INTERVISTA
Il grande filosofo francese lancia la sfida: «L’unica vera rivoluzione è quella di portare alla luce del sole le cose positive. Basta con il pathos del terrore e della violenza. Il Neolitico è finito»
Serres: «Cari media, date buone notizie»
Da Parigi Louis De Courcy e Guillaume Goubert (Avvenire, 22.03.2007)
Accademico di Francia, filosofo e storico della scienza, Michel Serres ha pubblicato quest’anno l’ultimo di quattro volumi sulla storia dell’umanità (Récits d’humanisme, Le Pommier, 22 euro). Alla "società dello spettacolo" in cui viviamo contrappone la realtà del mondo. Non senza speranza: «Del futuro - afferma - faremo quello che vorremo».
Professor Serres, i media sono responsabili del fatto che troppo spesso abbiamo una visione negativa di quanto accade nel mondo?
«Ho contribuito, a suo tempo, a fondare il quinto canale e in quell’occasione ricordo di aver detto: "Dovrete diffondere informazioni di successo, nelle quali non ci siano né morti, né cadaveri, né catastrofi, ma solo buone notizie". Mi guardarono con terrore e, naturalmente, non hanno mai seguito il mio consiglio. Non ho dubbi che tutti i direttori di giornale abbiano letto Aristotele, per il quale l’essenza dello spettacolo è terrore e pietà. Proprio quello che fa salire l’audience! Del resto la politica si allea con questo sistema per immergerci in questa fenomenologia. Inoltre, considero i grandi media come una specie di culto precristiano favorevole al sacrificio umano. Viviamo in una civiltà dello spettacolo della morte. Perché, allora, desideriamo notizie migliori? Perché le buone notizie sono escluse dal nostro mondo. Il pessimismo che ci circonda nasce dal fatto che siamo catturati da quello spettacolo».
Che ne è, allora, del reale?
«Il reale viene escluso dall’universo che descrivo. È uscito "dal retro"! Ed eccoci immersi in uno spettacolo straordinario, in cui il reale arriva come il Regno di Dio, ossia come un ladro nella notte senza far rumore. Un filosofo che voglia tener conto del reale deve farsi sordo allo spettacolo e tendere invece l’orecchio al silenzio del reale».
Come riappropriarsi delle buone notizie reali?
«Basta guardare la realtà, al di fuori dello spettacolo! Il mestiere dell’insegnante, dell’istitutore, del medico, del filosofo, forse anche del giornalista, sarebbe appunto quello di insegnare che la società dello spettacolo non parla del reale, ma solo delle passioni. Se annunciassi l’apocalisse imminente, i miei libri avrebbero una tiratura strepitosa! Ma la ricerca del reale che testimonio non va d’accordo con la passione per l’interesse immediato».
Quali sono, secondo lei, gli avamposti reali del mondo di oggi?
«Da alcuni decenni, dagli anni Settanta, ci è accaduto un evento talmente grandioso che nessuno l’ha visto. Una trasformazione così profonda che l’abbiamo vissuta nella più completa cecità. Quest’avvenimento è così importante da segnare una svolta nella nostra storia come ha fatto, forse, il Rinascimento o, meglio, l’inizio dell’era cristiana o, ancor meglio, il neolitico. Questo per dire l’importanza che gli attribuisco».
Di che natura è quest’avvenimento?
«Di due nature: ha cambiato il mondo e ha cambiato l’uomo. Per quanto riguarda il mondo: nel 1900 si contava in Occidente il 79% degli agricoltori; nel 2001 erano il 2,2%! Le conseguenze sono immense, poiché è cambiato totalmente il paesaggio: le coste del Mediterraneo non hanno più terrazzamenti, i campi non sono più di due ettari ma di trecento, la montagna non ha più pastori, le foreste vanno in fumo perché non si raccoglie più la resina. Il neolitico è terminato, e nessuno se n’è accorto. Per quanto riguarda l’uomo: nel 1820 l’aspettativa di vita era di trent’anni. Negli ultimi trent’anni è salita vertiginosamente. Nel 1973 l’Organizzazione mondiale della sanità ha sradicato il vaiolo ed è stata la prima volta che la medicina ha debellato definitivamente una malattia. Sempre a proposito di sanità, oggi dai medici arrivano pazienti che fino a quaranta, talvolta anche sessant’anni, non hanno mai sofferto. Luigi XIV circondato dai migliori medici urlava tutti i giorni per i dolori! Ecco dunque un uomo nuovo davanti a un mondo nuovo. Se c’è da trarne una filosofia, dev’essere una filosofia del mondo d’oggi che, in realtà, non è quello della baruffa tra il tale e il tal’altro per la presidenza della Repubblica. Dirò una sconcezza, ma credo che anche il terrorismo internazionale sia spettacolo, poiché rappresenta meno del 2% del numero delle vittime di incidenti stradali. La guerra da cui esce la mia generazione ha fatto milioni di morti. Siamo entrati in un cambiamento di fase di cui nessuna istituzione si occupa: né la politica, né l’università, né i media tengono conto di questi argomenti, per i quali abbiamo statistiche che pure riflettono bene la realtà del mondo».
Le "novità" che lei evoca sono buone notizie?
«Questo cambiamento di fase non è né buono né cattivo: c’è! È la prima cosa di cui bisogna prendere coscienza. Poiché il peggio, appunto, è non vedere il reale. Per sapere se tutto ciò sia buono o cattivo, prendo un esempio particolarissimo: quando sono arrivate le nuove tecnologie - il computer, Internet... - molti insegnanti si sono accorti che gli studenti perdevano capacità di scrittura, memoria, spesso l’abitudine alla lettura. E si è assistito a un profluvio di libri sulla fine del pensiero. Eppure le nuove tecnologie costituiscono una rottura altrettanto forte quanto lo fu l’invenzione della scrittura. Quando si inventò la scrittura, con l’abbandono della cultura orale si perse la memoria. Anche l’invenzione della stampa ha contribuito alla perdita della memoria. Non c’era più bisogno di sapere tutto a mente perché c’erano i libri.
È per questo che Montaigne esclama: "Meglio una buona testa che una testa piena". Allo stesso modo Internet ci consente di non andare più in biblioteca. Niente di più negativo, in apparenza. Ma cosa succede, in realtà? L’uomo deposita la sua memoria in Internet e nel frattempo economizza enormemente i suoi neuroni di memoria. E grazie a ciò si mette a inventare... Nella storia dell’umanità, ogni volta che si sono trovati supporti alla memoria c’è stata un’esplosione di invenzioni».
Cosa bisognerà dunque inventare per uscire dal vicolo cieco della fame nel mondo, della guerra e delle minacce nucleari e di ogni tipo?
«Data la situazione, bisogna reinventare la scienza politica, la filosofia, insomma l’umanità. Tutto va rivisto perché le condizioni in cui viviamo sono totalmente nuove».
(per gentile concessione
del quotidiano «La Croix»;
traduzione di Anna Maria Brogi)
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chi è
All’interno dei programmi culturali dell’Accademia di Francia a Roma, negli spazi di Villa Medici, il filosofo Michel Serres partecipa domani al convegno «Il sacrificio nella pittura. Arte e antropologia», che vede come coprotagonista anche René Girard. Serres, nella foto accanto, è nato in Francia ad Agen (Lot-et-Garonne) il 1° settembre 1930; filosofo ed epistemologo, negli anni Sessanta frequenta Michel Foucault. Insegna brevemente in Francia e poi, col sostegno di Girard, va a insegnare negli Stati Uniti. Il 29 marzo 1990 viene eletto all’Académie Française.
Tra le sue opere si ricordano i cinque volumi di «Hermès», una sorta di genealogia del pensiero occidentale. Del 1985 è «I cinque sensi» e del 1992 «Il mantello di Arlecchino: il terzo istruito: l’educazione dell’era futura».
Del 2006 infine è «L’art des ponts. Homo pontifex».
Foto: IL PASSAGGIO DI NORD-OVEST - E’ NAVIGABILE (LA STAMPA, 15.09.2007)
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Federico La Sala
"UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE") E ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"): "L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX". *
Riscoperte.
Marshall McLuhan tra apocalisse mediatica e pensiero cristiano
Il grande teorico della comunicazione non nascondeva la sua fede: un libro raccoglie i testi dove ne parla. «Nell’epoca della nuova oralità la Chiesa deve imparare di nuovo a parlare alla gente»
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 3 agosto 2023)
Si pronuncia il nome di Marshall McLuhan (1911-1980) e il pensiero corre all’idea di villaggio globale. Come un riflesso condizionato si ripete con noncuranza anche la sua felice formula “il mezzo è il messaggio”. Eppure dell’autore canadese docente all’università di Toronto, nato come esperto di critica letteraria e letteratura inglese e diventato noto come studioso delle trasformazioni indotte dalle rivoluzioni tecnologiche, è più facile citare le sue locuzioni che addentrarsi nel suo pensiero. Non a caso, durante una sua comparsata nel film Io e Annie di Woody Allen, pronunciò la battuta «lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro». E proprio da qui si deve partire.
È vero che il contenuto della trasmissione influisce di meno sulla società e sui comportamenti dei suoi membri di quanto faccia il medium che la veicola, il quale finisce con il condizionare stili di vita, visione del mondo e idee. È parimenti vero che l’introduzione della cultura alfabetica, imposta dalla diffusione della stampa a caratteri mobili ai tempi di Gutenberg, ha condizionato le forme del vivere insieme al pari di quanto faceva in precedenza la trasmissione orale, prima dell’introduzione e diffusione della scrittura. E probabilmente altrettanto imponenti trasformazioni seguiranno con i media elettronici, che porteranno le società attuali nei meandri ancora inesplorati della cultura postalfabetica, come aveva profetizzato in anticipo su altri proprio McLuhan.
Ridurre però il pensiero di McLuhan a un presunto determinismo significa davvero ignorare la portata delle sue riflessioni e soprattutto misconoscere quanto fa da sfondo a tutto il suo lavoro. Si tratta di un punto di avvio non marginale per dare un senso alla ricerca dello studioso canadese. Si eviterà così di citare degli estratti del suo pensiero decontestualizzati dall’orizzonte ideale da cui sono anche alimentati.
Per smontare l’accusa di determinismo che spesso si imputa a lui e a tutta la scuola di Toronto, di cui fa parte anche il gesuita Walter Ong, basta citare una risposta fornita da McLuhan nel corso di un’intervista rilasciata al periodico americano “Future Church” nel gennaio del 1977. A chi gli chiede da cosa dipenda il suo ottimismo, il teorico dei media risponde senza infingimenti: «Non sono mai stato un ottimista o un pessimista - precisa -. Sono solamente un apocalittico. La nostra sola speranza è l’Apocalisse». E continua: «L’Apocalisse non è l’oscurità. È la salvezza. Nessun cristiano potrà mai essere ottimista o pessimista: questo è solamente uno stato d’animo secolare».
Col rifiuto di pessimismo e ottimismo si sgretola pure ogni concezione determinista, che però non significa trascurare le ricadute che le tecnologie hanno sulla vita di tutti i giorni. Quanto emerge da queste parole è invece la sua fede spesso negletta o semplicemente ignorata dagli interpreti- Non a caso poco si sa della sua conversione al cattolicesimo avvenuta nel 1936, all’età di venticinque anni e poco ci si è interessati a scandagliarne l’influenza sulla sua produzione intellettuale. Di conseguenza a essere lasciata in disparte da critici e seguaci è la riflessione dello studioso legata a tematiche religiose, quasi che discuterne ne minasse l’autorevolezza come teorico dei media.
Ora i suoi contributi più importanti sulla questione sono stati raccolti e curati da Gianpiero Gamaleri nel volume pubblicato dall’editore Armando, La Chiesa secondo McLuhan. Il volto sconosciuto del profeta dei media (pagine 250, euro 20). Insieme a testi e interviste dello studioso canadese, il libro contiene anche alcune lettere inviate ad autori come Walter Ong e Jacques Maritain oltre che missive spedite alla madre e alla moglie e una testimonianza del figlio Eric.
Di quanto la fede cattolica di McLuhan fosse profonda ne fornisce testimonianza il collega e amico Ong in una conversazione con il curatore del volume: «Marshall era un cattolico assai fervente, dalla fede profondissima - precisa il padre della Compagnia di Gesù -. Di tanto in tanto egli testimoniava anche pubblicamente la sua fede. Una volta stava parlando qui all’Università di Saint Louis a un vasto gruppo di studenti quattro anni prima di morire e uno studente gli disse: professor McLuhan sono scoraggiato da tutte queste cose che sta dicendo, cosa possiamo fare? Egli rispose: beh, restano sempre la preghiera e i sacramenti della Chiesa».
Per il peso che la fede ricopre nella sua vita non è lecito pensare che McLuhan non rivolga la sua attenzione ai cambiamenti che l’arrivo dei mezzi di comunicazione digitale comporteranno per la stessa Chiesa e per il cattolicesimo. «Credo che le forze poderose che ci hanno investito con l’elettricità non siano state tenute nel benché minimo conto da parte dei teologi e dei liturgisti» ammonisce. E questo, secondo lo studioso dei media per cui il mezzo conta più del messaggio, può avere ricadute enormi sulla Chiesa e sulla fede.
I nuovi media, per McLuhan, inducono a trasformazioni epocali. Porterebbero a una progressiva interiorizzazione a discapito della socialità, su cui dovrebbero giocarsi le scelte pastorali. Se la scrittura con l’introduzione dei caratteri mobili promuoveva l’aspetto visivo della lettura, secondo McLuhan, i nuovi media elettronici danno spazio all’aspetto acustico. «Lo scritto, in generale, è da parte sua determinato e immutabile, - spiega McLuhan - costituisce l’hardware; mentre il linguaggio parlato, libero e mutevole, si richiama piuttosto al software. Il visivo è hardware, l’acustico software. La liturgia, per il suo aspetto di creatività e di improvvisazione è riferibile al software».
Ecco che, per lo studioso canadese, «oggi è la parola del pontefice che conta. Nell’era elettronica la parola ridiventa se stessa, non sopporta più di essere pietrificata nei documenti».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Le passage du Nord-Ouest" (M. Serres, 1980)."Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986). MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Intervista di Louis De Courcy e Guillaume Goubert. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!
FLS
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...*
Prima dell’inizio. Roma e le termiti
Roma. Il libro delle fondazioni di Michel Serres.
di FELICE CIMATTI (Fata-Morgana-web, 3 0ttobre 2021).
In questione è l’idea stessa di “inizio”. Se tutto comincia con un inizio assoluto, allora prima dell’inizio non può esserci nulla. Pertanto l’inizio deve essere un evento straordinario, appunto perché inaugura qualcosa che prima non c’era. Secondo René Girard all’inizio delle vicende umane c’è quella che chiama una «crisi mimetica» in cui si scontrano due desideri che vertono su uno stesso oggetto: «Essendo, per sua natura, il desiderio sempre imitativo, il soggetto desidererà lo stesso oggetto posseduto o desiderato dal suo modello» (Girard 2003, p. 31). In un caso del genere non è possibile alcun compromesso, o prevale il desiderio dell’uno oppure quello dell’altro. Questo contrasto irriducibile, prosegue Girard, scatena un conflitto generalizzato («rivalità mimetica») che minaccia di mettere in crisi l’istituzione sociale. Per porre fine al conflitto, allora, si addossano tutte le colpe ad un “capro espiatorio”, attraverso il cui sacrificio si salva la società. All’inizio, allora, c’è l’invidia, la guerra e soprattutto il rito: per questo, conclude Girard, «la religione è la madre di tutta la cultura» (ivi, p. 67). All’inizio c’è il sacro, appunto, l’evento straordinario. All’inizio c’è il Dio, non gli umani.
È per rovesciare questa idea della cultura e della storia che Michel Serres scrive Roma. Il libro delle fondazioni (Mimesis 2021, a cura di Gaspare Polizzi, prima edizione francese del 1983). La vicenda è nota, Romolo e Remo, gemelli, il loro scontro, l’omicidio. Il seguito lo conosciamo. Serres, però, fa cominciare la storia in un modo completamente diverso, a partire dalla stessa prima parola del libro, «seminagione» (Serres 2021, p. 23). Per seminare servono, evidentemente dei semi, che sono stati generati da una seminazione precedente. Serve un terreno, serve un mezzo (l’aratro) per rovesciare il terreno perché possa accogliere il seme. Se c’è un gesto che non è iniziale in senso assoluto è proprio quello della semina, ché anzi è un gesto possibile solo se si inserisce in una storia, un gesto in continuità con i tempi che lo precedono e lo rendono possibile. Subito dopo, ed è forse la mossa più sorprendente del libro, per raccontare la storia di come può nascere una città, Roma e tutte le altre città, Serres propone una sorta di apologo bestiale (dalla teologia all’etologia). Ci racconta come nasce un termitaio, cioè appunto la città delle termiti. Gli uomini e le termiti, esseri umani e gli insetti. Le cose nascono così, in natura:
All’inizio non c’è alcun evento straordinario, non c’è l’invidia e nemmeno Dio. C’è un insetto e una pallina di fango. Le termiti fanno così, è la loro natura. Non c’è alcun progetto, all’inizio. C’è qualcosa di minimo, un movimento “browniano” (il movimento disordinato di particelle minuscole, così piccole quasi da sfuggire alla gravità, scoperto agli inizi dell’Ottocento dal botanico scozzese Robert Brown), in cui ogni termite si muove senza un piano prestabilito. All’inizio ci sono degli insetti e del fango:
La massa di fango comincia ad ingrossarsi, così, semplicemente perché più una pallina è grande più è facile che altre termiti aggiungano altro fango alla massa iniziale. Il termitaio comincia così, fango, saliva, una miriade di animaletti che si muovono in modo febbrile. Il “modello” che sta usando Serres è quello, antichissimo, degli atomisti, di Democrito, Epicuro e Lucrezio: all’inizio, che per questa ragione non è mai iniziato, ci sono gli atomi eterni (in questo caso le palline di fango, ma vale lo stesso anche per le singole termiti), che talvolta si scontrano (è il clinamen del Rerum Natura, a cui Serres dedica un libro straordinario, Lucrezio e l’origine della fisica), e scontrandosi danno vita (anche in senso biologico) ad assembramenti più grandi.
Lo scontro-formazione del nuovo può ripetersi indefinitamente. La natura non è altro che l’insieme infinitamente intrecciato di questi incontri-scontri. In effetti gli “urti” fra le particelle non sempre costruiscono, è altrettanto probabile che mandino in pezzi una “costruzione” precedente. Ma allora, obietterà qualcuno a cui piace l’ipotesi teologica di Girard, è solo il caso a governare le vicende della storia naturale (in cui evidentemente rientra anche quella umana)?
Non c’è solo il caso, allora, c’è anche l’attrazione (sono quindi Democrito e Newton i riferimenti naturalistici della fondazione), che tiene insieme i fragili aggregati sempre sul punto di sfaldarsi. Attrazione, che tuttavia va ricordato che opera in modo del tutto inintenzionale, che favorisce la formazione di aggregati sempre più grandi. Il termitaio cresce, la città di Romolo, semplicemente perché c’è, attira profughi, ribelli, fuggitivi.
