Per i 50 anni della rivista, un’antologia di scritti del fondatore, Ernesto Balducci, voce audace e amorevole della Chiesa conciliare: una cultura del dialogo per l’’uomo planetario’
di Enzo Bianchi *
"Il mondo e’ cambiato da allora, la mia citta’ non e’ piu’ Firenze, e’ il pianeta, ma ’Testimonianze’ resta il focolare a cui ancora mi seggo per incontrare le generazioni che si succedono e mi trasmettono l’appello delle coscienze e il respiro sempre nuovo del mondo". Cosi’ si esprimeva vent’anni fa Ernesto Balducci, nel trentennale della rivista fiorentina. Ora gli anni della rivista sono cinquanta, il mondo e’ ulteriormente cambiato, la citta’ di padre Balducci non e’ piu’ il pianeta ma la Gerusalemme celeste, eppure di quel "focolare" si sente ancora il bisogno.
La redazione di "Testimonianze" ha pensato di onorare il suo fondatore a quindici anni dalla sua scomparsa con un "Quaderno del cinquantennale" che raccoglie un’antologia dei suoi scritti, Ascoltare il respiro del mondo (a cura di Maurizio Bassetti, pp. 208, euro 13): ripercorrere oggi quelle pagine significa respirare qualcosa della "novita’" di quegli anni e riascoltare la figura profetica di Balducci che sapeva unire l’audacia evangelica a un grande amore per la chiesa.
Nata nel Natale del 1957, al finire del pontificato di Pio XII e allo scadere del primo mandato di Giorgio La Pira come sindaco di Firenze, "Testimonianze" ha saputo offrire ai suoi lettori durante il concilio e nelle stagioni successive uno strumento di approfondimento di quanto stava avvenendo nella chiesa e nella societa’ italiana, europea e mondiale e, nel contempo, ha suggerito piste per cogliere tutta la portata profetica della "novella pentecoste" del Vaticano II voluto da Giovanni XXIII. Rileggere le pagine che Balducci dedica al papa "che sta ringiovanendo, con la freschezza della sua fantasia religiosa, la nostra fede avvezza a sonnecchiare beatamente tra le cortine del formalismo" e’ un modo non solo di fare memoria di una stagione ecclesiale forse irripetibile, ma anche di essere ricondotti a una radicalita’ e una semplicita’ del messaggio evangelico che troppo spesso ci sfugge.
Proprio il percorso spirituale di padre Balducci ci mostra come, una volta affondate le radici nell’humus fecondo del vangelo, il nostro pensare, il nostro parlare e il nostro agire possono assumere le dimensioni dell’"uomo planetario", di chi e’ capace di alimentare una "cultura del dialogo", di camminare "verso un nuovo umanesimo" fino a progettare "la citta’ del domani".
Che la pubblicazione di questa antologia veda poi la luce nei mesi successivi alla scomparsa di tanti testimoni della chiesa italiana di questi decenni - penso in particolare a Luciano Martini, gia’ direttore di "Testimonianze" e discepolo di Balducci - e’ un richiamo per i credenti a saper a loro volta "rendere conto della speranza" che li abita.
Cosi’ il lettore della raccolta di scritti, che si apre con una sezione dedicata ai "grandi testimoni della fede" che si sono lasciati interpellare dalla parola di Dio e dai loro fratelli e sorelle in umanita’, la puo’ chiudere aggiungendo padre Ernesto Balducci nel novero di quanti hanno saputo "ascoltare il respiro del mondo" e cogliervi il soffio vivificante dello Spirito.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 291 del 2 dicembre 2007 (ripresa parziale)
[Dal supplemento "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 4 agosto 2007, col titolo "Testimonianze profetiche " e il sommario "Per i 50 anni della rivista, un’antologia di scritti del fondatore, Ernesto Balducci, voce audace e amorevole della Chiesa conciliare: una cultura del dialogo per l’’uomo planetario’".
Ernesto Balducci e’ nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922, ed e’ deceduto a seguito di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote, insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore di numerose iniziative di pace e di solidarieta’.
Fondatore della rivista "Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986. Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti, e’ stato un pensatore di grande vigore ed originalita’, le cui riflessioni ed analisi sono decisive per un’etica della mondialita’ all’altezza dei drammatici problemi dell’ora presente.
Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo particolarmente alcuni libri dell’ultimo periodo:
Il terzo millennio (Bompiani);
La pace. Realismo di un’utopia (Principato), in collaborazione con Lodovico Grassi;
Pensieri di pace (Cittadella);
L’uomo planetario (Camunia, poi Ecp);
La terra del tramonto (Ecp);
Montezuma scopre l’Europa (Ecp).
Si vedano anche l’intervista autobiografica Il cerchio che si chiude (Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una cosa (Ecp); la raccolta postuma di scritti su temi educativi Educazione come liberazione (Libreria Chiari); il manuale di storia della filosofia, Storia del pensiero umano (Cremonese); ed il corso di educazione civica Cittadini del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato.
Opere su Ernesto Balducci:
cfr. i due fondamentali volumi monografici di "Testimonianze" a lui dedicati: Ernesto Balducci, "Testimonianze" nn.
347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani, "Testimonianze" nn. 373-374, 1995; un’ottima rassegna bibliografica preceduta da una precisa introduzione biografica e’ il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant’anni di attivita’, Libreria Chiari, Firenze 1996; recente e’ il libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernita’, Laterza, Roma-Bari 2002;
cfr. anche almeno Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002; e AA. VV., Verso l’"uomo inedito", Fondazione Ernesto Balducci, San Domenico di Fiesole (Fi) 2004.
Per contattare la Fondazione Ernesto
Balducci:
tel. 055599147,
e-mail:
fondazionebalducci@virgilio.it,
sito:
www.fondazionebalducci.it
Nel sito, si cfr.:
Famiglia cristiana o famiglia borghese? Un inedito (1974) di P. Ernesto Balducci.
di Ernesto Balducci *
Appunto questo è il tema che volevo con voi meditare: l’aspetto gratuito della salvezza. Noi stiamo scontando - a mio giudizio - sia a livello della coscienza individuale sia a livello ecclesiale, una lunga stagione in cui avevamo cercato di inserire la nostra fede e la nostra presenza dentro i meccanismi della necessità. Parlo della necessità del senso razionale. La ragione ama argomenti che abbiano un carattere necessario, siano tra loco legati dal principio della coerenza.
E noi abbiamo dato l’immagine di un Dio necessario come architetto del mondo, come fine delle cose, come sanzione ultima del bene e del male. Questo Dio biblico, pieno di gesti imprevedibili, pieno di iniziative amorose, lo abbiamo ir-rigidito nel principio metafisico dell’Essere supremo, meta ultima dentro il meccanismo delle necessità reali e di quelle razionali. Abbiamo creduto, così, di armare la nostra attività pastorale di argomenti invincibili per persuadere gli atei che Dio c’è.
E cosi abbiamo inserito la nostra realtà di Chiesa dentro i meccanismi dell’ordine giuridico e dell’ordine politico, arrivando alla convinzione che senza di noi il mondo non va avanti, e che noi abbiamo la risposta per tutti i problemi: siamo necessari. Qualsiasi problema la società si ponga, tocca a noi rispondere. Se gli altri non ascoltano è perché sono deviati, smarriti nel peccato.
Siamo diventati necessari, terribilmente necessari. Ma poi, che cosa è avvenuto? Che questa necessità non regge alla prova dei fatti: il mondo va benissimo avanti senza di noi, come se non ci fossimo. E questo si ripercuote nella nostra coscienza con un pauroso senso di frustrazione. Uno che si riteneva necessario e si accorge di essere superfluo, è in terribile situazione psicologica. Collettivamente così siamo, noi cattolici. Ci arrabattiamo a dimostrare che senza di noi si fanno follie, ma in realtà la gente ci da sempre meno ascolto.
Che significa questo? Proviamo a risponderci restando nell’ottica della grazia, della salvezza come gesto gratuito.
Al banchetto di nozze, Gesù era un invitato come gli altri. E sua Madre lo stesso. Il banchetto si era organizzato senza di Loro, né essi se ne rammaricavano. Ma il vino, il vino del miracolo entrò all’improvviso - e i servi lo sapevano - a rallegrare la mensa, a togliere dall’imbarazzo lo sposo e la sposa. E’ un gesto semplice, non necessario. E il Vangelo sembra sottolineare questo aspetto dicendo che tutti erano già brilli. Non sarebbe venuto meno - senza dubbio - lo stato d’animo del banchetto, senza il miracolo.
