Rushdie e Saviano
versetti camorristici
di ANDREA CORTELLESSA (La Stampa, 04/11/2007)
Non passa inosservato l’ampio profilo di Roberto Saviano sul New York Times di sabato. Gomorra viene definito «un urlo letterario che fa nomi, degli assassini e degli assassinati», stilisticamente ispirato da Pier Paolo Pasolini e Truman Capote. In casi come questo il copione prevede che il già non profeta rimbalzi in patria come una palla avvelenata, dividendo gli indigeni tra fautori agiografi e acrimoniosi ridimensionatori. Dopo di che si mette a profetizzare senza freni. Stavolta però le cose andranno diversamente: perché Saviano in patria era stato profeta, eccome (infatti i partiti all’ombra del campanile s’erano schierati per tempo - né erano mancate le esternazioni, anche a capocchia, dell’interessato).
«So dove colpirli per farli veramente irritare», ha concluso Saviano. E può ben dirlo: data la situazione in cui versa. Più di tutto colpisce che il NYT lo definisca «una sorta di Salman Rushdie nella lotta ancora irrisolta dell’Italia contro il crimine organizzato». La sua reclusiveness coatta davvero somiglia a quella cui dal 1989 è costretto l’autore dei Versi satanici colpito dalla fatwa di Khomeini: entrambi i casi attestano un’incoraggiante efficacia performativa della letteratura, una sua potenzialità «extramurale» (per dirla con Franco Fortini) che in genere invece, nel tempo del postmoderno, le è stata negata. Meno incoraggiante che ciò lo si debba constatare in negativo: solo quando un certo Potere, cioè, decide di farla pagare a chi l’ha sfrucugliato. E qui, fra i due casi, si vedono anche le differenze. Intanto perché quella contro Rushdie è stata una censura a tutti gli effetti. Esercitata, infatti, da un potere ufficiale (ancorché i suoi esecutori operassero in clandestinità). Mentre - almeno formalmente - la camorra è un potere ufficioso e occulto.
Ma un’altra differenza mi pare sia stata poco commentata. Le minacce non si produssero infatti quando Saviano pubblicò i suoi primi reportage, né quando uscì Gomorra, né quando questo ebbe il successo che ebbe. Ma solo quando, giusto un anno fa, lui in persona partecipò a un comizio al suo paese, durante il quale pubblicamente insultò i boss. Cioè quando il Denunciante per la prima volta contestava il controllo del territorio: occupandolo, sia pure per lo spazio d’un pomeriggio, fisicamente. L’azione pratica della letteratura si è dunque prodotta solo nell’atto, e a condizione, di uscire da sé. Lezione che, più che sulla letteratura, la dice lunga su una società in cui siamo chiamati tutti a prenderci la nostra parte, piccola o grande, di rischio. Cioè di responsabilità.
La missione di Gide non rinunciare mai al coraggio di vivere
L’adesione al marxismo. L’opposizione a Stalin. L’omosessualità dichiarata. Nei monumentali “Diari” dello scrittore la disciplina di un intellettuale
di Valerio Magrelli (la Repubblica, 25.06.2016)
Innanzitutto, onore alla Bompiani, un editore che, di questi tempi, osa pubblicare il “Diario” di André Gide in due tomi. Un’impresa del genere, inoltre, ha l’ardire di presentarsi armata di un imponente apparato critico. Curata da Piero Gelli (che firma la prefazione e i bei medaglioni sugli “Amici di Gide”), tradotta da Sergio Arecco, aperta da una Cronologia, l’opera segue l’edizione stabilita per la collana Pléiade da Éric Marty e Martine Sagaert (che introducono il primo e il secondo libro), recuperando molto materiale inedito e integrandolo con alcuni scritti autobiografici.
Ciò premesso, come affrontare l’immenso Journal dello scrittore che vinse il Premio Nobel 1947? Sulle oltre tremila pagine del testo ci restano giudizi impressionanti. Albert Camus: «Il segreto di Gide è di non aver mai perduto, in mezzo a tutti i suoi dubbi, la fierezza d’essere uomo»; Ernest Jünger: «Io credo che il Diario sarà indispensabile per tutti coloro che vorranno conoscere nelle sue sottigliezze la struttura della nostra epoca»; Alberto Moravia: «Forse il meglio del libro sta in quel continuo andar contro se stesso e contraddirsi dell’autore».
Il che dimostra come il Diario rappresenti l’opera “capitale” di colui che fu appunto definito il “contemporaneo capitale”, ossia l’autore più influente della prima metà del Novecento. Influente al punto che, quando lo intervistò nel 1928, Walter Benjamin lo paragonò a Wilde e Nietzsche: «Non c’è scrittore in cui energia produttiva ed energia critica siano state più strettamente legate che in lui». Strano ribaltamento, quello che vede Benjamin, considerato oggi fra i massimi pensatori del secolo scorso, accostarsi riverente a un romanziere quasi dimenticato. Infatti il punto è questo: perché mai, anche se nessuno oserebbe collocarlo all’altezza di un Proust o di un Céline, Gide resta imprescindibile?
Secondo Gianfranco Rubino, ciò è dipeso dalla pluralità di aspetti della sua personalità: narratore, saggista, diarista, autobiografo, perfino drammaturgo e infine mentore della Nouvelle Revue Française, il gruppo che svolse un ruolo chiave nella fisionomia nel Novecento. Insomma, a sancire il successo della produzione gidiana non è stato solo il valore estetico, ma anche la suggestione di un messaggio scandaloso, irriverente e liberatorio, teso verso «una decostruzione critica dei valori religiosi, etici, culturali, sociali comunemente ammessi e riveriti». Dunque, se negli anni del Nouveau roman lo scrittore venne ammirato come precursore del metaromanzo o dell’antiromanzo, a ben vedere il suo lascito oltrepassa la sfera estetica, per acquisire una dimensione morale e testimoniale.
Possiamo allora intendere Gide come Pasolini? Difficile arrivare a tanto. Come conciliare l’appartenenza a un’austera famiglia protestante, con il cattolicesimo dell’italiano? Come confrontare una vita di agi, all’estrema miseria vissuta a lungo dal regista di Accattone? Come avvicinare un’onorata vecchiaia, all’atroce omicidio di Ostia? In ogni caso, rimane il fat- to che pochi intellettuali ebbero un’audacia paragonabile a quella dello scrittore francese. E bene fa Gelli a indicare in lui il primo letterato capace proclamare la propria omosessualità come non aveva osato fare neppure Wilde, denunciare gli orrori del colonialismo in Africa e infine a rivelare i danni del comunismo sovietico (proprio lui, che dei valori comunisti era diventato la bandiera).