Roma diventa più grande: «E dunque può accadere che una pallina gigantesca attiri, a un certo punto, un insieme di palline già grosse e che, in definitiva, questo pozzo aspiri di colpo tutti i lavoratori: allora il termitaio comincia» (ivi, p. 25). Non c’è bisogno del sacrificio di un “capro espiatorio” che ponga fine al “conflitto mimetico”; all’inizio c’è la continuazione di qualcosa che era già cominciato, che non hai mai smesso di cominciare, termiti, fango, oppure gente che si sposta, che si ferma in un luogo, che costruisce una casa, per poi riprendere a spostarsi. La fondazione, allora, è sempre una rifondazione: «Come se non bastasse una fondazione per cominciare veramente. Come se ogni origine esigesse la sua propria origine» (ivi, p. 31). Serres interpreta in questo stesso modo i riti che precedono la fondazione di una città, e in generale un qualunque inizio:
Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani. Il caso delle termiti, da questo punto di vista, è esemplare: non c’è termitaio senza un altro, antecedente nel tempo, termitaio, da cui provengono le termiti che ne stanno ora costruendo, senza volerlo, un altro, nuovo e diverso, ma anche antico e uguale. Un termitaio da cui nascerà, forse, un altro termitaio ancora. Il tempo è questo movimento della vita, e solo una presunzione sconfinata (che oggi prende il nome di antropocene) può pensare che tutto debba ruotare intorno ai progetti umani. Roma non è nata nel 753 A.C., allora, Roma continua a nascere, e quindi a morire, ogni giorno. Allo stesso modo c’era una Roma prima di Roma, non può non esserci stata, perché nessun termitaio nasce dal nulla («Omnis cellula e cellula», secondo la celebre formula di Rudolf Virchow).
Se ora torniamo a Girard, invece, si capisce meglio quale sia la posta in gioco sottesa all’ipotesi del sacrificio del “capro espiatorio”: si tratta in realtà del “peccato originale” in quanto «cattivo uso della mimesi, e il meccanismo mimetico è la conseguenza del peccato originale a livello collettivo» (Girard, p. 174). All’inizio c’è una colpa originaria, che solo un intervento divino può emendare. Se invece all’inizio ci sono le termiti, c’è il fango e il moto browniano, allora non c’è nessun peccato da scontare, non c’è nessuna colpa. C’è invece la vita, e città è la vita, Roma è la vita. In questo inizio già iniziato, e quindi da sempre già finito, Roma diventa il prototipo di una città senza identità, perché solo di ciò che è nato dal niente si può dire che ha una identità precisa, perché è arbitraria e senza storia. Ma Roma è la storia:
Riferimenti bibliografici
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...
Se è vero che «Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani» (F. Cimatti, cit. - sopra), allora vuol dire che noialtri continuiamo a girare in tondo nella caverna platonica e ancora non sappiamo dare risposte risolutive né all’enigma della Sfinge né alla visione e all’enigma dell’eterno ritorno.
Serres ha cercato "il passaggio di Nord-Ovest" (1980), ha tentato di trovare la via del "Distacco" ("Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere", 1983), per uscire dalla "preistoria", e dall’orizzonte di "Rome. Le livre des fondations" (1983), ma non vi riesce: "Roma è sempre il bosco di rifugio, e cioè un insieme indistinto.[...] è ancora lì, indecisa, tra noi, fantomatica e mobile, ma straordinariamente presente e viva. È il segreto dell’impero"(Serres, Rome, cit.).
Anni dopo, egli continua la navigazione nell’ediphicante immaginario della filosofia platonica. Dopo Kant, Nietzsche e Freud, per Serres, Socrate è ancora una soluzione e non un problema. Nel 2015, nel "Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente", così scrive:
"Una confessione. La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice - che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, «saggia donna» -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo. La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la madre, accolgo il bambino. Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme".
Non è giunto, forse, il tempo di interrogarsi di nuovo e ancora (come voleva Enzo Paci) su "come nascono i bambini": Caino e Abele, Romolo e Remo, e ... noialtri umani? O no?! Buon Natale...
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA STORIA FILOSOFIA ANTROPOLOGIA CULTURALE E LETTERATURA...
AOSTA: SOLSTIZIO D’INVERNO, 2021:
#HOMO #PONTIFEX ("HOMO HOMINI DEUS EST"): COME SI COSTRUISCE UN PONTE.
ARCHEOLOGANDO: "IL CIELO IN TERRA OVVERO DELLA GIUSTA DISTANZA".
Una lezione di poesia e antropologia (non di "andrologia") su come sia stato possibile costruire il Ponte acquedotto di Pont d’Aël...
Un invito alla lettura del "racconto" di Stella Bertarione, "Il Pont d’Ael. La ninfa e il Romano. Storia di un amore (quasi) impossibile":
Ancora oggi restiamo stupiti davanti a tanta raffinata ingegneria. Un’opera sorprendente e maestosa che ha saputo attraversare i millenni, grazie alla maestria dei suoi costruttori".
Federico La Sala
TRADUZIONE E CREATIVITÀ: NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! Con gli occhi dell’altro...*
Con gli occhi dell’altro
di Franco Nasi (Doppiozero, 18 marzo 2021).
Che il tradurre testi letterari sia un atto complesso, che richiede competenza e infinita pazienza, umiltà e coraggio, ammirazione per l’opera che si traduce e rispetto per i lettori della traduzione, è cosa ovvia fra chi si occupa di traduzione. Lentezza, pudore, responsabilità, competenza, ascolto inventivo o passività attiva, apertura all’altro, collaborazione, sono tutti termini che ritornano nelle belle riflessioni sul tradurre di una dozzina fra i più autorevoli traduttori italiani, raccolte In L’arte di esitare curato da Stefano Arduini e Ilide Carmignani e pubblicato da Marcos y Marcos. Nell’agile volumetto sono riportati i “discorsi di accettazione” dei vincitori del Premio di traduzione letteraria conferito durante l’ormai canonico appuntamento annuale delle Giornate della traduzione, organizzate dai due curatori dal 2002, prima a Urbino poi a Roma. Il volume si apre con una poesia, I traduttori, scritta in italiano dal poeta spagnolo Juan Vincente Piqueiras, che dice molto bene, con l’economicità e la leggerezza cristallina dei versi, di queste figure spesso dimesse, che stanno dietro le quinte, ma che con passione ci fanno conoscere, a volte amare, mondi che altrimenti ci resterebbero del tutto estranei e sconosciuti:
Sono una tribù strana sparsa per il mondo
perché spostano il mondo.
Portano mondi da una lingua all’altra.
Ecco il loro mestiere.
Fanno nevicare in arabo, cambiano il nome al mare,
portano cammelli in Svezia,
fanno che don Chisciotte cavalchi su Ronzinante
dalla Mancia in Manciuria.
Fanno delle cose strane, pressappoco impossibili.
Dicono nella propria lingua
cose che mai quella lingua aveva detto prima,
cose che non sapeva di poter dire.
Sono nati da un crollo, quello della Torre di Babele,
e da un sogno: che gli uomini, le anime
che vivono agli antipodi,
si conoscano, si capiscano, si amino.
Sono una tribù muta:
danno la loro voce ad altre voci.
Sono diventati invisibili a forza d’umiltà.
Per secoli sono stati anche anonimi.
Loro, che vivono di nomi tra i nomi,
non avevano un nome.
Nella liturgia della letteratura
vengono trattati spesso come chierichetti.
Sono invece i veri pontefici: quelli che fanno i ponti
tra le isole delle lingue lontane, quelli che sanno
che tutte le lingue sono straniere,
che tutto tra di noi è traduzione.
Sono una tribù strana sparsa per il mondo
Perché stanno spostando il mondo,
perché stanno salvando il mondo.
Fra i “pontefici” che raccontano della loro professione e della loro passione, spesso in tono colloquiale e autobiografico, ci sono Giorgio Amitrano, Susanna Basso, Adriana Bottini, Pino Cacucci, Franca Cavagnoli, Renata Colorni, Ena Marchi, Yasmina Melaouah, Anna Ravano, Delfina Vezzoli, Claudia Zonghetti. Senza di loro, è certo, Banana Yoshimoto, Haruki Murakami, Alice Munro, Toni Morrison, Thomas Bernhard, Daniel Pennac, ma anche Freud o Tolstoj, solo per ricordare alcuni autori da loro tradotti, avrebbero una voce diversa da quella che hanno per molti lettori italiani: sarebbero scrittori diversi.
Naturalmente c’è chi pensa che questa antica professione sia un’arte in via di estinzione, e che presto i traduttori non saranno solo dimessi ma proprio dismessi, sostituiti dalle intelligenze artificiali, capaci di processare una infinità di dati in un battito di ciglia e di restituirci finalmente la traduzione perfetta che, come si sa, è un paradosso in termini. Può darsi che succeda, come può darsi che arriveremo ad avere una lingua franca, standardizzata, unica per tutti, che tutti saremo costretti a rispettare come il newspeak nella società distopica di Orwell.
Per ora, e per fortuna, ci è ancora concesso di usare molte lingue che si muovono, si trasformano, si reinventano; lingue che permettono creazioni di nuove espressioni, ambiguità ed errori, che, come sanno bene i linguisti, sono causa importante delle variazioni e della vitalità del linguaggio. E per ora, grazie anche alla benedizione della caduta della torre di Babele, ci è permesso ancora un dialogo fra le lingue, attraverso il tradurre che non è un atto fondato su mere elaborazioni statistiche di occorrenze di termini, per cui a una parola in una lingua corrisponde una parola in un’altra lingua, a una espressione idiomatica corrisponde una equivalente espressione idiomatica in un’altra lingua ecc., ma un atto ad un tempo rigoroso e creativo, frutto di una relazione produttiva che ha segnato profondamente la storia della cultura, un atto che ha contribuito non solo alla diffusione dei concetti, ma anche alla loro trasformazione.
Di questa idea di traduzione parla Stefano Arduini nel volume Con gli occhi dell’altro. Tradurre (Jaca Book, 2020), un libro importante, erudito e nello stesso tempo chiaro e sollecitante anche per chi non è addentro alle questioni di filologia o di linguistica.
Il libro è un saggio scientifico, scritto da un linguista e biblista, impegnato da anni negli studi traduttologici, ma leggendolo si ha l’impressione di trovarsi davanti anche a un testo letterario, sia per la perspicuità ed eleganza dello stile, sia per la struttura “narrativa”. Uso questo termine perché la costruzione del libro ricorda quelle raccolte di racconti a cornice come Il Decameron o Le mille e una notte, dove c’è una storia che ospita al suo interno tante altre storie o novelle, ciascuna a suo modo conchiusa in sé, o bastante in sé, eppure funzionale al discorso generale, alla tesi generale del libro.
Nel libro di Arduini il filo rosso, che è anche cornice, è dichiarato in apertura e viene iterato ripetutamente all’inizio o alla fine di numerose molte “novelle”: “Una delle idee che sto sviluppando in questi saggi è che i concetti non siano stabili e abbiano invece una struttura dinamica e la traduzione contribuisca a questa dinamicità” (p. 149). Non cento novelle ma dieci, che hanno come protagonisti non dei personaggi ma dei concetti.
Le parole-concetto sono: L’altro, Confini, Tradurre, Parola, Io sono, Verità, Inganno, Amore, Bellezza, l’intraducibile”.
Arduini ci racconta parte della vita, della storia di queste parole-concetto, la parte più lontana da noi, quando transitarono dal sanscrito alla cultura ebraica, greca, latina classica e poi medievale, assumendo nomi diversi nelle varie culture e nelle varie lingue, e cambiando anche almeno un poco il loro carattere, mutando alcune delle loro peculiarità ogni volta che il loro nome veniva “tradotto”, e il concetto introdotto o ricontestualizzato in un’altra lingua, cultura o enciclopedia.
Arduini ci conduce sulla rotta di quei concetti che, come delle navi che lasciano il porto, prendono il mare, vanno “alla deriva” scrive Arduini, si muovono nel tempo e negli spazi, risignificandosi attraverso le traduzioni, che necessariamente tolgono e aggiungono, conservano e creano. Così, ad esempio, dall’ebraico ahev, per amore, ai greci eros, philia, àgape, al latino amare, diligere e caritas si ripercorre il viaggio di un concetto che muovendosi si trasforma, in quella che potremmo chiamare una storia interlinguistica delle idee.
In due di queste “novelle”, quella relativa alla nozioni di tradurre e di intraducibile ci sono poi momenti di particolare importanza per comprendere meglio quel filo rosso che lega tutto il discorso di Arduini; un discorso che non può che essere interdisciplinare o, come ama dire Arduini, transdisciplinare, e che si muove, si deve muovere, fra linguistica, teologia, filosofia, filologia, etica, estetica, storia della religione ecc. in un orizzonte di comprensione aperto alla complessità di quell’atto eminentemente relazionale che è la traduzione, un atto che implica di necessità “un altro”.
“L’altro” è l’argomento del secondo capitolo, e qui troviamo una spiegazione indiretta della prima parte del titolo, Con gli occhi dell’altro. Arduini, dopo aver parlato del concetto di altro riprendendo alcuni autori fondamentali per il suo impianto interpretativo come Benveniste, Ricoeur, Lévinas, arriva al libro La colonna e il fondamento della verità di Pavel Florenskij in cui la riflessione sull’altro porta alla riflessione sull’amicizia.
Qui incontriamo la citazione da cui viene ripreso il titolo del libro. Scrive Florenskij: “Che cos’è l’amicizia? L’amicizia è la visione di sé con gli occhi dell’altro... L’Io, rispecchiandosi nell’amico, riconosce nel suo Io il proprio alter ego”. E commenta Arduini: “Florenskij propone dunque un’idea di amicizia nella quale la propria soggettività è costruita a partire da tutto ciò che è fuori dal soggetto” (p. 35).
Questo modo di intendere la relazione è fondamentale sia quando si parla di traduzione sia quando ci si interroga su quelle parole-concetto che costituiscono l’ossatura del libro, e che, come mostra Arduini, sono sempre frutto di mediazioni, conflitti e relazioni complesse fra culture e lingue.
Leggendo l’espressione di Florenskij “con gli occhi dell’altro”, mi sono venuti in mente due racconti, che non hanno a che fare con il nostro libro, ma che forse possono esemplificare due atteggiamenti contrari, il rifiuto e l’accettazione dell’altro, di cui parla Arduini.
Il primo è una novella di Pirandello, Mondo di carta ed esemplifica il rifiuto. Si racconta di uno strano signore, il signor Balicci, amante fanatico di libri. Balicci, come dice Pirandello, “la vita non l’aveva vissuta”, perché l’aveva passata tutta a leggere libri, molti di viaggi e di terre lontane. Ormai anziano perde la vista. Assolda un giovane per riordinare la propria biblioteca. Sapere dove stavano i suoi libri era per lui di grande conforto.
Poi assume una giovane esuberante, Tilde Pagliocchini, perché gli “presti gli occhi” e legga per lui i suoi libri. L’esperimento non funziona perché nella voce della ragazza i suoi libri escono stonati, falsi, insopportabilmente diversi da come li aveva in mente, da come li aveva letti lui. Chiede allora alla ragazza di leggerli con “gli occhi soltanto, senza voce”. La ragazza lo fa di malavoglia perché non capisce il senso di questa richiesta; ma poi, di fronte a un libro sulla Norvegia, non resiste, sbuffa; lei che in Norvegia c’era stata dice a Balicci che quello che è scritto nel libro non è vero, non corrisponde alla realtà. Va da sé che Balicci non vuole sentire ragione e caccia in malo modo la ragazza. In questo caso gli occhi dell’altro non sono serviti a nulla, soprattutto perché il Balicci ha rifiutato l’altro, si è chiuso ostinatamente nel suo mondo di carta, un mondo immobile, tautologico e inesistente, statico nel tempo e buio come la morte.
Il secondo racconto ha a che fare invece con l’atteggiamento opposto non di rifiuto ma di accoglienza. Si intitola Cattedrale ed è di Raymond Carver. Qui ci sono tre personaggi. Una coppia, marito e moglie, e un amico della moglie, Robert, ex collega di lavoro, non vedente. Robert va a fare una visita alla donna dopo dieci anni, e così incontra per la prima volta il marito di lei, che però è pieno di pregiudizi nei confronti dell’ospite. All’inizio il marito è distaccato e imbarazzato, non sa come dialogare con Robert, tende piuttosto a evitare di interagire. Poi un po’ alla volta i due familiarizzano. Dopo cena bevono whiskey davanti alla televisione.
C’è un programma su una cattedrale di Lisbona. Il marito chiede a Robert se ha idea di come sono fatte le cattedrali. Robert risponde di sapere solo alcune cose e chiede al suo ospite di descrivergli quella mostrata nel programma alla tele. Immagina così, attraverso la voce del suo interlocutore, la cattedrale. La vede attraverso le sue parole che però non sono sufficientemente precise. Così Robert, ed è una svolta inattesa nel racconto di Carver, chiede all’uomo di prendere un foglio e una penna e di disegnare insieme una cattedrale.
I due hanno continuato in questo modo. Quando la cattedrale era ormai delineata sul foglio, il cieco invita il marito a chiudere gli occhi e a continuare a disegnare, ma a questo punto è la mano del cieco a guidare quella del marito nel disegno.
Ecco, qui scatta qualcosa di opposto a quanto succede nel raccontino di Pirandello. Dal rifiuto di Balicci di leggere il mondo con gli occhi della ragazza, che peraltro aveva avuto esperienza diretta di quel mondo, in Cattedrale nasce un’amicizia, un adeguamento nei confronti dell’altro che non è annessione, ma una relazione che costruisce qualcosa di nuovo, di non visto. È un’amicizia che consente al marito di uscire dalla propria casa pur restando a casa, di uscire dal proprio confine, di vedere la verità e l’inganno, la bellezza, la parola, l’essere e tutti gli altri concetti studiati nella loro dinamicità in Con gli occhi dell’altro.
Scrive Arduini: “Nell’amicizia si misura il vero rapporto con l’alterità dove l’altro non viene rifiutato perché incommensurabilmente lontano, non viene annullato annettendolo al proprio universo culturale e concettuale e, infine, non conduce a rinunciare al sé e alla tradizione in cui il soggetto si è formato, ma viene accolto in un patto di reciprocità che definisce la relazione di amicizia. Una contraddizione, un paradosso, che però non lascia solo il soggetto di fronte all’impenetrabilità dell’altro, ma costituisce un elemento decisivo nella costruzione dell’identità” (p. 44).
Quello dell’amicizia, del rapporto con l’altro, è un concetto chiave per entrare criticamente nell’atto del tradurre, atto relazionale, fertile e complesso come pochi altri, atto che costituisce il fulcro di questo libro centripeto e nello stesso tempo centrifugo, solido ed erudito nella sua documentazione filologica, ma anche suggestivo per le considerazioni originali sulla figura del traduttore, sulle sue esitazioni, psicologiche ed esistenziali, sul senso di perdita che prova confrontando il proprio scritto con il testo originale, e sulla sua capacità di elaborare il lutto di quella perdita ineludibile, grazie alla sua capacità di tenere in vita o di dare nuova vita a quel testo con le sue nuove parole.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Intervista di Louis De Courcy e Guillaume Goubert. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.... *
L’arte di gettare ponti. Il filosofo del dialogo. Compie novant’anni il pensatore tedesco noto per la teoria dell’agire comunicativo,
di Marina Calloni (Corriere della Sera, La Lettura, 16 giugno 2019)
Crisi delle democrazie, ruolo della fede nelle società secolarizzate, futuro dell’Unione Europea: sono le principali riflessioni a cui Jürgen Habermas ha dedicato l’ultimo decennio. Filosofia, politica e critica della società si intrecciano nella sua vita intellettuale fin dai primi esordi giovanili, attraversando i dilemmi del XX secolo, fino agli scenari globali del nuovo millennio.
