IN NOME DELL’EMBRIONE, UNA VECCHIA E DIABOLICA ALLEANZA.
Una nota di Federico La Sala *
Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap.15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli delle donne” (p. 91).
Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: “[...] fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano [...] che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme”(Françoise D’Eaubonne).
Dopo e nonostante questo - l’acquisizione che i soggetti sono due e che tutto avrebbe dovuto essere ripensato, si continua come prima e peggio di prima.
Anzi, oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: “l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo” spinge lo Stato (con la Chiesa Cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare “la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire, non senza contraddizioni [...].
L’estrazione chirurgica degli ovociti dal corpo femminile evoca la fuoriuscita del seme dal corpo maschile producendo una mimesi fra i due sessi che irrompe sulla scena pubblica -e nella coscienza privata- ancora una volta quando arriva in tribunale: è il caso di una donna che contende al marito, da cui si sta separando, gli embrioni in attesa di essere trasferiti in utero. Ma se la separazione e la conservazione di ovociti e spermatozoi permette l’esistenza separata dei "mezzi di riproduzione" e la loro conduzione sotto l’autorità dello stato, seppure con il consenso degli interessati, a noi donne e uomini spetta l’assunzione di una nuova, perché sconosciuta, responsabilità.
Abbiamo collettivamente riconosciuto, e resa possibile laddove faticava a emergere, la responsabilità e la libertà femminile sul nostro corpo anche quando racchiude la possibilità di un’altra vita, la responsabilità verso altri e altre (e non solo figli); come essere responsabili di un ovocita sia pure estratto a fini riproduttivi, di un embrione concepito altrove?
Forse prendendo la parola, così che argomenti che sembrano interessare solo esperti da un lato e coppie infertili dall’altro entrino nella coscienza collettiva e assumano quel senso che ora fatichiamo a trovare: se le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della "libertà" di generare" (Maddalena Gasparini, Vice-coordinatore del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia, 2002: www.ecn.org; sul tema, inoltre, si cfr. anche Dietro al referendum, una riflessione sulla libertà delle donne: www.universitadelledonne.it).
E, andando oltre, finalmente prendere atto - contro tutte le tentazioni biologistiche e nazistoidi - che due esseri umani occorrono per creare un altro essere umano (Feuerbach) - non solo sul piano fisico (“in terra”), ma anche e soprattutto sul piano spirituale (“in cielo”), e - cosa ancora più importante e decisiva - che il famoso soggetto, cioè ogni essere umano, è due in uno - figlio e figlia della Relazione di Due IO.... e che, proprio per questo, è capace - a sua volta (uscito dallo stato di minorità e giunto, al di là dell’Io penso, all’Io sono...) - di mettersi sulla strada del dialogo con altre o più persone e dare vita alla stessa (e tuttavia sempre nuova) Relazione, generatrice di nuove parole, di nuove azioni, e di nuovi esseri umani.....
Federico La Sala
* www.ildialogo.org/filosofia 13.02.2005.
Sul tema, sempre del prof. Federico La Sala, si cfr.:
IL CATTOLICESIMO-ROMANO E I SUOI SCHELETRI NELL’ARMADIO...
CATTOLICESIMO, BERLUSCONISMO, CRISTIANESIMO: DIO E’ RICCHEZZA ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2008)!!!
QUESTA E’ LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI E LA CHIESA "CATTOLICA" E’ LA CUSTODE "UNIVERSALE" DELL’ORDINE SIMBOLICO DI "MAMMONA" E DI "MAMMASANTISSIMA" ....
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE, DOMANI, E SEMPRE!!!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE, NELLA TRADIZIONALE LETTURA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, DI GIANFRANCO RAVASI
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI". IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA".
La bioetica e le forche caudine dei laicisti
Un dibattito a Torino fra Boncinelli, Mori, Flamigni e Pessina. Il filosofo cattolico: certa scienza svaluta l’idea di persona
Dal Nostro Inviato A Torino Edoardo Castagna (Avvenire, 21.09.2007)
Un palco decisamente sbilanciato sul versante laicista, quello allestito da Torino Spiritualità per discutere di «Cellule staminali e procreazione assistita: un nodo biologico e politico». L’apertura, ieri nella cornice di Palazzo Carignano, sembrava promettente: cercare di capirsi sulle parole da usare, per dar vita a un confronto equilibrato. Ma, non appena Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, fa notare che il problema etico non verte certo sulle definizioni, i meccanismi d’attacco laicisti scattano. Mentre Pessina rileva che «il problema etico sorge nel momento in cui si dà una valutazione dei beni in gioco e della loro gerarchia, in assenza di una demarcazione evidente tra il bene assoluto e il male assoluto», Maurizio Mori, docente di Bioetica a Torino, sbotta: «Da un punto di vista etico, o la fecondazione è lecita o non lo è. Chi l’accetta, la deve accettare con tutte le sue varianti, omologa ed eterologa. Oggi per la Chiesa la battaglia contro la "tecnoscienza" ha preso il posto di quella contro l’astronomia di Galileo». Carlo Flamigni, docente di Ostetricia a Bologna, chiama fuori la scienza dalla decisione sul momento dell’inizio della vita personale - «esistono molte posizioni, tutte accettabili perché tutte razionali» -, per poi virare subito nel ritornello dell’attacco alla Chiesa, rea - secondo il membro del Comitato nazionale di Bioetica - d’incoerenza sulle scelte riguardo il sorgere dell’esistenza individuale, arrivando a sostenere che «all’interno della Chiesa ho contato nove posizioni diverse». Quali siano e dove le abbia scovate, tralascia di specificarlo, preoccupato com’è dall’esigenza di sostenere che «su queste cose la verità non esiste, e di certo non può definirla la biologia». Un punto, questo, sul quale Edoardo Boncinelli, docente di Biologia all’Università San Raffaele, concorda prontamente: «La scienza non può rispondere alle domande su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. A farlo devono essere i cittadini». Ma a Mori nemmeno la posizione relativista di Flamigni sta bene: «No, anche se non esiste una tesi unica, noi possiamo decidere». E, incalzato su quale sia secondo lui il momento dell’inizio dell’esistenza umana, spara: «Quando le strutture cerebrali iniziano a funzionare; in altre parole, quando inizia il pensiero». Con buona pace di malati e minorati di mente: ma qui è il solito gioco laicista, che anche di queste persone "inutili" si sbarazzerebbe senza troppe esitazioni. Ribatte Pessina: «Se oggi non ci fosse una grande spinta pratica, e anche utilitarista, su se e come usare gli embrioni, su che cosa farsene dei corpi senza più pensiero, non ci sarebbe tutto questo dibattito». «Verissimo», conferma Mori. Che però coglie l’occasione per dar nuovo fuoco alle artiglierie, e farsi paladino anche degli esperimenti sugli embrioni "chimera": «Il no della Chiesa di oggi è identico a quello degli oppositori delle vaccinazioni di inizio Ottocento, quando si diceva che erano degradanti perché mescolavano linfa umana e linfa di vacca». E lancia un mezzo manifesto della bioetica laicista: «Suo dovere è scovare i nostri tabù, metterli in piazza e farci cambiare idea». Qualcuno prova a lanciare la claque, senza successo. Boncinelli intanto smentisce la tesi secondo cui in Italia le leggi che tutelano gli embrioni dalle manipolazioni ai fini della ricerca si traducano in un ritardo del nostro Paese in campo scientifico: «Anzi: in certi settori, come la fecondazione o la ricerca genetica, siamo all’avanguardia. Il problema della ricerca in Italia è ben più ampio, ed è di risorse». E puntualizza anche che «quei pochi embrioni attualmente congelati non fornirebbero nessun aiuto all’indagine scientifica. Comunque, il problema resta etico, la scienza qui non ha nulla da dire». Ancora una volta, Mori rilancia come un "dovere" la sperimentazione a tutto campo, e rimesta su quelle che definisce le «contraddizioni» della Chiesa: «Nel 1277 sosteneva che non c’era aborto prima che venisse infusa l’anima». Ribatte Pessina: «Ogni epoca ha definito intuitivamente che cosa sia la persona, in base alle proprie conoscenze. Oggi vediamo molto più in là di un tempo, e l’Occidente ha sempre camminato nella direzione di un’estensione della nozione di persona. Oggi certa scienza e certa filosofia vorrebbero invertire la rotta».
DIALOGHI
I nodi insoluti dell’evoluzione: a confronto ieri a Torino il paleoantropologo Fiorenzo Facchini e il genetista Guido Barbujani
Da scimmia a uomo: l’enigma del «salto»
Lo scienziato cattolico: «Tra l’animale e l’uomo c’è un salto ontologico, uno scarto dove Dio emerge come concausa» Dal Nostro Inviato A Torino Edoardo Castagna (Avvenire, 22.09.2007)
Basta poco, basta mettere da parte per un attimo gli steccati ideologici, per riportare il confronto tra credenti e non credenti nei proficui binari di un dialogo pacato e costruttivo. Ne hanno dato un ottimo esempio ieri, a Torino Spiritualità, l’antropologo e sacerdote Fiorenzo Facchini e il genetista dichiaratamente non religioso Guido Barbujani, che al Teatro Gobetti si sono confrontati su «Evoluzionismo, darwinismo e Intelligent Design: storie di prospettive e contrasti».
Un dialogo che ha fatto emergere le differenze che permangono tra la prospettiva religiosa e quella che non guarda al trascendente, ma senza degenerare in battaglie campali condite dalle fin troppo facili accuse di oscurantismo che, trito ritornello, i laicisti più scaldati non si stancano di lanciare contro chiunque non si rassegni a consegnare, come loro, l’uomo e il mondo al dominio del cieco caso.
Facchini ha subito puntualizzato la distanza tra l’evoluzione, «fatto appurato anche se dalle modalità non ancora del tutto chiarite», e l’evoluzionismo, «dottrina costruita sull’evoluzione e che la inserisce in una visione dell’uomo e del mondo che non è più derivata esclusivamente da aspetti scientifici». Allo stesso modo, ha puntualizzato, «un conto è la creazione, evento che si raggiunge non con la scienza, ma con la filosofia; e un conto è il creazionismo, una certa visione della creazione che può sì essere, quale la sostengo io, aperta all’evoluzione, ma può anche chiudersi a riccio, come certe posizioni americane, o quasi, come nel caso dell’Intelligent Design, sempre di matrice statunitense. Alla fine, anche questa posizione si riporta a un creazionismo puro».