Tra esitazioni e contraddizioni, Gide dipingeva se stesso come una di «quelle creature che non possono crescere senza metamorfosi successive». Logico quindi attirarsi accuse di superficialità o eclettismo. «Il suo è uno spirito distaccato», notava Jacques Rivière, «che non si ferma su alcun possesso. Dà la propria adesione come si dà un bacio; un attimo dopo è pronto a ritirarla». Niente di più vero, e insieme di profondamente ingiusto. Poiché se Gide cambiò idea su molte cose, fu sempre nella direzione meno comoda, e il Diario lo dimostra di continuo. Inutile provare a svalutare il suo ardimento, attribuendolo ai capricci di un ricco alto-borghese.
Anche se in forme velate, le sue crociate umanitarie iniziano molto presto, nel 1897, con il messaggio di liberazione lanciato dai Nutrimenti Terrestri («Famiglie, vi odio!»), poi, nel 1914, con la critica del sistema giudiziario affidata ai Ricordi della Corte d’Assise. Arriviamo così al Viaggio in Congo del 1917.
Impossibile liquidare un’esperienza come quella da cui nacque un libro simile, sorta di autentico
Bildungsroman. Per un autore di quell’epoca, cinquantenne, benestante e di successo, lasciare Parigi seguendo una spedizione di un anno in Africa equatoriale, non era cosa da poco, e infatti quel soggiorno lo condusse alla conquista di una nuova coscienza politica. Dal suo iniziale, ingenuo contatto con i misfatti del capitalismo, l’intellettuale mosse i primi passi verso la fede marxista. Come sottolineò Franco Fortini, il raffinato dilettante finì per imbattersi non soltanto nel compito di formulare una verità scabrosa, quanto in quello di trasmetterla a un gran numero di destinatari. A tutto ciò corrispose la trasformazione del diario di viaggio, che divenne documento pubblico:
«Quale demone mi ha spinto in Africa? Ero tranquillo. Adesso invece so: devo parlare».
E più tardi, fu con lo stesso spirito, che rifiutò di fermarsi sulle proprie convinzioni, di ricevere gli infiniti omaggi dovuti alla sua nuova scelta di campo. Ormai era diventato un simbolo della sinistra.
Nel giugno 1935 a Parigi, fu designato presidente d’onore del 1º Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura, davanti a 230 delegati, tra cui Aragon, Babel’, Brecht, Breton, Huxley, Malraux, Klaus e Heinrich Mann, Musil, Nizan, Pasternak, Salvemini e Tzara. Era questa la fama di Gide, quando, tornato dall’Urss, decise di rimettere tutto in questione, per criticare con forza il totalitarismo russo. Combattendo ogni tipo di ipocrisia, il romanziere, leggiamo nel Diario, non esitò ad affrontare la deprecazione pubblica in nome della propria verità.
Lo sterminato Journal parla di molte altre cose: amicizie e inimicizie, amori, letteratura e musica. Tuttavia, il filo conduttore rimane lo strenuo, indefesso processo di autoeducazione perseguito come una missione.
La libertà di Saviano
Gli attacchi allo scrittore in campagna elettorale. E un incontro anni fa con Salman Rushdie, un’altra vita blindata
di MARIO CALABRESI *
Ho incontrato Roberto Saviano per la prima volta a maggio del 2008, il suo libro era uscito due anni prima e da 19 mesi viveva sotto scorta. Aveva 28 anni e stava infagottato in un girocollo di lana blu, anche se a New York faceva già caldo. Era arrivato negli Stati Uniti per partecipare a un festival di letteratura. Venne invitato ad una cena in cui l’ospite d’onore era Salman Rushdie, i due non si erano mai visti e mi trovai tra loro quando cominciarono a parlare di libri pericolosi e di vite blindate. In quel suo primo viaggio americano Saviano venne messo sotto protezione dell’Fbi, l’autore di Versi Satanici invece si muoveva liberamente per Manhattan.
Rushdie gli chiese quando Gomorra aveva cominciato a dare fastidio e Saviano si mise a raccontare: "Quello che non mi hanno perdonato non è il libro ma il successo, il fatto che sia diventato un bestseller. Questo li ha disturbati e più la cosa diventa nota e più sono incazzati con me. Se il libro fosse rimasto confinato al paese, a Napoli, alla mia realtà locale, allora gli andava anche bene".
"Anzi, i camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta. Avevano perfino cominciato a farne delle copie taroccate da vendere per la strada e un boss aveva rimesso le mani in un capitolo riscrivendosi alcune parti che lo riguardavano. Poi però la cosa è cresciuta e questo ha iniziato a disturbarli. Perché fino ad allora non finivano mai sulla prima pagina dei giornali, neppure quando facevano massacri, e si sentivano tranquilli e riparati. Il libro ha risvegliato l’attenzione in tutta Italia e questo non mi è stato perdonato".
Oggi Gomorra ha compiuto dieci anni, i riflettori dell’opinione pubblica e della giustizia sono tornati ad accendersi sulla camorra, che era scivolata nel disinteresse da tempo, i casalesi hanno pagato un prezzo giudiziario importante a questa notorietà e Roberto Saviano vive ancora sotto protezione. La scorta non è un merito, è una gabbia e il segnale più evidente di un Paese malato. Un Paese che ha il record dei giornalisti sotto tutela perché denunciano la criminalità organizzata (anche per questo l’Italia è messa così male nella classifica mondiale della libertà di stampa), dove si bruciano le auto ai cronisti, dove gli avvocati dei mafiosi minacciano platealmente nelle Aule dei Tribunali chi ha avuto il coraggio di raccontare. Di questo dovremmo parlare.
Invece c’è chi fa campagna elettorale, come il senatore verdiniano Vincenzo D’Anna, sostenendo che a Saviano si dovrebbe togliere la scorta e che con i soldi risparmiati si combatterebbe meglio la camorra. Se ragionassimo come il senatore potremmo replicare che anche i soldi delle nostre tasse potrebbero essere meglio spesi se non dovessero pagare il suo stipendio da parlamentare che ha già cambiato partito tre volte. Che l’accusa a Saviano sia strumentale e serva a fare campagna elettorale in zone dove la camorra controlla il territorio lo svela senza vergogna lo stesso D’Anna: "Da noi in Campania i voti ce li guadagniamo lottando, non stando zitti". E lottare significa sostenere che Saviano è "un’icona farlocca" e che la protezione gli va tolta perché "è uno che ha copiato metà dell’unico libro che ha fatto". Non si capisce quale sia il nesso tra le due cose, mentre è chiarissima l’intenzione di guadagnare consenso e popolarità denigrando chi denuncia la criminalità organizzata in un feudo elettorale dove la camorra prospera.
La questione poteva finire qui, salvo che persone come D’Anna sono sempre più compagni di viaggio della maggioranza di governo, ma ieri l’ex direttore del Foglio Giuliano Ferrara non si è lasciato sfuggire la ghiotta occasione di scrivere un articolo per sposare il pensiero del senatore verdiniano e per rincarare la dose contro Saviano. Ferrara finge di fare un pezzo "pericoloso" e perciò coraggiosissimo, visto che dice di amare quel politico di razza casertana che ha l’ardire di affermare che "il libro è farlocco e la scorta farlocca", ma la verità è che non c’è nulla di più facile in Italia che sputare controvento, dissacrare e diffamare. Prendere un’icona e farla a pezzi è la massima soddisfazione e garantisce consenso, sorrisini complici e simpatia.