A 90 anni, Habermas (nato il 18 giugno 1929 a Düsseldorf) può essere considerato l’ultimo dei pensatori sistematici del Novecento, dove il principio post-metafisico dell’agire comunicativo diventa una filosofia della comunicazione discorsiva, quale «comprensione del mondo e del Sé, una volta abbandonata la competizione con la metafisica, la religione e le scienze esatte». Habermas viene solitamente considerato come un rappresentante della seconda generazione della Scuola di Francoforte, fondata e impersonata da Max Horkheimer e Theodor Adorno.
Tuttavia, nel corso del tempo, Habermas si è molto differenziato dall’impianto della dialettica negativa sostenuta dai «padri fondatori», che ritenevano che la ragione fosse strumentale fin dagli albori dell’umanità. Habermas è venuto piuttosto a sostenere una concezione procedurale e normativa della ragione comunicativa, che si esprime attraverso più voci e mira a conseguire l’intesa attraverso il linguaggio, incarnato nella vita di tutti i giorni.
A dire il vero, Habermas non pensava di diventare un filosofo. Il suo primo intervento pubblico di rilievo fu un articolo del 1953 sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», molto polemico verso Martin Heidegger. La sua attività come giornalista free-lance si interruppe però nel 1954, quando Adorno lo invitò all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte a far parte di un progetto su «Studenti e politica», che si concluse nel 1959. I rapporti con il direttore dell’Istituto, Horkheimer, erano intanto divenuti tesi per via di divergenze teorico-politiche, al punto che a Habermas fu impedito di sostenere la propria abilitazione a Francoforte, nonostante l’avesse completata. Fu così che chiese ospitalità a Wolfgang Abendroth (giurista e politologo socialista, esule dalla Germania Est), che gli permise di discutere nel 1961 quel lavoro che ben presto porterà molta notorietà a Habermas: Storia e critica dell’opinione pubblica.
La trasformazione della sfera pubblica illuministica rimarrà uno degli assi portanti per la successiva teoria della democrazia deliberativa. Habermas fu poi accolto a Heidelberg come professore di filosofia (1961-1964) da Hans-Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea, che ebbe un’indubbia influenza sulla sua successiva elaborazione dell’interpretazione linguistica. Ma ancora una volta il dibattito politico fece capolino nella vita di Habermas con l’inizio delle rivolte studentesche. E non si sottrasse neppure alle pesanti critiche gli furono mosse per aver usato l’espressione di «fascismo di sinistra» contro alcune posizioni del movimento. Habermas stava allora mettendo a punto un suo originale sistema, dove tradizione filosofica e confronto con altri modelli di pensiero si intrecciavano con la riflessione sulla logica delle scienze sociali, contro l’approccio positivista.
Nel 1968 Habermas aveva scritto un saggio su Lavoro e interazione, dove mise in luce la nozione di riconoscimento come elemento intersoggettivo che precede la relazione materiale fra soggetto e oggetto. La critica all’impostazione marxiana della priorità del lavoro sull’interazione sarà il perno attorno a cui ruoterà la teoria dell’agire comunicativo. Nel 1971, Habermas fu nominato direttore del Max-Planck-Institut di Starnberg per un’indagine sulle condizioni di vita nel mondo tecnico-scientifico. Si trattava di un’ulteriore sfida: lavorare con un gruppo di giovani ricercatori per lo sviluppo di un’inedita teoria sociale e per innovative ricerche empiriche. Da questa esperienza nacque l’imponente Teoria dell’agire comunicativo, dove attraverso i concetti ideal-tipici di sistema e mondo della vita l’autore tematizza i fondamenti di una teoria critica della società.
L’opera fu seguita da innumerevoli critiche, soprattutto da parte di teorici «realisti» che bollavano Habermas come un «idealista» per il fatto di impiegare concetti controfattuali come l’agire rivolto all’intesa, quando in realtà il mondo è diretto da scopi strategici. Ma è proprio per questo, ribatté l’autore, che concetti normativi e intersoggettivi sono fondamentali contro ogni abuso e violazione.
Nel 1983, Habermas fece ritorno a Francoforte con una cattedra di filosofia, che terrà fino al pensionamento nel 1994. Difficile riassumere il decennio francofortese, tanto fu denso sia di pubblicazioni filosofiche (dal discorso sulla modernità, all’etica del discorso, fino al primo libro sul pensiero post-metafisico) che di scritti politici (dall’inclusione dell’altro, alla costellazione post-nazionale, alle rivoluzioni post-socialiste fino al multiculturalismo).
La curiosità intellettuale di Habermas lo portava a gettare ponti, a trovare luoghi di confronto e di scontro con altri modelli di pensiero. Prima di lui nessun filosofo dell’accademia tedesca, post-hegeliana o marxista che fosse, aveva mai tentato un serio raffronto con teorie d’oltreoceano, nel tentativo di spezzare la netta separazione che distingueva la tradizione continentale dalla filosofia analitica, come se fossero mondi cognitivamente inconciliabili.
Invitando a Francoforte i più noti filosofi del tempo, come l’americano John Searle, Habermas mirava a comprendere le ragioni altrui sia per individuare i punti di disaccordo, sia per corroborare ulteriormente la teoria dell’agire comunicativo, correggendo o integrando aspetti specifici, come accadde per il riconoscimento della «dimenticanza» del femminismo come sfera pubblica deliberante e movimento essenziale per il ripensamento della giustizia sociale. La scelta di ritirarsi a 65 anni dall’insegnamento attivo non ha impedito a Habermas di continuare a svolgere conferenze, a sviluppare il pensiero post-metafisico, a scrivere di politica.
I due ambiti principali che hanno ispirato la sua opera negli ultimi anni sono stati la questione della religione e la riflessione sul futuro della democrazia e dell’Ue. L’interesse filosofico verso la religione scaturisce da una doppia ragione, storica e insieme filosofica: a causa della rivitalizzazione nel discorso pubblico della religione dopo il 1989 (come emerge anche dal dibattito del 2004 con l’allora cardinale Ratzinger) e per via della necessità di definire meglio la problematica del sacro nel quadro dell’agire comunicativo, dal momento che era stato fino ad allora semplicemente relegato nella «sfera espressiva». L’attenzione politica verso l’Europa riguarda piuttosto la critica al sistema funzionalistico messo in atto dalle burocrazie comunitarie e insieme la necessità di creare un’alleanza anti-nazionalista, tale che i cittadini possano trovare modalità deliberative in una comune sfera pubblica.
La vera ultima sfida teorica riguarda però il nuovo opus magnum di Habermas che vedrà la luce in settembre presso l’editore Suhrkamp. Si tratta di Anche una storia della filosofia, una ricostruzione della genealogia del pensiero postmetafisico occidentale, allorché la filosofia si è andata secolarizzando, una volta distanziatasi dalla diade di fede e sapere, con l’autonomizzarsi delle sfere di valore del diritto, della morale e della politica, determinate dal mutamento sociale. -Su questi e altri temi, Habermas terrà una lezione pubblica il 19 giugno all’Università di Francoforte, che sarà senz’altro gremita da un folto pubblico. Quando lo conobbi nei primi anni Ottanta, mentre mi apprestavo a scrivere la mia tesi di laurea, ebbi subito l’impressione che Habermas non solo interrogasse con il pensiero le cose del mondo, bensì scrutasse con lo sguardo le persone per carpirne la verità. E questo è ancora il timone che guida i suoi 90 anni.
* Fonte: https://www.ircecp.eu/2019/06/i-90-anni-di-jurgen-habermas.html#more (ripresa parziale).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI
MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il ponte e la Hybris
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 22-8-2018)*
Il termine Pontos, da cui deriva la parola «ponte», designava, per la Grecia classica, al contrario di thalassa o pélagos, l’alto mare, l’ignoto del largo, lo spazio marino nel quale non si vedono le coste e che sembra confondersi, nelle notti senza luna né stelle, con il cielo scuro; il termine descrive anche il fondo marino, nel senso di un incommensurabile baratro. Per questo pontos veniva usato come una delle denominazioni del mondo infero, del Tartaro, con il quale confinava attraverso comuni «radici», poiché in entrambi nessuna direzione è stabilita e possibile e un’incudine di bronzo può cadere senza arrivare mai da nessuna parte: «Voragine immensa, né in tutto il corso di un intero anno uno giungerebbe a terra, se prima si trovasse dentro alle porte, ma qua e là lo trascinerebbe tempesta sopra tempesta dolorosa». dice Esiodo nella sua Teogonia.
Nel Mazdeismo il «battesimo nelle piscine di Persepoli» serve per incontrare «qui ed ora» la propria Daēnā, lo spirito guida di ogni essere umano, sul Ponte Chinvat: «Alla domanda dell’anima stupefatta, che chiede ma chi sei? alla fanciulla che avanza all’ingresso del Ponte Chinvat e la cui bellezza risplende più di ogni altra bellezza mai intravista nel mondo terrestre, essa risponde: sono la tua propria Daēnā - ciò che vuol dire: io sono in persona la fede che hai professato e quella che te l’ha ispirata, quella per cui hai garantito e quella che ti ha guidato, quella che ti ha riconfortato e quella che ora ti giudica, poiché io sono in persona l’Immagine voluta infine da te stesso. Non è nel potere di un essere umano distruggere la propria idea celeste, ma è in suo potere tradirla, separarsene, non avere di fronte a sé, all’ingresso del Ponte Chinvat, che la caricatura abominevole e demoniaca del suo io abbandonato a se stesso».
Chinvat, allora, è il nome che porta ogni ponte: ogni passaggio necessario e pericoloso: opus periculosum maxime dicevano i Romani, per i quali alla gestione del sacro Pons Sublicius, il più antico di Roma, era preposto il pontifex maximus, cioè la più alta carica sacerdotale.
In queste ascendenze antiche riconosciamo, allora, al tempo stesso, sia la consapevolezza della sua necessità, sia della sua fragilità come ogni opera umana corrosa dal tempo. Ce lo ricorda anche Ernst Jünger quando, nelle Scogliere di marmo dice: «Non una casa vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento». Anche Kipling, che pure era un Libero Muratore, anzi proprio per questo, nel suo racconto The Bridge-Builders mette in contrapposizione lo spirito della tradizione Indù, ancora legata al rispetto dei limiti imposti all’uomo dalla natura, alla presunzione tecnicista dell’ingegnere britannico che, nel caso, darà la colpa del crollo ad un problema legato ai materiali, non alla insipienza umana. Sempre Kipling, nell’Uomo che volle farsi Re, fa emblematicamente condannare a morte il supponente protagonista facendolo precipitare in un baratro dopo che gli indigeni hanno tagliato le corde del ponte sospeso.
Il ponte è allora una metafora, non solo un’opera dell’ingegno umano; esso è sì sospeso tra ciò che ci trasporta al di là della nostra individualità, ma la sua caducità è anche la nostra; è questo il binomio imprescindibile e necessario del quale dobbiamo essere consapevoli per non incorrere nel peccato massimo che i Greci attribuiscono all’umanità: l’hybris, la sfida arrogante ai limiti imposti dalla natura e l’ottusità che la accompagna, ciò che ha sempre causato i disastri più grandi. Ecco che il crollo del Ponte Morandi dovrebbe insegnarci molte cose, non solo sulla eventuale carenza di manutenzione, sull’aumento esponenziale del traffico o altre cause «tecniche» che verranno evidenziata dall’inchiesta, ma una riflessione ben più profonda sul modello di sviluppo che vogliamo perseguire, sul ritorno necessario ed impellente al dialogo con le forze di un pianeta per il quale siamo evidentemente un ospite sgradito, un hostis più che un hospis.
Forse, per concludere, bastano a questo punto le parole che Leopardi scrive nell’ottobre del 1821 nel suo Zibaldone: «L’uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai né indebolisce il disgusto e la fatica che l’uomo prova nel non far nulla». E allora su questo tratto dell’antropologia umana che bisogna riflettere prima di continuare ad aggredire il Mondo: l’opera che stiamo per realizzare, il ponte, la strada, l’ennesimo stadio o centro commerciale, è sostenibile non solo dall’ambiente ma dalla nostra stessa coscienza? Possiamo rispondere a questo interrogativo non più da soli, come già ci dicevano gli antichi, ma tornando all’ascolto di quelle forze naturali che oggi, drammaticamente, come il Grande dio Pan, si svelano tremende quando, pur avendoci avvertito per anni, sono rimante inascoltate.
Lutto.
Morto Michel Serres, il filosofo della scienza che amava l’Italia
Grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, aveva 88 anni. «I miei miglior amici sono italiani»
di Daniele Zappalà (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Parigi. Era uno dei pensatori più ammirati a livello internazionale, oltre a rappresentare una figura centrale del mondo intellettuale francese. Il filosofo Michel Serres, grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, si è spento ieri a 88 anni. Accademico di Francia fin dal 1990, aveva insegnato a lungo negli Stati Uniti, all’Università di Stanford, oltre che in vari atenei transalpini. Autore di una cinquantina di volumi e di opere fondamentali sull’origine del pensiero scientifico, come Le origini della geometria (Feltrinelli) o Lucrezio e l’origine della fisica (Sellerio), aveva pure interpretato, nella lontana scia di Leibniz, la pregnanza della comunicazione nel mondo contemporaneo, come nei 5 volumi della serie Hermès (1969-1980).
Figura estremamente originale, aveva scelto come proprio motto «pensare significa anticipare», prevedendo e interpretando nei propri libri diverse rivoluzioni del nostro tempo. Una costante della sua riflessione è stata pure la grande attenzione alla tradizione culturale cristiana, come in La ricerca delle parole. Corpo, scrittura e messaggio evangelico (EDB), o in Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (Bollati Boringhieri).
Fra i volumi di Serres più citati, si può ricordare Il contratto naturale (Feltrinelli), all’origine di una riflessione sull’ambiente approdata poi a volumi più personali, come Biogea. Il racconto della terra (Asterios). Di recente, aveva pubblicato pure dei pamphlet con cui aveva riscosso un notevole successo, come Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, o ancora Contro i bei tempi andati, entrambi tradotti da Bollati Boringhieri.
«Tutti i miei migliori amici sono italiani», ci aveva raccontato nella sua ultima intervista ad Avvenire, da grande innamorato del Belpaese. In proposito, aveva anche dedicato un volume a Carpaccio, edito in Italia da Hopefulmonster. Fra gli altri tratti della tradizione italiana reinterpretati a livello filosofico, spicca la figura di Arlecchino, nel volume Il mantello di Arlecchino (Marsilio). Profondamente segnato dal dramma della guerra, ha lasciato anche importanti riflessioni di stampo pacifista.
Intervista
Michel Serres. Perché ho scritto alcuni dei miei libri
di Gaspare Polizzi (di Doppiozero, 07.02.2018)
Do il benvenuto a Michel Serres, un giovane filosofo di 87 anni che di recente ha pubblicato molti libri in Italia. Le porrò alcune domande sui libri ora disponibili per i lettori italiani: Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, tr. it. di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2016; BioGea. Il Racconto della terra, tr. it. di Maurizio Costantino e Rossana Lista, Postfazione di Francesco Bellusci, Asterios Editore, Trieste 2016; Darwin, Napoleone e il samaritano, tr. it. di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2017; Hergé mon ami. Studi e Ritratto, a cura di Domenico Scalzo, tr. it. di Simone Massa, Portatori d’acqua, Pesaro 2017. E anche la bella antologia a lei dedicata a cura mia e di Mario Porro: Michel Serres, Riga 35, Marcos y Marcos, Milano 2015.
Partiamo dal titolo Il mancino zoppo (Le gaucher boiteux), che descrive la sua condizione fisica - «Penso, dunque biforco. Già mancino, ho rischiato l’emiplegia: zoppico dolcemente» (p. 93) -, ma anche, nel suo stile a più voci, i suoi “personaggi concettuali”, Pantope, Hermès, Petite Poucette e molti altri. La sua filosofia produce personaggi. Ci dica qualcosa su questi personaggi. Come li ha creati?
Sulla prima parte della domanda, quando richiama l’espressione “mancino zoppo”, vorrei dire che essa si riferisce a una storia millenaria. All’origine gli eroi dell’antichità greca erano detti “zoppi”. I nomi di Edipo, di Laio, padre di Edipo, e di Labdacos, padre di Laio, rinviano tutti e tre a una caratteristica comune, la “difficoltà a camminare dritti” (Labdacos = “zoppo”; Laio = “sinistro”, “deforme”; Edipo = “piede gonfio”). E all’origine dell’antichità latina c’erano Orazio Coclite e Muzio Scevola, che erano uno guercio (cocles) e l’altro mancino (scevola). Nella tradizione ebraica Giacobbe che sta per diventare Israele, il fondatore, se vogliamo, del termine, lotta tutta una notte contro l’angelo e diventa zoppo.
Quindi questa tradizione è davvero molto antica, e vuol dire che in qualche parte del corpo è necessaria una qualche forma di squilibrio, e tale squilibrio è favorevole alla marcia, all’avanzata; si può camminare grazie a una rottura dell’equilibrio. Questa specie di corpo a metà, di mezza sensazione che ci coinvolge è molto interessante. E così, se volete, il personaggio del “mancino zoppo” è una sorta di ripresa di una tradizione estremamente antica.
In secondo luogo, per quel che riguarda i personaggi, io credo che la filosofia debba dire tutto. Sa bene che ci sono scienze specialistiche e scienze generaliste. Il filosofo è generalista, perché ha da dire su tutto. Ma come? Deve dire di tutto in tutte le forme possibili, tanto con la geometria, l’algebra, con scienze come la fisica o la biochimica, ecc., quanto con la poesia, la letteratura, ecc. E ciò è evidente nelle tradizioni che ci riguardano - noi francesi e italiani -, nelle quali si dice che i filosofi sono anche letterati.
La filosofia produce personaggi, ma non direi “personaggi concettuali”, bensì personaggi reali che si possono incontrare per strada, come si può incontrare il “mancino zoppo”. Non sono concetti, allegorie, ma personaggi reali come quelli che un poeta o un romanziere avrebbero potuto inventare. Ecco la molteplicità delle vie di accesso alla realtà. E si tratta di tradizioni che sono penetrate a fondo nella cultura latina, italiana, spagnola e francese.
In Darwin, Napoleone e il samaritano espone una filosofia della storia. Nessuno oggi ha il coraggio di proporre una filosofia della storia. E una filosofia della storia che rinvia alla visione di Gioacchino da Fiore sul progresso dello Spirito in tre periodi: l’epoca dell’origine, l’epoca dura e l’epoca dolce. L’epoca dolce del Samaritano si apre con la pace, la medicina, il virtuale. Un’eresia, si direbbe, che annulla anche l’opposizione natura/storia.
Vorrei rispondere richiamando ancora una tradizione. C’è in Francia un libro di un gesuita francese, Henri de Lubac, un libro molto bello, che si intitola La Postérité spirituelle de Joachim de Flore [La posterità spirituale di Gioachino da Fiore, tr. it. di Francesco di Ciaccia e Gabriella Cattaneo, 2 voll., Jaca Book, Milano 1981-83]. Questo libro sottolinea che a partire da Gioacchino da Fiore non c’è una filosofia della storia, dal medioevo ad oggi, che abbia evitato la divisione del tempo in tre parti. In tal modo Gioacchino da Fiore è anche l’ispiratore di Hegel, di Marx, di Bossuet e così via, di tutti i filosofi della storia. Egli richiama così la più antica tradizione della filosofia della storia del nostro tempo.