Puntualizzazioni, queste, che Barbujani sottoscrive senza remore, aggiungendo anzi che «l’evoluzionismo è figlio di Darwin, ma non è Darwin che, per esempio, era privo degli strumenti genetici che oggi abbiamo a disposizione. Analogamente, l’Intelligent Design oggi proposto negli Usa è una versione aggiornata del vecc hio creazionismo, che si puntella su quegli aspetti ancora oscuri del mondo naturale sostenendo che la scienza non potrà mai arrivare a spiegarli. E che quindi rimandano a un Progettista intelligente».
Una posizione, questa, della quale lo stesso Facchini sottolinea la pericolosità, «sia filosoficamente sia religiosamente. Perché se si riduce Dio a un ruolo di esplicazione degli attuali limiti della scienza, un domani, quando l’indagine umana avrà colmato qualche lacuna, il divino verrebbe relegato ancor più ai margini. Qui si confondono i piani, mentre le lacune scientifiche non si colmano con la religione. Non soltanto l’Intelligent Design non è scienza, ma rende anche un cattivo servizio alla religione. Tutto questo, fermo restando che è più che legittimo affermare che Dio ha un progetto sulla creazione. Semplicemente, si tratta di un altro piano».
Che quella sull’Intelligent Design sia più una questione politica che scientifica, lo conferma il genetista dell’Università di Ferrara, lamentando il pessimo clima che il dibattito, «malamente importato in Europa», ha generato: «I rapporti tra evoluzione e cattolicesimo, anzi, sono sempre stati ottimi, da Teilhard de Chardin in giù. Ricordiamo la famosa lettera di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze, dove assumeva l’evoluzione come un dato di fatto. Poi, accanto a questo, ci sono le domande sul bene, sul male, sulla finalità: qui la scienza non ha nulla da dire, è il campo della filosofia e della teologia». È a questo punto che Facchini rilancia la sua proposta di concentrare la riflessione non sul pericoloso e dubbio concetto di «disegno intelligente», ma su quello più ampio di «progetto superiore» [proposto per la prima volta su Avvenire del 2 agosto scorso, ndr]: «Un progetto che non si limita alla natura, ma che abbraccia l’intera progettualità divina sul creato».
Un’apertura al trascendente sulla quale Barbujani, scienziato non religioso, ammette lealmente di non aver nulla da dire, riconoscendo anzi che «sono domande profondamente insite nella nostra mente». Facchini procede a sviluppare la sua argomentazione, ricordando come «tra l’uomo e l’animale c’è un salto ontologico: noi non possiamo derivare nella nostra totalità, con la nostra spiritualità, dalle grandi scimmie. Qui c’è uno scarto, qui emerge Dio come concausa dell’evento-uomo. C’è una discontinuità irriducibile, ed è la cultura. Quando Darwin negò un simile salto, parlando piuttosto di semplice differenza di grado, sconfinò nell’ambito della filosofia». Barbujani conferma che «la scienza non ha elementi per testare eventuali salti ontologici», ma obietta: «Le differenze tra uomo e animale paiono sempre meno evidenti, abbiamo evidenze di "cultura" anche tra le scimmie superiori. È difficile tracciare una linea netta tra noi e gli altri animali, anche se non ci sono dubbi sulla disparità quantitativa tra la nostra cultura e la loro».
Il problema però, ha ribattuto Facchini, è intendersi su che cosa si debba intendere per "cultura": «Oggi parte degli scienziati tende a estendere questo concetto, includendoci tutto ciò che non è geneticamente determinato: così facendo, la si può rintracciare anche tra gli animali. Ma questa definizione di cultura umana non coglie quanto c’è di specifico nell’uomo: la capacità di progettare, e la capacità di elaborare simboli». Eccole, le differenze di prospettiva tra una scienza ispirata al trascendente e una che non lo è. Nette e marcate. Ma che non hanno nessun bisogno di aggredire per affermarsi.
Owen Gingerich, astronomo dell’Università di Harvard, spiega perché la visione di un mondo frutto del caso ha in sé qualcosa di assurdo. Sulla scia di Keplero, Galileo, Newton e altri teorici del cosmo
Impronte digitali di Dio nel cosmo
«Sarebbe bastata una minima discrepanza in uno solo di questi parametri e avremmo avuto un universo totalmente inadatto alla vita e all’uomo»
di Luigi Dell’Aglio (Avvenire, 21.09.2007)
Quando sente parlare i suoi colleghi atei, prova delusione Owen Gingerich, famoso astronomo di Harvard. Fra loro, in particolare, gli risulta disarmante e deprimente Steven Weinberg, con lo slogan: «Più l’universo diventa comprensibile, più appare inutile». Gingerich obietta che questa mancanza di fede è del tutto immotivata. E cita la grande scienza da Giovanni Keplero (1571-1630) a oggi. Keplero, concludendo le sue Harmonices Mundi, scriveva: «Non c’è in me ambizione più grande né desiderio più ardente dello scoprire se posso trovare Dio anche dentro di me; questo Dio che, quando osservo l’universo, riesco quasi a toccare con mano». Profondo come «teologo per passione» non meno che come scienziato, Gingerich, che a Harvard ha insegnato a lungo astronomia e storia della scienza, scende di nuovo in campo con il saggio Cercando Dio nell’Universo (editore Lindau, 14 euro), in questi giorni in libreria. (Molto significativo è il titolo originale del libro: God’s Universe, l’Universo di Dio). E fa capire, da scienziato, le ragioni per cui ritiene che il cosmo sia frutto non di un caso (incomprensibilmente fortunato), ma di un disegno soprannaturale. Quanto ai colleghi atei, sottolinea, sono ovviamente liberi di pensarla come vogliono ma non dovrebbero servirsi della loro posizione «e presentarsi come portavoce della scienza, per propugnare la causa dell’ateismo». «Contro questo atteggiamento» aggiunge «è necessario e legittimo opporre resistenza».
Come si spiegano l’Universo e la vita? Prima di tutto c’è il fine tuning, il bilanciamento dei parametri della fisica. L’astronomo inglese Sir Martin Rees ha accertato che sei sono i numeri-chiave. «Sarebbe bastata una minima discrepanza in uno solo di questi parametri e avremmo avuto un universo totalmente inadatto alla vita» osserva Gingerich. Se l’energia del Big Bang fosse stata minore, il cosmo avrebbe presto avuto termine collassando su se stesso. Se fosse stata maggiore, la forza di gravità si sarebbe ridotta rapidamente. In entrambi i casi, l’universo non avrebbe prodotto gli elementi necessari alla vita. «Se un dipnoo preistorico, strisciando sulla riva, fosse andato a sinistra invece che a destra, l’evoluzione dei vertebrati avrebbe preso un’altra direzione». Quando dalla fisica si passa alla biologia, le «coincidenze» sono ancora più impressionanti, rileva. Il Dna può formarsi per caso? E una proteina, fatta di 2000 atomi? Gingerich dà la parola a Freeman Dyson: «Questo è un universo che doveva già sapere che saremmo arrivati». (Non manca un’apertura a ET. «Nel 1277, il vescovo di Parigi dichiarò "eretico" il limitare alla sola Terra la potenza creatrice di Dio»).
Il libro racconta come i grandi astronomi abbiano posto in cima ai loro pensieri due obiettivi - la conoscenza e Dio - spesso riunendoli in uno. Tipico il caso di Niccolò Copernico (1473-1543), il padre della teoria eliocentrica. Per inciso, Owen Gingerich spiega che il sistema copernicano, poi abbracciato da Galileo Galilei (1564-1642), sarebbe stato provato soltanto dalla legge di gravitazione universale di Isaac Newton (1642-1727) e dal pendolo che nel 1851 Leon Foucault fece oscillare nel Panthéon di Parigi. All’epoca del duro scontro tra geocentristi ed eliocentristi, i primi chiedevano ai secondi la «prova apodittica» del moto terrestre. E astronomi come il danese Tycho Brahe (1546-1601) si domandavano: «Ammettiamo che la Terra ruoti a questa vertiginosa velocità. Ma allora, come mai, quando lanciamo in alto un sasso, questo ricade nello stesso punto, e non più in là? E come fa la Terra - nel suo moto attorno al Sole - a trascinarsi appresso Luna?» Newton avrebbe chiarito tutto con la forza di gravità, ma quasi due secoli dopo. La prova convincente non l’aveva scovata neanche Copernico, che nel 1536 aveva ultimato la sua opera fondamentale, De revolutionibus orbium coelestium libri VI. La Terra che si muove attorno al Sole era ipotesi destinata a urtare contro la tradizione scientifica di matrice aristotelica e contro l’interpretazione letterale delle Scritture (anche se già Sant’Agostino aveva consigliato di tener conto del valore simbolico del testo biblico). Ma Copernico non aveva alcuna intenzione di contestare la metafisica e scontrarsi con le autorità religiose. Il grande scienziato polacco, fa notare Gingerich, era semplicemente convinto che il sistema eliocentrico, comportando una più armoniosa struttura del cosmo, una coerenza e un’eleganza maggiore, fosse più adatto a rispecchiare la grandezza di Dio. «Troviamo in questo ordinamento un’ammirevole simmetria del mondo, quale altrimenti non è possibile incontrare» scrisse.
Fra gli astronomi animati dalla fede, Gingerich mette se stesso. «Sono persuaso della presenza di un Creatore, dotato di un’intelligenza superiore. E non mi sento in contraddizione con la mia qualità di scienziato». Per l’astronomia ha un amore esuberante; da bambino aveva costruito, con il padre, un telescopio rudimentale. Gingerich crede nella «creatio continua». E trova conferma nei fossili di creature estinte milioni di anni fa. «Non suggeriscono l’idea di un universo progettato per essere ’istantaneamente perfetto». «Inoltre, se l’universo fosse predeterminato anche nei minimi particolari, l’uomo perderebbe la libertà e la possibilità di scelta. Dio può realizzarsi in molti modi, non solo per mezzo di un progetto di cui fin dall’inizio è previsto ogni dettaglio».
