[...] Il mio appello a questi colti mistificatori è: continuare a seppellire sotto un oceano di menzogne, di ipocrisia, sotto l’indifferenza allo strazio infinito di un popolo, sotto la vostra paura o la vostra convenienza, la grottesca sproporzione fra il torto di Israele e quello palestinese, causa e causerà ancora morti, agonie, inferno in terra per esseri umani come noi, palestinesi e israeliani. Sono più di cento anni che il nostro mondo li sta umiliando, tradendo, derubando, straziando, con Israele come suo sicario. Sono 60 anni che chiamiamo quelle vittime “terroristi” e i terroristi “vittime”. Questo è orribile, contorce le coscienze. Non ci meravigliamo poi se i palestinesi e i loro sostenitori nel mondo islamico finiscono per odiarci. Dio sa quanta ragione hanno, cari ’intellettuali’ [...]
IL TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI
di Paolo Barnard
Riprendiamo questo articolo dal sito http://www.paolobarnard.info/. Lo riprendiamo perchè siamo profondamente convinti che sia necessario un franco dibattito su ciò che sta accadendo in Medio Oriente se vogliamo che da una situazione di guerra si passi ad una situazione di pace. E come nostro costume non censuriamo nessuna opinione che si muova verso la pace. *
Marco Travaglio ha appena scritto un commento su Gaza, diramato dalla sua casa editrice Chiarelettere, che inizia così: “Israele non sta attaccando i civili palestinesi. Israele sta combattendo un’organizzazione terroristica come Hamas che, essa sì, attacca civili israeliani”. Bene.
Il compianto Edward Said, palestinese e docente di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York, scrisse anni fa un saggio intitolato “The Treason of the Intellectuals” (il tradimento degli intellettuali). Si riferiva alla vergognosa ritirata delle migliori menti progressiste d’America di fronte al tabù Israele. Ovvero come costoro si tramutassero nelle proverbiali tre scimmiette - che non vedono, non sentono, non parlano - al cospetto dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra che il Sionismo e Israele Stato avevano commesso e ancora commettono in Palestina, contro un popolo fra i più straziati dell’era contemporanea.
E di tradimento si tratta, senza ombra di dubbio, e cioè tradimento della propria coscienza, delle proprie facoltà intellettive, e del proprio mestiere. Gli intellettuali infatti hanno a disposizione, al contrario delle persone comuni, ogni mezzo per sapere, per approfondire. Ma nel caso dei 60 anni di conflitto israelo-palestinese, con la mole schiacciate e autorevole di documenti, di prove e di testimonianze che inchiodano lo Stato ebraico, non sapere e non pronunciarsi può essere solo disonestà e vigliaccheria.
Poiché in quella tragedia la sproporzione fra i rispettivi torti è così colossale che non riconoscere nel Sionismo e in Israele un “torto marcio”, una colpa grottescamente e atrocemente superiore a qualsiasi cosa la parte araba abbia mai fatto o stia oggi facendo, è ignobile.
E’ un tradimento della più elementare pietas, del cuore stesso dei Diritti dell’Uomo e della legalità moderna. E’ complicità, sì, com-pli-ci-tà nei crimini ebraici in Palestina. Leggete più sotto.
I traditori nostrani abbondano, particolarmente nelle fila dell’ala ‘progressista’. Marco Travaglio guida oggi il drappello, che vede Furio Colombo, Gad Lerner, Umberto Eco, Adriano Sofri, Gustavo Zagrebelsky, Walter Veltroni, Davide Bidussa et al., affiancati dell’instancabile lavoro di falsificazione della cronaca di tutti i corrispondenti a Tel Aviv delle maggiori testate italiane. E ci si chiede: perché lo fanno? Personalmente non mi interessa la risposta, e non voglio neppure addentrarmi in ipotesi contorte del tipo ‘il potere della lobby ebraica’, la carriera, o simili.
Ciò che conta è il danno che costoro causano, che è, si badi bene, superiore a quello delle armi, delle torture, delle pulizie etniche, del terrorismo. Molto superiore.
Perché una cosa sia chiara a tutti: l’unica speranza di porre fine alla barbarie in Palestina sta nella presa di posizione decisa dell’opinione pubblica occidentale, nella sua ribellione alla narrativa mendace che da 60 anni permette a Israele di torturare un intero popolo innocente e prigioniero nell’indifferenza del mondo che conta, quando non con la sua attiva partecipazione. Ma se gli intellettuali non fanno il loro dovere di denuncia della verità, se cioè non sono disposti a riconoscere ciò che l’evidenza della Storia gli sbatte in faccia da decenni, e se non hanno il coraggio di chiamarla pubblicamente col suo nome, che è: Pulizia Etnica dei palestinesi, mai si arriverà alla pace laggiù. E l’orrore continua. Essi, di quegli orrori, hanno una piena e primaria corresponsabilità.
L’evidenza della Storia di cui parlo è in primo luogo: che il progetto sionista di una ‘casa nazionale’ ebraica in Palestina nacque alla fine del XIX secolo con la precisa intenzione di cancellare dalla ‘Grande Israele’ biblica la presenza araba, attraverso l’uso di qualsiasi mezzo, dall’inganno alla strage, dalla spoliazione violenta alla guerra diretta, fino al terrorismo senza freni.
I palestinesi erano condannati a priori nel progetto sionista, e lo furono 40 anni prima dell’Olocausto. Quel progetto è oggi il medesimo, i metodi sono ancor più sadici e rivoltanti, e Israele tenterà di non fermarsi di fronte a nulla e a nessuno nella sua opera di Pulizia Etnica della Palestina. Questo accadde, sta accadendo e accadrà. Questo va detto, illustrato con la sua mole schiacciante di prove autorevoli, va gridato con urgenza, affinché il pubblico apra finalmente gli occhi e possa agire per fermare la barbarie.
In secondo luogo: che la violenza araba-palestinese, per quanto assassina e ingiustificabile (ma non incomprensibile), è una reazione, REAZIONE, disperata e convulsa, a oltre un secolo di progetto sionista come sopra descritto, in particolare a 60 anni di orrori inflitti dallo Stato d’Israele ai civili palestinesi, atrocità talmente scioccanti dall’aver costretto la Commissione dell’ONU per i Diritti Umani a chiamare per ben tre volte le condotte di Israele “un insulto all’Umanità” (1977, 1985, 2000).
La differenza è cruciale: REAGIRE con violenza a violenze immensamente superiori e durate decenni, non è AGIRE violenza. E’ immorale oltre ogni immaginazione invertire i ruoli di vittima e carnefice nel conflitto israelo-palestinese, ed è quello che sempre accade. E’ immorale condannare il “terrorismo alla spicciolata” di Hamas e ignorare del tutto il Grande terrorismo israeliano.