In secondo luogo, a proposito della rottura natura/storia io dico che accade tutto il contrario, perché per la prima volta abbiamo creato una storia del mondo, quello che chiamo il Grand Récit, ovvero sappiamo ora veramente che la storia umana si collega alla storia del mondo, alla storia dei viventi, all’evoluzione darwiniana, ecc. Di conseguenza, al contrario di quanto si crede, il legame natura/storia non è mai stato assicurato più saldamente di quanto lo sia oggi.
La terza risposta alla sua domanda è che, soprattutto nella seconda parte del libro, ho scritto la storia dal punto di vista delle vittime. Ci sono stati grandi uomini come Napoleone, Luigi XIV, Cesare, Alessandro Magno. ma io guardo alla storia dal punto di vista del numero di morti che questi grandi uomini hanno prodotto. E per questo ho chiamato questo periodo della storia l’epoca dura. Ha ragione a segnalare che viviamo in pace, almeno in Occidente, da più di settant’anni e che la speranza di vita è cresciuta di una decina o ventina di anni, e quindi che viviamo un momento del tutto eccezionale della nostra storia.
Le porrò ora tre domande su Hergé mon ami. Studi e Ritratto, appena tradotto da Simone Massa in un libro a cura di Domenico Scalzo. Hergé è stato un vostro amico d’infanzia, di maturità e di vecchiaia. «Hergé insegna a ridere, a pensare, a inventare: unico verbo in tre persone» (p. 18).
La figura di Tintin possiede tratti indeterminati, quasi inespressivi, quasi a favorire l’identificazione di ogni lettore con l’eroe di Hergé. Lei è stato un lettore attento delle Aventures de Tintin fin dall’infanzia, tra la guerra di Spagna e la Seconda Guerra Mondiale. Ci può descrivere il momento in cui ha detto, come Flaubert davanti a Madame Bovary, “Tintin sono io”?
La mia risposta è molto divertente. Ci sono in Francia, e credo anche in Italia, dei cartoni nei quali si trova un foro al posto della testa e ci si può fotografare mettendo la testa nel foro e apparire nel resto del corpo, ad esempio, come un soldato di una legione romana. Una volta ero a teatro e ho visto un attore al quale è caduto sul collo e sulle spalle un muso di toro e che se ne è andato, barcollante, tra le attrezzature di scena. Ho capito allora che Tintin era come uno di quei cartoni. Per questo motivo Tintin ha dei tratti così indeterminati, perché attraverso quel foro Gaspare o Michel o ogni altro individuo può mettere la propria testa. Di conseguenza Tintin è lei, sono io, siamo tutti. Credo che il successo di questo fumetto sia dovuto al fatto che noi tutti possiamo identificarci con il personaggio principale. È questo, credo, il motivo della sua originalità, o piuttosto della sua assenza di originalità, che influenza tutti.
Ci dice che ha appreso, per la ricerca sulle origini della nostra civiltà, più da Hergé che da Marx o da Freud: «Hergé - lei scrive - non ha alcun bisogno di economisti, di psicoanalisi o antropologia, né di etnologi, poiché disegna, senza dirlo pesantemente, ciò che questi sapienti e queste scienze credono di spiegare. Meglio, egli inventa e si spinge più lontano di loro» (p. 54).
Richiamo ciò che ho detto prima sulla tradizione che accomuna Italia e Francia nel mettere dei personaggi nella riflessione concettuale, come avviene con Vico o, tra di noi, con Diderot. Evidentemente in quel momento ci si persuade che il racconto, come quelli sviluppati dai grandi scrittori della letteratura o da Hergé che ne prende il testimone, che questi personaggi in azione o questi racconti dicono cose molto più profonde, o, se vuole, sono la sintesi, la sintesi vivente di determinazioni concettuali che sarebbero più astratte. E in un certo senso questa letteratura, compresi i fumetti, fa la sintesi delle scienze umane. Per questo ho scritto una volta che Hergé era il Jules Verne delle scienze umane.
Una delle avventure più celebri di Tintin, Les Bijoux de la Castafiore, Hergé affronta il tema della mancanza di comunicazione a causa di un eccesso di comunicazione. Tema che attraversa la sua filosofia, nel gioco mai risolto tra immagini e parole che riassume l’arte del fumetto. Qual è oggi il senso degli scacchi nella comunicazione?
Risponderò in due maniere. Una personale e una oggettiva.
In maniera personale devo dire che quando ho letto Les Bijoux de la Castafiore mi sono accorto che si trattava di una meditazione molto precisa sulle rotture di comunicazione. E ciò mi ha colpito molto, perché avevo già scritto Hermès, La Legende des Anges e tutta la mia ricerca si era orientata sulla comunicazione.
In maniera oggettiva si deve rispondere alla domanda: “perché c’è uno scacco nella comunicazione”. Vi sono diverse ragioni. La prima ragione, oggettiva, ma ora anche soggettiva, è che quando si connettono troppo i canali di comunicazione, essi si intrecciano gli uni con gli altri: si ha nello stesso tempo e insieme la televisione, il telefono, internet. Di conseguenza, tutto a un tratto ogni mutamento nel regime delle comunicazioni è completamente muto, per eccesso di comunicazione. E bisogna anche aggiungere - è molto semplice - che all’epoca di Hergé la televisione non funzionava ancora molto bene, come anche il telefono. Vi sono nei fumetti di Hergé una serie di immagini datate di un periodo nel quale effettivamente si stavano realizzando nuovi sistemi di comunicazione, ma in cui questa realizzazione non era ancora molto precisa.
Per finire due domande sul futuro dell’umanità, che è legato alla gioventù di oggi. Ha scritto in Petite poucette (2012; Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, tr. it. di Gaspare Polizzi, Bollati Boringhieri, Torino 2013): «i ragazzi abitano dunque il virtuale [...]. Non conoscono, né integrano, né sintetizzano come noi» (p. 14). Quale sarà la pedagogia del futuro in questo predominio del virutale? Come combinare la creatività con la conoscenza legata ai lunghi esercizi sui libri e sulle formule?
In Petite pouchette ho descritto le differenze che mi sembravano più importanti tra i giovani e noi. Quando siamo in presenza di internet o degli strumenti odierni di comunicazione abbiamo un accesso estremamente facile alle informazioni. Noi due, per esempio, abbiamo deciso di apprendere qualcosa di molto difficile, come la meccanica quantistica. Ci troviamo insieme e con internet acquisiamo tutte le informazioni possibili, ma non comprendiamo niente in queste informazioni e di conseguenza dobbiamo cercare un amico che diventi il nostro maestro e ci permetta di trasformare l’informazione in conoscenza. L’informazione non è la conoscenza. Con questo esempio si vede molto bene che avvicinarsi all’informazione è molto facile, ma per arrivare alla conoscenza bisogna impegnarsi a lungo. La pedagogia non è stata davvero annullata per effetto dei nuovi strumenti di comunicazione. C’è sempre bisogno di un pedagogo, di un insegnante o di un professore.
Ci può regalare, per finire, un ricordo della sua amicizia con Ilya Prigogine, del quale si è appena celebrato il centenario della nascita? Su “Le Monde” del 4 gennaio 1980 ha scritto, a proposito di La Nouvelle Alliance: «un libro tanto equilibrato sembra un miracolo».
Me ne ricordo bene di Prigogine, perché è scomparso alcuni anni dopo, dopo aver conseguito il premio Nobel per la fisica. L’ho conosciuto bene e gli ho sottoposto il mio articolo uscito su “Le Monde” prima che fosse pubblicato. La frase che avete citato è una frase quasi ironica, perché tutto il suo libro è fondato su un concetto che è l’inverso di quanto ho scritto. Prigogine è un teorico della termodinamica e ha studiato il non-equilibrio. Ha fatto bene a porre questa domanda, perché consente di ritornare alla prima, a quella sul “mancino zoppo”.
Lei aveva esattamente l’idea di ciò che abbisognava in questa nostra conversazione, ovvero che per camminare bisogna produrre uno scarto dall’equilibrio e per pensare bisogna sempre mettere in questione ciò che si è imparato. Tutto si tiene, grazie a lei, con la prima e con l’ultima domanda.
Attendiamo ancora molti suoi libri. Quale sarà la prossima tappa della sua randonnée, dopo il suo ultimo libro C’était mieux avant!?
Scriverò ancora altri libri. Quando si scrivono dei libri non ci si ferma mai. I calzolai fanno sempre delle scarpe nuove.
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Una rilettura dell’eroe di Sofocle come protagonista del primo “cold case” della letteratura
Edipo
Perché il giallo dell’innocente colpevole è il delitto perfetto sognato da Hitchcock
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 08.10.2016)
Quando l’uomo giunse a Tebe, terrorizzato, la notizia sconvolse la città: Laio, il re, era stato assassinato. Nel frattempo però un altro evento aveva sparso il terrore. Si diceva che un essere spaventoso e seducente nello stesso tempo - corpo di leone, ali di uccello, testa e petto di donna - si fosse appollaiato su una roccia e da lì, bloccando la via, sfidasse i passanti a risolvere un enigma. Una musica dolce era la sua voce, ma la Sfinge - così si chiamava - era crudele. Nessuno era stato capace di trovare la soluzione, e tutti erano stati divorati dal mostro. Poi però era comparso lo zoppo. Dicevano che fosse arrivato trascinando i piedi
nella polvere, ma quando si trovò di fronte alla Sfinge non ebbe paura. Si appoggiò, mise la mano al mento, come se pensasse, poi pronunziò la risposta. La Sfinge, sconfitta, aveva urlato e si era gettata giù dalla rupe. Tebe era libera.
Lo zoppo si chiamava Edipo e in città lo portarono in trionfo. Gli dettero in moglie la regina vedova, Giocasta, e lo fecero re di Tebe. Adesso la città era felice, ma passati alcuni anni, le sventure ricominciarono. La peste infatti afferrò Tebe, e con la peste la carestia. La città è di nuovo immersa nella disperazione.
Siamo giunti così all’inizio dell’Edipo re di Sofocle, di cui abbiamo raccontato l’antefatto. Adesso il re è sulla scena e, pressato dai vecchi di Tebe, dichiara di aver mandato a consultare l’oracolo. La risposta giunge, ed è chiara: il sangue di Laio chiede vendetta, e l’ignoto assassino si trova in città. Al re non resta dunque che cominciare a indagare - è un grande solutore di enigmi, chi meglio di lui potrà risolvere questo mistero? Edipo assume dunque il ruolo di detective, alle prese con un “cold case”, come oggi si dice. E da buon detective si preoccupa subito di cercare indizi: «Come sarà possibile trovare la traccia di un crimine antico, difficile da decifrare?», si chiede. Ma poi è più fiducioso: «Un solo dettaglio può aiutarci a scoprire molte cose, basta lo spunto, anche piccolo, di una congettura».
Come si vede del detective Edipo ha assunto anche il linguaggio. «Da solo, non potrò seguire le tracce molto a lungo» dice ancora «se non dispongo di qualche segno ».
Eccolo anzi sottoporre sospettati e testimoni ad interrogatori invero serrati mentre - come ogni investigatore che si rispetti - fa ricorso alle regole della logica per escludere determinate ipotesi: «Infatti l’uno non potrebbe essere la stessa cosa dei molti», dirà a un certo punto. Sotto i nostri occhi si svolge un’inchiesta che, come vedremo, è costruita su uno straordinario gioco di incastri, tale da superare la fantasia di qualsiasi giallista.
Solo che Edipo non è solo un investigatore, è soprattutto un eroe tragico. Che nel profondo del cuore cela, come si sa, un terribile segreto. Prima di giungere a Tebe, infatti, un oracolo gli aveva predetto un destino di sventura: «Ucciderai tuo padre e ti unirai a tua madre! ». Per questo Edipo era scappato da Corinto, dove viveva con i suoi genitori, Polibo e Merope, il re e la regina di quella città. Che altro avrebbe potuto fare se non fuggire il più lontano possibile da padre e madre?
Ma torniamo sulla scena di Sofocle, l’inchiesta infatti va avanti. Finalmente è stato individuato il testimone chiave, un servo che accompagnava Laio il giorno dell’omicidio. Interrogato, l’uomo riesce solo a ricordare che il fatto si era svolto sulla via che da Tebe porta a Delfi, a un bivio: Laio stava sul suo carro, dice, e gli assassini - uno solo? molti? - lo avevano trafitto.
A questo punto, però, la vicenda ha una brusca impennata: il detective è preso dall’angoscia. Egli ricorda infatti che prima di giungere alla rupe della Sfinge, sulla via di Tebe, aveva incrociato un arrogante che gli aveva chiesto il passo con la frusta. Edipo l’aveva tirato giù dal carro e l’aveva ammazzato. Dunque quell’uomo era Laio? Ed era lui stesso, Edipo, l’assassino? Se è così, e tutto lo fa credere, l’inchiesta condotta da Edipo ha condotto a questo paradossale risultato: l’assassino altri non è che il detective.
Ma ecco un nuovo colpo di scena, in questa vicenda la suspense è incalzante. C’è infatti un nuovo mistero da risolvere, ci sarà bisogno di ascoltare nuove testimonianze e di comporre altri indizi. Giunge infatti un messaggero da Corinto: Polibo, il padre di Edipo, è morto. Almeno c’è questo sollievo, pensa il re, non ho ucciso mio padre, il mio destino non si è compiuto. Racconta dunque dell’oracolo al messaggero e l’altro quasi si mette a ridere. Per questo sei fuggito da Corinto, gli dice? Per paura di uccidere tuo padre? Ma no, Polibo non era il tuo vero padre. Ti ho raccolto io, trovatello, sulla montagna, e ti ho portato a lui, che ti ha adottato. Di chi son figlio allora? Chiede il re ancora più sconvolto. Chi sono io? Da detective che era, Edipo si vede sempre più trasformato in oggetto di indagine. Anche in questa seconda, inattesa tappa dell’inchiesta, il servo che aveva assistito all’uccisione di Laio si conferma nel ruolo di testimone chiave.
Tanti anni prima, racconta, quando pascolava le greggi sui monti, gli era stato ordinato di uccidere un bambino: il figlio di Laio e Giocasta, di cui il re voleva liberarsi. Aveva le caviglie trafitte, quel bambino, e lui non aveva avuto il coraggio di ucciderlo. Per questo lo aveva abbandonato sui monti, dove l’altro, l’uomo di Polibo, lo aveva raccolto e portato a Corinto. Edipo è zoppo, il piccolo aveva le caviglie forate: tutti gli indizi convergono, dunque quel bambino era lui, Edipo. Al termine della sua indagine il detective non solo ha scoperto di essere lui l’assassino che cercava, ma anche di aver compiuto punto per punto il proprio destino: ha ucciso suo padre, Laio, e ha concepito figli da sua madre, Giocasta. Edipo, il detective, risolvendo un caso di omicidio ha scoperto di essere un mostro.
La vicenda dello zoppo che scioglie enigmi, e indagava su un omicidio eccellente, è ciò che un giallo (riuscito) difficilmente arriva ad essere: una grande riflessione sulla “colpa”. Edipo, l’assassino, l’incestuoso che appesta Tebe, in realtà è contemporaneamente un innocente. Perché nessuno di questi delitti egli lo ha voluto commettere, il destino ha deciso per lui - ma nonostante questo Edipo è un colpevole, un impuro.
Proviamo a tradurre questa categoria arcaica, mitica, di “destino” in quelle che useremmo noi al suo posto: come il crescere in condizioni sociali miserabili e degradate. Dopo di che immaginiamo che, in simili situazioni, qualcuno uccida, contamini di sangue la città, diventi un mostro. Colpa? Destino?
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Ripartire dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo" .... *
“È cominciata l’era dolce dell’umanità!”
di Francesco Bellusci ("doppiozero", 26 luglio 2017)
Qualche anno fa, in un breve e amichevole scambio a distanza con Michel Serres, il filosofo francese mi faceva notare la vicinanza geografica del mio paese di origine (lucano) con il rispettivo (calabrese) di Gioacchino da Fiore, confidandomi che in quel momento l’abate e teologo cistercense assorbiva i suoi interessi e le sue ore di studio nella biblioteca della prestigiosa Académie Française, fondata dal cardinale Richelieu, di cui Serres è membro da quasi trent’anni. Adesso, mi rendo conto che quella confidenza di circostanza mi avrebbe fornito la chiave segreta di accesso alla sua ultima fatica, appena edita in Italia (Darwin, Bonaparte e il Samaritano. Una filosofia della storia, Bollati Boringhieri, Torino).
Infatti, la “filosofia della storia” che Serres presenta in questo libro, ricalca lo schema dell’interpretazione storico-allegorica di Gioacchino da Fiore basata sul processo di compimento progressivo della Rivelazione e soprattutto sulla divisione in tre età o epoche (l’età del Padre, l’età del Figlio e l’età dello Spirito santo), che nel libro di Serres diventano: l’era dell’inizio, l’era dura e l’era dolce.
Non si tratta di una novità assoluta. In passato e sempre in una versione secolarizzata, lo schema era stato mutuato e riproposto, per esempio, da Lessing nell’Educazione del genere umano o da Nietzsche nelle “tre metamorfosi” (cammello, leone, fanciullo) del Così parlò Zarathustra.
È lo stesso Serres che, in alcuni punti del libro, rivela la matrice “cristiana” della griglia alla base della sua filosofia della storia, che rimane tuttavia estranea al modello escatologico di quella matrice. La confidenza evoca oggi un’ulteriore coincidenza e analogia. Tra i più ferventi aderenti alla visione di Gioacchino da Fiore ci fu il teologo e francescano parigino Gerardo di Borgo San Donnino, che in un libro intitolato Liber introductorius ad Evangelium aeternum del 1254 preconizzò l’imminente avvento dell’“età nuova” o ordine dello Spirito Santo profetizzata da Gioacchino (per l’esattezza nel 1260), con la scomparsa conseguente della Chiesa gerarchizzata sostituita da una comunità monastica di santi.
Ma San Bonaventura metterà a tacere immediatamente i fervori gioachimiti nel suo ordine, bollandoli di eresia, e il teologo parigino sarà condannato alla prigione a vita. Entrati nel terzo millennio, diverse e inquietanti nubi e minacce sembrano addensarsi e oscurare il nostro tempo: dal terrorismo globale alle guerre asimmetriche, dalle catastrofi ecologiche o umanitarie legate ai grandi flussi migratori dal Terzo Mondo alla criminalità organizzata che avvelena l’economia e la politica di alcuni Stati, in non poche parti del mondo.
Eppure, un filosofo, ancora una volta francese, di nome Michel Serres, ancora una volta, in quest’ultimo libro, ne parla come di fenomeni molto circoscritti e regressivi, enfatizzati solo dai “mercanti” del pessimismo e del catastrofismo che si annidano non a caso nel sistema delle comunicazioni di massa, e annuncia, nell’incredulità generale, che abbiamo fatto da poco il nostro ingresso nell’età più dolce dell’umanità.
È, quindi, il caso di addentrarci di più nel testo di Serres, al quale già di recente la collana “Riga” sui grandi innovatori del Novecento ha dedicato una ricca antologia critica (Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Marcos y Marcos, Milano 2014) e sul quale, il prossimo ottobre, la Casa della Cultura di Milano si appresta ad offrire un seminario a più voci al pubblico italiano, per accompagnarlo nel modo in cui il nuovo maître à penser francese, che parteciperà in videoconferenza, c’invita a cambiare lo sguardo sul mondo contemporaneo.