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
CATTOLICESIMO, BERLUSCONISMO, CRISTIANESIMO: DIO E’ RICCHEZZA ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2008)!!!
QUESTA E’ LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI E LA CHIESA "CATTOLICA" E’ LA CUSTODE "UNIVERSALE" DELL’ORDINE SIMBOLICO DI "MAMMONA" E DI "MAMMASANTISSIMA"
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE, DOMANI, E SEMPRE!!!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE, NELLA TRADIZIONALE LETTURA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, DI GIANFRANCO RAVASI
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED ECOLOGIA: SCIENZA E FEDE...
Scenari.
Antropocene: che cosa chiede Dio all’uomo?
Siamo in una nuova era dove l’uomo può giocare il ruolo decisivo nel futuro del Pianeta. Però dal punto di vista cristiano è una sfida a unire il genere umano nella solidarietà e nella carità
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
Durante la seconda metà del XIX secolo, il geologo e sacerdote cattolico Antonio Stoppani, autore del primo trattato di geologia del territorio italiano, intitolato Il Bel Paese (1876), portò l’attenzione sul fatto che la presenza dell’essere umano sul nostro pianeta aveva raggiunto un’influenza globale, suggerendo di chiamare “antropozoica” l’epoca geologica nella quale ormai ci si trovava. Dopo oltre un secolo, Paul Crutzen e Eugene Stormer si ricollegarono proprio a Stoppani intitolando Anthropocene il loro articolo apparso nell’anno 2000 sulla “Global Science News Letter”, nel quale si chiedevano a partire da quale data, e a motivo di quali fenomeni antropici, si potesse definire l’inizio di questa nuova “era geologica”. Il termine è tornato alla ribalta in questi ultimi anni a causa della questione ecologica, dei cambiamenti climatici e degli altri possibili effetti della presenza umana, diffusa e pervasiva.
Dal punto di vista scientifico, la definizione dell’inizio formale di una nuova era spetta ai geologi della International Commission on Stratigraphy (che non ha ancora preso una decisione); tuttavia, nei suoi aspetti mediatici, sociali e politici, nell’Antropocene ci siamo già da un pezzo.
L’essere umano, entrato nella storia naturale «in punta di piedi », per usare un’espressione di Pierre Teilhard de Chardin, sembra poter adesso influenzare in maniera decisiva e globale molte delle dinamiche terrestri a livello chimico, biologico, geologico e ambientale, tanto da poter, appunto, essere considerato un fattore determinante per lo stato complessivo del pianeta. Il tema, però, è filosoficamente più profondo di quanto sembri, se pensiamo che espressioni come “influenza sul pianeta” e “influsso globale” possono riguardare anche la comunicazione, la condivisione e la solidarietà.
Dal documento programmatico Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato (1990) di Giovanni Paolo II, fino alla Laudato si’ (2015) e alla Fratelli tutti (2020) di Francesco, il magistero della Chiesa cattolica ha da tempo guidato una riflessione di primo piano sulla responsabilità ecologica e sullo sviluppo sostenibile, guadagnando sul campo un’autorità ormai riconosciutale a livello internazionale. Sono insegnamenti ben noti che non è necessario qui richiamare. La teologia viene però sollecitata dalla nozione di antropocene a un’ulteriore riflessione, specie se questo termine viene compreso come «epoca in cui l’essere umano giunge a una visione unitaria e globale della sua attività sulla terra». Dio ha infatti affidato agli uomini un creato in via e l’attività umana nel cosmo - ormai operiamo ben oltre i confini della terra - contribuisce al progetto del Creatore mediante la costruzione di un futuro aperto sulla storia.
La teologia potrebbe allora porsi una domanda, forse inconsueta ma significativa: qual è l’Antropocene voluto da Dio? Teilhard de Chardin si era già chiesto un secolo fa qualcosa del genere, sebbene impiegando termini diversi. Partendo dai suoi studi di paleontologia, il pensatore gesuita consegnava la suggestiva visione di un mondo in convergenza evolutiva, che diventa gradualmente più complesso, dalla biosfera fino alla noosfera, ambito del pensiero, che pervade l’intero pianeta. Grazie alla sua vita spirituale, l’uomo avrebbe le risorse per unificare tutto il genere umano nella solidarietà e nella carità. Compito dell’umanità, sosteneva, è allora adoperarsi per realizzare tale condivisione e convergenza, lasciando che Cristo, centro del cosmo e della storia, possa attrarre tutti a sé, affinché Dio sia tutto in tutti.
Se osserviamo gli effetti che cristianesimo ha determinato sulla storia, in modo particolare quella dell’Occidente, non è difficile trovare opere e prospettive di carattere globale e unificante. Si pensi agli ospedali e alla cura dell’umano, alle università e alle economie di condivisione generate dai primi istituti di credito. Si tratta di iniziative nate dal lavoro responsabile dei cristiani, ispirate a ideali di solidarietà, di condivisione e di promozione. E si stratta di attività che hanno caratterizzato in modo globale, esteso, la nostra vita sul pianeta.
Ma possiamo andare più in là e chiederci, appunto: quali manifestazioni dovrebbe avere la presenza influente dell’essere umano sul pianeta perché egli cooperi, secondo il piano di Dio, a portare il creato verso un suo compimento? La prima di esse è fare del genere umano un’unica famiglia. Tutti gli esseri umani sono ordinati a divenire membra dello stesso corpo, il corpo di Cristo: la Chiesa, sacramento universale di salvezza, è figura e segno di questa unione, ci ha ricordato il Concilio Vaticano II. L’influenza e la presenza del genere umano sul pianeta, poi, dovrebbero essere tali da aiutare, in ogni luogo e in ogni circostanza, chi rimane indietro, facendosi carico di tutti, perché «tutti siamo responsabili di tutti», espressione cara a Giovanni Paolo II e a Francesco. «Quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale - scrive Francesco nella Laudato si’ - niente e nessuno è escluso da tale fraternità. [...] Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi». (n. 92).
Nell’antropocene voluto da Dio, la rete di comunicazione con la quale l’essere umano ha interamente avvolto il pianeta, e la globalizzazione che ne deriva, verrebbero impiegate per distribuire le risorse laddove è più necessario. Si investirebbe per accrescere in tutti la qualità della vita, ma anche per condividere il pane della cultura, dell’istruzione e della conoscenza, perché comprendere la nostra storia e il ruolo dell’uomo nel cosmo è espressione di una dignità alla quale tutti abbiamo diritto. In sostanza, nell’antropocene che Dio si attende dall’uomo, la scienza sarebbe al servizio dello sviluppo di tutti e l’uomo di scienza, perché sa di più, dovrebbe servire di più...
Il mondo in cui viviamo è un mondo in costruzione, un mondo nel quale gli uni influiranno sempre più sugli altri, un mondo in cui saremo sempre più consapevoli di essere tutti in relazione, fra noi e con la natura. È però indispensabile restare tutti aperti alla relazione più importante, quella con Colui che custodisce in Sé il progetto del mondo e il senso della storia. Solo così le relazioni potranno essere costruite su un fondamento solido, nella carità, nella solidarietà e nel rispetto. «Il presente e il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio», scrive san Paolo ai Corinzi (1Cor 3, 21-23). La teologia cristiana è persuasa che in queste poche parole siano contenute tutte le istruzioni per gestire saggiamente la nuova era geologica, se così proprio fosse, che l’essere umano ha ormai inaugurato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
SCIENZA E FEDE VATICANA: LA CATTEDRA DELL’EMBRIONE. DOPO LE TRACCE DEL DNA, TROVATE LE IMPRONTE DIGITALI DI DIO!!! IL DISEGNO "INTELLIGENTE" DEGLI SCIENZIATI "CATTOLICI" E LA LORO VECCHIA E "DIABOLICA" ALLEANZA.
FLS
Cosmologia.
Sull’eternità anche la scienza è davanti a un atto di fede
Multiversi e universo circolare sono teorie che non possono essere provate sperimentalmente. Per uscire dall’impasse serve un approccio che faccia propri i metodi della filosofia e della teologia
di Piero Benvenuti (Avvenire, domenica 15 maggio 2022)
Sin dall’emergere della coscienza, l’umanità si è confrontata con l’evidente temporalità della propria vita terrena contrapposta all’esistenza di un cosmo irraggiungibile e apparentemente eterno. La regolare ripetizione dei fenomeni celesti, dai più semplici, come l’alternarsi del giorno e della notte o delle fasi lunari, sino ai più complessi, come il ripetersi ciclico delle eclissi ogni 18 anni o il moto di precessione delle costellazioni che richiesero secoli di accurate osservazioni per essere rivelati, testimoniavano una immutabilità cosmica nel tempo che sta alla base del concetto di eternità. Anche da questo confronto nasce l’aspirazione della coscienza umana a superare il limite imposto dalla morte fisica, immaginando la possibilità di proseguire o quantomeno di conservare la propria esperienza in un’altra dimensione simile, se non addirittura coincidente con l’atemporalità o eternità del cosmo.
Questo desiderio primordiale prese forma concreta nei secoli grazie, da un lato, alla visione aristotelica del cosmo, che separava nettamente il mondo terreno, mutevole e corruttibile, dall’empireo eternamente perfetto delle sfere cristalline e dall’altro alla teologia scolastica che, sposando il modello aristotelico, identificava nel cielo quasi il luogo fisico, il Paradiso, dove godere della vita ultraterrena, della vita eterna, come recita tutt’ora il Credo apostolico.
Le sfere cristalline vennero definitivamente infrante da Galilei nelle notti fatali del dicembre 1609 con le prime osservazioni del cielo con il suo cannocchiale, ma il concetto di eternità celeste rimase vivo, anche se non più sostenuto da una cosmologia comprensibile. Solamente a partire dalla metà del secolo scorso, grazie alle rivoluzionarie teorie della fisica quantistica e della relatività generale e al contemporaneo progresso tecnologico, una nuova cosmologia ha cominciato a prender forma. Sin dall’inizio il nuovo modello interpretativo rivelò la sua caratteristica fondamentale: l’universo è essenzialmente evolutivo, ha una storia che lo ha fatto passare attraverso fasi diversissime tra loro, ma tutte strettamente collegate da un processo unitario che ha prodotto entità e fenomeni di crescente complessità. Negli ultimi decenni, i nuovi sofisticati strumenti osservativi - gli eredi del cannocchiale galileiano - operanti sia da terra che dallo spazio, hanno permesso ai cosmologi di ricostruire la storia cosmica con notevole precisione lungo un periodo di ben 13,8 miliardi di anni.