Le prove. Non posso ricopiare qui migliaia di documenti, citazioni, libri, atti ufficiali e governativi, rapporti di intelligence americana e inglese, dell’ONU, delle maggiori organizzazioni per i Diritti Umani del mondo, di intellettuali e politici e testimoni ebrei, e tanto altro, che dimostrano oltre ogni dubbio quanto da me scritto. Quelle prove sono però facilmente consultabili poiché raccolte per voi e rigorosamente referenziate in libri
come “La Pulizia Etnica della Palestina”, di Ilan Pappe, Fazi ed.,
o “Pity The Nation”, di Robert Fisk, Oxford University Press,
e “Perché ci Odiano”, Paolo Barnard, Rizzoli BUR, fra i tantissimi.
O consultabili nei siti
http://www.btselem.org/index.asp,
http://www.jewishvoiceforpeace.org,
http://zope.gush-shalom.org/index_en.html,
http://www.kibush.co.il,
http://rhr.israel.net,
http://otherisrael.home.igc.org.
O ancora leggendo gli archivi di Amnesty International o Human Rights Watch, o ne “La Questione Palestinese” della libreria delle Nazioni Unite a New York.
E torno al “tradimento degli intellettuali” nostrani. Vi sono aspetti di quel fenomeno che sono fin disperanti. Il primo è l’ignoranza in materia di conflitto israelo-palestinese di alcuni di quei personaggi, Marco Travaglio per primo; un’ignoranza non scusabile, per le ragioni dette sopra, ma anche ‘sospetta’ in diversi casi.
Un secondo aspetto è l’ipocrisia: l’evidenza di cui sopra è soverchiante nel descrivere Israele come uno Stato innanzi tutto razzista, poi criminale di guerra, poi terrorista, poi Canaglia, poi persino neonazista nelle sue condotte come potere occupante.
Ricordo il 17 novembre 1948, quando Aharon Cizling, allora ministro dell’agricoltura della neonata Israele, sorta sui massacri dei palestinesi innocenti, disse: “Adesso anche gli ebrei si sono comportati come nazisti, e tutta la mia anima ne è scossa”.
Ricordo Albert Einstein, che sul New York Times del dicembre 1948 definì l’emergere delle forze di Menachem Begin (futuro premier d’Israele) in Palestina come “un partito fascista per il quale il terrorismo e la menzogna sono gli strumenti”.
Ricordo Ephrahim Katzir, futuro presidente di Israele, che nel 1948 mise a punto un veleno chimico per accecare i palestinesi, e ne raccomandò l’uso nel giugno di quell’anno.
Ricordo Ariel Sharon, che sarà premier, e che nel 1953 fu condannato per terrorismo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 101, dopo che ebbe rinchiuso intere famiglie palestinesi nelle loro abitazioni facendole esplodere.
Ricordo l’ambasciatore israeliano all’ONU, Abba Eban, che nel 1981 disse a Menachem Begin: “Il quadro che emerge è di un Israele che selvaggiamente infligge ogni possibile orrore di morte e di angoscia alle popolazioni civili, in una atmosfera che ci ricorda regimi che né io né il signor Begin oseremmo citare per nome”. Ricordo la risoluzione ONU A/RES/37/123, che nel dicembre del 1982 definì il massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila sotto la “personale responsabilità di Ariel Sharon” un “atto di genocidio”.
Ricordo le parole dello Special Rapporteur dell’ONU per i Diritti Umani, il sudafricano John Dugard, che nel febbraio del 2007 scrisse che l’occupazione israeliana era Apartheid razzista sui palestinesi, e che Israele doveva essere processata dalla Corte di Giustizia dell’Aja.
Ricordo le parole dell’intellettuale ebreo Norman G. Finkelstein, i cui genitori furono vittime dell’Olocausto: “Ma se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti, devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti.”
Ricordo che esistono prove soverchianti che Israele usa bambini come scudi umani; che lascia morire gli ammalati ai posti di blocco; che manda i soldati a distruggere i macchinari medici nei derelitti ospedali palestinesi; che viola dal 1967 tutte le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga; che ammazza i sospettati senza processo e con loro centinai di innocenti; che punisce collettivamente un milione e mezzo di civili esattamente come Saddam Hussein fece con le sue minoranze shiite; che massacra 19.000 o 1.000 civili a piacimento in Libano (1982, 2006) e poi reclama lo status di vittima del ‘terrorismo’.
Ricordo che il Piano di Spartizione della Palestina del 1947 fu rigettato da Ben Gurion prima ancora che l’ONU lo adottasse, e che esso privava i palestinesi di ogni risorsa importante (dai Diari di Ben Gurion).
Ricordo
che la guerra arabo-israeliana del 1948 fu una farsa dove mai l’esercito ebraico fu in pericolo di sconfitta, tanto è vero che Ben Gurion diresse in quei mesi i suoi soldati migliori alla pulizia etnica dei palestinesi (sempre dai Diari di Ben Gurion);
che la guerra dei Sei Giorni nel 1967 fu un’altra menzogna, dove ancora Israele sapeva in anticipo di vincere facilmente “in 7 giorni”, come disse il capo del Mossad Meir Amit a McNamara a Washington prima delle ostilità, e mentre l’egiziano Nasser tentava disperatamente di mediare una pace (dagli archivi desecretati della Johnson Library, USA);
che gli incontri di Camp David nel 2000 furono un inganno per distruggere Arafat, come ho dimostrato in “Perché ci Odiano” intervistando i mediatori di Clinton;
che i governi di Israele hanno redatto 4 piani in sei anni per la distruzione dell’Autorità Palestinese sancita dagli accordi di Oslo mentre fingevano di volere la pace (nomi: Fields of Thorns, Dagan, The Destruction of the PA, ed Eitam);
che la tregua con Hamas che ha preceduto l’aggressione a Gaza fu rotta da Israele per prima il 4 novembre del 2008 (The Guardian, 5/11/08 - Ha’aretz, 30/12/08), con l’assassino di 6 palestinesi. E queste sono solo briciole della mole di menzogne che ci hanno raccontato da sempre sulla ’epopea’ sionista.
Ricordo infine Ben Gurion, il padre di Israele, che lasciò scritto: “Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba”. E ancora: “C’è bisogno di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti”. Quell’uomo pronunciò quelle agghiaccianti parole 20 anni prima della nascita dell’OLP, più di 30 anni prima della nascita di Hamas, 50 anni prima dell’esplosione del primo razzo Qassam su Sderot in Israele.
Ricordo ai nostri ‘intellettuali’ di andarle a leggere queste cose, che sono in libreria accessibili a tutti, prima di emettere sentenze.
E l’ipocrisia sta nel fatto che questi negazionisti di tali orrori storici possono scrivere le enormità che scrivono sulla tragedia di Gaza, sulla Pulizia Etnica dei palestinesi, e possono dichiararsi filo-israeliani “appassionati” (Travaglio) senza essere ricoperti di vergogna dal mondo della cultura, dai giornalisti e dai politici come lo sarebbe chiunque negasse in pubblico l’orrore patito per decenni dalle vittime dell’Apartheid sudafricana, o i massacri di pulizia etnica di Srebrenica e in tutta la ex Jugoslavia.