Su cosa significhi dire tutto questo in Campania, sul messaggio inviato e sulle conseguenze evidenti Ferrara non se ne preoccupa, ama il gesto plateale e rumoroso, ha usato tutto il suo spazio sulla prima pagina del Foglio per ridicolizzare Saviano, e sarà felice che anche noi ce ne dobbiamo occupare. Anzi si concede anche il lusso di dire che "le minacce in Italia sono un genere su cui vivono e prosperano fior di stronzi". Non riesco a togliermi di mente un altro politico della stessa razza "antica e nobile" di D’Anna quando disse che un professore bolognese era "un rompicoglioni" in quanto colpevole di denunciare d’essere in pericolo per avere la scorta. Purtroppo Marco Biagi venne ucciso sul portone di casa mentre scendeva dalla sua bicicletta. Ma il piacere di un certo dileggio è rimasto intatto.
I libri di Roberto Saviano si possono criticare, sezionare, smontare, ma in modo onesto e non per strizzare l’occhio ai casalesi. A me non piacciono le icone, gli eroi, le gabbie mentali e la messa all’indice del pensiero critico. Mi piacciono le persone coraggiose, quelle sì e mi piacerebbe che si ragionasse sulle conseguenze che quel libro ha avuto nell’opinione pubblica e nella vita di un ragazzo.
Saviano ormai passa più della metà del suo tempo fuori dall’Italia, proprio per camminare libero, per scegliere di entrare in un bar o di andare al cinema senza dover chiedere il permesso in anticipo. Per non avere la scorta. E spera che non sia lontano il giorno in cui non ce ne sarà più bisogno anche qui, ma questi attacchi allontanano quel giorno e rendono "La Scorta" un simbolo intoccabile.
In quel maggio di otto anni fa Salman Rushdie concluse così la sua chiacchierata: "Devi riprenderti la tua libertà. Ascoltami bene Roberto, non arriverà mai un giorno in cui un poliziotto o un giudice si prenderanno la responsabilità di dirti: è finita, sei un uomo libero, puoi andare tranquillo, uscire da solo". Poi l’accompagnò alla macchina dell’Fbi e mentre gli chiudeva la portiera aggiunse: "Roberto abbi cura di te, sii prudente, ma riprenditi la tua vita e ricordati che la libertà è nella tua testa". L’auto blindata dei federali partì veloce, mentre Rushdie, da solo, si mise a camminare nella notte lungo il Central Park.
Saviano ha capito quella lezione, cammina nel mondo da solo, e vorrebbe essere libero anche a casa sua. Libero dalla scorta, dai politici che scambiano voti e dai diffamatori.
* la Repubblica, 29 maggio 2016 (ripresa parziale).
Perché la ribellione alla menzogna è la vera resistenza
“Dopo i periodi di violenza i regimi usano le bugie come armi”: l’analisi attualissima del Nobel russo
“Se invece ci facciamo vincere dalla paura smettiamo almeno di lamentarci”
di Aleksandr Solgenitsyn (la Repubblica, 27.05.2015)
CI siamo così irrimediabilmente disumanizzati che per la modesta pappatoria di oggi siamo disposti a dar via tutti i nostri princìpi, l’anima, tutti gli sforzi dei nostri predecessori e le opportunità dei nostri posteri - qualsiasi cosa pur di non arrecare turbamento alla nostra precaria esistenza. Non sappiamo più cosa siano l’orgoglio, la fermezza, un cuore fervido. Non ci spaventa nemmeno la morte nucleare, la terza guerra mondiale (ci sarà pure un buco dove nascondersi) - una sola cosa temiamo: di dover fare quei pochi passi che ci separano dal coraggio civico!
Purché non ci si debba allontanare dal gregge, andandocene un po’ per conto nostro - e se poi ci ritroviamo senza il filoncino di pane bianco, lo scaldabagno a gas, il permesso di soggiorno a Mosca? C’è un concetto capace di assicurarci una vita tranquilla finché campiamo e ce l’hanno inculcato in tutte le salse ai circoli di educazione politica, finché ci è entrato bene in testa: l’ambiente, le condizioni sociali, non se ne esce, l’essere determina la coscienza, e allora cosa c’entriamo noi? Noi non possiamo farci niente. Possiamo al contrario fare tutto! Ma preferiamo mentire a noi stessi, per metterci il cuore in pace. Non sono affatto “loro” i colpevoli di tutto, siamo noi stessi, soltanto noi! Ci obietteranno: ma in effetti che cosa si può fare concretamente? Ci hanno tappato la bocca, non ci prestano ascolto, non chiedono il nostro parere. Come fare per costringere quelli ad ascoltarci? Non c’è comunque modo di far cambiare loro idea.
La cosa più naturale sarebbe non rieleggerli! - già, se nel nostro paese ci fossero le rielezioni. Dunque, un circolo chiuso? Davvero senza via d’uscita? E possiamo solo aspettare passivamente che, di punto in bianco, qualcosa succeda da sé? Ma quel qualcosa che ci sta addosso non si scollerà mai da sé, se noi tutti continueremo ad accettarlo, ossequiarlo e rafforzarlo ogni giorno, se non ci decideremo ad affrontarlo cominciando da dove è più vulnerabile. Dalla menzogna.
Quando la violenza irrompe nel pacifico consorzio umano il suo volto arde di tracotante certezza ch’essa espone, grida perfino, sulle proprie insegne: «Io sono la Violenza! Fate largo, muovetevi o vi metto sotto!». Ma la violenza invecchia altrettanto rapidamente e di lì a pochi anni già non è più così sicura di sé e per darsi un contegno, per rendersi più presentabile si cerca immancabilmente un’alleata ed è la Menzogna. Infatti la violenza non ha altro modo di mascherarsi se non la menzogna, e la menzogna non può persistere se non per mezzo della violenza. E la violenza non ha bisogno di farci sentire tutti i giorni, su ogni spalla, il peso della propria zampa: essa pretende da noi solo che ci sottomettiamo alla menzogna, che partecipiamo un giorno dopo l’altro alla menzogna - e tanto basta per essere sudditi fedeli.
E proprio qui troviamo la chiave, da noi finora trascurata, e invece così semplice e accessibile, per la nostra liberazione: la non partecipazione personale alla menzogna! Se infatti sempre più gente non vuole avere a che fare con la menzogna, essa inizia a scomparire. Come una malattia contagiosa, che esiste finché ci sono persone da infettare. Non ci viene chiesto di scendere in piazza, non siamo abbastanza maturi per proclamare in pubblico la verità, esprimere ad alta voce quel che pensiamo - non fa per noi, troppo rischioso.