Tralasciando i dettagli del modello cosmologico e soffermandoci unicamente sulla sua caratteristica essenziale, ovvero la sua evoluzione spazio-temporale, dovremmo ora riprendere l’analisi del concetto di eternità alla luce della nostra nuova interpretazione scientifica della realtà. Prima però di addentrarci nel tema, sono necessarie alcune premesse, tutte conseguenti dalla epistemologia cosmologica.
Innanzitutto dobbiamo chiederci se il metodo scientifico galileiano, che ci ha permesso di ricostruire e descrivere con successo le singole fasi dell’evoluzione cosmica e soprattutto di averne evidenziato l’evoluzione, sia veramente in grado di descrivere il cosmo come fenomeno unico e unitario. La risposta non può che essere negativa: infatti il metodo scientifico poggia sulla possibilità di ripetere l’esperimento che si vuole descrivere, eventualmente modificando le condizioni al contorno in modo da far emergere quelle regolarità che vanno sotto il nome generico di leggi fisiche. Nel caso dell’universo, tale essenziale procedimento è impossibile per l’unicità del fenomeno cosmico. Inoltre, non solo non possiamo modificare le condizioni di partenza, ma non siamo nemmeno in grado di quantificarle, il che impedisce di distinguere tra condizioni iniziali e leggi fisiche preesistenti.
Da decenni ormai i cosmologi stanno indagando la possibilità di unificare le due grandi teorie fisiche del ventesimo secolo, la fisica quantistica e la relatività generale, ma sorge sempre più prepotentemente il dubbio che l’esistenza di leggi universali - la gravità e le interazioni fondamentali - e la loro validità in ogni epoca dell’evoluzione, sia un’illazione indebita. In altre parole, anche le cosiddette leggi universali, dedotte nel presente, potrebbero essere emerse in epoche primordiali come prodotto dell’evoluzione stessa. In definitiva, un motivo in più per ammettere, con umiltà galileiana, che il metodo scientifico da solo non è adatto a descrivere la totalità cosmica e soprattutto le sue fasi iniziali.
Di fronte a questa crisi epistemologica, la cosmologia ha reagito proponendo modelli che cercano di aggirare il problema delle condizioni iniziali e dell’inizio stesso. Il nostro universo sarebbe uno dei tanti o infiniti possibili "multiversi", ognuno dei quali potrebbe aver avuto condizioni iniziali diverse e seguire quindi storie evolutive indipendenti. Oppure l’universo potrebbe avere una storia ciclica, senza un vero e proprio inizio. Teorie affascinanti e scientificamente plausibili, ma intrinsecamente non verificabili in quanto gli eventuali universi paralleli non potranno mai comunicare tra loro, così come un universo ciclico non può inviarci messaggi circa la sua precedente esistenza. Queste proposte di uscita dall’impasse cosmologico non sono scientificamente verificabili e appartengono quindi alla più ampia categoria delle teorie filosofiche e teologiche. Conseguentemente richiedono, per essere accettate, un atto di fede: torneremo a breve su questo punto.
Possiamo ora trarre una prima conclusione sul concetto di eternità: banalmente potremmo associarlo alla evoluzione cosmica che non prevede un termine temporale. Tale accostamento è però di scarso o nullo interesse, visto che l’evoluzione locale del nostro sistema solare ne prevede comunque una fine fisica, unitamente all’umanità tutta: una fine molto lontana nel tempo, quando il Sole diventerà una stella gigante e ingloberà tutti i pianeti, ma pur sempre inevitabile.
Questo concetto di durata eterna del cosmo, applicabile anche ai multiversi e all’universo ciclico, non si pone quindi in alcuna relazione con la nostra coscienza e con l’escatologia, ovvero la speranza di una sua sopravvivenza alla morte. La discussione diviene più interessante se superiamo il concetto di cosmologia scientifica, che si occupa unicamente della realtà fisica e misurabile del cosmo, e, consapevoli che l’evoluzione cosmica è unitaria e comprende nella sua storia anche l’emergere della vita biologica e della coscienza, abbracciamo il concetto di una cosmologia globale. Quest’ultima dovrà necessariamente tener conto dei risultati che il metodo scientifico ha evidenziato relativamente alle singole fasi evolutive, ma, ove questo perda, come abbiamo visto, la sua applicabilità, si avvarrà di altre epistemologie, tipicamente filosofiche o teologiche.
Il risultato non sarà quindi una singola cosmologia, ma diversi modelli cosmologici tutti aventi pari dignità veritativa. La scelta di uno di questi non sarà più obbligata da evidenze scientifiche, ma si baserà su un libero atto di fede. Potrò per esempio credere che il cosmo e la sua evoluzione, ivi compresa l’emergere della vita e della coscienza sia frutto del caso (mi trovo per caso nell’unico universo, tra gli infiniti possibili, compatibile con la vita). In questo modello, come abbiamo visto, eternità ed escatologia si trovano su piani incomunicabili. Alternativamente e, sottolineo, con uguale dignità, posso scegliere un modello nel quale il cosmo e la sua evoluzione siano frutto di un libero atto d’amore che mantiene tutta la realtà in esistenza, nell’attesa paziente che da essa emerga una coscienza che, altrettanto liberamente, voglia riconoscere tale atto d’amore e lo ricambi nei confronti del prossimo e di tutto il cosmo. La relazione che si crea in questo mutuo scambio, come conosce bene chi l’ha sperimentata con persone amate che non sono più, resiste agli insulti del tempo ed è per sempre. L’eternità comincia da qui.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ...CATTOLICO-ROMANO", DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Ignazio Marino: «Si riapra la discussione sulla legge 40»
La scelta degli accademici svedesi riaccende i riflettori sulla norma in vigore nel nostro paese dal 2004 che pone una serie di ostacoli alla possibilità offerta dalla scienza e dalla medicina
di Federica Fantozzi (l’Unità, 05.10.2010)
Merci da Sophie, felicidades da Diego, congratulations da Yuan e Xinwen. Anche dall’Italia: «Grazie Mr. Edwards, se abbiamo ancora una piccola speranza di diventare genitori è solo grazie a lei». Firmato: «Una coppia infertile».
La scelta svedese di premiare lo scienziato inglese Robert Edwards, padre putativo di oltre 4 milioni di bambini nati grazie alla fecondazione in vetro negli ultimi trent’anni, suscita entusiasmo. Non nel Vaticano. E nel nostro Paese è perplessa parte del mondo cattolico, dall’Associazione Scienza & Vita al sottosegretario Roccella.
Così, l’attribuzione del Premio Nobel riapre il dibattito sulla Legge 40 che regola la fecondazione assistita. Forse, un segno del destino. Nel 1968, quando il progetto partì a Cambridge, si parlò di scandalo e atto contro natura, si predisse un fallimento, si faticò a reperire i finanziamenti. Oggi, lo si definisce all’unanimità progresso.
In Italia la Legge 40, è stata approvata dopo un braccio di ferro politico nel 2004 ed è sopravvissuta a un referendum che vide in prima linea la Cei allora guidata da Ruini. È una delle più controverse e restrittive nel settore. Vieta la fecondazione eterologa, la donazione di ovociti, il ricorso da parte di single e gay. Circa 10mila coppie all’anno hanno scelto il «turismo riproduttivo» rivolgendosi ad accoglienti strutture svizzere, spagnole, belghe, slovacche.
Come previsto da molti medici, la Legge 40 è già stata sconfessata in sede giudiziaria. Nel 2009 la Corte Costituzionale ha bocciato il divieto di crioconservazione dell’embrione e abolito il correlato limite di tre embrioni da impiantare insieme. Norma pericolosa, hanno ritenuto i giudici, per la salute della donna e del feto. Maggiore potere decisionale spetta ai medici, spesso impegnati a seguire gravidanze multiple, a rischio, in età non giovanissima. Irrisolta la cruciale questione della diagnosi preimpianto che consente di individuare malattie genetiche o ereditarie: il divieto è stato bocciato da Tar e tribunali di merito, ma servono nuove linee guida.
Ieri è stato Ignazio Marino, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta su Ssn a riaprire le danze: «Se sono normali i controlli prima di una gravidanza per individuare eventuali malattie, perché in uno Stato laico non dovrebbe essere normale, con lo stesso obiettivo, la diagnosi preimpianto? Interveniamo prima dei tribunali».
La Radicale Donatella Poretti invita «moralisti e bigotti» a riflettere su una scienza che «amplia la libertà di scelta delle persone». E Rita Levi Montalcini plaude a «un premio ben meritato per un lavoro scientifico di fondamentale importanza per il progresso della biomedicina».
Il Nobel all’uomo che ha favorito la vita
di Maurizio Mori (l’Unità, 05.10.2010)
Una bella notizia, il Nobel a Bob Edwards. Lo scienziato inglese che dagli anni ’60 del secolo scorso si è impegnato nel mettere a punto la fecondazione in vitro con trasferimento di embrione: una tecnica che ha cambiato il modo di attuare la riproduzione umana e dato una svolta agli studi sull’embrione. Il Nobel non solo corona una vita dedita alla ricerca di un grande studioso di notevole spessore culturale, ma soprattutto è il sigillo dato dal mondo scientifico alla bontà della fecondazione assistita: la scienza riconosce che l’ampliamento del controllo umano della riproduzione è qualcosa di buono per l’umanità, di meritevole della massima onorificenza per uno scienziato.
Di fronte a un simile riconoscimento a dir poco impallidiscono le critiche mosse da alcune religioni alla nuova tecnica, accusata essere contraria alla “vita” e alla “dignità della procreazione”. Non si capisce proprio in che senso si possa dire che sia contraria alla vita una tecnica che ha consentito la nascita di ormai oltre 4.000.000 di bambini. Si dovrebbe dire al contrario che è una tecnica che favorisce la vita e consente alle persone di avere figli anche quando la natura non li dispensa più.