Il mio appello a questi colti mistificatori è: continuare a seppellire sotto un oceano di menzogne, di ipocrisia, sotto l’indifferenza allo strazio infinito di un popolo, sotto la vostra paura o la vostra convenienza, la grottesca sproporzione fra il torto di Israele e quello palestinese, causa e causerà ancora morti, agonie, inferno in terra per esseri umani come noi, palestinesi e israeliani. Sono più di cento anni che il nostro mondo li sta umiliando, tradendo, derubando, straziando, con Israele come suo sicario. Sono 60 anni che chiamiamo quelle vittime “terroristi” e i terroristi “vittime”. Questo è orribile, contorce le coscienze. Non ci meravigliamo poi se i palestinesi e i loro sostenitori nel mondo islamico finiscono per odiarci. Dio sa quanta ragione hanno, cari ’intellettuali’.
Paolo Barnard
Gennaio 2009
* Il Dialogo, Lunedì 12 Gennaio,2009 Ore: 16:45
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
UN DETTAGLIO, MA NON DA POCO (DI PAOLO BARNARD)
ISRAELE E PALESTINA... LA TERRA PROMESSA. Un’indicazione (1930) di Sigmund Freud
Il sionismo non è l’ebraismo!!!
Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE
"FORZA ISRAELE" ... E ISRAELE.
"FORZA ITALIA"... E ITALIA. IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI
1133 sono i morti palestinesi a tre settimane dall’inizio dell’operazione militare israeliana «Piombo Fuso»
L’inutile strage
di Pietro Ingrao (l’Unità, 17.01.2009)
L’inutile strage! quando, chi pronunciò queste parole? Non lo ricordo Bene. Forse - mi pare - fu dinanzi alla prima, grande catastrofe bellica di questo secolo rovente. Come esse mi tornano imperiose alla mente dinanzi agli esiti dell’attacco israeliano a Gaza!
Due dati mi sembrano certi e irrevocabili. Israele ha dato un colpo durissimo ad Hamas, e ha riaffermato la sua forza egemone nel Medio Oriente e sulla scena del mondo.
Altrettanto certo però mi sembra che essa non solo ha suscitato nuovi ed incancellabili odi verso di lei nel mondo arabo, ma ha riacceso dubbi, riserve e anche rilevanti proteste di massa nell’universo occidentale, e - si potrebbe anche dire - nell’aspro globo in cui viviamo.
Tanti meglio di me possono fare l’analisi e il conto puntuale di questi eventi: e delle vittime e dei vittoriosi.
Qualcuno potrà anche divertirsi a calcolare la quantità delle bombe messe in campo, e chi è stato più capace nell’urto e chi meno, e chi porterà a casa tanto di più o di meno.
Per mio conto mi basta annotare che né l’uno né l’altro competitore potrà sicuramente cantare vittoria e levare inni a se stesso. Forse di una sola cosa possiamo essere sicuri: che in questi giorni - dinanzi all’attacco a Gaza - è venuta crescendo la carica di odio seminato sulla vita di questo nostro globo, nel momento stesso in cui torniamo a leggere sui giornali quelle parole: crisi mondiali. E a me questo grumo di eventi sembra una assurda follia.
E allora a qualcuno - a me per esempio - torna a balzare nella mente quella parola che a tanti pare assurda: pacifismo. Essa che sembra a tanti un residuo inutile, un retaggio di tempi sbagliati, e soprattutto una sciocca illusione. Che strano è questo mondo nostro in cui ci sono ancora dei "pazzi" che sperano di bandire la guerra... fra i pazzi c’è anche chi scrive queste righe.
E allora io mi rivolgo a quelli che sono lontani da me; e invoco: per favore spiegatemi bene. Persuadetemi. Chiaritemi perché sono pazzo, se torno ancora oggi a evocare quella parola lontanissima, ma ostinata che mi pulsa nella mente: sì, pacifismo.
"E allora io mi rivolgo a quelli che sono lontani da me; e invoco: per favore spiegatemi bene. Persuadetemi. Chiaritemi perché sono pazzo, se torno ancora oggi a evocare quella parola lontanissima, ma ostinata che mi pulsa nella mente: sì, pacifismo."
Certamente io sono vicina a Lei eppure sento la stessa esigenza di poter sperare in qualcosa di nuovo, in qualcosa di inedito; perchè una parola come pace rievoca solo vecchi ricordi sbiaditi che ineggiano all’amore rivoluzionario degli anni ’60: e neppure quelli ho mai vissuto, ma ho saputo cogliere ciò che mi è stato proposto con quella tipica superficialità che si vuole insegnare a noi occidentali (noi, facili conquiste della società contemporanea), proponendo così una pace coltivata grazie all’amore per il prossimo. Eppure provo grandi difficoltà ad accettare il concetto di un amore che non ha le fondamenta solide per presumere un successivo dono : il rispetto o quantomeno la tolleranza del proprio simile (perchè se non si può aspirare a qualcosa di meglio, ci si accontenta...); senza guardare alle differenze, si potrebbe magari aspirare alle somiglianze che ci accomunano e provare a guardare meglio l’altro per accorgerci che non avremmo mai il coraggio di far del male a se stessi.
E se in questo momento c’è qualcuno che sta combattendo una guerra contro se stesso, c’è anche chi alla richiesta d’aiuto delle vittime non risponde perchè si crede escluso.
Certo se invece di guardare con diffidenza chi manifesta in piazza perchè colpito direttamente dalla tragedia si unisse qualcuno che possa rispondere a Travaglio con lo stesso tono beffardo che lo accompagna nelle sue lezioni di sofismo contro chi non può rispondere perchè penalizzato dalla lingua (e non perchè non sia consapevole di quello che dice) si informerebbe l’Italia con armi pari.
E a chi della mia generazione dice di non intendersi di politica chiedo soltanto l’appello alla propria coscienza ( s. f. capacità dell’uomo di rendersi conto di sè e del mondo esterno) che certamente non è passiva alla questione se smessa di essere sedata.
RIFLESSIONE
MARTIN BUBER, UN RIFERIMENTO PER LA PACE
di GIORGIO GOMEL
Per la pace tra ebrei e arabi
[Da "Keshet" n. 3-4 del novembre-dicembre 2008 riprendiamo il seguente articolo dal titolo "Il pensiero di Martin Buber, ieri e oggi" (1) e il sottotitolo "Per la pace tra ebrei e arabi". Ringraziamo di cuore l’autore e il direttore della rivista per avercelo messo a disposizione]
Il Leitmotiv di Buber fin dal 1898, quando appena ventenne aderi’ all’Organizzazione Sionistica Mondiale, fu una costante attenzione alla "questione araba". Il fatto cioe’ che la Palestina, che gli ebrei ritenevano non soltanto il luogo di rifugio e di riscatto dalle persecuzioni ma anche la loro antica patria, era nello stesso tempo il luogo di residenza di una popolazione indigena araba che, soffrendo di condizioni di soggezione coloniale sotto l’impero ottomano prima e poi sotto il mandato britannico, aspirava anch’essa a una identita’ nazionale indipendente.