Ma almeno rifiutiamoci di dire quello che non pensiamo. Presa coscienza del limite oltre il quale inizia la menzogna (e la sensibilità al riguardo è soggettiva) - ritrarsi da questa cancrenosa frontiera! E allora ciascuno di noi si faccia coraggio e scelga: o restare servo cosciente della menzogna (oh, certo, non perché vi sia propenso, ma per mantenere la famiglia, per tirare su i figli, e nello spirito della menzogna!) oppure decidere che è giunto il momento di riscuotersi, di diventare una persona onesta che merita il rispetto dei figli e dei contemporanei. (...) Sì, all’inizio non sarà facile. Qualcuno perderà temporaneamente il lavoro.
Ai giovani che vogliono vivere secondo verità questo complicherà parecchio fin dall’inizio la loro giovane esistenza: infatti anche le verifiche a domande e risposte sono infarcite di menzogna e bisogna scegliere. Ma per nessuno che voglia mantenersi onesto rimangono comunque scappatoie di sorta: non c’è giorno, per nessuno di noi, neanche nelle più inoffensive scienze tecniche, nel quale non si debba scegliere in che direzione andare: verso la verità o verso la menzogna, verso l’indipendenza dello spirito o il servilismo spirituale. E chi non avrà avuto coraggio bastante neanche per difendere la propria anima eviti perlomeno di menar vanto per le proprie idee progressiste, non si pavoneggi dei suoi titoli di accademico, artista del popolo, benemerito di questo o di quello, o generale e dica semplicemente a se stesso: sono una bestia e un vigliacco, voglio solo restarmene al calduccio e a pancia piena.
Per gente come noi intorpidita dall’inazione, perfino questa via - la più moderata tra le varie forme di resistenza - risulterà tutt’altro che facile. Più facile comunque, senza paragoni, dell’immolarsi col fuoco o anche di uno sciopero della fame: le fiamme non ti avvolgeranno le membra, gli occhi non ti scoppieranno per il calore e un po’ di pane nero e un bicchiere d’acqua potabile si troveranno sempre per la tua famiglia. Quel grande popolo d’Europa che abbiamo ingannato e tradito - il popolo cecoslovacco - non ci ha forse mostrato che un petto inerme può resistere anche ai carri armati se in esso batte un cuore degno? Sarà una via irta di ostacoli? - però la meno gravosa di quelle possibili. Una scelta non facile per il corpo - ma l’unica per l’anima. Una via non facile - tuttavia anche da noi ci sono persone, decine di persone, che da anni si attengono a questi criteri, vivono secondo verità. Non si tratta allora di avviarsi per primi su questa via ma di unirsi a chi l’ha già fatto! Quanto più numerosi e concordi saremo nell’intraprenderla, tanto più agevole e breve ci sembrerà! Se saremo migliaia, non potranno tenerci testa, neanche ci proveranno. Se diventeremo decine di migliaia, il nostro paese cambierà talmente da non riconoscerlo più.
Se invece ci facciamo vincere dalla paura, smettiamo almeno di lamentarci di quelli che ci toglierebbero anche l’aria per respirare - siamo noi stessi a farlo! Incurviamo ancor di più la schiena, aspettiamo di vedere come va, e i nostri amici biologi contribuiranno ad avvicinare il giorno in cui potranno leggerci nel pensiero e riprogrammare i nostri geni.
Se anche stavolta ci lasceremo vincere dalla paura vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è nessuna speranza e che ci meritiamo il disprezzo di Puškin: «A che pro alla mandria della libertà i doni?... / Il loro sol retaggio da generazioni / Sono il giogo, la frusta ed i sonagli».
FURIA ISLAMICA - LO SCRITTORE NEL MIRINO
Rushdie: la mia vita in fuga dall’Islam
Esce oggi in tutto il mondo "Joseph Anton": racconta la storia dell’autore e il dramma della sua condanna a morte decretata nell’89 da Khomeini
ANDREA MALAGUTI
corrispondente da Londra (La Stampa,18/09/2012)
Bloomsbury, quartiere centrale di Londra. E’ lì che il 12 settembre, a poche ore dall’assalto all’ambasciata Usa a Bengasi, Salman Rusdhie dà appuntamento a La Stampa per raccontare il suo nuovo libro, "Joseph Anton", che esce oggi in tutto il mondo (in Italia è pubblicato da Mondadori). E’ un’autobiografia. Parla della sua famiglia, di suo padre, degli studi, del rapporto con l’Islam, ma sopratutto di come, il 14 febbraio del 1989, una fatwa dell’Ayatollah Khomeini, leader spirituale dell’Iran, cambiò radicalmente la sua vita.
Condannato a morte. E’ una giornalista della BBC che glielo comunica. "Signor Rushdie, come commenta la fatwa?". Lui, indiano naturalizzato britannico, cade dalle nuvole. Impallidisce. Balbetta una risposta confusa. "Pensai immediatamente: sono un cadavere che cammina". La sua colpa? Avere scritto un romanzo - I Versi Satanici - considerato blasfemo. Empio. Sacrilego. Da quel momento in avanti "ogni buon musulmano è autorizzato a prendersi la sua vita". Una storia di ventitré anni fa che continua oggi e che - come dimostrano le violenze in Libia o in Tunisia - non è più solo una questione personale, ma è diventata un’onda globale fuori controllo. "La mia storia non innescò questo scontro gigantesco, ne fu solo il prologo.
Il primo passo che portò poi al disastro dell’11 settembre". Per oltre dieci anni è costretto a nascondersi. A fuggire. Cambia casa continuamente, vede raramente i suoi figli, la sua esistenza va in frantumi. E’ scortato giorno e notte da quattro poliziotti. Poi un intervento di Bill Clinton porta a un accordo tra Londra e Teheran. La fatwa non viene ritirata, ma il governo iraniano dice che lo scrittore non è più un obiettivo priortiario. Si è mai pentito di avere scritto I Versi Satanici?: "Sono 23 anni che rispondo allo stesso modo. No. Credo anzi che sia uno dei miei libri migliori". Oggi Salman Rushdie spiega di essere un uomo sereno. E persino di sentirsi libero. Eppure meno di 72 ore fa una fondazione iraniana ha aumentato di altri 500 mila dollari la taglia sulla sua testa. Tre milioni e trecentomila dollari per chi gli farà la pelle.
Perché i paradossi sono il sale della vita. E della letteratura
L’incoerenza e il paradosso ecco il sale della vita
Un omaggio alla ricchezza nascosta nelle nostre incoerenze
di Salman Rushdie (la Repubblica, 05.07.2010)
Anticipiamo il testo che lo scrittore leggerà il 10 luglio alla Milanesiana
Nella commedia di Tom Stoppard, Jumpers, il personaggio eponimo, il filosofo Sir Archibald Jumpers, chiede ai suoi studenti perché, secondo loro, la gente credeva che il sole girasse attorno alla terra. Uno di loro risponde che forse è perché sembra che sia il sole a girare attorno alla terra. "E come sarebbe," gli chiede Sir Archibald, "se sembrasse che fosse la terra a girare attorno al sole?" Si tratta di una splendida battuta che sortisce il suo effetto a scoppio ritardato, suscitando una risata sempre più fragorosa man mano che il pubblico si rende conto che sarebbe esattamente la stessa cosa, perché, dopo tutto, è proprio quello che sta succedendo. È la risata del paradosso, senza il quale la letteratura, e la vita, sarebbero gravemente menomate; a dire il vero, alcuni critici hanno affermato che il legame fra la poesia e il paradosso è talmente intimo che sono la stessa cosa.