Ancora più difficile è capire perché dovrebbe essere contrario alla “dignità della procreazione” ricorrere all’assistenza tecnica per avere figli. Forse lo si può dire solo assumendo la “naturalità” come criterio normativo, supponendo che la natura sia buona e dimenticando come invece in realtà sia spesso avara e matrigna. Fortuna che l’uomo grazie alla scienza e alla tecnica riesce a rendere il mondo meno duro e più agevole.
Solo inveterati pregiudizi antiscientifici possono far pensare il contrario. Il Nobel a Edwards deve essere anche uno stimolo a ripensare l’etica e la politica sulla fecondazione assistita. In Italia, sfruttando abilmente lo sgomento generato da alcuni casi eclatanti di fecondazione assistita si è detto che c’era una preoccupante deregulation (il Far West), e si è approvata una legge liberticida che non solo penalizza un numero alto di cittadini nell’impegno di avere figli, ma ha fatto anche arretrare l’intera riflessione bioetica, favorendo ‘idea che la scienza comporti una sorta di “eccesso” da reprimere.
Oggi questo clima conservatore informa il disegno di legge Calabrò sul fine della vita che ci riporta a prima degli anni ’50, e aleggia come uno spettro sulla campagna elettorale che molti danno per imminente. Il premio Nobel a Edwards ci ricorda che la scienza è vettore di progresso morale e che molte delle remore diffuse sono frutto di pregiudizi e tabù. Invece di chiedere perdono per gli errori tra qualche anno, come già hanno fatto su altri temi, è bene chi i critici della scienza si ravvedano da ora, evitando inutili sofferenze.
Il Nobel per la medicina a Edwards
Critiche dal Vaticano: etica ignorata
Il britannico premiato per le
ricerche sulla fertilità in vitro
Dalla radio del Papa: scoperta
che segna la Storia, ma non
è un progresso dell’uomo
STOCCOLMA. Il padre della fecondazione in provetta, il britannico Robert Edwards, è l’unico vincitore del Nobel per la medicina 2010. Nella motivazione del riconoscimento assegnato Robert G. Edwards, pioniere di una tecnica che ha avuto fortissime ricadute nella società e che ha partire dal 1978, anno di nascita della prima bambina in provetta, Louise Brown, ha finora ha portato alla nascita di circa 4 milioni di persone in tutto il mondo.
«E’ un’assegnazione che disattende tutte le problematiche di ordine etico e che rimarca che l’uomo può essere ridotto da soggetto ad oggetto» ha commentato al presidente dell’Associazione Scienza e Vita, Lucio Romano, ai microfoni di Radio Vaticana. Nell’intervista ha sottolineato «l’inaccettabilità delle tecniche di fecondazione in vitro, che comportano la selezione e soppressione di esseri umani allo stato biologico di embrioni». «Teniamo conto - ha continuato - che Edwards segna la storia, perchè pratica il passaggio delle tecniche dal mondo degli animali, vale a dire dove, nell’applicazione degli allevamenti, venivano già da tempo messe in essere tecniche di fecondazione artificiale - all’ambito umano. Ma questo non significa assolutamente che ciò, nel suo complesso, rappresenti un progresso dell’uomo nella sua visione globale».
Professore emerito dell’università di Cambridge, Edwards ha da poco compiuto 85 anni. È nato in Gran Bretagna, a Manchester, il 27 settembre 1925, ed ha gettato le basi della fecondazione artificiale negli anni ’60 e ’70 insieme al ginecologo Patrick Steptoe, morto nel 1988. Dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale, Edwards ha studiato biologia prima negli Stati Uniti e poi in Scozia, dedicandosi agli studi di embriologia.
Nel 1958 è diventato ricercatore dell’istituto Nazionale per la Ricerca Medica e Londra, dove ha cominciato le ricerche su processo di fecondazione, A partire dal 1963 ha proseguito il suo lavoro a Cambridge, prima nell’università e poi nella clinica Bourn Hall. Qui, con Streptoe ha fondato il primo centro al mondo per la fecondazione assistita, che ha diretto per molti anni.
Medicina, il Nobel a Edwards
padre della fecondazione in vitro
Lo scienziato britannico, 85 anni, nel 1968 mise a punto con Steptoe (morto 22 anni fa) la tecnica Fivet che da allora ha permesso la nascita di 4 milioni di bambini per coppie con problemi di fertilità. Di fronte alle critiche ripeteva: "Avere un bambino è la gioia più grande"
di ELENA DUSI *
ROMA - Robert Edwards, "papà" di oltre 4 milioni di bambini sparsi in tutto il mondo, era già un uomo soddisfatto. Ma lunedì mattina ha avuto la gioia aggiuntiva di vincere il premio Nobel per la medicina per aver messo a punto la tecnica della fecondazione in provetta. Era il 1968 quando Edwards, medico inglese che svolgeva le sue ricerche all’università di Cambridge, riuscì per la prima volta a fecondare un ovulo umano al di fuori del corpo di una donna, unendolo a uno spermatozoo in provetta. Dieci anni dopo, grazie ai suoi studi, nacque finalmente una bambina, Louise Brown, che il 14 luglio del 2008 ha compiuto trent’anni festeggiando insieme ad altre centinaia di persone nate dopo di lei grazie alla fecondazione in vitro, e a suo figlio Cameron, concepito in maniera naturale.
Provette e polemiche. Negli oltre trent’anni in cui la tecnica è stata usata, si calcola che la provetta abbia permesso a più di quattro milioni di individui di venire al mondo. Le ricerche di Edwards e del suo collega Patrick Steptoe, morto nel 1988, scatenarono all’epoca una ridda di polemiche fra le chiese cristiane e i medici convinti che la fecondazione artificiale non avrebbe mai funzionato. "Avere un bambino è una delle gioie più grandi che si possa dare a una coppia", ripeteva sempre Edwards andando avanti nei suoi studi. Quando la fecondazione in vitro venne tolta dall’elenco delle cure rimborsabili dal servizio sanitario britannico, il medico espresse tutta la sua tristezza: "Ogni coppia dovrebbe avere la possibilità di concepire fino a tre figli con il contributo del servizio sanitario pubblico perché questa è la cosa più grande che si possa fare per un uomo e una donna che desiderino un figlio". Il medico inglese, nato a Leeds 85 anni fa, si era ritirato da tempo dalla ricerca attiva, giustamente appagato da quel che aveva raggiunto, e oggi è in condizioni di salute non buone.
Fuga di notizie. Contraddicendo il consueto rigore svedese, quest’anno Il Karolinska Institutet, che da Stoccolma sceglie ogni anno il vincitore del Nobel per la medicina, non è riuscito a tenere segreta la notizia fino all’ultimo. Lunedì mattina, prima ancora dell’annuncio del premio, il quotidiano Svenska Dagbladet anticipava la scelta del comitato dei Nobel.
Il premio e i favoriti. A Edwards andrà il premio di 1,5 milioni di dollari e l’onore di una cerimonia con cena di gala nel palazzo comunale di Stoccolma. Tra i favoriti del 2010 c’era anche il giapponese Shinya Yamanaka, inventore di una tecnica per ottenere cellule staminali simili a quelle che compongono gli embrioni ma partendo da tessuto di individui adulti, senza il dilemma morale legata all’utilizzo delle cellule embrionali.
E in Italia... E se le reazioni in tutto il mondo a favore del premio a Edwards sono state entusiastiche, non è scontato che anche in Italia la gioia sia unanime. Per il momento nessuna pronuncia ufficiale è arrivata da Roma. Resta il fatto che la nostra legge sulla fecondazione assistita è una delle più controverse del mondo. Impone l’impianto nell’utero della donna di tutti gli embrioni che sono stati fecondati in vitro, aumentando di molto la percentuale di faticose gravidanze trigemellari o bigemellari.
Nobel per la medicina a Edwards padre della fecondazione in vitro *
STOCCOLMA - E il britannico Robert Edwards il premio Nobel per la Medicina 2010. Il prestigioso riconoscimento è stato assegnato all’85enne, professore a Cambridge, per le sue ricerche sulla fecondazione in provetta.
Assieme a Patrick Steptoe, che è morto nel 1988, Edwards ha sviluppato la tecnica IVF, con la quale è stata resa possibile la fecondazione degli ovuli in vitro, per poi essere reimplantati nell’utero.
Le scoperte di Robert Edwards, hanno spiegato gli accademici di Stoccolma, "hanno reso possibile il trattamento della sterilità che colpisce un’ampia porzione dell’umanità e più del 10% delle coppie nel mondo". Le ricerche di Edwards sono all’origine della nascita del primo "bebè in provetta", Louise Joy Brown, nel 1978.
La favola delle cellule etiche
Le staminali e l’arte di negare i fatti
di Sergio Bartolommei (l’Unità, 15.09.2010)
Università di Pisa, membro della Consulta di Bioetica *
Il premio Balzan di quest’anno va a Yamanaka, lo scienziato giapponese che ha inaugurato una nuova tecnica per la riprogrammazione delle cellule adulte che vengono ricondotte a uno stadio simile a quello delle staminali embrionali. Secondo alcuni osservatori cattolici questa e solo questa sarebbe “vera” scienza e le cellule così ottenute le uniche e autentiche “cellule etiche”. Il cerchio verrebbe chiuso: gli embrioni, nuove incarnazioni del Sacro, sarebbero salvi, e la ricerca pure.
Sembravano lontani i tempi in cui, in Unione Sovietica, si discriminava con Lysenko tra vera e falsa scienza mettendo al bando la genetica e le sue teorie e suddividendo in buoni e cattivi gli scienziati in base alla tecnica da questi utilizzata per raggiungere certi risultati. Nonostante i disastri allora prodotti dalle pretese del controllo ideologico della scienza, la lezione non sembra essere servita a certi cattolici nostrani. Essi plaudono alla necessità di dettare norme morali per la ricerca sulle cellule staminali riducendo il numero delle opzioni disponibili solo a quella (le staminali “adulte”) che all’etica cattolica non certo alla comunità scientifica internazionale, peraltro raffigurata come esposta alle sirene del nihilismo etico appare la sola “promettente”.
Si dice: la vita dei vegetali su cui pontificavano i “materialisti dialettici” non aveva certo l’importanza che ha la vita degli embrioni umani. Il seme di una pannocchia non è “uno di noi”, un embrione sì. In verità, che l’embrione sia persona, una realtà spirituale, è solo il prodotto di una convinzione morale o di una credenza ideologica. Nessuna analisi di laboratorio potrà mai certificare il carattere di “persona” neppure di “persona in miniatura” di una blastocisti di quattro giorni e poche cellule.