La singolarita’ di Buber va al di la’ della sensibilita’ etica rispetto alla questione araba, ma si rivela piuttosto nelle sue implicazioni politiche. Il suo messaggio si rivolgeva soprattutto alla leadership sionista, che tendeva a porre in secondo piano la questione araba perche’ intendeva innanzitutto risolvere il problema della liberta’ dell’immigrazione ebraica in Palestina e dell’edificazione di una struttura statuale, nelle condizioni di estrema fragilita’ dell’Yishuv (2). Lo stesso Ben Gurion implorava intorno al 1930 i compagni del movimento sionista di abbandonare il miope "sacro egoismo" e di capire che "per centinaia di anni gli arabi sono vissuti in Palestina, i loro padri e i padri dei loro padri... La Palestina e’ il loro Paese, dove essi intendono vivere in futuro... Questa consapevolezza deve essere fondamento della comprensione e coesistenza fra noi e gli arabi".
Ben Gurion stesso e altri leader sionisti erano consapevoli che l’autodeterminazione degli ebrei in Palestina sarebbe entrata in conflitto con le analoghe aspirazioni degli arabi; ma ritenevano che bisognava soprattutto affermare il diritto all’immigrazione ebraica da un’Europa antisemita: un giorno si sarebbe conseguita una maggioranza ebraica in Palestina e gli arabi l’avrebbero in qualche modo accettata.
Invece Buber insistette molto sul tentativo di comprendere il timore degli arabi di un dominio ebraico, di uno Stato che si formasse con una maggioranza ebraica, e che ne derivasse l’usurpazione della loro terra; per lui era essenziale cercare di conciliare i diritti e le volonta’ dei due popoli. Gli ebrei, proprio in quanto sono coloro che immigrando invadono parte di quella terra, dovrebbero ricercare la fiducia degli arabi, cercare di cogliere aspetti della loro umanita’, della loro cultura, con gesti di buona volonta’ volti alla conciliazione, al dialogo. L’obiettivo sionista di conseguire una maggioranza ebraica, secondo Buber, era sbagliato perche’ avrebbe esacerbato i timori da parte degli arabi e provocato da parte loro risentimenti, reazioni, violenze.
Il pensiero di Buber appare con chiarezza in una conferenza tenuta a Berlino nell’ottobre del 1929, due mesi dopo gli eccidi arabi di Hevron e di Zefat.
Egli dice: "La nazione che e’ divenuta nostra vicina in Palestina, e che condivide un destino comune con noi, ci impone una responsabilita’ maggiore.
Niente sarebbe piu’ contraddittorio per noi di costruire una vita organizzata nella nostra comunita’ e allo stesso tempo escludere gli altri abitanti del Paese, sebbene la loro vita dipenda, come la nostra, dal futuro dello stesso Paese... Ci siamo stabiliti in Palestina accanto agli arabi, non assieme ad essi, accanto. Quando due nazioni abitano nello stesso paese, se quell’’accanto’ non diventa ’insieme’, diventa necessariamente ’contro’.
Questo e’ destinato ad accadere qui; non ci sara’ ritorno a un semplice ’accanto’. Ma malgrado i tanti ostacoli che ci sono ancora, esiste peraltro una via per raggiungere un’intesa ’accanto’. Se non conseguiamo cio’, non realizzeremo mai lo scopo del Sionismo" (3).
Negli anni successivi Buber emigra in Palestina. Nel ’42, insieme con altri, aderisce alla Lega per il riavvicinamento arabo-ebraico. Il programma della Lega era quello di fondare in Palestina uno Stato binazionale arabo-ebraico in cui non ci sarebbero state maggioranze e minoranze, in cui i diritti civili e politici di ebrei e arabi sarebbero stati uguali e comunemente condivisi sotto il mandato britannico. Il programma binazionale della Lega, e in particolare dell’Ichud, uno dei suoi partiti costituenti animato da Buber e Magnes, replicava quello della Lega per la pace (Brith Shalom) fondata nel 1925 da Arthur Ruppin e Gershom Sholem, cui Buber aveva aderito dalla Germania. Nel 1948, con la Dichiarazione d’indipendenza, Buber accetto’ il fatto che nascesse in Palestina uno Stato ebraico, anche se la sua polemica politica in difesa della minoranza araba e della soluzione del problema dei rifugiati palestinesi lo accompagno’ fino alla morte, nel 1965.
Quali insegnamenti validi anche per oggi si possono trarre dal pensiero di Buber? Il primo punto e’ la filosofia del dialogo, idea fondamentale di Buber anche sul piano filosofico: il rapporto con l’altro, l’altro in quanto essere pari a noi. L’insegnamento che ne traggo e’ il rifiuto della disumanizzazione del nemico, dell’avversario, perche’ questo e’ destinato inevitabilmente ad allargare il solco di ostilita’ fra gli individui e le comunita’. Ne discende il dovere del rispetto dei diritti umani e della denuncia allorche’ i diritti umani sono violati.
Noi ebrei abbiamo mancato a questo dovere etico in alcune occasioni in questi anni di quotidiano, aspro conflitto fra Israele e i palestinesi.
Anche noi ebrei diasporici, legati da sentimenti di solidarieta’ e sostegno al popolo d’Israele, non siamo sempre stati disposti a una critica schietta nei confronti di Israele quando Israele ha sbagliato violando i diritti di un altro popolo. E’ una cecita’ questa, spesso in buona fede, dettata dal retaggio delle persecuzioni subite, dal rifiuto di credere che persino noi ebrei possiamo essere soggetti di ingiustizia, da una naturale ma non per questo giustificabile indifferenza alle sofferenze altrui.
Il secondo punto e’ quello dello Stato binazionale. Sarebbe irragionevole, irrealistico parlare oggi di uno Stato binazionale unitario in Palestina.
Forse tra cento anni sara’ possibile, in un mondo che si integri politicamente ed economicamente. Come forse sara’ possibile un’Europa politicamente integrata, e’ possibile immaginare che anche nel Medio Oriente ci possa essere un’unita’ politica nella regione. Ma non e’ proponibile oggi; ne conseguirebbe un conflitto intestino fra le due comunita’, ebraica e araba, un qualcosa di simile ai Balcani... Il principio ispiratore di una soluzione negoziata del conflitto e’ invece quello della separazione, o meglio del divorzio, come disse Amos Oz molti anni fa: se non si vuole che la guerra prosegua, che ci sia un annientamento reciproco tra i due popoli, l’unica soluzione e’ quella della spartizione della Palestina storica tra i due popoli che ne contendono il possesso in virtu’ di diritti di pari dignita’.
I benefici di questo divorzio (pur con tutte le difficolta’ che si frappongono alla trattativa, e le difficolta’ che ci sono di intendersi su come dividere quella minuscola proprieta’, forse magari conservando qualcosa in condominio) eccedono largamente i costi.
E’ chiaro che per Israele il prezzo da pagare per questo divorzio sara’ molto elevato e doloroso, in termini sia materiali che politico-psicologici.
Cio’ spiega in parte la delusione per il fallimento del negoziato ben quindici anni dopo gli accordi di Oslo. I costi materiali derivano da una oggettiva disparita’ sul campo: mentre il ritiro di Israele dai territori occupati costituisce per i palestinesi un vantaggio materiale immediato, per Israele i vantaggi si misurano soltanto nel lungo termine, quando si coglieranno i frutti del consolidarsi della pace. Di qui l’insistenza giustificata di Israele soprattutto sulle misure di sicurezza, sull’esigenza di un periodo anche lungo di transizione per garantire che tali vantaggi si realizzino.