Se, come si è detto, Gioacchino da Fiore gli fornisce la tela, la tavolozza dei colori che Serres utilizza per dipingere il suo affresco ambizioso include alcune coppie concettuali-chiave: bene e male, virtuale e attuale, caos e necessità, sacro e santo, rideclinate a partire dai pensatori e scienziati che lo hanno ispirato profondamente e costantemente: Simone Weil, Henri Bergson, Jacques Monod, René Girard.
Questi riferimenti e intercessori non vanno ovviamente confusi con i “personaggi concettuali” fatti assurgere da Serres a simboli delle tre età o ere che vede succedersi nella storia e che danno il titolo al libro: Darwin, Napoleone e il Samaritano.
Il libro inizia con la precisazione di un nuovo modo di intendere e definire i confini della storia, la cui profondità temporale assume in Serres una dimensione colossale. Non è solo la storia “storica”, la storia centrata sugli uomini, la storia che ha inizio con l’invenzione della scrittura. Paradossalmente questa Storia ha una memoria corta, cortissima, anzi è un ammasso di oblii, perché dimentica e mette ai margini della storia gli ominidi o i popoli primitivi privi di scrittura, gli altri viventi, le cose inerti, il pianeta, l’universo. La storia di cui Serres vuole proporre una filosofia, infatti, ha l’estensione cronologica vertiginosa del “Grande Racconto” delle scienze, dal momento che risale fino al Big Bang, cioè a circa quattordici miliardi di anni fa.
È il racconto che unifica in un’unica serie temporale le durate che ogni singola scienza (etnologia, biologia evolutiva, fisica del globo, astrofisica, cosmologia) ha ricostruito e aggiorna con sempre maggiore esattezza per i propri oggetti, in cui è inclusa la storia degli storici. L’enciclopedia delle scienze diventa una cronopedia e scienze naturali e scienze umane si uniscono, perché, anche se raccontano cose diverse, si basano sulla stessa struttura del tempo. Questa storia, chiarisce Serres, non ha più scopo o direzione e tantomeno sono gli uomini il fine o la fine di questo racconto, che è fatto di caos e biforcazioni impreviste, è un insieme eterogeneo di paesaggi e ritmi temporali differenti, ma che si può sempre ripercorrere da valle a monte secondo il “movimento retrogrado della verità” di bergsoniana memoria, ricostruendone così catene causali e direzioni di marcia. E Serres vi scorge la successione di tre ere.
La prima era va dalla formazione dell’Universo e del nostro pianeta fino alla comparsa e allo sviluppo delle forme viventi pre-umane. È l’era “darwiniana”, segnata dal duello energia-entropia, che governa il mondo fisico, e da quello vita-morte, che governa la galassia dei viventi e che si rideclina in pace-guerra con la comparsa dell’Homo sapiens, il rappresentante dell’unica specie vivente a introdurre la violenza e l’omicidio intra-specie. Ha inizio adesso l’“era dura” segnata da tre morti: la morte procurata col sacrificio, prima umano poi animale, ritualizzato nelle religioni arcaiche, che coagulava e rendeva coese così le comunità col sacro e col sangue, fino a quando il cristianesimo lo sostituirà con il rito “dolce” e simbolico dell’eucarestia, per denunciare l’innocenza di ogni vittima sacrificale; la morte procurata dalle armi letali della guerra, che è apparsa perpetua lungo tutta la storia “umana”, a cominciare dalla madre di tutte le guerre, quella combattuta tra gruppi nomadi e gruppi sedentari; la morte indotta o minacciata dal meccanismo economico del prestito e del debito, regolato ma sempre impastato di violenza. L’era dura culmina nella rivoluzione industriale e si chiude con l’esplosione di Hiroshima, che inaugura la prima “globalizzazione”, perché proietta la minaccia di morte per la prima volta non più sull’individuo, sui gruppi umani o sulle civiltà bensì sull’intera specie umana, ma è contestuale all’evento che gli fa da contraltare e che apre il sipario dell’era dolce: la scoperta della penicillina.
La neghentropia, l’informazione, la cura della vita, hanno sempre opposto, infatti, resistenza alla “tanatocrazia” dell’era dura e creato le condizioni per l’avvento dell’era dolce. Le stesse rivoluzioni dolci, come quelle concernenti i segni e la comunicazione (dall’oralità alla scrittura, dalla scrittura alla stampa, dalla stampa al digitale) hanno avuto un impatto più duraturo e diffuso sull’organizzazione sociale rispetto alle rivoluzioni dure, come quella scientifico-tecnico-industriale.
L’era dolce comincia poco più di mezzo secolo fa e si connota per tre componenti: la pace, la medicina, il digitale. La pace, nuova, dura almeno in Europa ininterrottamente da settant’anni; la guerra e il terrorismo sono precipitati all’ultimo posto come causa di mortalità nel mondo; all’immensa maggioranza degli uomini ripugna uccidere, violentare, distruggere opere d’arte e stigmatizza le minoranze che adottano ancora questi comportamenti; la protezione sociale dei deboli ha capovolto il darwinismo sociale dell’era dura. Questa pace è stata la condizione principale della golden age del secondo dopoguerra, dello sviluppo economico impetuoso che ha accresciuto il benessere, l’inurbamento, e della medicina che ha aumentato considerevolmente la speranza di vita, modificando il nostro rapporto col corpo, che non soffre più i dolori quotidiani di chi viveva già fino alla metà del secolo scorso.
Nell’era dolce, il medico rimpiazza il guerriero, la pietà del buon Samaritano succede alla spietatezza di Napoleone: “Nell’era antica, che possiamo definire ‘hegeliana’, a volte gli eserciti in battaglia trascinavano dietro degli sparuti chirurghi, mal equipaggiati, con poche infermiere munite di bende sparse in un ambiente insozzato dai combattimenti. Le grandi epidemie spesso erano la conseguenza dei carnai successivi allo scontro. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che un giorno queste retroguardie avrebbero sostituito in prima linea i soldati, un tempo vittime; che l’ospedale, dove hanno luogo le sfide all’ultimo sangue per il trionfo della vita, avrebbe rimpiazzato il conflitto; che i governi, abbandonando il servizio militare, avrebbero deciso per una politica della salute; che dopo le ferite ci sarebbero state le cure; che l’assistenza sanitaria pubblica avrebbe sostituito il quartier generale e le sue strategie di morte; che l’OMS avrebbe potuto orientare la geopolitica. Ma questa utopia ha avuto luogo”.
Dopo aver letto fiumi di inchiostro sul lato oscuro e pervertibile della biopolitica moderna, Serres c’invita a coglierne il lato irenico e benigno, se ci poniamo adeguatamente dal punto di vista della lunghissima durata del “Grande Racconto”. D’altra parte, il profilo antropologico emergente dell’umanità “dolce” è convergente con quello tratteggiato già nel frammento postumo del 1887 da Nietzsche, per il quale proprio il contesto di vita reso meno insicuro e insensato e quindi addolcito dallo sviluppo della scienza e dalla tecnica, rende più ‘forti’ gli uomini più ‘moderati’, che non hanno bisogno, per rassicurarsi, di ricorrere a fedi estreme o a visioni essenzialiste e metafisiche dell’uomo.
Il motore della storia non sarà più la lotta tra servo e padrone, vinta da chi è disposto a rischiare la vita e a soggiogare quella altrui con la minaccia di morte, ma la legge del buon samaritano che s’inchina e si prende cura della vita, perché ci consentirà non solo di progredire ma di sopravvivere: “Dalla pietra tagliata alle armi nucleari, dai cacciatori-raccoglitori agli sventramenti del mondo, l’era storica contraddistinta dalle forze dure è al termine. Non può andare oltre senza avvelenare gli uomini e distruggere le cose”. E arriviamo così alle tecnologie dolci di Internet, che hanno innanzitutto il pregio di liberare la potenza del numero: tutti accedono virtualmente a tutto e a tutti.
Serres è positivamente impressionato dalla capacità di Internet di decentralizzare e democratizzare il sapere, in una misura non comparabile con quella delle altre rivoluzioni della “coppia supporto-messaggio” (scrittura e stampa) e in attesa di dispiegare ancora il suo ventaglio di effetti e opportunità per l’accesso al potere e alle istituzioni, per l’organizzazione dell’opposizione a regimi oppressivi, per nuovi modi di apprendere, di conoscere e di liberare la mente all’invenzione, per creare nuove appartenenze.
Se, come diceva Lutero, ogni uomo è Papa con una Bibbia in mano, cosa sarà l’uomo con uno smartphone in mano, cioè con il mondo intero in mano? Una molteplicità immensa e crescente è entrata in scena e in contatto in uno spazio non più cartesiano e metrico, bensì virtuale e topologico. Certo non è detto che questa possibilità incommensurabilmente accresciuta di contatto e scambio generi automaticamente, sempre e in modo più esteso comunità e pace.
Nuove forme di violenza possono essere veicolate nella e con l’uso della Rete e i più pessimisti prefigurano addirittura la fagocitazione del dolce da parte del duro con le cyberguerre. Ma al futuro dell’età dolce Michel Serres consegna l’utopia concreta di una pace universale che discenderà dalla coscienza della comune appartenenza all’equipaggio del vascello-Terra e dei rischi di affondare che esso corre: “È vero, abbiamo messo la mano sul mondo, ma il mondo tiene la sua mano su di noi. Noi lo teniamo virtualmente; lui ci tiene realmente. Noi lo teniamo realmente; lui ci tiene virtualmente. Lo teniamo grazie al facile accesso; e lui ci tiene per le nostre condizioni di esistenza - respirazione, nutrimento, salute, spostamenti... Mi sembra prevedibile che un giorno la mano del mercato dovrà adeguare la sua potenza relazionale a quella concreta del mondo, e forse adeguarvisi, cioè obbedire alla sua legge. Entriamo in un periodo in cui si gioca un mano a mano decisivo per la nostra sopravvivenza, tra l’uomo individuale o globale e l’intero pianeta. Questo mio libro sulla storia e la storia stessa tornano al punto di partenza: partiti dal mondo, vi fanno ritorno”.
Per lungo tempo oggetto ostracizzato dalla scena del discorso filosofico contemporaneo, per aver alimentato in modo sotterraneo le ideologie totalitarie (come tale è stata smascherata o messa all’indice da Hannah Arendt o Karl Popper), Serres è determinato nel riportare la filosofia della storia in auge come l’orizzonte o la bussola imprescindibile per la politica e i decision makers, che oggi, in questo inizio di secolo, se ne scoprono drammaticamente orfani, nel momento in cui necessitano di essere più lungimiranti.
E una filosofia della storia allargata e inglobante le durate colossali dell’Universo, della Terra, dell’evoluzione del vivente, oltre alla storia delle collettività umane, non è affatto un mero esercizio interdisciplinare, né solamente il frutto di quel che Serres chiamava, già alcuni decenni fa, programmaticamente “il passaggio a Nord-Ovest” tra saperi umanistici e saperi scientifici.
Risponde all’esigenza di evitare ad ogni costo l’opposizione natura/storia, il cui superamento è ormai condizione stessa della nostra sopravvivenza. I nostri nonni sapevano di avere alle loro spalle solo circa tremila anni di storia. Le “Pollicine” del futuro, i giovani dell’era dolce, sapranno di avere alle loro spalle quattordici miliardi di anni di storia e di essere entrati nell’era dell’antropocene. Questa coscienza non potrà non avere effetti sulla mentalità, sulla politica, sul diritto, sul modo di produrre. In definitiva, sul nostro essere-nel-mondo. Serres ancora una volta è ottimista: “Ecco che ne è dell’essere-nel-mondo: dolce verso il mondo, l’età dura era dura verso gli uomini; poi, dolce per gli uomini, l’età dolce è diventata dura verso il mondo. Dobbiamo lavorare per un futuro in cui i nostri comportamenti saranno dolci verso gli uomini e verso il mondo”.
L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Louis De Courcy e Guillaume Goubert intervistano Michel Serres.
Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16).
SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DA’ IL "TERZO PARADISO". Un omaggio critico a Michelangelo Pistoletto
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Come inventare il futuro nel tempo della società dolce
di Francesca Bolino (la Repubblica, 08.05.2016)
Il “dolce” smantellerà il “duro”, quel vecchio mondo costruito con “mura, città, porti, asili di morte” che contenevano concentrazioni di donne, uomini, studenti, professori, liberi e condannati, sani e malati, cliniche, ospedali, libri, librerie.
Per Michel Serres il vecchio mondo è fatto di scatole dove non abbiamo mai smesso di cristallizzare i flussi, trasformando una folla sparsa in istituzioni, il cemento e la sabbia in muraglie, i giochi dei bambini in classi ordinate, l’amore in matrimonio... La società dolce assomiglierà invece a un vortice di flussi, senza mura.
Quando nel XVIII secolo dall’Accademia di Digione Rousseau lanciò un concorso per rispondere alla domanda «come fanno a volare gli uccelli?», le migliori teste d’Europa inviarono soluzioni geniali ma nessuna riuscì a dimostrare il volo. Il premio non fu assegnato: la meccanica dei solidi non poteva arrivare ad immaginare la scienza dei flussi e quindi comprendere la funzione delle turbolenze sotto le ali degli uccelli.
È quanto accade nella nostra società: bloccati a quella vecchia logica, siamo incapaci di pensare organizzazioni sociali fluide adatte all’età dolce. Per questo alla parola “sintesi” che designa qualcosa di stabile, il filosofo francese preferisce il termine “sirresi”, che indica una confluenza di flussi. Ed è questo paesaggio evolutivo che può far nascere un’umanità viva e mobile.
A 85 anni l’epistemologo Michel Serres scrive con Il mancino zoppo un saggio di contagiosa euforia, una ricostruzione del mondo dove l’energia creativa si sviluppa dalla volontà di uscire dalle regole. Qui il racconto dell’universo, a partire dal Big Bang, può essere narrato attraverso l’apparizione di fenomeni nuovi e imprevedibili, come un’esplosione di contingenze inventive.
Serres ci invita a immergerci nel dinamismo del mondo. Ci spinge a liberarci da ciò che è astratto, fisso, formattato: nell’età del dolce dobbiamo imparare ad abitare il possibile, inventare il futuro. Sono gli zoppi e i mancini a costruire il nuovo mondo, andando oltre le regole. Sono loro gli eroi di un’età dolce, riconfigurata dal digitale.
Il bello della dissimmetria
«Il mancino zoppo» è un autoritratto del filosofo francese. La sua condizione fisica è l’emblema del suo pensiero
di Gaspare Polizzi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)
In filosofia, lo zoppo più famoso lo troviamo nel metà nano, metà storpio dello Zarathustra di Nietzsche che riversa «pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello». Ma già Edipo, «dai piedi gonfi», discende da uno zoppo, Labdaco, «il cui nome significa «zoppo», «asimmetrico», come le due gambette, una corta e una più lunga, della lettera greca lambda».
Il mancino zoppo di Michel Serres è più vicino a Edipo che al nano di Nietzsche: quintessenza dell’umanità nell’era iniziata con l’industrializzazione e oggi chiamata Antropocene.
Il titolo esprime la condizione di Serres, mancino zoppicante - «già mancino, ho rischiato l’emiplegia: zoppico dolcemente» -, ma descrive anche, in uno stile proteiforme, un racconto a più voci che richiama i suoi personaggi concettuali, da Pantope ad Arlecchino, da Ermes a Pollicina (Petite Poucette, Le Pommier 2012, tradotto con il titolo un po’ bizzarro Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri 2013). In una procedura “matematica” di integrazione che conduce a quel Grande Racconto al quale Serres si dedica dal 2001 e per il quale ha coniato il neologismo «ominescenza», che, diversamente da «ominizzazione», indica, in quanto incoativo, «l’inizio di una trasformazione (come luminescenza, adolescenza, arborescenza, ecc.)» (J-P. Dekiss, a cura di, Conversations avec Michel Serres, Jules Verne, la science et l’homme contemporain, Le Pommier 2003).
Lo strappo «ominescente» produce, tra il 1960 e il 1970, quelle «trasformazioni trans-storiche concernenti la crescita demografica, il corpo, il dolore, medicina e farmacia, sessualità, agricoltura, colonie, comunicazioni, efficacia tecno-scientifica mondiale, ecologia, cultura, morali, religioni... che riflettono le rivoluzioni contadine, il concilio Vaticano II e gli eventi del 1968». Uno strappo che il vecchio mondo non comprende ancora, cercando di «gestire il nuovo mondo, la nuova società, i nuovi uomini... con mezzi politici, economici, finanziari, culturali, pedagogici... tratti dal mondo scomparso» (Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Riga 35, 2015).
Serres si impegna a fornire una filosofia del processo di «ominescenza». Il Grande Racconto inizia con l’evocazione del Big Bang e si conclude con un «elogio dell’attuale». Per intanto, nel Mancino zoppo fornisce un polifonico elogio del possibile e del contingente.
Serres ha attraversato discipline lontane fra loro - matematica, letteratura, fisica, estetica, diritto, storia, antropologia, informatica, sociologia, biochimica - per trarne ora una visione globale sintetica. Il Terzo-Istruito, eroe di un umanesimo sostanziato dal sapere scientifico, oltrepassa la divisione tra «istruiti incolti» e «colti ignoranti», tra scienze dure e scienze umane, alla ricerca di uno «spazio trascendentale di comunicazione».
Anche in questo libro Serres vede nell’informazione il tratto costitutivo di ogni differenziazione nell’universo, nella vita, nell’azione e nel pensiero degli uomini: «che cosa significa pensare se non, come minimo, effettuare queste quattro operazioni: ricevere, trasmettere, stoccare, trattare informazione?». Dal frammento di Eraclito «Il lampo governa l’Universo», alla definizione dell’informazione di Léon Brillouin come neghentropia, non vi è soluzione di continuità. Il «Grande Racconto delle cose, dei viventi e degli uomini» descrive la Puissance de la pensée (meno perspicuo il sottotitolo italiano: Dal metodo non nasce niente) con temi che rimbalzano dai sessantanove libri precedenti.
Ne illumino qualche frammento. Un’equazione unisce l’inventare e lo scoprire, «poiché tutto ciò che esiste, contingente, per emergere ha bisogno di una data quantità di rarità, cioè di novità». L’equazione pensiero-mondo è il leit-motiv del libro: «Lo sospettavate dall’inizio del libro, che fa pensare che il mondo pensi. Con l’enorme differenza che l’informazione e il pensiero, benché dello stesso genere, non appartengono alla stessa specie».
Il pensiero inventivo si iscrive nella dissimmetria provocata dal nascere e dal conoscere, produce quelle «emergenze» rintracciabili in ogni sistema complesso, molecolare, cellulare, neurale: «Quando Léon Brillouin definì l’informazione come un’eccezione rarissima all’entropia; quando Pierre Curie lanciò, per la prima volta, l’idea di asimmetria; quando Louis Pasteur meditò sui cristalli enantiomorfi; quando, prima di loro, Lucrezio descrisse il clinamen, l’inclinazione, la biforcazione, la nanoramificazione, la rottura di simmetria a livello degli elementi primi, come costitutivi delle cose, non schematizzavano, non riassumevano, non addolcivano forse delle antiche figure, il corpo di quei mitici avventurieri, sempre distanti dall’equilibrio, mancini, essi stessi biforcanti dalle loro membra?».