La storia del paradosso comincia con la Bibbia, dove l’idea del concepimento verginale incarna la natura paradossale della fede, e continua fino a oggi, dove la più superficiale delle ricerche sulla letteratura della cultura pop rivela studi sul "Paradosso dei Beatles" (e cioè che erano giovani ribelli che entrarono rapidamente a far parte dell’establishment ricevendo l’onorificenza di membri dell’ordine dell’Impero britannico).
Nonché sul "Paradosso di Oprah Winfrey" (ovvero il fatto che, mentre dispensa consigli sulle nostre vite, come se fosse una componente della nostre famiglie, rimane distaccata, misteriosa ed estranea) e sul "Paradosso di Eminem" (ossia il fatto che è e allo stesso tempo non è il vero Slim Shady).
Don Chisciotte è un paradosso in sella a un cavallo sfiancato, il cavaliere errante le cui peregrinazioni smontano l’idea stessa di cavaliere errante, il cavalleresco idiota la cui follia rivela la follia più grande dell’ideale cavalleresco.
Il detective Erik Lönnrot nel racconto di Borges La morte e la bussola risolve l’enigma di una misteriosa serie di omicidi e capisce dove e quando avverrà l’omicidio successivo, solo per scoprire, troppo tardi per potersi salvare, che sarà la prossima vittima e che gli altri crimini sono stati commessi per condurlo sulla scena del delitto.
Oscar Wilde, che disse di poter resistere a tutto eccetto che alla tentazione, incarna i paradossi dell’edonismo. E nel romanzo di Joseph Heller Gold!, il personaggio dell’assistente presidenziale, Ralph Newsome, l’avatar delle disonestà in politica, parla esclusivamente per ossimori, frasi la cui fine contraddice l’inizio: «Questo Presidente vi appoggerà finché dovrà». «Vogliamo andare avanti il più velocemente possibile con questa faccenda, anche se dovremo procedere lentamente». «Questo Presidente non vuole dei leccapiedi. Ciò che vogliamo sono uomini indipendenti e integri che, una volta che avremo preso le nostre decisioni, concorderanno con ognuna di esse».
A mio avviso, il paradosso più bello è la famosa espressione verso la fine di Il canto di me stesso di Whitman.
Forse che mi contraddico?
Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico.
(Sono vasto, contengo moltitudini.)
Salem Sinai, verso l’inizio del mio romanzo I figli della mezzanotte, evoca questa idea nella dichiarazione di ispirazione volutamente whitmaniana: «Per comprendermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto». Il romanzo che segue costituisce il tentativo di attenersi alle istruzioni di Salem e di inghiottire, se non il mondo, almeno un subcontinente.
La natura umana è contraddittoria, e l’io umano è una cosa capiente e multiforme, «un mostro caotico e informe», se posso appropriarmi della descrizione di Henry James di alcuni generi di romanzo. Noi possiamo avere, e abbiamo, molte personalità simultaneamente; possiamo mostrarci dolci coi nostri figli, ma duri coi nostri dipendenti, possiamo amare Dio e odiare gli esseri umani, possiamo preoccuparci per l’ambiente e ciononostante lasciare le luci accese quando usciamo di casa, possiamo essere persone tranquille che la passione per la squadra del cuore trasforma in individui aggressivi e ogni tanto persino in hooligan.
E per quanto possiamo desiderare fortemente difendere la sovranità del nostro io individuale - un’idea nata nel Rinascimento fiorentino che forse rappresenta il dono più grande dell’Italia alla civiltà mondiale - in realtà quell’io è sovrano e al tempo stesso invaso da altre personalità. È sia autonomo che non autonomo.
Nessuno di noi viene al mondo con la testa vuota. Portiamo con noi il bagaglio del nostro patrimonio, sia biologico che culturale, ed esso ci limita e al contempo ci apre delle possibilità, ci paralizza e al contempo ci affranca. Possiamo ritenerci liberi di scegliere, e moralmente responsabili delle nostre scelte, ed è giusto considerarci tali, ma non tocca solo a noi stabilire il modo in cui elaboriamo quelle scelte, e proprio quelle particolari scelte che sentiamo di dover fare.
Pertanto siamo creature paradossali, sia individuali che sociali, sia del nostro tempo che immerse nel flusso della storia. Siamo mortali ma, come la Cleopatra di Shakespeare, nutriamo desideri immortali; e la contraddizione è la nostra linfa vitale. Si possono trarre grandi benefici sociali da queste ampie definizioni dell’io, perché maggiore è il numero delle individualità che abitano il nostro io, più facile sarà trovare un punto d’incontro con altre nature umane multiple e molteplici. Possiamo essere di fedi diverse ma tifare per la stessa squadra.
Tuttavia viviamo in un’epoca in cui siamo esortati a ridurre e limitare sempre di più la nostra individualità, a comprimere la nostra multidimensionalità dentro la camicia di forza di un’identità nazionale, etnica, tribale o religiosa a una dimensione.
Ora che ci penso, questo potrebbe essere il male da cui hanno origine tutti gli altri mali del nostro tempo. Perché quando soccombiamo a un tale rimpicciolimento, quando permettiamo una semplificazione per cui diventiamo meramente serbi, croati, musulmani, indù, allora per noi diventa facile riconoscere nell’altro l’avversario, il Diverso, e i punti cardinali stessi della bussola cominciano ad azzuffarsi, Est e Ovest si scontrano, così come Nord e Sud.
La letteratura non ha mai perso di vista ciò che il nostro rissoso mondo cerca di costringerci a dimenticare. La letteratura si pasce della contraddizione, e nei romanzi e nelle poesie noi cantiamo la nostra complessità umana, la nostra capacità di essere, simultaneamente, sia sì che no, sia questo che quello, senza avvertire il minimo disagio.
L’equivalente arabo dell’espressione «c’era una volta» è «kan ma kan», che tradotto significa: «Era così, non era così». Questo grande paradosso è alla base di tutte le opere di narrativa. La narrativa è esattamente quel luogo in cui le cose sono così e non sono così, in cui esistono mondi in cui crediamo profondamente pur sapendo che non esistono, non sono mai esistiti e mai esisteranno. E questa bella complicazione non è mai stata tanto importante quanto nella nostra epoca di eccessiva semplificazione.
I diritti sono stati assolti dalla Milanesiana.
© 2010, Salman Rushdie.