Ecco, il Regno di Dio è un vino che entra nella mensa dell’uomo, gratuito!
*Ernesto Balducci: Il Mandorlo e il Fuoco; 3° vol.; p.190-192
testo segnalato da don Aldo Antonelli
La figura del sacerdote di Barbiana è messa sull’altare per ridurlo a un innocuo feticcio
Un mito per tutte le stagioni
Ricordare Don Milani a quarantanni dalla sua morte vuol dire fare i conti con il contesto nel quale operò. E registrare i cambiamenti avvenuti per rinnovare la sua esperienza
di Enzo Mazzi (il manifesto, 02.12.2007)
C’è una affermazione che racchiude credo il senso della vita di don Milani: «Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola». È una frase problematica, letta oggi. Perché i poveri hanno avuto ed hanno la scuola. Ma il mondo non sembra che sia stato raddrizzato.
Guardando però quella frase come paradigma ideale della grande transizione storica della nostra epoca, essa racchiude il progetto, la positiva presunzione di Barbiana: vivere la crisi della società arcaica e la caduta di secolari barriere per soddisfare l’altrettanto secolare sete di protagonismo, anzi di sovranità delle classi popolari; e in secondo luogo far propri gli strumenti offerti dalla società moderna, cioè la diffusione delle conoscenze e del senso critico, giungendo a usare tali strumenti contro lo stesso progetto di trasformazione delle classi dominanti.
Un unico filo lega fra loro tutte le altre esperienze di quel laboratorio culturale, ecclesiale, sociale e politico che si è sviluppato nella Firenze degli anni ’50-’70: vivere la grande transizione storica facendo spazio ai valori di giustizia, solidarietà, protagonismo e partecipazione di cui, seppur con grandi contraddizioni, erano portatrici le classi popolari. Le cose non sono andate secondo le aspettative di quel paradigma ideale che ci animava. Ma non sarà che a quello stesso paradigma si dovrà ritornare come unica risorsa per risalire dall’orrido baratro in cui stiamo scivolando?
Esplorare l’ignoto
Quando, nell’immediato dopoguerra, studiavamo teologia nel Seminario fiorentino, la nostra ansia culturale e intellettuale, la tensione morale e la ricerca di fede erano tutte protese a uscire dalla prigione della sintesi sacrale del medioevo, evitando però l’abbraccio mortifero di una modernità che aveva sì riaperto lo spazio dell’autonomia e della libertà ma, per estrema contraddizione, aveva anche sottomesso il mondo al clima di terrore della guerra totale.
La cupola del tempio, imponente utero materno, non racchiudeva più i cuori e le menti di alcuni giovani seminaristi. Avevamo bisogno di volare alto. Ma la cupola di fuoco della bomba si presentava come un approdo altrettanto oppressivo. Fra questi poli, simbolicamente espressi dalle due cupole, nasceva una appassionata ricerca di sintesi nuove, di percorsi creativi, di tentativi inediti. Eravamo ingenui, ma non stupidi; idealisti, ma non privi di quel realismo autentico che è la dote di chi non ha altra scelta che tentare l’inesplorato.
Non sapevamo che il mondo operaio e contadino era agli sgoccioli. Ma non eravamo neppure in attesa della sua messianica vittoria. Ci premeva l’affermazione e la penetrazione dei valori umani ed evangelici dei poveri nella società e nella Chiesa. Quei valori, fra l’altro, che alcuni di noi, provenienti da famiglie proletarie di sinistra, avevano succhiato col latte materno e che poi entrando in seminario avevano abbandonato non senza un senso di rottura e quasi di tradimento. Ora si trattava di immergersi di nuovo in quella realtà dalla quale si proveniva. Non era il caso di don Milani che proveniva da una famiglia alto borghese e che nell’intimo sentiva il bisogno di una specie di lavacro.
Con un tale desiderio di incarnazione nel «mondo dei poveri», uno dopo l’altro uscimmo di seminario. Ci trovammo immersi in un crogiolo che andava ben oltre la nostra immaginazione e i nostri progetti. Si preparava la metafora di uno di quei magici tempi della evoluzione della specie in cui nasce un essere nuovo.
