necessaria dalla rovina finanziaria, restituisce ai poteri pubblici molti spazi che essi avevano ceduto o perso nell’ultimo trentennio. Restituisce allo Stato una forza inaspettata, vasta, benefica nell’immediato ma anche colma di rischi perché potenzialmente invadente, minacciosa non solo per l’economia ma per gli equilibri della democrazia.
Il fatto è che mancano, in buona parte dell’Occidente, classi politiche all’altezza di una svolta così profonda, anche se temporanea. Se si esclude Obama, giunto al potere in coincidenza con il crollo finanziario, numerosi politici che oggi governano le democrazie son figli dell’epoca che ha visto gli spazi della politica restringersi, e quelli del mercato allargarsi smisuratamente. I pericoli di uno Stato prevaricatore non diminuiscono ma aumentano, se il delicato passaggio è gestito da una generazione che per decenni s’è fidata del mercato più che della politica, abituandosi non a servire lo Stato ma a servirsi di esso, e mostrando un’acuta allergia alle regole. Nelle loro mani, lo Stato rinsaldato potrebbe divenire un Leviatano temibile.
Per tutti costoro, il Grande Crollo rischia di somigliare a quello che per Bush fu, nel 2001, la Grande Scossa dell’11 settembre.
Un’occasione non per consolidare la democrazia che si pretendeva tutelare, ma per accentrare il potere, per accentuare l’unilateralismo, per estendere l’ingerenza nel privato del cittadino, per distruggere l’equilibrio dei poteri sino a violare norme costituzionali come l’habeas corpus, che è il diritto di chi è arrestato a sapere perché il suo corpo viene sequestrato. Proprio dai neo-liberisti venne il più potente attacco alle libertà individuali: un’aggressione che la crisi economica può riprodurre, mescolando proditoriamente, come allora, politica dei valori, della paura, degli interessi particolari, del nazionalismo. Proprio da loro venne l’idolatria di una concorrenza sganciata dalla cooperazione. Dal caos d’un mercato senza briglie sono fuoriusciti governanti che hanno edificato la propria forza, oltre che sulla propria ricchezza, sul rifiuto esplicito delle leggi, costituzionali o internazionali. Che hanno spregiato la politica classica chiamandola inutile teatro. In Italia si parla di teatrino: i paesi feroci adorano i diminutivi.
In molti casi sarà questa generazione politica a gestire il ritorno dello Stato, e proprio questo turba. Dirigenti che aborrivano la politica e le istituzioni, che erano avvezzi a servirsene, che sono andati al potere da privati per privatizzare il pubblico, si trovano ora al volante di Stati dilatati, e tenderanno a comportarsi come ieri. Continueranno ad agire fuori dalle regole, a crearsi spazi dove gli spiriti animali del mercato non son temperati né dal senso razionale del limite, né dalla fiducia nel diverso. Con la politica dei valori e della paura si plasmerà la società. La guerra al Grande Crollo diverrebbe una variazione ben poco armoniosa della Guerra al Terrore.
Tale è infatti il potere, se non controbilanciato: cresce senza misura. Lord Acton diceva che naturalmente «tende a corrompere», e «quando è assoluto, corrompe assolutamente». Ciò è tanto più vero per chi lascia nel vago i fini che col governo della cosa pubblica vuol raggiungere, e tende a profittare del momento per accrescere un potere fatto di forza, muscoli, influenza sulle menti, sulla società, sull’informazione, addirittura sul comportamento etico di ciascuno. La vocazione ad accentrare e privatizzare il potere mal tollera le regole, i contropoteri, financo l’opposizione. In Italia si finge addirittura un’unità nazionale che nessun esito elettorale ha sancito. In Germania la Grande Coalizione è nata nelle urne. Da noi strega e corrode le menti, delegittimando chi vorrebbe, classicamente, fare opposizione.
Eppure solo uno spazio pubblico aperto a opinioni diverse permette di sventare i pericoli di uno Stato straripante: uno spazio nel quale a un potere si contrapponga un altro potere, alla maggioranza faccia fronte la minoranza, con la calma che nasce da una lunga storia della democrazia. A questo compito non sono preparate né le destre, influenzate per decenni dal fondamentalismo del mercato, né le sinistre immerse nello sforzo di tagliare le proprie radici stataliste. Ambedue sono figlie del neo-liberismo e del caos che ha generato. Ambedue dovranno affrontare la crisi ripensando il potere, i suoi fini, i suoi limiti.