Serres si trasforma in una levatrice, in francese sage-femme (letteralmente «saggia-donna»), per «aiutare a partorire il mondo nuovo», come Socrate, sterile ma efficace, con la sua maieutica, per far germinare la saggezza. Il nuovo mondo si intravede lungo la faglia profonda prodotta dallo strappo «ominescente». È il mondo di Pantope, «colui che passa per tutti i luoghi», e ora di Pollicina, «discendente diretta di Hermes», che ha scoperto «il significato fisico dell’avverbio maintenant: «Cellulare - dice lei - che sta in mano, adesso [maintenant], e tengo in mano [tenant en main] il mondo».
Nel nostro tempo digitale, l’«alleanza qui proclamata delle scienze della vita e della Terra con il digitale ci allontana finalmente dalla guerra mondiale, nel senso del conflitto contro il mondo». Perché essa si realizzi sono urgenti una politica e una filosofia della storia, «che siano rispetto a quelle passate ciò che la meccanica dei fluidi è rispetto a quella dei solidi». E su di esse Serres promette di tornare al lavoro, seguendo il motto: «penser c’est anticiper».
“Per cambiare il mondo è meglio essere mancini o zoppi”
“L’innovazione non segue mai sentieri diritti arriva improvvisa come un ladro nella notte”
intervista di Alberto Mattioli (La Stampa, Tuttolibri, 07.05.2016)
L’unico dogma della laicissima cultura francese è «la méthode». Eppure, in Francia è una star riconosciuta il «philosophe» il cui metodo è quello di contestare il metodo. Michel Serres, 84 anni, professore di Storia della scienza alla Sorbona, poi a Stanford e in mezzo mondo, accademico di Francia dal ’90, ha venduto 200 mila copie con un saggio dal poco filosofico titolo di Petite Poucette, «Pollicino». Adesso torna in libreria con Le gaucher boiteux, Il mancino zoppo (Bollati Boringhieri, pp. 285, € 18). «La mente filosofica più fine che esista oggi in Francia» (parola di Umberto Eco, che peraltro era un suo grande amico) verrà a presentarlo al Salone del Libro, intervistato da Corrado Augias.
Professor Serres, perché un mancino e per di più zoppo?
«Perché l’innovazione arriva come un ladro nella notte, a sorpresa. Non c’è un metodo per ottenerla. Una ricetta ti permette di cucinare il piatto che vuoi, non di idearne uno nuovo. Inventore è chi trova quello che non cerca. Come Cristoforo Colombo, che scopre l’America cercando l’Asia. Per innovare, bisogna uscire dal cammino previsto, biforcare. Innovare significa biforcare. Il mio mancino zoppo è qualcuno che è “biforcato” nel corpo. E’ una metafora, perché non voglio dire che tutti gli innovatori siamo mancini o zoppi o tutti e due insieme. Però, per esempio, i miti dell’Antichità sono pieni di zoppi».
Un altro esempio che lei fa è quello, poco familiare a un lettore di filosofia in generale e in particolare a un lettore italiano, di Aristide Boucicaut.
«E’ l’inventore del “Bon Marché”, il primo grande magazzino moderno, il negozio dove c’è tutto. All’inizio, monsieur Boucicaut lavora per classificazione, con un metodo rigoroso. Sistema i suoi prodotti per generi merceologici, li ordina, li divide. Grande successo. Ma, dopo un anno o due, si accorge che il fatturato non cresce più. E allora, un bel giorno, rimescola tutti i prodotti, mette le patate accanto ai vestiti. E gli affari prosperano, perché la massaia, per trovare le patate, deve passare davanti ai vestiti e finisce per comprarseli, e viceversa. Come Colombo, trova quello che non cercava. Gli anglosassoni la chiamano “serendipity”, l’avvenimento fortuito e fortunato. E’ uno dei segreti dell’innovazione, anche se ovviamente non capita per caso, ma presuppone l’impegno e la ricerca».
Lei si paragona a una levatrice. Come Socrate.
«Con una differenza, però. Per Socrate, lo scopo del filosofo era di far nascere degli spiriti individuali, delle singole personalità. Io credo invece che il filosofo debba partorire un nuovo mondo. Pensare l’innovazione significa aiutare la nascita di un nuovo mondo. Quindi la metafora è la stessa di Socrate, il suo oggetto diverso».
Del suo libro, colpiscono, oltre ai concetti, il linguaggio: una serie di racconti, più che un trattato.
«Sono dentro una tradizione, che è quella francese ma anche italiana, diciamo latina. Il linguaggio filosofico anglosassone è molto formale, quello tedesco concettuale. Gli italiani, penso a Giambattista Vico, e i francesi come Montaigne, Voltaire, Diderot, hanno sempre privilegiato la narrazione, una riflessione concreta che si fa raccontando storie. Quindi non sono per nulla originale».
Colpisce il suo ottimismo. Oggi la nostra società tutto sembra fuorché fiduciosa...
«Ci saranno sempre dei nostalgici, gente che per la quale prima era meglio, a prescindere. Io però ho 84 anni e se mi guardo indietro constato di aver visto la Seconda guerra mondiale, la Shoah, Hiroshima e tutto il resto. Non ho nostalgia per un tempo in cui c’erano decine di migliaia di morti al giorno. Limitiamoci all’Europa. Da quando l’abbiamo unita, siamo in pace da 70 anni: non succedeva dai tempi della guerra di Troia. Per questo dico che viviamo in un’epoca “dolce”. Ci è sempre stato detto che la crisi economica genera la guerra: non mi sembra però che la Germania abbia invaso la Grecia. Cercate su Internet le principali cause di mortalità. Nonostante quel che scrivono i giornali, guerra e terrorismo sono fra le ultime. Gli incidenti d’auto e il tabacco fanno molti più morti. La realtà è che siamo pessimisti perché stiamo troppo bene».
La Francia di oggi sembra tuttavia piuttosto depressa...
«La Francia sembra sempre depressa. Ma non è un problema politico, è un problema culturale. Anzi, antropologico. Il francese non è gioioso, ama moltissimo lamentarsi. Certo, ci sono stati Rabelais o Diderot, ma la nostra cultura di regola non è allegra, forse perché eccessivamente basata sulla ragione. Nella cultura italiana, la dimensione emozionale è più forte. Forse per questo l’umore generale è più ottimista».
In questo quadro idilliaco stonano le ondate migratorie.
«E’ un problema, certo. Ma gestibile. Io sono nato nel sud-est della Francia. A un certo momento, sembrava che di colpo ci fossero più italiani che francesi. Poi ci fu la guerra civile e arrivarono in massa gli spagnoli. Oggi l’immigrazione pare più massiccia. Tuttavia, un fenomeno che abbiamo conosciuto è un fenomeno che possiamo controllare».
Fa un certo effetto vederla in divisa da accademico: non è un mondo un po’ demodé?
«Non credo. La marsina può sembrare vecchiotta, e lo spadino pure, ma tanto io non lo porto. Però l’Accademia è nata ed esiste soprattutto per compilare il Dizionario della lingua francese. Di solito ne esce una nuova edizione ogni vent’anni. E, in media, fra un’edizione e l’altra c’erano circa 4 o 5 mila parole di differenza. Nell’edizione che stiamo discutendo siamo già a 37 mila, fra parole nuove e parole che non si usano più. Mi sono informato: succede lo stesso anche nelle altre lingue, quindi non si tratta solo dell’invasione dell’inglese. Spariscono, per esempio, moltissime parole legate all’agricoltura o all’artigianato. E’ o non è un modello ridotto della crisi che attraversiamo, un effetto della globalizzazione? Per questo non credo che l’Accademia sia fuori moda».
Autori italiani: chi ama?
«Avevo due grandi amici e sono morti entrambi: Italo Calvino e Umberto Eco. Due tipi di intellettuali come si farebbe fatica a trovare in Francia, pieni di humour, ironici, amanti dello scherzo. Ricordo un viaggio con Eco. Un giornalista gli chiese: da quando è celebre? E lui: lo sono sempre stato, solo che la gente non lo sapeva».
La Città Invisibile
Serres, il computer e San Dionigi
di Luigi Bruschi *
Michel Serres è un filosofo francese molto noto in tutto il mondo. I suoi interessi hanno riguardato la matematica, la storia della scienza, la comunicazione, l’informatica, la politica e l’ecologia. Docente presso l’ Université - I - Panthéon-Sorbonne e presso la Stanford University, viene considerato l’ultimo dei maîtres a penser di Francia.
«Michel Serres è la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia» ebbe a dire di lui, in una sua lectio magistralis del 2015, Umberto Eco.
Michel Serres - 85 anni - conferma alla grande questo lusinghiero giudizio con il suo ultimo bellissimo libro dal titolo Il Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente (Bollati Boringhieri, aprile 2016, pp. 285, € 18,00).
Un libro così denso di idee affascinanti che richiederebbe molte pagine solo per darne dei cenni. Mi limiterò pertanto ad un paio di argomenti.
Il primo è quello che illustra in qualche modo il titolo. Secondo Serres l’evoluzione «deriva dagli scarti dell’equilibrio» e sono i personaggi sghembi e magari difettosi a realizzare questi scarti perché per loro è più facile imboccare le biforcazioni.
Non a caso Mosè è balbuziente, Edipo ha i piedi gonfi e discende da Labdaco, «il cui nome significa "zoppo", "asimmetrico", come le due gambette, una più corta e una più lunga, della lettera greca lambda». Efesto «gobbo e deforme, fabbro geniale, che Omero chiama Κυλλοποδίων cioè "Piè-Zoppo" non era mancino, ma avrebbe meritato di esserlo» e molti altri sono gli esempi.
«Per innovare, bisogna uscire dal cammino previsto, biforcare. Innovare significa biforcare. Il mio mancino zoppo è qualcuno che è “biforcato” nel corpo. E’ una metafora, perché non voglio dire che tutti gli innovatori siano mancini o zoppi o tutti e due insieme. Però, per esempio, i miti dell’Antichità sono pieni di zoppi». (intervista a La Stampa, Salone del Libro).
E nel libro possiamo leggere:
«La mutazione presuppone la diversa lettura di un messaggio - un errore? - come se il lettore, mancino, o il trascrittore, zoppo, avesse dato anche segni di strabismo».
La seconda questione (collegata alla prima) di cui voglio parlare è l’entusiasmo di Serres per l’innovazione e per "la mutazione antropolgica indotta dalle tcnologie".
Per magnificare il computer il filosofo ricorre al supplizio di San Dionigi che (come racconta nella Legenda aurea Jacopo da Varagine) decapitato da un centurione romano si china a terra per raccogliere la sua testa e portarla in cima alla collinetta di Montmartre.
«Adesso considerate il computer, lì sul tavolo, di fronte a voi, è sotto le vostre mani: dotato di una memoria colossale, non paragonabile alla mia o alla vostra, fornito di un motore di ricerca che presentifica il ricordo quasi all’istante; ricco di un numero gigantesco di immagini; provvisto, infine, di programmi capaci di risolvere mille calcoli operazioni che né voi né io sapremo portare a buon fine. [...] Le nostre facoltà non sono forse ancora una volta appena salpate, uscite dal corpo, esternalizzate?[1] Eccoci decapitati come il Vescovo di Lutezia: prodotta nel senso forte del termine, la nostra testa rotola davanti a noi, e noi la teniamo tra le mani. Il miracolo previsionale della Legenda aurea ha avuto luogo. Chiamate "Dionigi" la vostra macchina.
Sì, perché quella testa è il nostro computer.
Ancora una volta resto stupito dall’entusiasmo di un pensatore che palesa un’audacia intellettuale insospettabile in un’età così avanzata.
Ennesima dimostrazione che l’intelligenza poco ha a che fare con l’anagrafe.
* [l’Espresso, Verba Woland, 15 mag 2016->http://bruschi.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/05/15/serres-computer-zoppo/] (ripresa parziale).
MICHEL SERRES
"Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente".
Indice
Premessa - Pensare, inventare - Il viaggio e l’itinerario
Tempo
I. Le cose del mondo
Quattro regole universali - Informazione, novità
II. Viventi, idoli, idee
Figure di flora e di fauna - Trasformazioni - I feticci - Imitare o trasformarsi - L’ego di questo cogito - Pensare costruendosi - Un albero della conoscenza - Idea o figura? - Un esempio di questo processo: il vulcano greco - Sfolgorii della bellezza
III. Il corpo inventivo
Le età del corpo - La durata del pensiero - La storia o l’oblio - Emergenza di personaggi annunciatori - Emergenza: scoperta - Emergenza: l’acqua trasformata in vino - Emergenza: incarnazione
Figure e movimenti
IV. Personaggi
Esplosione di mille personaggi - La filosofia produce personaggi - Il pastore che guida molteplicità fluttuanti - Molteplicità - Prime figure dolci
V. Messaggeri
Di ritorno al Grande Racconto - Altri personaggi - Doppio peso della figura - Apertura politica? - Inviare o esternalizzare - Angeli messaggeri - L’ego del nuovo cogito - I miei tre giri del mondo
VI. Levare gli ormeggi
Macchine semplici e macchine a vapore - San Dionigi decollato - Pensare, inventare - I personaggi emergono alla fine dell’analisi - Cogito, cogitamus - Pensare, inventare, ossia produrre - Delle interferenze - Ritorno ai feticci
VII. Il mancino zoppo
I suoi scarti dall’equilibrio producono movimento - Lo schema corrispondente - La deviazione - Modello generale - I modelli migliori - Pensare o pesare - La nostra essenziale debolezza - Chiasmo, rottura di simmetria - Un elogio della distrazione - Essere-nel-mondo - Invenzione x: corpo e anima - La rete - Banalità - Il sesto senso, la propriocezione - La più antica metamorfosi - Sostanza e sostituzione - Di nuovo, degli inviati - Serendipità contro metodo - Ambo: variazioni attorno al punto vernale - Il ramo delle confluenze - La confusione dimostrata - Tempio e tenda - Cattedrale - Deviazione per Città del Messico - Il passo della temporalità - Novità
Spazi e campi
VIII. Traversate
Il feticcio attraversa più regioni - La filosofia come traversata - Analisi triviale - Una legge dei tre stadi - L’inviante e l’inviato - Dualità della decisione - Dalla marineria al governo e alla teologia - Nave e governo - L’inviato, il deviato o il vagabondo - Le proposizioni indicizzano le geodetiche della Pantopia
IX. Tra
La tempesta di Giorgione - Lo spazio del pensiero si situa "tra" - Carpaccio, Sacra Conversazione - Questo non è uno scenario - Rivali di Goya - Spazio di comunicazione: energia, topologia - Delle cose, prima di tutto - Denaro e quasi oggetti - Utopia dello stadio: il pallone - Chimica delle catalisi - Dei viventi - Gli umani - Scienze cognitive primitive - Per vedere il sapere - Invenzione della pietra filosofale - Mi-lieu e milieu - Anassimandro e lo spazio indefinito - Le matematiche - Fisica e chimica - I voli spaziali abitati - Il messaggero diventa il messaggio - Corpi - Da capo: una favola alla rovescia - Esitazione tra presenziale e virtuale - Annunciazione, Visitazione, nozze di Cana - Religione
X. Serre
Serre - Topologia aperta-chiusa di questo spazio - Porte, pori, passi, ponti, porti - Dell’amore e dell’odio - Abitare, ancora - Ancora l’amore
Potenze
XI. Preposizioni
Eureka!
XII. Elogio del virtuale
Il quadrato modale: del dolce e del virtuale - La virtù del virtuale - Breve racconto della mano: come pervenne al dolce - Come il dolce perviene alla blocca e al corpo - Non definire la vita - Dei personaggi possibili - Rivalsa del virtuale - Morale della storia - L’impotente - Che cos’è la letteratura - Il ritorno del Terzo Istruito
XIII. Capitale
Gli strumenti musicali capitalizzano dei possibili - Che cos’è un artefatto? - Progresso: da una finalità ristretta a fanalità generalizzate - Avatar degli artefatti - Apertura delle finalità - Riassunto in tre stadi - Il possibile come capitale - Ed ecco il capitale - La caverna inondata di luce - La notte delle luci e delle molteplicità - Dalle rivoluzioni per rotazione a un Universo in espansione - Materia e specchi
Elogio dell’attuale
XIV. Fine della rivoluzione industriale
Fine delle età dure - Conseguenze culturali - Professioni - Della libertà banale
XV. Condizioni dolci del pensiero
Pace - Anonimati dolci - Omnes in unum: scienze dolci e dure - Favola dell’abete e dell’acero globoso - Hermes e la pace - La distruzione uccide la concentrazione - Effetti sociopolitici: la fine della Tour Eiffel - Le Pollicine travolgono gli augusti - Degli individui invisibili in massa - Il prezzo del capo - Ancora spazi - Variazione formale sulla questione - Utopia - Sociologia dolce - Secondo capovolgimento di questo libro - Perdita dei punti di riferimento - Variazione erudita sulla questione - Un altro pastore: un’etica individuale - L’invisibilità per ciascuno - Dalla morale al diritto: un’altra foresta
XVI. Questo dissolverà quello
La fluidità - Uccelli volano - Vecchio elogio dei solidi - Questo dissolverà quello
Invio
Progetto di una filosofia della storia
Il Rinascimento tecnologico
Quelle banche dati che ci obbligano ad essere intelligenti
di Michel Serres (la Repubblica, 17.01.2014) *
Da quando siamo uomini, abitiamo in uno spazio polarizzato attorno a luoghi diconcentrazione, case, villaggi e tesori diversi; in particolare, il luogo stesso in cui vivo e al quale riferisco il mio indirizzo. Viviamo in questo spazio perché costruire lo forma, abitare lo consolida e pensare consiste nel riprodurlo.
Lo spazio immagazzina, l’individuo pensa: stesso processo. Non saremmo potuti sopravvivere senza queste concentrazioni che condizionavano la vita, l’individuo, il collettivo, le pratiche e la teoria; non ci smettevamo, instancabilmente, di inventarne di nuove sotto tutti i rapporti. Ed ecco che i computer portano a compimento questo segmento dell’ominizzazione. Perché se queste macchine possono essere definite universali, meritano tale titolo sotto la rubrica, appunto, della concentrazione.
Che bisogno abbiamo di riunire libri, segni, beni, studenti, case o mestieri dal momento che il computer lo fa? Il problema generale dell’immagazzinamento che cercavamo di risolvere e sul quale lavoravamo follemente fin dalla nostra origine ha trovato soluzione, non solo reale ma virtuale: ogni questione di questo tipo trova molteplici risposte possibili, secondo le sue condizioni e costrizioni.
Le reti rendono desueta la concentrazione attuale, voglio dire un ammasso qualsiasi qui e ora.La rapidità delle comunicazioni concentra virtualmente ovunque, ad libitum, tutto o parte del connesso disponibile. Al contrario delle antiche tecnologie, le nuove macchine sostituiscono con trasmissioni rapide la funzione del conservare. Non immagazziniamo più cose, bensì relazioni.
Le reti sostituiscono la concentrazione con la distribuzione. Da quando disponiamo, su una postazione portatile o sul telefonino, di tutti i possibili accessi ai beni o alle persone, abbiamo meno bisogno di costellazioni espresse. Perché anfiteatri, classi, riunioni e colloqui in un dato luogo, e perché una sede sociale, dal momento che lezioni e colloqui possono tenersi a distanza? Gli esempi culminano in quello dell’indirizzo.