Published by arrangement with The Wylie Agency
(traduzione di Licia Vighi)
Il paradosso di Dio
di Shalom Auslander (La Stampa, 13 luglio 2010)
Il testo che anticipiamo in questa pagina verrà letto dall’autore domani alla Milanesiana, la rassegna di letteratura, musica, cinema e scienza curata da Elisabetta Sgarbi (Teatro Dal Verme di Milano, ore 21). La serata ha per tema «I paradossi del tempo» e prevede anche la partecipazione di Fiorenzo Galli, direttore del Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, del matematico Wendelin Werner e dello scrittore Lawrence Osborne, con un concerto finale della cantante Noa. Shalom Auslander è nato a New York 40 anni fa. In Italia è conosciuto soprattutto per il memoir Il lamento del prepuzio (Guanda), dove ha raccontato con umorismo spietato i mille divieti in mezzo ai quali è cresciuto nel quartiere ebraico ortodosso di Monsey e i condizionamenti che ne sono derivati. Di recente, sempre da Guanda, ha pubblicato la raccolta di racconti A Dio spiacendo.
La Yeshiva di Spring Valley era una scuola ebraica ultraortodossa. I nostri rabbini erano onniscienti, e padroneggiavano tale conoscenza con assoluta certezza. Sapevano che la Terra aveva 6.000 anni.
Sapevano che Dio aveva creato il Cielo e la Terra, e sapevano che successivamente aveva creato le piante, e che poi aveva creato gli alberi, e che poi aveva creato l’uomo, e che poi si era preso un giorno di vacanza. Sapevano che la Terra sarebbe arrivata a una fine, e sapevano cosa sarebbe successo a tutti noi dopo che il mondo fosse finito. Ci osservavano attentamente.
Osservavano come parlavamo, cosa mangiavamo, come pregavamo, quali preghiere di ringraziamento recitavamo. L’unico posto in cui si poteva sfuggire all’occhio sempre vigile dei rabbini era il bagno al secondo piano; i rabbini preferivano il bagno al primo piano, dove fumavano sigarette e si lamentavano della pigrizia dei loro studenti mentre, soltanto al piano di sopra, noi eravamo indaffarati a scoprire i segreti del mondo che loro cercavano disperatamente di nasconderci. E così, una mattina, quando Avi Tuchman mi disse di seguirlo nel bagno al secondo piano, sapevo che mi aspettava qualcosa di interessante. Avi controllò i cubicoli, e poi ispezionò gli orinatoi dietro l’angolo.
«Che c’è?», chiesi.
Lui si inclinò verso di me, unì le mani a forma di coppa sotto il mento e mi sussurrò all’orecchio.
«Se Hashem riesce a fare qualsiasi cosa», disse, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Hashem è il nome ebraico con cui ci si riferisce a Dio. Non eri tenuto a usare il Suo nome senza una buona ragione, e di certo non eri tenuto a cercare di trovare dei modi per contestarlo.
Avi fece un passo indietro, incrociò le braccia e sorrise.
«Me l’ha detto mio cugino», disse.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», risposi.
«Ah sì?», esclamò Avi. «Riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
«Certo che riesce».
«Allora ecco qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Sollevarlo».
«Allora riesce a sollevarlo».
«Allora ecco ancora qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Creare un masso che non riesce a sollevare».
Avi sorrise.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, alzando i tacchi e uscendo dal bagno.
La rivista porno aveva destato meno perplessità.
Avi Tuchman non mi piaceva granché, tuttavia la sua sembrava una gran bella domanda. Un trucco,
un trabocchetto, un filo allentato di un maglione che, se tirato, avrebbe disfatto tutta quella dannata
maglia. Non riuscivo a togliermelo dalla testa. E così quel giorno, alla fine della lezione, dopo che il
rabbino Brier ci aveva illustrato come Dio avesse trasformato l’acqua dell’Egitto in sangue, e come
avesse fatto piovere rane, e diviso il mare in due parti e come fosse in grado di fare qualunque cosa
io alzai la mano.
«Che c’è?», chiese il rabbino Brier.
Brier era il rabbino della scuola che incuteva più timore, non per la sua intelligenza, bensì per le sue
mani. Una volta aveva schiaffeggiato uno dei ragazzi più grandi con una tale violenza da rompergli
il naso, e aveva afferrato un altro studente per il braccio con una tale forza che per i due mesi
successivi il ragazzo aveva dovuto portare il braccio al collo.
«Se Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, «riesce a creare un masso talmente pesante da non
riuscire a sollevarlo?».
Credevo non ci fosse niente di male nel fare una semplice domanda. Dopo tutto, probabilmente c’era una semplice risposta; meglio chiarire queste cose velocemente prima che sfuggissero di mano.
«Chochemel», disse in yiddish il rabbino Brier con un certo sarcasmo - «Tu, saputello» - e mi mollò un ceffone in faccia. «Hashem», ringhiò, «riesce a fare qualunque cosa», e poi mi disse di andare nell’ufficio del rabbino Greenbaum. Questi era il preside e il capo dei rabbini della Yeshiva. «Digli», disse il rabbino Brier, «che tu sai più di Hashem». Che era esattamente l’opposto del nocciolo della questione.
Lo ammetto - la domanda mi faceva star bene. Ma ciò che mi regalava una tale sensazione non era il pensiero di aver ingannato Dio, o di saperne di più di Lui. Sicuramente allora non sarei stato in grado di riconoscerlo, ma ciò che di quella domanda faceva sentire talmente bene non era il pensiero di sapere qualunque cosa; piuttosto, era la chiara e distinta gioia di non sapere.
A quei tempi, sembrava che tutti credessero di sapere tutto. Ultimamente, la situazione non ha fatto che peggiorare. Tutti sanno tutto. Sanno qual è il problema dell’America, qual è il problema del mondo, della letteratura, delle arti. I blogger sono peggio dei giornalisti, gli utenti di Twitter sono peggio dei blogger. Se esisteva un’arte del non sapere, l’abbiamo perduta. «L’unica cosa che so», disse Socrate, «è che non so nulla». Magari non è stato il primo a dirlo, ma comincio a sospettare che sia stato l’ultimo.
Il rabbino Greenbaum mi convocò nel suo ufficio, invitandomi a sedermi. Mi accomodai con qualche difficoltà sulla sedia di fronte alla sua e mi fissai le scarpe.
«Dimmi», disse il rabbino Greenbaum, «credi che Hashem ti ami?».
«Sì», risposi.
«E credi che Hashem voglia che tu Lo ami?».
«Sì», risposi.
«E allora come credi che si senta Hashem quando affermi che non riesce a fare qualcosa?».
«Male», risposi.
«Naturalmente», disse il rabbino Greenbaum. «E tu sai che Lui riesce a fare qualunque cosa».
Annuii.
«Ma se Lui non riesce a sollevarlo...», dissi.
«Certo che riesce a sollevarlo».
«Ma allora non riesce a farlo così pesante...».
«Certo che ci riesce».
«Ma allora...».
«Shalom», disse il rabbino Greenbaum, attorcigliandosi la barba, «sono più intelligente di te?».
Annuii.
«Sono più dotto di te?».