Ma anche i costi politici e psicologici saranno rilevanti per il conflitto che opporra’ una parte del Paese all’altra: i coloni e i loro sostenitori da una parte, l’opinione pubblica moderata o pacifista dall’altra. Non sappiamo quali saranno le forme e le "armi" di questo conflitto, se saranno legali o extra-legali, violente o non violente, ma esso provochera’ un solco molto lacerante nel Paese, come alcuni segni dell’estremismo di frange virulente dei coloni lasciano presagire.
D’altra parte, il costo che il ritiro dai Territori e lo sgombero delle colonie imporra’ a Israele sara’ minore del costo dello status quo, del mantenere l’occupazione, in termini di risorse, di vittime, di degrado della societa’ israeliana.
Note
1. Martin Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba, a cura di Paul Mendes-Flohr, edizione italiana a cura di Irene Kajon e Paolo Piccolella, La Giuntina, Firenze 2008.
2. In ebraico "Insediamento". Termine usato per descrivere la comunita’ ebraica in Palestina prima prima della fondazione dello Stato.
3. "Patria nazionale ebraica e politica nazionale in Palestina".
Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Arretrati in:
http://lists.peacelink.it/
Numero 702 del 16 gennaio 2009
Gaza. Guerra delle menzogne, calcoli sbagliati e la ’follia morale’ di Ehud Barak
Distrutta ma non sconfitta, cosi’ Hamas riuscira’ a vincere
di URI AVNERY (il manifesto, 13 gennaio 2009)
Quasi settant’anni fa, nel corso della seconda guerra mondiale, nella citta’ di Leningrado fu commesso un crimine efferato. Per piu’ di 70 giorni, una banda di estremisti chiamata "Armata rossa" tenne in ostaggio milioni di abitanti di quella citta’ e, cosi’ facendo, provoco’ la rappresaglia della Wehrmacht tedesca dall’interno. I tedeschi non ebbero altra alternativa, se non bombardare la popolazione e imporre un blocco totale causando la morte di centinaia di migliaia di persone. Un po’ di tempo prima, un crimine simile era stato commesso in Inghilterra. La banda di Churchill si era nascosta tra la popolazione londinese, sfruttando milioni di cittadini come scudi umani. I tedeschi furono costretti a inviare la Luftwaffe e, sebbene con riluttanza, a ridurre la citta’ in rovine. Lo chiamarono il Blitz.
Questa e’ la descrizione che apparirebbe oggi nei libri di storia - se i tedeschi avessero vinto la guerra. Assurdo? Non piu’ delle quotidiane descrizioni nei nostri media, che si ripetono fino alla nausea: i terroristi di Hamas usano gli abitanti di Gaza come "ostaggi" e sfruttano le donne e i bambini come "scudi umani". Non ci lasciano altra alternativa se non i bombardamenti massicci nei quali, con nostro profondo dolore, migliaia di donne, bambini e uomini disarmati vengono uccisi o feriti.
In questa guerra, come in qualunque guerra moderna, la propaganda gioca un ruolo fondamentale. La disparita’ tra le forze, tra l’esercito israeliano - con i suoi caccia, elicotteri da combattimento, aerei teleguidati, navi da guerra, artiglieria e tank - e le poche migliaia di combattenti di Hamas dotati di armi leggere, e’ di uno su mille, forse uno su un milione.
Nell’arena politica il gap tra loro e’ ancora piu’ ampio. Ma nella guerra di propaganda, il gap e’ quasi infinito.
Quasi tutti i media occidentali inizialmente ripetevano la versione ufficiale della propaganda israeliana. Essi ignoravano quasi del tutto le ragioni dei palestinesi, per non parlare delle dimostrazioni quotidiane del campo della pace israeliano. La logica del governo israeliano ("Lo stato deve difendere i suoi cittadini contro i razzi Qassam") e’ stata accettata come se quella fosse tutta la verita’. L’altro punto di vista, per cui i Qassam sono una rappresaglia per l’assedio che affama il milione e mezzo di abitanti della Striscia di Gaza, non e’ stato riportato affatto. Solo quando le scene orribili provenienti da Gaza hanno cominciato ad apparire sui teleschermi occidentali, l’opinione pubblica mondiale ha gradualmente iniziato a cambiare.
E’ vero, i canali televisivi occidentali e israeliani hanno mostrato solo una piccolissima frazione dei terribili eventi che appaiono 24 ore su 24 sul canale arabo al Jazeera, ma una sola immagine di un bimbo morto nelle braccia del padre terrorizzato e’ piu’ potente di mille frasi elegantemente costruite dal portavoce dell’esercito israeliano. E alla fine e’ decisiva.
La guerra - ogni guerra - e’ il regno delle menzogne. Che si chiami propaganda o guerra psicologica, tutti accettano l’idea che sia giusto mentire per un paese. Chiunque dica la verita’ rischia di essere bollato come traditore. Il problema e’ che la propaganda e’ convincente per lo stesso propagandista. E dopo che ci si e’ convinti che una bugia e’ verita’, e la falsificazione realta’, non si riesce piu’ a prendere decisioni razionali.
Un esempio di questo fenomeno riguarda quella che finora e’ stata l’atrocita’ piu’ scioccante di questa guerra: il bombardamento della scuola dell’Onu Fakhura, nel campo profughi di Jabaliya. Immediatamente dopo che esso era stato conosciuto in tutto il mondo, l’esercito ha "rivelato" che i combattenti di Hamas avevano sparato con i mortai da un punto vicino all’ingresso della scuola. Poco tempo dopo, il militare che aveva mentito ha dovuto ammettere che la foto aveva piu’ di un anno. In breve: una falsificazione. In seguito l’ufficiale bugiardo ha affermato che avevano "sparato ai nostri soldati da dentro la scuola". Dopo appena un giorno, l’esercito ha dovuto ammettere dinanzi al personale Onu che anche quella era una menzogna. Nessuno aveva sparato da dentro la scuola; nella scuola non c’erano combattenti di Hamas: era piena di profughi terrorizzati. Ma l’ammissione ormai non faceva quasi piu’ differenza. A quel punto, il pubblico israeliano era totalmente convinto che avessero "sparato da dentro la scuola", e gli annunciatori tv lo hanno affermato come un semplice fatto.
Lo stesso e’ accaduto con le altre atrocita’. Nell’atto della morte, ogni bambino si trasformava in un terrorista di Hamas. Ogni moschea bombardata diventava istantaneamente una base di Hamas, ogni palazzina un deposito di armi, ogni scuola una postazione terroristica, ogni edificio dell’amministrazione pubblica un "simbolo del potere di Hamas". Cosi’ l’esercito israeliano manteneva la sua purezza di "esercito piu’ morale del mondo". La verita’ e’ che le atrocita’ sono un risultato diretto del piano di guerra. Questo riflette la personalita’ di Ehud Barak - un uomo il cui modo di pensare e le cui azioni sono una chiara esemplificazione di quella che viene chiamata "follia morale", un disturbo sociopatico.