C’è bisogno di un potere calmo, non rivoluzionario, per diminuire i rischi di uno Stato troppo forte, nocivo all’economia come ai cittadini. Chi sa i rischi dello strapotere non solo accetta ma favorisce la moltiplicazione di contropoteri, di controlli nazionali, europei, se possibile mondiali. Ma può farlo a due condizioni: deve dire i fini del potere politico, e sapere cosa significa senso dello Stato.
Un potere che si proponga fini alti non passa il tempo a criticare il politicamente corretto e gli ideali di giustizia sociale della sinistra. Attività simili perdono ogni senso: valevano quando si credeva che il mercato si regolasse da solo. Lottando contro il politicamente corretto, i fondamentalisti del mercato hanno scoperchiato tabù ma hanno anche finito con lo svilire i fini della politica: fini come la convivenza tra diversi, l’accoglienza dello straniero, la protezione dei bisognosi. Il potere - che dovrebbe essere un mezzo - è divenuto un fine in sé: nichilisticamente, sostiene Gustavo Zagrebelsky.
Non meno importante è la seconda condizione: che concerne il senso dello Stato, delle istituzioni. Un senso che non combacia sempre con lo Stato-nazione. Oggi, il senso dello Stato tocca averlo sia nazionalmente, sia in Europa: e non per ideologia sovrannazionale, come scrive sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia. L’Europa federale già esiste in numerosi campi (frontiere, moneta, commercio, concorrenza, agricoltura, spazi giuridici crescenti). Siccome nessuna mente, neanche la più fine, può dire il domani, nessuno può escludere che in futuro il senso delle istituzioni diventi senso dell’istituzione-Europa. Jean Monnet lo sosteneva agli esordi dell’unione: tutto sta a creare istituzioni comuni, perché «solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge»: «Niente esiste senza le persone, niente dura senza le istituzioni». Nell’odierna crisi finanziaria è evidente: ogni Stato si difende da solo, minacciando col protezionismo l’Europa e se stesso contemporaneamente. Non esiste il sacrificio degli interessi «nazionali» sull’altare europeo, perché i due interessi coincidono più che mai. D’altronde gli europei lo intuiscono: molti irlandesi già si son pentiti del no al Trattato di Lisbona, molti Stati euroscettici sull’orlo della bancarotta riscoprono l’Unione.
In Italia cominciano a farsi sentire voci, anche a destra, che vogliono liberarsi dalla rivoluzione neo-liberista e neo-nazionalista contro le tavole delle leggi. Tremonti invoca regole mondiali e discipline europee, contro il caos del mercatismo. Gianfranco Fini si muove nello stesso senso. Giuseppe Pisanu, ex ministro dell’Interno, mette in guardia il governo, in un’intervista a Metropoli, contro una politica che ignora le regole, e contro lo Stato che si fa invadente, repressivo. Invita quest’ultimo a «governare con sapienza l’immigrazione», a non punirla attizzando cupi risentimenti negli immigrati, a non spezzare «l’unitarietà e l’efficienza del nostro sistema di sicurezza» con le ronde private.
Lo Stato diventa sempre più forte e proprio per questo sono importanti la costituzione, le regole, l’Europa. Solo custodendole si può dire, come Obama giovedì al Parlamento: lo Stato interverrà nell’economia senza danneggiarla ma non rinuncerà a dire la sua, e non mollerà: We are not quitters.
Il discredito dell’Italia
di Carlos Nadal
22/02/2009 para La Vanguardia, Barcelona
(traduzione dallo spagnolo di José F. Padova) *
http://www.lavanguardia.es/premium/edicionimpresa/20090222/53645085060.html
Le dimissioni di Veltroni come capo dell’opposizione riconfermano sempre più Berlusconi nel godimento del potere
L’Italia va male. Le cifre della disoccupazione, della produzione, del deficit sono negative. Si attivano invece i bassi istinti della xenofobia. In compenso, per Berlusconi le cose vanno bene. Questo visibile contrasto dà la misura di un evidente degrado nazionale. Non soltanto economico, ma ugualmente politico. E, in fondo, morale. È una significativa coincidenza che nello stesso mercoledì scorso, mentre la stampa pubblicava la rinuncia di Walter Veltroni come capo del Partito Democratico, e quindi dell’opposizione, sui media compariva la notizia che un tribunale di Milano ha condannato l’avvocato britannico David Mills a quattro anni e sei mesi di carcere per aver accettato una mazzetta di 600.000 dollari allo scopo di prestare falsa testimonianza a favore di Berlusconi per atti commessi negli anni ’90.