Una rivoluzione copernicana
Ci accorgemmo ben presto, già alle prime esperienze di pratica pastorale, che non si trattava solo di una questione di preti, di Chiesa o di Vangelo. La società intera era investita da una trasformazione profonda e ambigua. Proprio per questo però l’opportunità che si apriva per il Vangelo e per la Chiesa era di incalcolabile valore. Bisognava scommettere la vita intera e la stessa fede. È quello che tentammo di fare, giovanissimi preti, chi in fabbrica, chi nelle parrocchie, perseguendo esperienze che insieme a tante altre analoghe avrebbero preparato e alimentato la rivoluzione copernicana del Concilio e la rivoluzione culturale e sociale del ’68. Isolare don Milani da questo contesto non serve a lui e non serve alla storia.
In particolare chi ha amore alla scuola e cerca e sperimenta la fatica di percorsi innovativi non ha bisogno di miti. Quanto piuttosto, io credo, di annodare i fili di tante esperienze, individuando, anche nella scuola di Barbiana, le costanti o gli orientamenti di fondo di un processo di emersione e di riscatto delle culture negate. O la scuola infatti si porrà come fondamentale l’obbiettivo di levatrice dell’intreccio fra le culture che finora non hanno avuto acccesso alla visibilità o sbatterà la testa contro l’impotenza di un riformismo da allevamento. Barbiana in questo è preziosa; purché non se faccia un quadretto da «presepio di Greccio». I poveri oggi hanno la parola e restano poveri. Molti immigrati che puliscono le nostre fogne sono laureati. Essi non hanno bisogno di maestri. Barbiana a loro non serve come esempio di scuola ma come esperimento di comunità oltre i confini.
Dunque don Milani è stato smentito? Se si isola e si mitizza il messaggio della persona, direi di sì. E qui ritorna il tema della comunità oltre i confini. È vero che don Milani era lontano dall’esperienza delle comunità di base e dalla stessa riforma conciliare. Lui diceva infatti: «la religione consiste solo nell’osservare i dieci comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto o sono balle o appartiene a un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri». Non l’abbiamo mai avuto vicino quando alimentavamo, ispiravamo e sostenevamo la battaglia dei padri conciliari, tipo il cardinale Lercaro o dom Franzoni, per la Chiesa povera e dei poveri e per la Chiesa-comunità di comunità aperta e in cammino. Questo significa che lui non ha dato il suo contributo? Ma niente affatto. Se lo si stacca dal contesto può anche essere. Ma collocato dentro il processo storico don Milani ha dato sostegno a tanti come me nella nostra esperienza e nella stessa lotta per l’attuazione del Concilio. Barbiana non è un’esperienza conciliare nella forma e nelle intenzioni, ma lo è nella sostanza. E’ per questo che io sento vivo Lorenzo, lo sento attuale, perché è vivo e attuale il processo storico di umanizzazione sociale dal basso al quale egli ha dato il suo prezioso contributo. E qui vorrei spendere ancora una parola di critica verso la mitizzazione del personaggio. Non ci serve anzi è di ostacolo il mito don Milani che si sta affermando.
Centrare tutta la luce sulla sua persona oscura ancora una volta i poveri, la gente umile. Milani, Milani, sia pure, ma dove sono finiti i contadini, le contadine e gli operai che mezzo secolo fa animavano ancora i monti del Mugello, insignificanti formiche per la cultura borghese, in realtà per noi grandi personalità della cultura popolare? Ne ho conosciuti diversi e mi sono rimasti nell’anima e nella mente.
Un fiore all’occhiello
Ho proposto agli amministratori di alcuni comuni del Mugello, che fanno convegni, ricerche, pubblicazioni su don Milani, di fare una ricerca sulla cultura popolare e i suoi personaggi prima dell’inurbamento. Non ci sentono. Milani è un fiore all’occhiello da sfruttare per far cassa? Non bisognerebbe mai dimenticare quanto egli scrive all’amico Giorgio Pecorini come in un testamento in una delle sue ultime lettere: «Ma devi fare qualcosa per me. Prima di tutto perché è vero quello che ti dico cioè che il lavoro è tutto dei ragazzi... Non voglio morire signore cioè autore di un libro, ma con la gioia che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità ... Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. E’ per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro».
Mettiamo via gli incensieri!