Chi fa uso della parola “embrione” per evocare una realtà “più che” biologica sta usando questo termine, non nel significato scientifico di “prima tappa dello sviluppo umano”, ma nel significato retorico che suscita pietà e commozione in chi legge o ascolta. Non c’è poi da meravigliarsi, dato l’uso disinvolto del linguaggio, che nel definire “etiche” le cellule ottenute dalla riprogrammazione delle adulte si trascuri di dire che lo stesso Yamanaka ha dovuto modificare geneticamente le adulte (“contaminando” così la purezza dell’ “Umano”), mettere a confronto queste con quelle embrionali e utilizzare le conoscenze di base conseguite con queste ultime per portare avanti la ricerca sulle prime. Che di ciò si taccia è una prova ulteriore del fatto che in Italia ideologia e teologia fanno aggio sulla scienza, imponendo autoritariamente proprio come Lysenko cosa cercare e come.
* L’autore è membro della Consulta di Bioetica
Una nuova sintesi tra emozione e ragione. La lettura tradizionale dell’assoluzione del matricida
Oreste e l’esempio del Sudafrica Il mito che cancella la giustizia maschile
Dalla tragedia classica di Clitennestra l’idea di un diritto in grado di riconciliare uomini e donne
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 28.04.08)
Crudele, infida, violenta, adultera e assassina: il prototipo dell’infamia femminile. Questa era la fama di Clitennestra presso i greci, consolidata nei secoli dalla messa in scena, ad Atene, nel 458 a.C., dell’Orestea di Eschilo.
La storia è nota: nell’Agamennone,laprima tragedia della trilogia, Clitennestra, durante l’assenza del marito, diventa l’amante di Egisto, e quando Agamennone torna da Troia lo uccide, con la complicità dell’amante. Nella seconda, le Coefore, suo figlio Oreste ordisce, con la sorella Elettra, il piano per uccidere la madre ed Egisto. Nella terza, le Eumenidi, dopo aver realizzato il piano, Oreste è inseguito dalle mostruose Erinni, incitate dallo spettro di Clitennestra, assetato di vendetta. Per risolvere il caso, la dea Atena istituisce il primo tribunale della storia ateniese, l’Areopago, incaricato di giudicarlo: l’era della vendetta è finita per sempre, è nato il mondo del diritto.
Torniamo a Clitennestra: nelle riletture moderne, è molto diversa dall’immagine che i greci ci hanno tramandato. Per le femministe è una donna indomita, dignitosa, capace di opporsi all’infelicità cui le donne sono condannate in quella polis che un grande antichista ha definito «un club di uomini». E a partire dalla sua storia si pongono due domande: continua a esistere, oggi, la violenza di genere che arma la mano di Clitennestra? Quali sono i possibili obiettivi di una politica di riconversione del rapporto uomo/donna? Ma per capire perché Clitennestra diventa il personaggio attorno al quale si organizzano queste riflessioni è necessario andare oltre la sua morte, e seguire gli esiti del processo di Oreste.
La prima sentenza dell’Areopago, infatti, afferma un principio destinato a segnare per secoli il rapporto fra generi: Oreste viene assolto perché «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...».
Inserita nel lungo dibattito greco sulla riproduzione, l’ipotesi del ruolo secondario della madre viene ribadita da Aristotele, al quale dobbiamo una teoria sulla riproduzione che codifica, su basi scientifiche, l’identificazione della donna con la materia e dell’uomo con lo spirito. Anche le donne, spiega Aristotele, hanno un ruolo nella riproduzione: accanto allo sperma, alla formazione dell’embrione concorre il sangue mestruale, ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue altro non è che il cibo non espulso dall’organismo, trasformato dal calore: ma la donna, meno calda dell’uomo, non può compiere l’ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. Nella riproduzione, dunque, è il seme maschile che «cuoce» il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere. Anche se indispensabile, pertanto, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva; l’apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creativo. In Aristotele, insomma, troviamo una teoria delle differenza tra generi destinata a durare per secoli, che traduce la «differenza» in inferiorità: ecco perché la storia di Clitennestra è l’archetipo che consente meglio di ogni altro di interrogarsi sul rapporto uomo/donna. Nel mito in cui la sua storia è inserita la teorizzazione della inferiorità e subalternità femminile è parte integrante ed essenziale del processo che porta alla nascita del diritto e dello Stato.
E veniamo così alle Clitennestre moderne. Le loro storie non sono meno drammatiche di quelle dell’archetipo. Penso a due esempi molto diversi fra loro, e lontani nel tempo: la Clitennestra di Dacia Maraini ( I sogni di Clitennestra, Bompiani 1981) ha perso la forza di ribellarsi, e finisce in un manicomio: la follia, spiega l’autrice in un’intervista del 1984, è la conseguenza della impossibilità delle donne di adattarsi a un mondo che non è fatto per loro. La Clitennestra di Valeria Parrella ( Il verdetto, Bompiani 2007) è vittima-complice di Agamennone, senza speranza alcuna di salvezza: versando il sangue del marito, dichiara, ha versato il suo stesso sangue. Danno molto a pensare, queste Clitennestre, e varrebbe la pena discuterne. Ma ragioni di spazio costringono a rinunziarvi per seguire il discorso sulle strategie di riconversione del rapporto. Oltre alle riflessioni femministe (prevalentemente orientate verso ipotesi di tipo conciliatorio), è importante ricordare alcune recenti riflessioni sul diritto. Lo abbiamo già detto, nell’Orestea la nascita del diritto è legata alla sconfitta della parte femminile e dunque emotiva del mondo. Ma recentemente l’idea che il diritto sia e debba essere solo ragione è stato messo in discussione anche da alcuni giuristi. Osserva ad esempio un esponente di spicco del movimento Law and literature, Paul Gewirtz, che indiscutibilmente, nell’Orestea, le forze della vendetta sono donne (Clitennestra, e le Erinni) mentre il diritto nascente è rappresentato da uomini (Apollo e i giudici, cui si aggiunge Atena, donna-uomo senza madre e senza marito). Ma nella parte finale delle Eumenidi le Erinni, sconfitte, rinunziano al loro lato sanguinario e accettano di entrare nel sistema giudiziario, svolgendovi un ruolo: è la conciliazione dei generi sul piano del diritto. L’interpretazione secondo la quale l’assoluzione di Oreste segna la sconfitta della parte femminile del mondo è da rivedere. Il diritto non può essere solo ragione: per essere giusto, deve dare spazio alle emozioni.
Con le dovute differenze, questa visione del diritto fa pensare al ruolo assegnato alle emozioni dalla «restorative justice», la teoria di una giustizia «riparativa» emersa negli anni Novanta e teorizzata da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi religiosi e nuove figure professionali dette «mediatori di giustizia». Schematizzando all’estremo, per la giustizia riparativa la funzione del diritto è promuovere la riconciliazione tra chi ha commesso e chi ha subito un torto. Per chiarire il concetto può essere utile ricordare che il caso più noto di giustizia riparativa è l’azione della Truth and Reconciliation Commission guidata da Desmond Tutu, incaricata di riportare l’ordine e la riconciliazione nello Stato Sudafricano. E uno degli aspetti fondamentali di questa giustizia è la considerazione data a temi quali le emozioni, negli ultimi anni sempre più al centro delle riflessioni da parte di tutti gli scienziati sociali. Nel 2002, ad esempio, è stato dedicato a questi temi un numero speciale di Theoretical Criminology, ove si legge, tra l’altro, che «per avere un dibattito più razionale sulla giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale ». Infine, parlando di emozioni, è impossibile non ricordare le indagini a cavallo tra diritto e filosofia di Martha Nussbaum, cui si debbono libri celebri come L’intelligenza delle emozioni (Il Mulino): per comprendere la realtà e per comprendere se stessi, dice Nussbaum, non basta la ragione. Emozioni come l’amore, l’ansia, la vergogna, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale, e contribuiscono alla elaborazione di una concezione normativa nella quale le persone sono intese non come mezzi, ma come fini e come agenti.
Rileggendo la storia di Clitennestra, si arriva non solo a mettere in discussione l’opposizione donna-emozione /uomo-ragione. Si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici. Si può arrivare persino a sognare una cultura i cui valori possono cancellare per sempre la necessità della scure.
convegno
Se l’embrione sale in cattedra
Nonostante i progressi scientifici è un pianeta con molte zone ignote. Più che un essere passivo, in realtà rivela doti da direttore d’orchestra, a cominciare dal «dialogo» con la madre.
La prossima settimana se ne parlerà a Roma
DA ROMA LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire, 07.11.2007).
« Il tuo destino comincia dal giorno uno» («Your destiny from day one»), ha fatto il giro del mondo questa frase da quando Helen Pearson l’ha scritta su Nature nel 2002. E il concetto è stato ripreso,con qualche variazione,in altre riviste scientifiche. Tra cui il British Medical Journal, che afferma: «l’embrione non è passivo:è un attivo direttore d’orchestra che traccia il nostro futuro», perché non solo si prepara ad impiantarsi nel grembo della madre ma avvia con lei un dialogo intensissimo. «Da embrioni eravamo, all’inizio, privi di ossigeno ma ci siamo fatti subito riconoscere da nostra madre. Allora l’embrione ha diretto la sinfonia della nostra vita, dall’infanzia all’adolescenza » spiega il professor Giuseppe Noia,docente di Medicina dell’età prenatale all’Università Cattolica. Dal ’protagonismo biologico’ dell’embrione e dalla sua precoce relazione con la madre (messaggi ormonali, immunologici, biochimici) si deduce che lo sviluppo di un organismo è una sequenza ordinata di cambiamenti progressivi che fanno crescere l’individuo. Ma della genesi di un organismo umano si parla poco anche negli ambienti scientifici; «eppure genesi è un concetto-radice, un concetto-gemma anche se appare un concetto dormiente» osserva il professor Pietro Ramellini, docente del master di Scienza e Fede ,al Pontificio Ateneo ’Regina Apostolorum’. E quando avviene esattamente la genesi? È un processo ininterrotto oppure discontinuo? Si può dire che avvenga i- stantaneamente, che sia un evento da collocare «in qualche punto tra il contatto dei gameti umani e l’incorporazione dello spermatozoo all’interno dell’ovocita» afferma Ramellini. Così è entrata subito «in medias res la conferenza stampa di presentazione del congresso internazionale ’Ontogenesi e vita umana’ che si terrà a Roma dal 15 al 17 novembre presso il Pontificio Ateneo ’Regina Apostolorum’, nel quadro del Progetto STOQ (Science, Theology and the Ontological Quest). Interverranno scienziati, filosofi e teologi proveniente da università di tutto il mondo, per lanciare un ponte,un dialogo fruttuoso, senza stereotipi, sottolinea il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, nel suo intervento introduttivo. Rispondendo alle domande dei giornalisti, Ravasi ha affermato che rispettando le proprie frontiere, ogni parte deve sentire le ragioni degli altri. Il senso di questa presentazione è apparso chiaro: nel congresso gli uomini di scienza non potranno ignorare le ragioni altrui.