Il vero scopo (a parte quello di farsi eleggere alle prossime elezioni) e’ porre fine al governo di Hamas nella Striscia di Gaza. Nell’immaginazione di chi ha pianificato la guerra, Hamas e’ un invasore che ha ottenuto il controllo di un paese straniero. Naturalmente la realta’ e’ completamente diversa. Il movimento di Hamas ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle elezioni democratiche che si sono svolte in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. Ha vinto perche’ i palestinesi erano giunti alla conclusione che l’atteggiamento pacifico di Fatah non avesse ottenuto nulla da Israele - ne’ un congelamento degli insediamenti, ne’ il rilascio dei prigionieri, ne’ un qualunque passo significativo verso la fine dell’occupazione e la creazione dello stato palestinese. Hamas e’ profondamente radicato nella popolazione - non solo come movimento di resistenza che combatte l’occupante, come l’Irgun e il Gruppo Stern in passato - ma anche come organismo politico e religioso che fornisce servizi sociali, scuola e sanita’. Dal punto di vista della popolazione, i combattenti di Hamas non sono un organismo straniero, ma figli di ogni famiglia della Striscia e delle altre regioni palestinesi. Essi non si "nascondono dietro la popolazione": la popolazione li vede come i suoi unici difensori.
Percio’, l’intera operazione si basa su presupposti errati. Trasformare la vita in un inferno sulla terra non fa insorgere la popolazione contro Hamas ma, al contrario, essa si stringe dietro Hamas e rafforza la propria determinazione a non arrendersi. La popolazione di Leningrado non si sollevo’ contro Stalin, piu’ di quanto i londinesi non si sollevarono contro Churchill.
Chi da’ l’ordine di una simile guerra, con tali metodi, in un’area densamente popolata, sa che causera’ il massacro di civili. A quanto pare, cio’ non lo ha toccato. O forse credeva che loro avrebbero "cambiato modo" e la guerra avrebbe "marchiato a fuoco la loro coscienza", per cui in futuro non oseranno resistere a Israele.
Una delle principali priorita’ per chi ha pianificato la guerra era l’esigenza di ridurre al minimo le vittime tra i soldati, sapendo che lo stato d’animo di una larga parte dell’opinione pubblica, favorevole ad essa, sarebbe cambiato se fossero giunte notizie di questo genere. E’ quanto e’ avvenuto nella prima e nella seconda guerra del Libano. Questa considerazione ha giocato un ruolo particolarmente importante perche’ l’intera guerra e’ parte della campagna elettorale. Ehud Barak, che nei primi giorni di guerra e’ salito nei sondaggi, sapeva che il suo gradimento sarebbe crollato se gli schermi televisivi si fossero riempiti di immagini di soldati morti. Percio’, si e’ fatto ricorso a una nuova dottrina: evitare perdite tra i nostri soldati mediante la distruzione totale di tutto cio’ che incontrano sulla loro strada. Per salvare un soldato israeliano si era disposti a uccidere non solo 80 palestinesi, ma anche 800. Evitare perdite dalla nostra parte e’ il comandamento principale, che sta causando un numero record di vittime civili dall’altra. Questo significa la scelta consapevole di un tipo di guerra particolarmente crudele - e questo e’ il suo tallone di Achille.
Una persona senza immaginazione, come Barak (il suo slogan elettorale: "Non un bravo ragazzo, ma un leader") non riesce a immaginare come le persone per bene, in tutto il mondo, possano reagire ad azioni come l’uccisione di intere famiglie, la distruzione di case sulla testa dei loro abitanti, le file di bambini e bambine in sudari bianchi pronti per la sepoltura, le notizie di persone lasciate a morire dissanguate per giorni perche’ non si consentiva alle ambulanze di raggiungerle, l’uccisione di dottori e medici impegnati a salvare vite umane, l’uccisione di autisti dell’Onu che trasportavano cibo. Le immagini degli ospedali, con i morti, le persone in fin di vita, i feriti stesi tutti insieme sul pavimento per mancanza di spazio, hanno scioccato il mondo.
I pianificatori pensavano di poter impedire al mondo di vedere queste immagini vietando con la forza la presenza dei media. I giornalisti israeliani - fatto riprovevole - si sono accontentati dei rapporti e delle foto forniti dal portavoce dell’esercito, come se fossero notizie autentiche, mentre loro stessi se ne restavano a miglia di distanza dai fatti. Anche ai giornalisti stranieri non e’ stato permesso di entrare, finche’ non hanno protestato e sono stati portati a fare rapidi tour in gruppi selezionati e controllati. Ma in una guerra moderna, uno sguardo cosi’ sterile e preconfezionato non puo’ escludere completamente tutti gli altri - le videocamere sono dentro la Striscia, in mezzo all’inferno, e non possono essere controllate. Al jazeera trasmette le immagini a tutte le ore, e arriva in tutte le case.
La battaglia per il teleschermo e’ una delle battaglie decisive della guerra. Centinaia di milioni di arabi dalla Mauritania all’Iraq, piu’ di un miliardo di musulmani dalla Nigeria all’Indonesia vedono le immagini e sono orripilati. Questo ha un impatto forte sulla guerra. Molti spettatori vedono i governanti dell’Egitto, della Giordania, dell’Autorita’ palestinese come collaboratori di Israele nell’attuazione di queste atrocita’ ai danni dei loro fratelli palestinesi. I servizi di sicurezza dei regimi arabi stanno registrando un fermento pericoloso tra le popolazioni. Hosny Mubarak, il leader arabo piu’ esposto per aver chiuso il valico di Rafah in faccia ai profughi terrorizzati, ha cominciato a premere sui decisori di Washington, che fino ad allora avevano bloccato tutti gli inviti a cessare il fuoco.
Questi hanno cominciato a capire che i vitali interessi americani nel mondo arabo erano minacciati e improvvisamente hanno cambiato atteggiamento - nella costernazione dei compiacenti diplomatici israeliani.
Le persone affette da follia morale non riescono a capire le motivazioni delle persone normali, e devono indovinare le loro reazioni. "Quante divisioni ha il papa?" se la rideva Stalin. "Quante divisioni hanno le persone con una coscienza?" potrebbe chiedersi oggi Ehud Barak. Ma, come stiamo vedendo, ne hanno qualcuna. Non tante. Non molto veloci a reagire.
Non molto forti e organizzate. Ma a un certo momento, quando le atrocita’ dilagano e masse di persone si uniscono per protestare, questo puo’ decidere di una guerra.
L’incapacita’ di cogliere la natura di Hamas ha causato l’incapacita’ di capire i prevedibili risultati. Non solo Israele non e’ in grado di vincere la guerra: Hamas non puo’ perderla. Anche se l’esercito israeliano dovesse riuscire a uccidere ogni combattente di Hamas fino all’ultimo uomo, anche allora Hamas vincerebbe. I combattenti di Hamas sarebbero visti come i modelli della nazione araba, gli eroi del popolo palestinese, i modelli da emulare per ogni giovane del mondo arabo. La Cisgiordania cadrebbe nelle mani di Hamas come un frutto maturo, Fatah affogherebbe in un mare di disprezzo, i regimi arabi rischierebbero di crollare.