Annuii.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», disse. «Okay?».
Annuii.
«Ora torna in classe», disse il rabbino Greenbaum.
Mi alzai avviandomi verso la porta. La sua risposta non era una risposta. Adesso la questione più
importante era perché lui insisteva che lo fosse. -Raggiunsi la porta del suo ufficio e mi voltai verso
di lui.
«Rabbino Greenbaum?», dissi.
«Sì?»
«Mi dispiace di aver messo in dubbio Hashem», dissi.
Lui sorrise.
«Sei un bravo ragazzo», rispose.
Mi incamminai lungo il corridoio in direzione della mia classe. Alle mie spalle, udii la porta
dell’ufficio del rabbino Greenbaum richiudersi - il cigolio dei cardini logori, lo scatto della maniglia
d’acciaio della porta, e poi la serratura, pesante, bloccare la porta scorrendo vigorosamente.
(Traduzione di Licia Vighi)
Ansa» 2009-03-26 10:02
SAVIANO: CAMORRA UCCIDE CON SILENZIO E DIFFAMAZIONE
(di Bianca Maria Manfredi)
MILANO - Il silenzio e la diffamazione sono armi terribili in mano alla camorra e l’ordigno adatto per combatterli è quello della parola. Anche la parola, o meglio le parole, dette questa sera da Roberto Saviano allo speciale di ’Che tempo che fa’. Lui stesso si è definito una "operazione mediatica", nata e portata avanti perché si conoscano gli orrori della camorra e si capisca che riguardano tutti. Il suo "sogno" è che la lotta alla criminalità organizzata diventi una vera e propria moda. E’ quello che "i grandi editori, le televisioni, trovassero un punto comune, anche conveniente. Perché non creare una moda?". E’ una provocazione, quella dell’autore di Gomorra (che dal 13 ottobre 2006 vive sotto scorta), ma non più di tanto. In un’intervista al Tempo, Carmine Schiavone ha profetizzato che la camorra tenterà di far fuori Saviano quando cadrà nel dimenticatoio. "La cosa più grave che può fare la politica - ha detto lo scrittore - è il silenzio. La cosa più grave che possono fare gli elettori è scegliere il silenzio".
Questo "colpevole silenzio" riguarda però anche i giornali. Saviano ha fatto un monologo di una quarantina di minuti proprio per parlare della forza della scrittura ed è partito per parlarne dai titoli dei giornali locali delle zone di guerra dove si combattono le battaglie della camorra. Sono titoli che fanno da cassa di risonanza alla criminalità organizzata, che mostrano un modo inquietante di vederla, con parole come ’sindacalista giustiziato’ per parlare di un assassinio. E poi ci sono le voci, che fanno dubitare dell’onestà di don Beppe Diana, che hanno fatto ventilare la possibilità di una connivenza con la camorra di Salvatore Nuvoletta, un carabiniere di 20 anni ucciso mentre era disarmato e con un bambino sulle ginocchia da una squadra di camorristi. "Perché non avete mai sentito questo nome? - si è chiesto Saviano - E’ un carabiniere di 20 anni. Non lo avete mai sentito, perché quando la camorra uccide non lo fa con le pallottole ma con la diffamazione". Così il suo monologo è stato un elenco di persone, di storie, di accuse per le infiltrazioni della camorra, che ad esempio nell’edilizia non opera solo al Sud, ma tanto anche al Nord, in città come Milano, Parma, per non parlare di Berlino. Queste storie di omicidi giornalieri non arrivano quasi mai sulle pagine nazionali. Ogni tanto la notizia arriva, quando si sparge molto sangue e ci sono grandi tragedie.
Ci sono due o tre persone uccise al giorno e la cronaca nazionale le ignora. Allora, l’invito è a non smettere di parlare, come lui stesso non smette di fare nella sua vita non più privata ma "blindata". Più del racconto di questi ultimi tre anni con i Carabinieri, che definisce come una nuova famiglia, ha detto tanto l’immagine dei militari che lo hanno scortato fuori dallo studio televisivo. "Io - ha detto - esisto ora, poi vado in una stanza e non ho più vita fino al prossimo appuntamento".
Il nodo in gola. E due passi da fare
di Maria G. Di Rienzo *
Non e’ per raccontarvi i fatti miei, pero’ c’e’ un’incongruenza che mi tormenta. Voglio capire. Io ho abitato per un anno circa in un tugurio senza riscaldamento (avevo una stufetta a legna per tre stanze e ti riscaldava solo se ci stavi appiccicata). Il cesso, non posso chiamarlo "bagno" per rigore scientifico, era all’aperto: mettere il cappotto per andare a fare la pipi’, di notte, nel gelo, era qualcosa che trovavo allucinante. Il lavandino della cucina non aveva il tubo di scarico e il proprietario non voleva spendere i soldi neppure per un miserabile pezzo di plastica: cosi’ io lavavo i piatti con un occhio sul rubinetto e uno sulla bacinella sottostante. Faticavo a trovare lavoro, perche’ all’epoca, assieme ai meridionali, i nemici additati da media e vari politici ecc., quelli che stavano devastando la nostra nazione, erano i giovani "rossi" come me. Gli immigrati dall’estero erano ancora troppo pochi per costituire un bersaglio reale. Non avevo un soldo in tasca, quindi, e a volte stavo in piedi dal mattino alla sera con due cappuccini. Il clima culturale era tale che la polizia sembrava appostata per fermarmi non appena mettevo il naso fuori di casa: credo che mi abbiano controllato i documenti duemila volte e fatto aprire la borsa, quando l’avevo, altre mille. Il momento piu’ divertente fu quando un agente, indicando un assorbente interno disse arcigno: E questo cos’e’? Ma ci sono stati altri momenti, un po’ peggiori. Lasciamo stare. In tale difficile periodo della mia esistenza, mi e’ capitato di riuscire a bere due birre di fila, e quando facevo la volontaria alla spina della birra, durante una festa, sono probabilmente riuscita a berne anche tre.
Quello che non mi e’ capitato mai, neppure quand’ero infelice al sommo grado, arrabbiata, sfinita dall’odio attorno a me, e’ stato pensare di aggredire qualcuno, di violentarlo e/o ucciderlo a botte. Naturalmente. Sono una donna. Le donne non stuprano gli uomini.
Ma non e’ cosi’ semplice, sapete, perche’ se avessi guardato in basso nella scala gerarchica probabilmente avrei trovato anch’io qualcuno a cui fare del male, a cui rovesciare addosso centuplicato il male fatto a me. Un’altra donna, un bambino, un animale. Ma non volevo e non potevo. Non accettavo la graduatoria del dominio, non l’accetto tuttora.
Continuo a pensare che ogni essere umano dovrebbe poter vivere una vita decente, usare le proprie abilita’, dare e ricevere amore, e che anche agli animali dovrebbe essere dato maggior rispetto.