Che cos’è l’ontogenesi? L’etimologia è greca e la parola significa la serie progressiva di stati di sviluppo attraverso i quali l’organismo individuale da ovocellula diventa organismo completo. I genetisti, ha sottolineato Ramellini, distingono l’ontogenesi dalla filogenesi che invece è l’evoluzione della specie. Il concetto di genesi è come un fiume carsico che scorre sotto tutte le discipline. Il congresso esaminerà le varie letture che sono state date del termine ’genesi’. Per Ramellini, genesi biologica è uno ’scoppio di luce’, il primo appari- re di una entità biologica. Un evento che mette in moto nella madre reazioni biologiche a catena. Il professor Noia dice che se è la madre che dà vita al feto è anche il feto che dà vita alla madre. Per esempio, se questa ha una malattia alla tiroide, le cellule staminali del feto intervengono subito per curarla, trasformandosi in cellule nuove di quell’organo. Quando il legame biologico madre-figlio si spezza, per un aborto, spontaneo o procurato, la donna subisce un forte trauma, soprattutto psicologico. «Soffro come se avessi perso una persona cara adulta» confessano pazienti che dopo l’aborto sono cadute nella depressione. E qui Giuseppe Noia fa sapere che «l’aborto è la prima causa di morte nel mondo occidentale» e aggiunge: «Perchè non estendere ai milioni di aborti la moratoria mondiale sulla pena di morte?».
Che cos’è la vita? Come ha potuto evolversi? Studiare l’ontogenesi sarà una prova di grande utilità per tutti,scienziati in testa, interviene padre Rafael Pascual, che insegna filosofia alla ’Regina Apostolorum’, il quale annuncia che il successivo mega-congresso si terrà alla Gregoriana,nel marzo 2009 su ’Evoluzione e teorie evolutive’ per i 150anni dalla pubblicazione dell’Origine della specie di Charles Darwin.
Il Progetto Stoq (650 studenti di 56 paesi, in cinque anni, tremila partecipanti) è uno strumento che cambierà il rapporto tra scienza e fede, fa rilevare monsignor Ravasi perché punterà sul rigore dell’insegnamento e della ricerca, e anche su un modo aggiornato e più efficace di comunicare. «Una società senza ricerca decade. Ma dobbiamo anche riuscire a rappresentare in modo diretto, con poche parole, realtà molto complesse. Occorre un nuovo lessico. L’italiano conta 150mila parole, l’inglese 500mila lemmi. Oggi ci si esprime con 8001000 vocaboli».
Dietro una parola difficile come «ontogenesi» c’è il grande mistero di uno «scoppio di luce» che genera una nuova entità vivente.
La Chiesa condanna la decisione della magistratura sulla diagnosi pre-impianto dell’embrione
Monsignor Betori: "La scelta dei giudici contraria alla Costituzione e alla legge 40"
Procreazione, lo sdegno della Cei
"Illegittima la sentenza di Cagliari"
"Non vogliamo cavalcare l’antipolitica" *
CITTA’ DEL VATICANO - Come era prevedibile, non è piaciuta alla Chiesa cattolica la sentenza del Tribunale di Cagliari sul diritto per le coppie di far effettuare prima dell’impianto la diagnosi dell’embrione congelato in caso di ricorso alla fecondazione assistita. "La sentenza - ha commentato il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori - appare in netto contrasto con la legge 40 e l’interpretazione della Corte Costituzionale: un giudice non può emettere un giudizio che smentisce la legge e la Consulta". Il segretario della Conferenza episcopale italiana, ha poi rincarato: "Pensavo che i tribunali applicassero le leggi e giudicassero in coerenza con esse".
A scandalizzarsi per la decisione della magistratura sarda è anche l’Udc, che per bocca del capogruppo alla Camera, Luca Volonté, ha chiesto l’intervento del ministro della Giustizia. ’’Il Guardasigilli verifichi le cause che hanno indotto il Tribunale di Cagliari ad accogliere una richiesta di selezione degli embrioni ignorando il fatto che in Italia l’eugenetica è vietata", ha affermato l’esponente dell’Udc. "Mastella - ha aggiunto - ci faccia sapere domani al ’Question Time’ in Aula se per caso il sistema giurisprudenziale italiano sia stato sostituito con il Common Law, con cui si giudica caso per caso e senza codice’’.
Difende invece la scelta del Tribunale di Cagliari il ministro per il Commercio Internazionale Emma Bonino. "Per fortuna, un elemento di buon senso", ha commentato l’esponente radicale. "Questa sentenza - ha precisato - apre però la porta ad altre domande: in particolare, quando la tecnologia mette a disposizione o dei medicinali o delle soluzioni per problemi che il cittadino può avere, è possibile impedire a questo cittadino l’accesso alle tecnologie, con motivazioni religiose o di qualunque tipo? Io credo che la libertà del cittadino, in questo caso, vada salvaguardata". "Quindi - ha concluso Emma Bonino - spero che questa sentenza riapra questo tipo di discussione".
Antipolitica. Betori, pur dicendosi preoccupato per la "fragilità del Paese" dovuta alla perdita di un "ethos collettivo", afferma che i vescovi non intendono "cavalcare l’antipolitica". Ricordano, invece, che per la dottrina sociale della Chiesa la partecipazione alla vita pubblica è un fatto positivo. "Abbiamo ribadito - riferisce Betori - la percezione della esistenza di una malattia sociale dell’ethos condiviso, riteniamo che sia un problema soprattutto culturale, che la Chiesa e la tradizione cattolica vadano valorizzate e non demonizzate nel dibattito pubblico per rispondere a questo problema".
(25 settembre 2007)
Fecondazione, la Cei contro i giudici: malati in nome della legge
di Paola Zanca *
«Pensavo che i tribunali applicassero le leggi». È un vero e proprio attacco alla magistratura, quello lanciato dal segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori contro il giudice di Cagliari che ha convalidato la diagnosi pre-impianto sugli ovuli di una donna sarda portatrice di talassemia. «Un giudice non può emettere un giudizio che smentisce la legge e la Consulta», ha ribadito Betori, mentre Avvenire, il quotidiano episcopale ha tuonato: «Il tribunale di Cagliari ha ordinato alla Asl e al primario di ginecologia dell’ospedale microcitemico del capoluogo di violare la legge 40».
La sentenza del tribunale di Cagliari crea un precedente importante perché mette in discussione uno dei capisaldi della legge 40 che vieta esplicitamente la diagnosi pre-impianto: la donna sarda coinvolta nell’inchiesta ha chiesto di poter eseguire la diagnosi pre-impianto prima di procedere con le tecniche di fecondazione in vitro perché portatrice di talassemia. I medici, grazie alla sentenza, potranno così verificare lo stato dell’embrione per accertarsi della possibilità che abbia ereditato la talassemia: solo nell’ipotesi che l’embrione sia sano si procederà quindi all’impianto e alla gravidanza.
La decisione del giudice ha scatenato un coro di reazioni. Il capogruppo Udc alla Camera, Luca Volontà, tira in ballo il ministro della Giustizia Mastella. Vuole sapere «se per caso il sistema giurisprudenziale italiano sia stato sostituito con il Common Law, con cui si giudica caso per caso e senza codice». Una scelta di «buon senso», invece, per il ministro per il Commercio Internazionale, Emma Bonino che ha spiegato che «quando esiste una tecnologia al servizio di una coppia, è impensabile impedirne l’accesso ai cittadini». Ottima notizia anche la senatrice Vittoria Franco, coordinatrice nazionale delle Donne Ds, secondo la quale la sentenza «apre la strada ad una modifica della legge 40 per consentire anche alle coppie portatrici di malattie ereditarie di ricorrere alla procreazione assistita».
Nel frattempo, per non veder infrangere il suo desiderio di maternità, la coppia sarda è andata a Istanbul. Lì, in quella Turchia che non riesce a entrare in Europa, la diagnosi pre-impianto l’hanno fatta. Ora, forse, la famiglia potrà allargarsi restando in Italia.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.09.07, Modificato il: 25.09.07 alle ore 15.36
Studio di Craig Venter, lo scienziato che ha mappato il suo genoma
"I contributi di madre e padre molto più vari di quanto si pensasse
"Da chi hai preso? Ora lo dice il Dna
"Così ereditiamo dai nostri genitori"
di ELENA DUSI *
ROMA - Lo scienziato, fatto a pezzi, è riuscito a esplorare se stesso. Sminuzzando il suo Dna, Craig Venter vi ha guardato dentro, viaggiando lungo i rami ereditati dai due genitori e scoprendo quanto è grande la differenza tra i cromosomi materni e quelli paterni. La concordia tra i due set di geni riguarda infatti solo il 36 per cento dei frammenti di Dna. Per tutti gli altri, ovulo e spermatozoo al momento della fecondazione si sono trovati a pensarla in maniera assai diversa. E il loro abbraccio all’interno dell’embrione si è presto trasformato in un braccio di ferro dalle regole per noi ancora poco chiare.