Se la guerra dovesse finire con Hamas ancora in piedi, sanguinante ma non sconfitto, a fronte della possente macchina militare israeliana, cio’ apparirebbe come una vittoria fantastica, una vittoria della mente sulla materia.
Nella coscienza del mondo, restera’ impressa a fuoco l’immagine di Israele come un mostro lordo di sangue, pronto in qualunque momento a commettere crimini di guerra e non intenzionato a rispettare alcun freno morale. Questo avra’ gravi conseguenze a lungo termine per il nostro futuro, per la nostra posizione nel mondo, per la nostra chance di raggiungere la pace e la tranquillita’.
In fondo, questa guerra e’ anche un crimine contro noi stessi, un crimine contro lo stato di Israele.
GRUPPO MARTIN BUBER - EBREI PER LA PACE: NON SOLO TREGUA, NON SOLO FINE DELLA GUERRA, MA UN DEGNO FUTURO [Dal sito del "Gruppo Martin Buber - Ebrei per la pace" (www.martinbubergroup.org) riprendiamo il seguente intervento del 10 gennaio 2009] *
Siamo tutti qui questa sera per sostenere le popolazioni di Sderot, Ashkelon, Be’er Sheva e di tutto il sud di Israele che da anni vivono sotto il tiro dei missili di Hamas. Come tutti i governi che hanno a cuore la difesa dei propri cittadini, Israele ha cercato con l’operazione Piombo Fuso di mettere fine ad uno strazio durato troppo a lungo.
E’ bene ricordare le parole di Abraham Yehoshua, che recitano: "Non dimentichiamo che il popolo palestinese e’ il nostro vicino... e dovra’ convivere con noi nel bene e nel male". In un momento in cui tutto pare dividerli israeliani e palestinesi condividono la stanchezza di un conflitto senza fine e la consapevolezza che non saranno gli atti di forza a realizzare le loro speranze.
Non ci stancheremo di ripetere un’ovvieta’: la sicurezza dello Stato di Israele non puo’ fondarsi solo sulla forza delle armi, ma sulla piena accettazione da parte di tutti gli stati e i popoli della regione.
Noi del "Gruppo Martin Buber - Ebrei per la Pace" ci uniamo agli appelli di vasta parte degli intellettuali israeliani e di Shalom Achshav (Pace adesso) per realizzare, con l’impegno della comunita’ internazionale, una vera tregua che preluda a un accordo di lungo termine in grado di assicurare la fine delle azioni terroristiche contro Israele e l’interruzione del blocco economico che genera una situazione di emergenza umanitaria nella Striscia di Gaza. E’ di fondamentale importanza che, nell’azione legittima di autodifesa contro la violenza di Hamas, il governo e l’esercito di Israele rinnovino gli sforzi volti a distinguere nettamente fra il popolo palestinese e gli istigatori del terrorismo, colpendo i militanti ed evitando di fare vittime fra i civili.
Deve riprendere quanto prima la trattativa fra il governo di Israele e l’Autorita’ Nazionale Palestinese sulle questioni dei confini, degli insediamenti e di Gerusalemme, questioni che da troppo tempo aspettano una soluzione. Da Israele deve scaturire una seria offerta negoziale in grado di dare ai palestinesi il senso concreto che benefici tangibili nelle loro condizioni di vita si possono ottenere con il negoziato volto a un futuro di convivenza pacifica, e non con la violenza. In ultima analisi, solo la societa’ palestinese potra’ dal suo interno isolare e sconfiggere il fanatismo di Hamas.
In particolare a Gaza, la speranza di un futuro decente esige la fine del blocco economico; l’apertura dei luoghi di transito con Israele ed Egitto; un legame fisico e politico con la Cisgiordania, senza il quale uno stato palestinese degno di questo nome non potra’ mai nascere.
La pace e la sicurezza di israeliani e palestinesi in due stati in rapporto di buon vicinato sono l’una condizione dell’altra, sono un unico destino. E’ giunto il tempo per le leadership israeliana e palestinese di compiere gesti coraggiosi e definitivi. A noi tutti spetta l’impegno di concorrere a costruire le basi della convivenza e della comprensione fra i due popoli. Siamo qui questa sera per ricordarlo soprattutto a noi stessi.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 700 del 14 gennaio 2009
No es ese el camino. Israel debe dejar de asesinar a los palestinos. y de robar tierras.
Vuestro mensaje es de una hipocresia repugnante.
Hay un solo culpable en esta situacion: el Estado de Israel con su ejercito terrorista y la poblacion judia complice.
Israel desaparecera en mucho menos tiempo de lo que los mismos judios piensan. Solo se creara el Estado de Palestina, y en él, si lo desean, podran vivir los judios bajo el gobierno legitimo de Hamas.
Gaza - FERMIAMO LA STRAGE!
Rompiamo il silenzio dell’Italia!
Assisi 17 gennaio 2009
di Tavola della Pace
La strage continua da 18 giorni.
925 morti
4200 feriti
Quanti bambini, quante donne, quanti innocenti dovranno essere ancora uccisi prima che qualcuno decida di intervenire e di fermare questo massacro?
FERMIAMO LA STRAGE! Rompiamo il silenzio dell’Italia!
Sabato 17 gennaio 2009
I costruttori di pace
s’incontrano ad Assisi
per la pace in Medio Oriente
ore 10.00 Assemblea di riflessione, confronto e proposta
Cosa possiamo fare per mettere fine a questa tragedia? In che modo vogliamo impegnarci per costruire pace e giustizia in Medio Oriente?
Sede: La Cittadella di Assisi - via Ancajani 3
ore 13.30 partenza del corteo
ore 15.30 conclusione della manifestazione
Vieni anche tu!
Ulteriori informazioni e approfondimenti li trovi su
www.perlapace.it
I promotori dell’Appello "Dobbiamo fare la nostra scelta": Tavola della Pace, Coordinamento Nazionale Enti Locali per la pace e i diritti umani, Acli, Agesci, Arci, Articolo 21, Cgil, Pax Christi, Libera - Associazioni Nomi e Numeri contro le mafie, Legambiente, Associazione delle Ong italiane, Beati i Costruttori di pace, Emmaus Italia, CNCA, Gruppo Abele, Cipsi, Banca Etica, Volontari nel Mondo Focsiv, Centro per la pace Forlì/Cesena, Lega per i diritti e la liberazione dei popoli (prime adesioni, 6 gennaio 2009)
Invia subito la tua adesione alla Tavola della pace
via della viola, 1 (06100) Perugia 075.5736890 - Fax 075.5739337 segreteria@perlapace.it
GAZA: NUOVI RAID, ISRALE RAFFORZA PRESENZA
Blindati dell’esercito israeliano, supportati da mezzi aerei, hanno operato nella notte tra lunedì e martedì incursioni in tre quartieri della città di Gaza, secondo un corrispondente dell’Afp che cita testimoni. "I carri armati sono entrati più profondamente nei quartieri di Tal al-Hawa, Ajline e Zeitoun", settori periferici della città che "l’aviazione e i carri armati bombardano", ha indicato il corrispondente. I combattenti palestinesi replicano tirando colpi di mortaio, ha aggiunto, precisando che al momento non c’é alcuna informazione concernente eventuali vittime.