In tutto il corso della storia è stato riferito a un luogo, di abitazione o di lavoro, mentre oggi l’indirizzo di posta elettronica o il numero di telefono cellulare non indicano più un determinato luogo: un codice o una cifra, pura e semplice, basta. Quando tutti i punti del mondo godono di una sorta di equivalenza, la coppia qui e ora entra in crisi. Heidegger, filosofo oggi assai letto nel mondo, nel chiamare esserci l’esistenza umana, designa un modo di abitare o di pensare in via di estinzione. Il concetto teologico di ubiquità - la capacità divina di essere ovunque - descrive meglio le nostre possibilità rispetto al funebre qui giace.
Un altro modo di interpretare il gesto di immagazzinare: depositare informazione su pergamena, carta stampata o supporto elettronico significa costruire una memoria. I nostri antenati assomigliavano agli attori di oggi che sono in grado di recitare a memoria migliaia di versi o di sostenere altrettante repliche. Simili eroismi superano ormai la nostra capacità.
Man mano che costruiamo memorie performanti, perdiamo la nostra, quella che i filosofi chiamavano una facoltà. Possiamo davvero dire: perdere? Niente affatto, perché il corpo deposita, a poco a poco, quell’antica facoltà nei supporti mutevoli; cervicale e soggettiva, essa si oggettivizza e si collettivizza. Una stele di pietra, un rotolo di papiro, una pagina di carta: ecco memorie materiali, in grado di dare sollievo alla nostra memoria corporea. Era vero per le biblioteche, lo è ancora di più per la rete, memoria globale ed enciclopedia collettiva dell’umanità.
Secoli fa cantastorie, aedi, gli apostoli di Gesù, gli interlocutori di un dialogo di Platone, anche uno studente della Sorbona medievale, potevano ripetere a distanza di anni, senza omettere una sillaba, i discorsi di un maestro o di un oratore uditi da giovani. Al riparo dagli errori di copisti troppo interventisti, la tradizione orale tracciava una via più sicura rispetto alla trasmissione scritta.
I nostri predecessori coltivavano dunque la loro memoria e disponevano di sottili strategie mnemotecniche. Man mano che prendevamo note o leggevamo stampati, non tanto abbiamo perso quella facoltà quanto l’abbiamo depositata nei libri e nelle pagine.
Così come la ruota fu ispirata dal corpo, dalle caviglie e dalle rotule in rotazione nella marcia, allo stesso modo l’immagazzinamento dell’informazione prese le mosse da funzioni cognitive antiche. Al contrario degli animali, bloccati in un organismo senza “secrezione” di questo tipo, noi non cessiamo di riversare le nostre prestazioni corporee in strumenti prodotti a partireda esse. Perdiamo la memoria perché ne costruiamo di multiple.
Ci uniamo qui ai piagnoni antichi e moderni, i cui discorsi e testi deplorano la perdita dell’oralità, della memoria, della concettualizzazione e di tante altre cose preziose per i nostri avi. In realtà la perdita della memoria, nell’epoca che seguì quella in cui si declamavano a mente i poemi di Omero, liberò le funzioni cognitive dal carico impietoso di milioni di versi; apparve allora, nella sua semplicità astratta, la geometria, figlia della Scrittura.
Allo stesso modo nel Rinascimento una perdita ancora più importante sollevò i saggi dallo schiacciante obbligo della documentazione, che allora si chiamava dossografia, e li riportò bruscamente alla nuda osservazione che fece nascere le scienze sperimentali, figlie della stampa.
A bilancio, i vantaggi prevalgono in maniera preponderante sui pregiudizi, poiché in tali circostanze nacquero due altri mondi, che permisero di comprendere questo. Sapere consiste allora non più nel ricordare, ma nell’oggettivare la memoria, nel depositarla negli oggetti, nel farla scivolare dal corpo agli artefatti, lasciando la testa libera per mille scoperte.
Ho impiegato molto a capire che cosa volesse dire Rabelais, quando i professori mi obbligavano a dissertare sulla celebre frase: Preferite una testa ben fatta a una testa piena. Prima di poter allineare i libri nella loro libreria, Montaigne e i suoi antenati dotti dovevano imparare a memoria l’Iliade e Plutarco, l’Eneide e Tacito, se volevano averli a disposizione per meditare.
L’autore degli Essais li cita ormai ricordandosi solo del loro posto sugli scaffali per consultarli: quanta economia! All’improvviso la pedagogia, che quel Rinascimento auspica, vuoterà la testa un tempo piena, e ne modellerà la forma senza preoccuparsi del contenuto, ormai inutile in quanto disponibile nei libri. Liberata della memoria, una “testa ben fatta” si volgerà ai fatti del mondo e della società per osservarli. Rabelais, in quella frase, in realtà, loda l’invenzione della stampa e ne trae lezioni educative.
Decisamente, bisogna riscrivere Pantagruel o gli Essais. Come vecchi cadenti, i bambini di oggi non ricordano neppure la trasmissione vista ieri sera in televisione. Quale scienza immensa promuoverà quest’altra perdita di memoria? Questo sapere recente si può già apprenderlo o almeno visitarlo sulla rete, come il nuovo oblio l’ha già modellato.
Sì, l’enciclopedia, la cui rete mondiale gronda informazioni singolari, ha appena cambiato paradigma, sotto l’effetto della nuova liberazione. Il nostro apparato cognitivo si libera anche di tutti i possibili ricordi per lasciare spazio all’invenzione. Eccoci dunque consegnati, nudi, a un destino temibile: liberi da ogni citazione, liberati dallo schiacciante obbligo delle note a piè di pagina, eccoci ridotti a diventare intelligenti!
Come nel Rinascimento, giungono una nuova scienza e una nuova cultura, i cui grandi racconti producono un’altra cognizione che li riproduce a loro volta arricchiti. Questo cambiamento d’intelletto ha avuto luogo più volte nella storia, ad esempio quando arrivarono i modelli astratti della geometria o gli esperimenti in fisica, quando appunto cambiavano le tecnologie. Così la storia della filosofia e la storia stessa, tributarie della storia della conoscenza, seguono quella dei supporti.
* Sull’ultimo numero di Vita e Pensiero appare la versione integrale del testo qui anticipato
L’intervista con Michel Serres
Un Tocqueville per il XXI secolo
La tecnologia ha cambiato uomini e istituzioni
Serve un filosofo che inventi una nuova società
di Hans Ulrich Obrist (Corriere/La Lettura, 22.12.2013)
Vorrei cominciare dal libro più recente di Michel Serres, Petite Poucette . Ho scritto un articolo su Petite Poucette e vorrei chiedere a Michel Serres - che è filosofo e scrittore - com’è nata l’idea di questo libro, che per il XXI secolo è così bello e ottimista. «L’avvio è stato lento e veloce al tempo stesso - mi dice -. Da un lato, è da molto che scrivo libri sulla comunicazione, cioè su Hermes, sul luogo della comunicazione, sul parassita, sugli ostacoli della comunicazione, perciò mi occupavo da tempo di questi argomenti. Dall’altro lato, da trentacinque anni insegno a Stanford, nel cuore della Silicon Valley, e sono stato quindi portato a occuparmi di tecnologia, di industrie, di startup. Insomma, ero preparato».
Sarebbe interessante parlare un po’ di più di Hermes. Ho discusso a lungo di comunicazione con Bruno Latour quando ha realizzato il libro di interviste con lei. Ma ancor prima, negli Anni 80, lei parlava dell’era della comunicazione. Può spiegarci questa sorta di anticipazione?
«Non è stata affatto un’anticipazione, perché c’è stata una lunga preparazione, e si va a ben prima degli Anni 80. Già negli Anni 60 si vedeva che l’industria si stava trasformando e che nel mercato del lavoro l’occupazione nei servizi andava sostituendo quella nella produzione. Si capiva che la comunicazione guadagnava terreno rispetto alla produzione e che già dagli Anni 60 le società stavano cambiando rotta. Allora ero molto sensibile a questo cambiamento che poi, con l’avvento dei computer e delle nuove tecnologie, ha avuto un’accelerazione incredibile. Questo è stato il mio percorso in quegli anni».
In «Petite Poucette» lei si occupa di tre rivoluzioni, l’ultima delle quali è quella che stiamo vivendo oggi, con tutte le conseguenze che ne derivano. Me ne può parlare?
«Ho parlato di tre rivoluzioni storiche: il passaggio dall’oralità alla scrittura, la rivoluzione della stampa nel XV secolo con l’arrivo di Gutenberg e del libro, e la terza rivoluzione, quella dei computer. È una rivoluzione che si basa sulla coppia mezzo/messaggio, ossia sulla coppia hard/soft. Nell’oralità il mezzo è il corpo e il messaggio è il parlato; poi il mezzo è la carta e il messaggio è quel che è scritto o stampato. Oggi il mezzo è materiale e il messaggio è elettronico. Tutte queste rivoluzioni - della scrittura, della stampa e la nostra - hanno trasformato quasi completamente la società. Hanno prodotto cambiamenti finanziari, industriali, commerciali, nel linguaggio, nella scienza e anche nella religione. Alla scrittura, ad esempio, è associata la religione del libro, la religione ebraica e poi quella cristiana, e in seguito, al tempo della stampa, vi è stata la riforma, il protestantesimo, in opposizione al cattolicesimo. Ogni volta ci sono state quindi delle rivoluzioni in quasi tutti i settori della società, e anche oggi ci dobbiamo aspettare crisi analoghe».
Qualche giorno fa parlavo con il mio amico Adam Curtis, un importante regista inglese che lavora con la Bbc, di crisi delle istituzioni. Ormai quasi tutte le grandi istituzioni sono in crisi, compresa la Bbc. Forse questo si collega a quello di cui parlava. Mi può dire da che cosa saranno sostituite queste istituzioni?
«Rispondo alla sua prima domanda, sulla crisi generale delle istituzioni, con un atteggiamento diagnostico, di tipo medico. Vi sono, ad esempio, alcuni tipi di media che perdono terreno, come il giornale o il libro. Ma la crisi è ancora più radicale per l’università - dato che i corsi online stanno prendendo il sopravvento - e tocca anche le istituzioni politiche. Possiamo fare, come dicevo, una diagnosi di questo cambiamento e giudicarlo con lucidità. Per rispondere alla sua seconda domanda, vale a dire da quali società o istituzioni saranno sostituite, bisogna fare delle previsioni, ma io non sono ancora in grado di farne. Mi sembra che avremmo bisogno di un grande filosofo politico che inventi nuove istituzioni».
Anch’io mi sono chiesto recentemente chi fossero i pensatori politici del XXI secolo. Ne ha visti i primi segni?
«Vorrei non dover morire prima di aver cercato di rispondere alla sua domanda».
Allora questo potrebbe essere l’argomento di un suo prossimo libro?
«È per questo che mi sto occupando del problema. Nel XIX secolo ci sono stati molti pensatori innovativi, come i socialisti utopisti, Marx e altri ancora. Nel XX secolo, invece, ne abbiamo avuti assai meno, e anche oggi ne sentiamo molto la mancanza».
Lei ha detto che le nuove tecnologie creano un nuovo essere umano. Mi piacerebbe che spiegasse meglio quest’idea.
«A proposito dell’invenzione della stampa, in uno dei suoi saggi Montaigne aveva detto: “È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”. Aveva notato una strana cosa: la testa, cioè il soggetto del pensiero, cambiava. Con l’avvento della stampa si aveva l’impressione che fosse nato un nuovo modo di pensare. Lo prova il fatto che proprio allora è nata la fisica matematica. Anche oggi sta emergendo un nuovo modo di pensare, una nuova testa. Il computer è già la nostra memoria e buona parte delle nostre reti di collegamento. Pertanto molte delle vecchie funzioni del pensiero sono sostituite dal computer e quindi la testa sta cambiando. Questa è la nuova persona. Cambia anzitutto il soggetto del pensiero, ma cambia anche il modo di stare insieme. Nelle metropolitane di Londra o di Parigi vediamo che tutti telefonano, e in questo modo trasformano completamente la comunità della metropolitana di una volta. Ci sono due cose che stanno cambiando, il soggetto del pensiero e il soggetto della comunità».
Mi ha molto appassionato, nel suo libro, la tesi che le reti sono spazi del passato e che oggi la nostra idea di spazio è cambiata, è in realtà uno spazio topologico, senza distanza. Può parlare di questo spazio topologico e di cosa significherà per il futuro?
«Una volta un indirizzo stradale era un codice che si riferiva a un’area della mappa di una città disegnata secondo la geometria metrica, in cui sono definite le distanze. Con la nuova tecnologia la distanza scompare. Non si riduce solamente, come avveniva prima, quando le distanze si accorciavano grazie a un cavallo o a un aereo. Oggi vengono annullate, e quindi il nostro nuovo indirizzo è l’indirizzo del telefono cellulare o del computer, che funziona ovunque ci si trovi e permette di inviare messaggi ovunque sia il destinatario. In un certo senso non abitiamo più lo stesso spazio dei nostri genitori. Abbiamo cambiato spazio, e questo cambiamento è fondamentale sotto molti aspetti. Prendiamo ad esempio il diritto, la legge. Ricorda Robin Hood e la foresta in cui viveva? Era uno spazio senza legge, e credo che anche il web sia uno spazio senza legge. Quando i viaggiatori attraversavano la foresta, si accorgevano improvvisamente che i ladri e i criminali che vivevano lì obbedivano a Robin Hood. Robin è un nome straordinario, perché robe è la veste del magistrato, e Robin è colui che ha la veste del giudice. È colui che fa le leggi in un luogo senza legge. Credo che da questo luogo senza legge che è il web scaturirà presto uno spazio organizzato in maniera molto diversa da prima».
È in questo contesto che possiamo collocare il recente caso Snowden, di cui si è tanto parlato. Sono cose strettamente legate, vero? Come vede il caso Snowden?
«Sì, è così. È proprio il caso di una sorta di scontro tra il vecchio e il nuovo diritto, tra l’antico luogo di non-diritto e la nuova legge».
E come vede il caso WikiLeaks di Assange in rapporto a tutto questo?
«Anche qui è la stessa cosa. All’interno dello spazio del web c’è un diritto che non ha nulla a che fare con il diritto che organizzava lo spazio in cui vivevamo prima. Vi è pertanto una sorta di conflitto tra i due sistemi. Da un certo punto di vista, chi abita nel web è favorevole alla libertà che viene messa in questione con il caso WikiLeaks».
L’altro giorno, alla radio, lei parlava di Tocqueville come del suo eroe. Mi chiedevo se questa fosse la risposta, un Tocqueville per il XXI secolo?
«È così, ci vorrebbe un Tocqueville per il XXI secolo».
So che lei è un amante di Wikipedia perché è una democrazia del sapere. Mi può parlare di questa sua passione?
«Quel che è interessante di Wikipedia è l’accesso libero e diretto alla totalità del sapere. In America la si utilizza da dieci anni in molti campi professionali. Perché pagare tanto degli studi che ci danno accesso a un sapere già a nostra disposizione? L’accesso immediato al sapere di Wikipedia cambia molte cose. Le faccio un esempio: quando si è malati si va dal medico. Una volta il medico era competente e noi non sapevamo quasi nulla della nostra malattia. Oggi, prima di andare dal medico, se consultiamo Wikipedia raccogliamo informazioni sui nostri malanni. Quindi - come ho detto in Petite Poucette - il rapporto tra medico e paziente si sta trasformando, come sta cambiando il rapporto tra docente e studente. Wikipedia cambia molte cose: le relazioni sociali, le relazioni umane e le relazioni educative».
Ho ancora qualche domanda. Una riguarda il quasi-oggetto. L’altro giorno avevo in mano il Blackberry e mi sono chiesto se fosse un quasi-oggetto. Lei sostiene che il quasi-oggetto non è né un oggetto né un soggetto, è una relazione. È un’idea apparsa nel 1980 in «Le parasite». Volevo sapere se pensa che l’iPhone o il Blackberry siano dei quasi-oggetti.
«Sì, sono dei quasi-oggetti, sono quasi-oggetti quasi-intelligenti. Non c’è dubbio che si tratti di quasi-oggetti, oggetti di relazione. In questo momento siamo in contatto reciproco grazie a essi».
Com’è nato il concetto del quasi-oggetto?
«È nato dalla mia passione per il rugby. Sono cresciuto nel Sud-Ovest della Francia e ho giocato molto a rugby. Osservando la palla, mi sono chiesto: che cos’è? Che funzione ha all’interno del gioco del rugby? E ho avuto l’idea del quasi-oggetto».
Ho letto l’esempio del Golfo del Messico, che diviene un’entità giuridica che può difendersi, e mi interessa questa dimensione giuridica del quasi-oggetto.
«Questo concetto si trova in un altro mio libro, Le contrat naturel. In questo libro cerco di spiegare che la nozione di soggetto di diritto oggi si sta trasformando e che gli oggetti naturali potrebbero diventare dei soggetti di diritto. Ad esempio, il parco di Yellowstone potrebbe ricorrere alla giustizia e denunciare chi lo inquina. So che in vari Paesi si comincia a riflettere su questo e a sostenere che alcuni oggetti della natura possono diventare soggetti di diritto».
È un fatto importante per affrontare i problemi dell’ambiente.
«Sì, sono delle nuove tappe del diritto occidentale».
Passiamo all’arte, visto che mi occupo di arte e lavoro soprattutto con gli artisti, per i quali il suo lavoro è molto importante. Ho parlato di recente con l’artista francese Philippe Parreno, che è stato ispirato da lei. Mi ha detto che alcuni film o opere d’arte si comportano come dei quasi-oggetti. Pensa che l’opera d’arte possa diventare un quasi-oggetto?
«Il quasi-oggetto ha contribuito a creare dei rapporti in una data società, in certi casi ha addirittura favorito la creazione di una società. Ci sono dei quasi-oggetti che sono opere d’arte, come gli oggetti religiosi, che creano una comunità. In un certo senso questa è sempre stata una delle funzioni dell’opera d’arte».
Pensa che il quasi-oggetto possa creare la realtà?
«Certamente! Quando il quasi-oggetto crea una comunità, questa comunità diventa reale. Noi uomini passiamo il tempo a trasformare il virtuale in reale. Che cosa è una moneta? È un quasi-oggetto. Si può trasformare in qualsiasi cosa. È un equivalente generale. Quindi non c’è oggi nulla di più reale della moneta, che all’inizio era un quasi-oggetto».
Ho una domanda sulla collaborazione. Con l’artista Philippe Parreno abbiamo discusso di lei e di collaborazione. Lei ha spesso collaborato con altri e la conversazione è una parte importante della sua filosofia. Mi può parlare della collaborazione? Con la collaborazione o anche con l’amicizia si possono creare delle nuove forme?
«Senza dubbio. L’essenziale per una conversazione è che non ci sia uno scontro tra due opinioni fisse. Bisogna che le parti siano libere e aperte».
Lei ha pubblicato finora sessanta libri. Ha dei progetti non realizzati? Recentemente, poco prima della sua scomparsa, la scrittrice Doris Lessing mi ha parlato dell’idea che ci sono sempre dei libri non scritti - libri che nessuno ha osato scrivere, o avuto il tempo di scrivere o potuto realizzare. Quali sono i suoi progetti non realizzati o utopici?
«C’è di sicuro ancora un problema che vorrei risolvere: quello delle istituzioni politiche. Questo, senza dubbio, è il libro che vorrei scrivere.