Craig Venter, lo scienziato-businessman che nel Maryland ha messo in piedi la società Celera Genomics, dopo quattro anni di lavoro e 7,3 milioni di dollari di spesa è riuscito a leggere il suo Dna dalla prima base all’ultima. Al contrario di quanto avvenuto nel 2001 con il Progetto Genoma Umano, Venter ha letto entrambi i rami del suo Dna: quello paterno e quello materno. Gli strumenti dei suoi laboratori sono in grado di dividere in due gruppi omogenei i 46 cromosomi. Ma per stabilire quale dei due set sia arrivato dall’ovulo e quale dallo spermatozoo occorrerebbe eseguire il test del Dna anche sui genitori.
Le discordanze fra il padre e la madre di Venter riguardano 4,1 milioni di basi su un totale di circa tre miliardi. Ma le differenze sono distribuite in maniera tale da toccare il 44 per cento dei geni. Un bel rebus per il figlio Craig, visto che suo padre è morto a 59 anni per un attacco cardiaco fulminante, sua madre a 84 anni è ancora in perfetta salute. A lui, con le tecnologie attuali, non è dato conoscere quale sia il risultato dell’intreccio dei geni al momento del concepimento. "Ogni volta che osserviamo il genoma umano scopriamo quanto sia complicato" ha commentato Venter in occasione della pubblicazione del suo Dna su Plos Biology. "Abbiamo dimostrato che le differenze fra un uomo e l’altro sono 5-7 volte superiori rispetto a quanto non pensassimo".
Se la diversità dei genomi è il motore dell’evoluzione delle specie, nelle pieghe di queste variazioni si trovano anche le cause di molte malattie. Venter guardando dentro se stesso ha scoperto una predisposizione ad alcolismo, malattie delle coronarie (probabilmente questo tratto deriva dal padre), obesità, comportamento impulsivo e antisociale, Alzheimer.
Il marcatore di quest’ultima malattia è piuttosto preciso, e il premio Nobel per la medicina James Watson (scopritore della doppia elica), che pure a maggio aveva potuto leggere nella sequenza dei suoi geni, aveva chiesto espressamente che il dato sull’Alzheimer gli fosse nascosto. Venter invece conosce solo l’acceleratore, non i freni. Ed è ancora in palio il premio che offrì nel 2003: 10 milioni di dollari a chi sarebbe riuscito a leggere in dieci giorni il genoma di 100 individui a un prezzo inferiore a 10mila dollari ciascuno.
* la Repubblica, 5 settembre 2007.
Le mele marce impazzano
Aumenta a dismisura il numero dei vescovi beccati mentre si comportavano in modo poco consono al loro ruolo e costretti alle dimissioni.
Fonte: http://www.resistenzalaica.it/index.php?option=com_content&task=view&id=486&Itemid=1
Il sesso si sta facendo strada a tutti i livelli persino nelle strutture clericali che sembravano destinate a esserne indenni. Respinto finora al grido "Vade retro, Satana", oggi ha vinto la sua millenaria battaglia, conseguendo l’ambizioso obiettivo di distruggere la dignità dei prelati che occupano gli scranni più alti nella scala gerarchica. Da un timeline del sito dei "Sopravvissuti agli abusi del clero", che riporta notizie riprese dai network di tutto il mondo, apprendiamo che il frutto proibito è così gustoso che neppure i vescovi riescono più a resistere al suo richiamo. Costoro sceglievano le persone da violentare tra donne sole, preti sottomessi, orfani, genitori vhe vivevano nella miseria più nera e parrocchiane bisognose di affetto. Hanno abusato dei preti che dipendevano da loro, ad esempio, Patrick Ziemann, Rembert Weakland, Bernard Law e Julius Paetz. Il primo è stato accusato da un prete che aveva rubato i fondi della parrocchia di averlo sodomizzato per punirlo di quanto aveva fatto, ma il vescovo ha obiettato che col tempo la relazione era diventata consensuale, come se questo costituisse una esimente. Il secondo ha messo a tacere con 450.000 dollari un suo dipendente che aveva violentato attirandolo in una trappola. Gli altri due si sono limitati a molestare un discreto numero di preti che appartevano alla loro parrocchia.
Hanno ingravidato le loro parrocchiane, tradendo la loro fiducia, Eugene Marino, Robert Sanchez, James Mc Carthy, HansJoerg Vogel, Robert Wright. Sono stati condannati per pedofilia Keith Symmons, Antony O’ Connell, Kendrick Williams, Hubert O’ Connor, Hans Herman Groer e Edgardo Storni, per aver perseguitato per anni ragazzi e ragazze, studenti e seminaristi di tutte le età e appartenenti a tutte le parrocchie dei dintorni. Sono stati accusati di aver nascosto gli abusi dei loro preti Thomas O’ Brien, Alfonso Penney, John Aloysius Ward e Brendon Komiskey. Casi particolari sono quelli di Eamon Casey e Franziscus Eisenback. Il primo ha confessato di aver comprato il silenzio della madre di un bambino di cui si era incapricciato e il secondo ha approfittato di una donna che fingeva di esorcizzare.
La stranezza dei comportamenti e gli eccessi a cui si sono lasciati andare prelati tenuti nella più alta considerazione per la loro specchiata condotta fa pensare ai crolli morali improvvisi e spaventosi che preannunciano la fine di una civiltà.
* Il dialogo.org, Mercoledì, 26 settembre 2007
LIBRI / Dal nuovo scontro con la modernità ai bilanci del papato di Wojtyla
e quello del primo Ratzinger: due saggi per conoscere a fondo questioni secolari
La Chiesa e il suo futuro
l’eterna sfida tra luci e ombre
Tra le novità anche l’inchiesta shock "Le sagrestie di cosa nostra"
di DARIO OLIVERO *
ETICA
La difesa della famiglia, la questione sessuale, il relativismo etico dell’Occidente, l’interventismo in politica, il lavoro e la globalizzazione, le nuove sfide bioetiche lanciate dalle conquiste scientifiche in materia di procreazione, la guerra, lo scontro tra religioni, il diritto alla vita anche quando qualcuno chiede di morire. E’ l’agenda del pontificato di Benedetto XVI, appuntamenti che a ogni occasione il Papa, la Santa Sede o la Conferenza dei vescovi pubblicamente ripassano. E’ la Chiesa post-Wojtyla, quella che qualcuno ha definito della "riconquista" dell’Europa e dell’Occidente, militante sia nell’offensiva dottrinale del "Papa filosofo" sia nella vita delle parrocchie mobilitate sui grandi temi etici che piovono addosso all’opinione pubblica. Secondo Giovanni Filoramo, uno dei più grandi studiosi italiani di storia del Cristianesimo, c’è una parola per definire questa situazione: scontro. Ma tra chi è lo scontro? Leggendo La Chiesa e le sfide della modernità (Laterza, 16 euro) ci si rende conto che, come è spesso accaduto - soprattutto dal Concilio Vaticano II - la Chiesa è impegnata su più fronti.
Da un lato ci sono gli avversari classici, gli illuministi, i laici, gli uomini che sanno tante cose ma nessuna grande come quella che ritiene di sapere la Chiesa. E questo è il solito scontro. Dall’altro ci sono le pulsioni all’interno della Chiesa che, e Filoramo lo racconta bene, non è (non è mai stata) un blocco monolitico. La Chiesa è permeabile ai cambiamenti sociali e per un Papa che tiene la barra dritta sulle questioni ritenute irrinunciabili, esistono infinite posizioni più morbide, più aperte, che hanno messo in moto un confronto più complesso con la modernità che non sia la semplice dicotomia tra tradizione e progresso. E’ il libro di un laico, che non fa sconti. Ma ha il pregio di raccogliere e raccontare anche quello che il rumore dello scontro quotidiano in atto non ci fa sentire.
TEOLOGIA
E’ uno dei primi bilanci del pontificato trentennale di Giovani Paolo II e del primo corso del suo successore Benedetto XVI. Si intitola In difesa della fede (Rizzoli, 21 euro), lo ha scritto Giovanni Miccoli, un altro grande esperto di questioni legate al Cristianesimo. E’ quasi un manuale di storia per la precisione documentale utilizzata e per la minuzia di particolari raccontati sui nostri ultimi trent’anni. Scorrono tra le pagine esperienze irripetibili e dolorose come la teologia della liberazione e l’impegno dei gesuiti nelle lotte contro le ingiustizie, la caduta del Muro, la potenza pastorale planetaria, il carisma di un gigante della storia.
Ma anche l’opposto di tutto questo, i preti sudamericani freddamente lasciati soli perché in odore di marxismo, la normalizzazione della Compagnia di Gesù, la visione del Concilio Vaticano II ridimensionata in un’ottica di ubbidienza. Il pontificato delle contraddizioni, come venne definito da qualcuno quello di Wojtyla, in cui la grande figura del Papa riusciva a tenere in secondo piano le questioni non risolte.
E ora che il testimone è passato di mano? Come si comporterà e come sta agendo colui che era collaboratore ascoltato e braccio teologico del suo predecessore? Ma anche in questo caso, comunque la si pensi, questo libro aiuta a mostrare una visione della Chiesa a tutto tondo, comprese le cose che si credono di sapere e che invece sono molto, infinitamente e nei secoli dei secoli, più complesse.
SACRESTIA
Un pugno nello stomaco. Questo è il libro di Vincenzo Ceruso, Le sagrestie di cosa nostra, sottotitolo: inchiesta su preti e mafiosi (Newton Compton, 9,90 euro). La premessa è scontata ma giova ripeterla: ci sono uomini di Chiesa che hanno pagato con la vita la loro fedeltà al Vangelo e la loro lotta per liberare la Sicilia dall’abbraccio mortale della mafia. Altri hanno fatto sentire forte la loro voce nelle stagioni delle grandi guerre in cui cadevano uno dopo l’altro i servitori dello Stato. E molti ancora sono l’orgoglio e l’onore della Chiesa sulla frontiera calda delle zone grigie o delle zone in cui lo Stato ha fatto le valigie da anni.
Però ce ne sono altri. Altri che confessano i boss, che benedicono e celebrano matrimoni, che ricevono offerte di denaro sporco di sangue, che fanno da tramite coperti dal loro abito. Quella di Ceruso è una ricostruzione di storie emblematiche che corrono accanto agli ultimi decenni di storia di mafia "ufficiale". La mafia dei preti. E riesce anche a rispondere a una domanda: ma perché la mafia ha bisogno della religione?
* la Repubblica, 27 settembre 2007.