Continuo a pensare che Giovanna e Nicolae, entrambi esseri umani, condividessero il diritto di vivere: non semplicemente di sopravvivere, proprio di vivere, e al meglio possibile. Ma lei e’ stata uccisa, nel modo orribile che sappiamo, soffrendo, lottando, come altre migliaia di donne muoiono ogni giorno. E mi e’ bastato uno sguardo alla baraccopoli di Tor di Quinto perche’ mi venisse un nodo in gola. Possono vivere cosi’, degli esseri umani?
Niente prediche, per carita’, stiamo ai fatti. Mi par quasi di sentirli, politici e opinionisti e tuttologi. Ho soluzioni da proporre, qualcosa di concreto, invece di ripetere per l’ennesima volta le stesse cose, eh, ce l’ho? Si’. Per iniziare, ne ho due. Sono risposte di base, e non affrontano altre questioni a cui sono ovviamente correlate, come la necessita’ di un cambiamento radicale dell’ordine politico ed economico su scala mondiale: ma il piu’ lungo dei viaggi comincia con un solo passo, e io ve ne propongo due.
*
Il primo e’ che vorrei partisse da subito, con il coinvolgimento di istituzioni, scuole, ong, una grande campagna contro la violenza di genere.
Manifesti, forum, incontri, conferenze, la rete delle Commissioni pari opportunita’ scenda in campo e faccia il mestiere per cui l’abbiamo creata, le ministre e le parlamentari si siedano attorno ad un tavolo e comincino a parlarne, il movimento femminista si sta gia’ muovendo: andiamo alla manifestazione del 24 novembre a Roma, tanto per cominciare, e facciamola riuscire piu’ che bene.
La societa’ e’ satura di misoginia e violenza di genere. Il trattamento volto a degradare le donne e’ cosi’ pervasivo e "normale" che non ci facciamo neppure caso. Siamo tutti coinvolti in questo massacro, perche’ la violenza senza fine che investe le donne e’ collegata direttamente alla volonta’ di disumanizzarle, e quando hai reso qualcuno disumano, tutto e’ possibile ("Gli ebrei sono certamente una razza, ma non una razza umana", Adolf Hitler: sei milioni di morti nei campi di sterminio).
Dobbiamo innanzitutto imparare a vedere/riconoscere la violenza, e non solo la sua spettacolarizzazione o strumentalizzazione. Il quadro include la violenza di stato e quella individuale, quella pubblica e quella privata.
Razzismo, omofobia, e altre forme di marginalizzazione che razionalizzano, "spiegano" la violenza, la narrano come inevitabile e necessaria, provengono da un’unica sorgente, e si alimentano l’un l’altra e si costruiscono l’una a partire dall’altra. Il nome della sorgente e’ sessismo. Il nome del "nemico" primario, quello su cui si costruiscono tutti gli altri, e’ donna.
Quindi non si tratta solo di cio’ che gli individui compiono o possono compiere per le ragioni piu’ disparate: la violenza e’ sostenuta istituzionalmente, e’ sistemica, e percio’ un certo grado di essa (in diverse forme e contesti ecc.) diventa accettabile, e in alcuni casi persino raccomandato.
Quando la III Corte di Cassazione diventa famosa per la "sentenza dei jeans" e poi per quella in cui riconosce attenuanti allo stupratore ("patrigno" della vittima) perche’ la ragazzina avrebbe avuto esperienze sessuali precedenti lo stupro, la legge italiana sta dicendo esattamente questo: che un certo grado di violenza e’ accettabile in condizioni date. La violenza accettabile e’ (quasi) sempre quella che una donna subisce, il motivo per cui e’ accettabile e’ che la donna la vuole, la merita, se l’e’ andata a cercare. E comunque, soddisfare gli uomini e’ tutto cio’ a cui una femmina serve. Ci sono soldi da fare, amici.
L’industria dei giocattoli sta lanciando in questo momento nuove linee dirette a bambine dai sei ai nove anni: cosmetici, piccoli reggicalze, top di tessuto elastico. Non e’ mai troppo presto per infilare nelle menti delle bambine questo concetto: cio’ che e’ veramente importante e’ la loro abilita’ di compiacere sessualmente gli uomini. Ok?
Quando non vi sono reti di sostegno sociale (welfare, redistribuzione equa delle risorse) una donna che vive con un partner violento e’ costretta a restarci. Quando impieghi mal retribuiti, non sicuri, non permettono ad una donna di costruirsi una vita decente, la espongono a situazioni in cui la violenza e’ facilitata. E questa e’ un’altra responsabilita’ istituzionale rispetto alla violenza di genere.
*
La seconda proposta: bisogna accelerare sul pedale dei diritti per gli immigrati. Proprio. Le persone che vengono qui sono nostri concittadini e concittadine, lavorano qui, hanno figli qui, e capita che commettano crimini qui, proprio come gli italiani. Ma noi continuiamo a dir loro che questo non e’ il loro paese, che non lo sara’ mai.
La cittadinanza degli immigrati e delle immigrate deve avere pieno titolo, diritto di voto compreso, responsabilita’ verso il bene comune compresa, e non tanto e non solo per considerazioni etiche: se sai di essere a casa tua e’ piu’ difficile che ti venga voglia di distruggerla; se sai di essere tra persone civili e accoglienti, che potrebbero persino diventare amici, e’ piu’ difficile alimentare l’odio in ambo le direzioni.
E’ inutile pensare, come qualcuno non solo pensa ma dice, che possiamo rimandare i migranti da dove vengono. Le condizioni oggettive (e qui sto sul piu’ crudo pragmatismo) economiche, storiche, sociali non permettono il tipo di soluzione "scopiamoli sotto il tappeto e dimentichiamoci di loro", e lo sa bene anche chi strilla il contrario.
Percio’ dobbiamo affrontare la situazione e renderla il piu’ possibile pacifica e accettabile e serena per tutti. E quando un’idiota ci passa un volantino con su scritto "Questi non devono piu’ toccare le nostre donne" restituiamolo chiedendogli da quando e’ stata reintrodotta in Italia la schiavitu’: le donne non sono di nessuno, appartengono a se stesse, come qualsiasi altro essere umano sulla faccia della Terra. E gli italiani le degradano e feriscono quanto gli altri.
*
Viviamo in un paese in cui la gente spara dalle finestre gridando "Vi odio tutti", in cui i bambini si impiccano non sopportando lo scherno e l’esclusione, in cui ragazzi di vent’anni si danno il turno a stuprare una quindicenne intercalando la violenza con giochini al computer: sono tutti fatti di cronaca, abusi commessi da italiani su altri italiani, disperazione tutta italiana, non mi sto inventando niente. Vogliamo cominciare a dire che non ci sta bene? Vogliamo spegnere i fuochi dell’odio, prima che il rogo ci annienti tutti?
* EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: IL NODO IN GOLA. E DUE PASSI DA FARE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e’ una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell’Universita’ di Sydney (Australia); e’ impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta’ e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell’islam contro l’integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un piu’ ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e’ in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81]
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA.
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 136 del 4 novembre 2007