AMMAN SMENTISCE SPARI SU TRUPPE ISRAELE OLTRE CONFINE
AMMAN - Una fonte militare al quartier generale delle forze armate giordane ha smentito che colpi d’arma da fuoco siano stati sparati questa mattina dalla parte giordana del confine con Israele contro una pattuglia israeliana. Lo riferisce l’agenzia ufficiale Petra, secondo cui le informazioni riferite da organi di stampa, che hanno citato fonti militari israeliane, "sono prive di fondamento".
ESPLOSIONE IN UNA CASA, FERITI MILITARI ISRAELIANI
GAZA - Quattro militari israeliani sono rimasti feriti la scorsa notte a Gaza da una esplosione verificatasi all’interno di una casa. Lo ha riferito la radio militare. Uno dei feriti - un ufficiale dei paracadutisti - versa in condizioni gravi, ha aggiunto la emittente. L’edificio era stato minato nella previsione che potesse essere ispezionato dalle forze israeliane. Al suo interno è stata trovata un’altra potente carica, che è stata neutralizzata. I soldati hanno trovato anche una videocamera, ha aggiunto la radio militare. Nei giorni scorsi il portavoce militare israeliano ha diffuso immagini di interi edifici minati dai miliziani di Hamas: fra questi anche una scuola e un piccolo zoo.
HAMAS CONTRO PRESENZA FORZE INTERNAZIONALI
GAZA - La netta opposizione all’invio di forze internazionali nella striscia di Gaza è stata ribadita oggi da Ismail Radwan, uno dei dirigenti locali di Hamas. In un comunicato Radwan ribadisce che l’unico scopo di tali forze sarebbe di proteggere gli interessi di Israele. Di conseguenza Hamas le vedrebbe alla stregua di una "potenza occupante" e dunque ostili. La possibilità della dislocazione di forze internazionali sulla frontiera fra Egitto e Gaza è stata avanzata da più parti, per garantire ad Israele che in futuro non sia più possibile per Hamas contrabbandare armi dal Sinai.
ONU: RISOLUZIONE DI CONDANNA DELL’OFFENSIVA SU GAZA
GINEVRA - Riunito in sessione straordinaria a Ginevra, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che ’’condanna con forza’’ l’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza. Il testo chiede inoltre l’invio di una missione internazionale indipendente di inchiesta per indagare sulle violazioni dei diritti umani e della legge umanitaria internazionale da parte di Israele. Il testo e’ stato approvato dai 47 Paesi membri del Consiglio con 33 voti a favore, un voto contrario e 13 astensioni. I Paesi dell’Ue membri del Consiglio, tra cui l’Italia, si sono astenuti, giudicando la risoluzione squilibrata. Il Canada ha votato contro.
ISRAELE, PUGNO DI FERRO. HAMAS, VITTORIA VICINA
di Aldo Baquis
TEL AVIV - Giunta alla sua terza settimana l’operazione ’Piombo Fuso’ resta anche oggi in una fase stagnante, mentre i soldati israeliani rafforzano le posizioni attorno a Gaza City (800 mila abitanti) e sono impegnati in perlustrazioni nelle zone già occupate alla ricerca di depositi di armi e di bunker di Hamas.
"Utilizzeremo il pugno di ferro" a Gaza fintanto che Hamas continuerà a sparare razzi contro il territorio israeliano, ha detto il premier israeliano Ehud Olmert. Hamas ha ribattuto: "Siamo vicini alla vittoria". In un comunicato diffuso oggi il governo di Hamas nella Striscia di Gaza ha affermato che la "vittoria" sull’esercito israeliano è "più vicina che mai" e ha fatto sapere che non accetterà nemmeno di esaminare progetti di tregua finché Israele non avrà cessato le operazioni, non avrà ritirato le truppe e non avrà riaperto i valichi. Mentre ricompare anche il leader di Hamas: Ismail Haniyeh, in un discorso registrato trasmesso stasera dalla televisione al-Aqsa di Hamas, ha affermato che gli attacchi di Israele a Gaza non hanno spezzato Hamas.
"L’aviazione israeliana ha lanciato contro di noi 2.200 attacchi - ha esclamato Haniyeh - eppure continuiamo a lottare". Israele sostiene che Hamas sta attraversando una crisi molto grave. "Sta in pratica crollando" ha assicurato il ministro delle infrastrutture Benyamin Ben Eliezer. Secondo il premier Ehud Olmert Israele è vicino alla realizzazione di due obiettivi principali: la fine dei lanci di razzi palestinesi su Israele e il blocco del contrabbando di armi dal Sinai verso Hamas. L’Egitto - ha stimato Ben Eliezer - ha un ruolo chiave.
"Una volta che avrà stabilito che è suo interesse nazionale impedire che a Hamas giungano armi, sigillerà il confine con Gaza". Secondo Israele è appunto quello il canale utilizzato da Hamas per rifornirsi di razzi di lunga gittata, di quantità di esplosivi e di altre armi. Se la ’falla’ restasse aperta, dice Israele, in un futuro non lontano Hamas potrebbe minacciare anche Tel Aviv, distante 70 chilometri da Gaza. Un dirigente del ministero della difesa israeliano, Amos Ghilad, doveva recarsi in questi giorni al Cairo per discutere dettagli relativi alla chiusura ermetica del confine: ma per il momento ha avuto istruzione di restare a Tel Aviv. La cosa lascia pensare che una intesa sia ancora lontana.
Nel frattempo il braccio armato di Hamas continua a sparare razzi contro le città israeliane. Ne sono esplosi oggi una ventina, in particolare nelle città di Beer Sheva, Ofakim, Sderot, Ashqelon, Ashdod. Non si sono avute vittime: ma complessivamente un milione di israeliani restano anche oggi esposti alla minaccia di quei razzi. Israele ha smentito informazioni divulgate da Hamas su un presunto rapimento di un soldato israeliano da parte di miliziani palestinesi.
"Non c’é stato alcun rapimento" ha detto un portavoce militare. Hamas accusa intanto Israele di aver fatto ricorso ad armi che provocano incendi ed ustioni. Ciò sarebbe avvenuto in particolare nella zona centrale e meridionale della Striscia. Da domenica, secondo Hamas, il numero dei palestinesi uccisi dal fuoco israeliano sarebbe di circa 30. Se fra di essi vi siano miliziani (e quanti), Hamas non lo precisa. Dall’inizio dei combattimenti è stato molto restio a riferire delle proprie perdite che in Israele sono stimate in circa 360 uomini.
Fonti mediche a Gaza riferiscono da parte loro che finora nella operazione ’Piombo fuso’ sono stati uccisi 900 palestinesi. I feriti sono più di 3400, secondo le fonti. Anche oggi Israele ha interrotto, per ragioni umanitarie, i combattimenti per tre ore durante le quali sono stati inoltrati alla popolazione palestinese di Gaza 165 camion carichi di aiuti.