Da una parte il Cavaliere assiste compiaciuto alla sostituzione del capo e conseguente tracollo del principale componente dell’opposizione, il Partito Democratico. Dall’altra, contempla, indenne, quanto l’avvocato Mills, che fu indotto a commetterlo mediante il pagamento sottobanco precedentemente fattogli dal Cavaliere , paghi con pena considerevole il suo delitto di falsa testimonianza [ndr.: e corruzione].
Dal muro di protezione il capo del governo partecipa come un tranquillo spettatore ai due eventi. Esce fortemente rafforzato nel suo potere per l’autodistruzione dell’opposizione parlamentare del centrosinistra. E vede un grave fatto giudiziario, nel quale dovrebbe rimanere coinvolto, risolversi senza danneggiarlo neppure minimamente. Nel primo caso, Berlusconi non ha avuto bisogno di muovere nemmeno un dito. È stato lo stesso capo del principale partito d’opposizione che gli ha servito su un vassoio la propria testa, come un san Giovanni Battista che si fosse decollato da sé per offrirla a Erode.
E neppure la condanna a carico di Mills lo sfiora, perché si prese cura molto tempo fa di fare approvare dal Parlamento una legge che concede l’impunità alle quattro più alte cariche dello Stato: il Presidente della Repubblica, il primo ministro e i presidenti di Camera e Senato.
Pochi giorni fa abbiamo finito di assistere allo spettacolo deplorevole di come il Capo del governo italiano ha manipolato indecorosamente il delicato caso di Eluana Englaro, la donna che si trovava da 17 anni in condizioni di coma irreversibile, assistita artificialmente. Berlusconi si intromise nel dibattito sulla legittimità di toglierle nutrizione e idratazione, per porre fine a una situazione totalmente patetica e in molti sensi disumana. Berlusconi lo fece mediante un decreto urgente che pretendeva passare sopra al criterio espresso chiaramente dal Tribunale Supremo, che stabiliva essere lecita l’interruzione dell’alimentazione forzata a Eluana.
Pretendendo di conseguenza di privare di validità il veto frapposto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, contro il decreto governativo. Si trattava di sfruttare a favore del Cavaliere il movimento emozionale contro l’eutanasia e di collocarsi al fianco della Gerarchi cattolica e vaticana. Era un giocare senza scrupoli con sentimenti e convinzioni di grande radicamento, con la prospettiva di ultima istanza di andare a una riforma costituzionale che riduca i poteri del Presidente della Repubblica e stabilisca un regime presidenziale nella persona del Capo dell’Esecutivo, naturalmente Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere conseguirà o no questo risultato. Però per ora gli si apre la via verso la permanenza senza ostacoli nell’uso del potere. Il popolo italiano lo vota con maggioranza. Lo fece nelle elezioni generali dell’aprile 2008, nelle amministrative parziali del Friuli Venezia Giulia e Foggia e nelle municipali di Roma e Brescia; in Sicilia, Trento e negli Abruzzi; e ultimamente in Sardegna, causando le dimissioni di Walter Veltroni.
Che succede in Italia? Perché vi è questo favore elettorale verso colui che ha ammassato, Dio sa come, la maggiore ricchezza del Paese, il personaggio che è sfuggito in numerose occasioni alla giustizia, sottraendosi reiteratamente all’obbligo di dimostrare la propria innocenza, il provocatore, il disinvolto populista che maneggia la pubblica opinione servendosi della proprietà dei principali mezzi audiovisivi di comunicazione?
Evidentemente le divisioni e debolezze dell’opposizione sono clamorose. Il suo partito principale, attualmente il Partito Democratico, proviene, nel suo nucleo principale, dall’antico e potente Partito Comunista ed è passato attraverso un lungo e continuo processo di purificazione e metamorfosi con il successivo cambio di sigle, come se non trovasse una collocazione sicura, perdendo in ogni cambio molti dei suoi motivi di credibilità. Diverse correnti, eredi del grande Partito Comunista originario o provenienti dai resti di ciò che fu la Democrazia Cristiana (DC), costituiscono importanti gruppi di opposizione minoritaria e pure in perpetua discordia.
Tuttavia il motivo per il quale Berlusconi ha raccolto in definitiva i vantaggi dell’alluvione che seguì all’operazione giudiziaria Mani Pulite, di fatto il seppellimento di un regime, occorre cercarlo in qualcosa di più profondo, nella miscela generalizzata di scetticismo, cinico realismo e degrado progressivo di una scala di valori affidabili, in un’Italia che si sta trasformando nell’anello screditato dell’Unione Europea.
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* Il Dialogo, Martedì 24 Febbraio,2009 Ore: 13:50