(Traduzione di Maria Sepa )
I NOSTRI SCHEMI SONO VECCHI. SIAMO IN UN’EPOCA DI "ROTTURA" E DOBBIAMO CAPIRLO:
"Senza che noi ce ne rendessimo conto, e in un breve intervallo di tempo, (quello che separa i nostri giorni dagli anni Settanta) è nato un nuovo tipo di essere umano. Questo ragazzo, o questa ragazza, non ha lo stesso corpo, nè la stessa aspettativa di vita di chi lo ha preceduto, non comunica secondo le stesse modalità, non percepisce lo stesso mondo,non vive nella stessa natura, nè abita il medesimo spazio. nato con l’epidurale e in data prestabilita, grazie alle cure palliative non teme più nemmeno la morte. E poichè la sua testa è diversa da quella dei suoi genitori, conosce diversamente [...]"
cit. da: Michel Serres, Dalla parte dei (nuovi) bambini. Inventiamo una nuova educazione per gli studenti "Pollicino", la Repubblica del 20 aprile 2011
INTERVISTA
Serres: Ambiente, un mondo in guerra
di Daniele Zappalà (Avvenire, 17.04.2009)
«Senza una visione più larga del rapporto fra l’uomo e la natura, non potremo risolvere problemi come la scarsità dell’acqua o la scomparsa delle risorse ittiche nei mari. Accanto alla scienza, occorre anche il patrimonio di altri saperi e forme di conoscenza, come le religioni, il diritto e l’etica». A sostenerlo è Michel Serres, il filosofo francese celebre per le sue riflessioni epistemologiche e sulla storia delle scienze. Negli ultimi anni, la crisi ambientale è divenuta la principale preoccupazione del pensatore, come mostra anche il volume La guerra mondiale, appena edito in Francia da Le Pommier. Un libro dagli spunti molto intimisti che Serres ha presentato come il proprio ’testamento’ intellettuale.
Professore, cosa l’ha spinta a scrivere un libro tanto autobiografico e personale?
«Innanzitutto, il desiderio di tornare sulle questioni ambientali, che avevo già affrontato nel Contratto naturale e nel Male pulito. Si tratta un po’ del seguito, dell’ultimo atto di una trilogia. Al contempo, l’esperienza della guerra è stata decisiva nella mia vita e mi sembrava giusto offrire dei ricordi personali per introdurre il tema della guerra mondiale che viviamo oggi».
L’espressione ’guerra mondiale’ rischia di disorientare il lettore...
«Finora, l’espressione è stata utilizzata per i due grandi conflitti del secolo scorso, anche se non tutti i Paesi vi parteciparono. La guerra di cui parlo è invece quella dell’uomo che si oppone al mondo, o se si vuole alla natura. Essa è mondiale perché interessa ormai l’insieme del pianeta. Eppure, se l’uomo ha bisogno del mondo, il mondo non ha necessariamente bisogno di noi».
Lei sottolinea che per comprendere la crisi ambientale contemporanea non è sempre utile riferirsi alla storia. Perché?
«Quando ripenso ad esempio al periodo della Seconda guerra mondiale, mi accorgo che la differenza è grande fra la percezione di chi ha conosciuto direttamente quell’epoca e quella di chi ha appreso i fatti indirettamente. Nutro talora dubbi sulla disciplina che si suole chiamare storia e suggerisco che occorre ricercare del senso anche altrove».
Cioè anche nelle verità antropologiche contenute in molte narrazioni mitiche, ancestrali o religiose, da Gilgamesh alla Bibbia...
«Tendo a prediligere uno sguardo antropologico sulle cose e ho sempre cercato di cogliere le associazioni fra queste narrazioni e le scienze contemporanee. Le scienze dure, come si suol dire, hanno offerto anch’esse una grande narrazione ed è naturale talora percepire dei ponti fra questi mondi solo in apparenza lontani».
Perché considera queste narrazioni particolarmente pertinenti a proposito del conflitto odierno fra uomo e natura?
«Quando i cambiamenti ecologici sono tanto violenti come quelli che stiamo vivendo attualmente, il nostro sguardo viene spinto a guardare più in profondità in direzione dell’uomo. Per questo, le antiche narrazioni tornano ad apparirci come preziosi strumenti d’interpretazione. Si pensi alla narrazione del diluvio universale, oggi così ricca di suggestioni profonde. Anche Platone o altri pensatori dell’antichità ci parlano spesso in modo preciso del presente. E sono istruttive talora anche narrazioni più recenti. Penso ad esempio ad una favola di La Fontaine che suggerisce come un contadino possa influenzare il clima fino alla propria auto-distruzione».
Lei ricorda la sua esperienza giovanile nella Marina francese. L’odierna guerra umana al mondo ricorda ancora quella del capitano Achab?
«Come ex uomo di mare, resto sensibile alle metafore e narrazioni marittime. Ma il contesto della guerra che oggi l’uomo conduce contro il mondo è diverso rispetto a quello di Achab. In Moby Dick, la natura è vista soprattutto come un’antagonista, una nemica che si oppone all’uomo. Ma oggi ci rendiamo conto invece che il nostro destino è profondamente legato al trattato di pace, per così dire, che dobbiamo stipulare col mondo».
Eppure, viviamo in un’epoca di catastrofi naturali che rischiano di divenire frequenti, almeno secondo certi scienziati...
«In questo senso, la lotta dell’uomo con la natura non è terminata, è vero. Non ho mai visto la natura come qualcosa di dolce. Essa è anzi estremamente dura e l’ho sperimentato sulla mia pelle durante una grande tempesta nel Mediterraneo, quando il mio battello fu creduto a lungo disperso. La violenza resta una prerogativa della natura. Ma il punto è che oggi esiste sempre più una sorta di concorrenza portata dalla violenza umana a quella degli elementi. Se occorre un contratto fra l’uomo e il mondo è perché vi è una concorrenza di quest’ordine fra i due termini».
Nella ricerca di tale contratto, che ruolo hanno la scienza e la religione?
«Le scienze sono un modo di comprendere gli aspetti particolari e isolati delle cose. Le religioni, al di là della questione individuale della fede, ci offrono invece visioni e narrazioni d’insieme. Soprattutto oggi, non si può scartare un termine per privilegiare l’altro. L’uomo filosofo deve tenere tutto con sé. Altrimenti, la nostra comprensione viene amputata».
Una curiosità sorprende il lettore del testo in francese: diverse espressioni in italiano...
«Provo un affetto particolare, un senso di fraternità verso l’Italia, dove vivono i miei migliori amici. Quand’ero piccolo, mio padre era commerciante di cemento e ricordo ancora che tutti i suoi clienti erano muratori italiani».
Daniele Zappalà
Si sono create due rotte navigabili per il collegamento via mare
tra Europa e Asia. Il sogno di molti esploratori diventa realtà
Lo scioglimento dei ghiacci
apre il "passaggio a nord-ovest"
di LUIGI BIGNAMI *
NEGLI ultimi giorni l’area coperta dai ghiacci artici ha raggiunto i livelli minimi da quando 30 anni fa iniziarono i rilevamenti attraverso i satelliti. E la riduzione è tale che si è aperto il famoso "Passaggio a Nordovest", la via più veloce di collegamento via mare tra l’Europa e l’Asia. Fino ad oggi, da tempi storici, proprio a causa dei ghiacci il passaggio era impossibile.
Leif Toudal Pedersen del Danish National Space Centre, che ha studiato i dati del satellite Envisat dell’Agenzia Spaziale Europea ha detto: "In questi giorni il ghiaccio si è ridotto di circa 3 milioni di chilometri quadrati ossia circa un milione di chilometri quadrati in più rispetto al 2005, anno di riduzione record dei ghiacci artici". Poiché, mediamente, dal 1980 i ghiacci si riducono di circa 100.000 chilometri quadrati all’anno, un milione di chilometri quadrati in meno in due anni è davvero un valore record che fa pensare.
Ancora Pedersen: "La forte riduzione in atto ci fa supporre che la diminuzione estiva dei ghiacci procede ad una velocità del tutto inaspettata e questo ci dice che dobbiamo rivedere i criteri dei processi coinvolti, perché il fenomeno non era nelle nostre previsioni".
Le zone artiche sono quelle più esposte ai cambiamenti climatici e secondo le previsioni dell’Intergovernmental Panel on Climate Change i ghiacci artici dovrebbero scomparire del tutto in estate a partire dal 2070. L’importanza dello scioglimento del ghiaccio nell’area artica non sta tanto nel pericolo dell’aumento del livello dei mari, in quanto esso appoggia direttamente sulla superficie dell’acqua, ma perché la sua diminuzione fa aumentare l’assorbimento del calore solare da parte del mare. I raggi solari infatti, vengono riflessi dal ghiaccio, ma assorbiti dall’acqua di mare che aumenta così di temperatura.
Con la situazione attuale si sono venute ad aprire due rotte navigabili: una a nord del Canada che attualmente è totalmente aperta, la seconda, invece, che passa vicino alla Siberia ed è praticabile al 90 per cento.
Tra la fine del 1400 e il 1900, gli europei hanno cercato di stabilire una rotta commerciale marina che passasse a nord e ad ovest del continente europeo. Furono gli inglesi a chiamare la rotta "Passaggio a nordovest", mentre gli spagnoli la battezzarono stretto di Anián. Il desiderio di trovare questa rotta motivò gran parte dell’esplorazione europea di entrambe le coste del Nord America. Hernán Cortés, nel 1539 incaricò Francisco de Ulloa di navigare lungo l’odierna Baja California alla ricerca dello Stretto di Anián.
E dopo diversi tentativi falliti, divenne famosa quella che nel 1845, guidata da Sir John Franklin. Quando la spedizione non riuscì a rientrare, diverse spedizioni di soccorso e squadre di ricerca esplorarono l’artico canadese tra i due corpi d’acqua aperta producendo alla fine la carta nautica di un possibile passaggio. Poche tracce della spedizione sono state ritrovate, anche se alcune registrazioni indicano come le navi vennero bloccate dalla morsa di ghiaccio nel 1845 vicino all’Isola di Re Guglielmo, a circa metà strada del passaggio, e non furono in grado di districarsi nell’estate successiva. Lo stesso Franklin morì nel 1847. Non si sa comunque, perché tutti i 134 membri della spedizione, ben equipaggiata e ben rifornita, perirono.
Il passaggio a nord-ovest non venne conquistato fino al 1906, quando l’esploratore norvegese Roald Amundsen, che era salpato per sfuggire ai creditori che cercavano di fermare la spedizione, completò un viaggio di tre anni su di un peschereccio per la pesca delle aringhe convertito in rompighiaccio. Alla fine del viaggio, entrò nella città di Circle (Alaska), ed inviò un telegramma che annunciava il suo successo.
Oggi si parla di una battaglia tra questa cultura globale, globalizzata e mercantile, e la cultura locale, nell’accezione antropologica del termine. Chiudere le frontiere per resistere all’invasione della cultura globalizzata sarebbe il modo più assurdo di porre il problema: in questa ottica saremmo condannati a dover scegliere tra Disneyland e gli ayatollah.
Viviamo una notevole trasformazione del soggetto cognitivo, della scienza obiettiva e della cultura collettiva. È questa trasformazione che mi fa rimpiangere sul serio di non avere diciotto anni! ( Michel Serres, 2001).
Tra Disneyland e gli ayatollah
La gioiosa macchina della cultura
Non ci sarà scontro tra cultura globalizzata e cultura locale. Questa è la convinzione che Michel Serres ha espresso durante i «Colloqui del XXI secolo» organizzati dall’Unesco. Basando la sua analisi sulla storia delle tecnologie e dei loro rapporti con le società umane, il filosofo francese sostiene che lo spazio culturale si è sempre nutrito di relazioni di contiguità e di confronti con gli altri. E lo sviluppo delle reti informatiche non cambia certo le cose.
di MICHEL SERRES *
Le «nuove» tecnologie sono più antiche di quanto in genere si pensi. Esistono due tipi di tecnologie che la parola, di origine inglese, non permette di distinguere: le tecniche - cioè l’insieme degli strumenti - che utilizziamo su scala antropica (dallo schiaccianoci alla bomba atomica) e le tecniche a carattere propriamente informatico, per le quali per esempio nella lingua francese non esiste un termine specifico. La parola inglese «tecnologia» (technology), abbracciando entrambe queste nozioni, ci dà l’illusione di un’evoluzione lineare nel passaggio dalle tecniche «dure» alle tecnologie «dolci» che oggi ci circondano. Non è così (1).
Le tecnologie dolci hanno sempre accompagnato la storia dell’uomo. Sono state decisive anche nel suo processo evolutivo: l’invenzione della scrittura, per esempio, è una tecnica che attiene all’attività dell’informazione (o alle «energie dolci»), così come l’invenzione della stampa. Non è affatto strano, quindi, che le tecnologie dolci sfruttino il «dolce» e le tecnologie dure il «duro». Come ha ricordato Jeremy Rifkin, nell’economia tradizionale le tecnologie relative alle energie dure usavano le energie dure.
Ma le tecnologie dolci esistevano già e avevano già scoperto «l’età dell’accesso». Non dobbiamo dimenticare, infatti, che anche se abbiamo imparato a scrivere le lingue che ci sono familiari, delle mille esistenti nel mondo, oltre 950 sopravvivono ancora solo grazie alla trasmissione orale. I popoli che le parlano non hanno avuto accesso alla scrittura. Peraltro, fin dall’invenzione della stampa, l’accesso alla lettura, alla scrittura e alle biblioteche riguardava già le energie dolci. Non si tratta quindi di un’evoluzione lineare della storia che condurrebbe dalle tecnologie dure a quelle dolci. Si evidenziano, al contrario, due storie: quella delle energie dolci da un lato e quella delle energie dure dall’altro.
Peccato di simonia. Le tecnologie dolci, che sfruttano il dolce e, di fatto, la cultura, sono in piena ascesa. Nella tradizione europea, però, è in atto un processo di riflessione sulla mercificazione della cultura a partire da un concetto di diritto canonico: il peccato di simonia. Questa nozione deriva dagli Atti degli apostoli e fa riferimento a Simon Mago che vendeva oggetti o atti sacri. Gli uomini colti avevano così iniziato a considerare «simoniaco» chi vendeva cultura. Per molto tempo, proprio l’ideologia simoniaca ci ha protetto dalla mercificazione del sapere. Recentemente, tuttavia, ho costatato con brutalità, vedendo la mia immagine utilizzata per una pubblicità televisiva contro la mia volontà, che questo senso di protezione era solo un’illusione.
Un atto, contrario alle mie convinzioni, la cui esatta definizione potrebbe essere simoniaco! In un contesto di grandi cambiamenti come quello attuale, dobbiamo calcolare in modo esatto cosa guadagniamo e cosa perdiamo. Rischiamo forse di perdere la cultura? È bene fare due esempi.
Di generazione in generazione, la memoria si affievolisce perché, abbandonando la tradizione orale per quella scritta, ricorriamo sempre meno a quella particolare capacità cognitiva. In effetti, contrariamente a quanto si pensa, la tradizione orale risulterebbe più solida di quella scritta. Nella nostra cultura si ritiene che la memoria sia soggettiva, una «facoltà dell’anima» strettamente individuale. Nessuno ha identificato la sede della memoria nel corpo umano. Propongo una visione diversa: da quando è stata inventata la scrittura, la memoria si è liberata di un peso e la scrittura è diventata un oggetto. Prima della stampa, infatti, un uomo colto che desiderasse conoscere Omero o Plutarco doveva impararne i testi a memoria. La stampa ha eliminato questa necessità e di conseguenza alleggerisce la memoria.
Il che spiega appieno l’espressione di Montaigne: «Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena». La scrittura è stata inventata e noi abbiamo perso la memoria. La memoria è diventata collettiva e obiettiva, mentre la credevamo soggettiva e cognitiva. Questo processo è un dato costante nell’evoluzione dell’uomo. Non bisogna dunque avere paura di perdere perché, liberati dal pesante obbligo di ricordare, in realtà guadagniamo, e questa testa «ben fatta» può ornarsi di altre attività, più inventive. Le nuove tecnologie mettono a nostra disposizione tutta la memoria del mondo.
Lo storico André Leroi-Gourhan descriveva così il processo evolutivo: quando l’uomo per camminare assunse la posizione eretta liberò gli arti anteriori dalla funzione di trasporto che avevano assolto fino ad allora. La mano poté allora sviluppare la capacità di afferrare e l’uomo divenne un Homo faber. Poiché la mano aveva conquistato questa facoltà, la bocca, che fino a quel momento aveva adempiuto alla stessa funzione, la perse. La bocca poté allora parlare... Ora, se nell’economia del processo mettiamo a confronto il guadagno della parola e la perdita della funzione di trasporto, non c’è alcun dubbio che il guadagno trascenda ampiamente la perdita. Oggi sta succedendo la stessa cosa?
In questa evoluzione, è il soggetto umano stesso, nella sua dimensione cognitiva, che cambia. Ma è sempre cambiato, via via che le tecnologie dolci evolvevano. Questo vale in particolare nel campo delle scienze.
Senza dubbio tutti ricordiamo le esercitazioni liceali: bisognava, a partire dalla sperimentazione proposta, effettuare delle misure e riportarle su un grafico, il che consentiva di ricavare una legge.
Poche sperimentazioni e pochi dati permettevano quindi di giungere a grandi risultati. Pochi dati e poche sperimentazioni furono sufficienti anche a Newton per scoprire la legge di gravità. Oggi, le tecnologie realizzano per noi le osservazioni e le misurano, automaticamente e in tempo reale, poi registrano i dati senza limiti.
A tal punto che un progetto lancia un appello agli utenti di computer di tutto il mondo per collegare quasi due milioni di macchine e poter così trattare i dati. Stiamo cambiando dunque anche paradigma scientifico: la scienza attuale non ha più niente a che vedere con quella di qualche decina di anni fa.
Il termine «cultura» in origine fu inventato da Cicerone, per il quale «la filosofia è la cultura dell’anima». Questa prima definizione si inserisce in una visione umanistica che i filosofi del XVI secolo, dal canto loro, hanno ripreso dando vita alla tradizione de «l’honnête homme». Un secondo significato al termine cultura viene dalla Germania. Utilizzato per la prima volta da Kant, fu poi ripreso dal Kulturkampf (2), e designa l’insieme dei processi acquisiti in una società umana.
In questo senso, la cultura del maiale degli agricoltori della mia infanzia faceva parte della «cultura della Guascogna». Sicuramente aveva pochi tratti in comune con le ballerine dell’Opera, che meglio si iscrivono nella prima definizione di cultura. Per me, la cultura è la strada che va dal maiale all’Opera, e viceversa. In questa ottica, una persona dai gusti artistici raffinati che ignora la cultura nel senso antropologico del termine non è affatto colta, così come non lo è un antropologo che non si intenda d’arte.
Una terza definizione, più recente, è quella che individua la cultura come merce «globalizzabile». Già ora le imprese realizzano colossali profitti commercializzando oggetti culturali che fanno riferimento all’esperienza umana. Il film Titanic ripropone l’esperienza marittima universale. Vertical Limit si richiama ad un’altra esperienza universale nota a tutti, quella della montagna, anche se nei fatti si tratta di una teatralizzazione, di una realizzazione tangibile dell’esperienza proposta...
Oggi si parla di una battaglia tra questa cultura globale, globalizzata e mercantile, e la cultura locale, nell’accezione antropologica del termine. Chiudere le frontiere per resistere all’invasione della cultura globalizzata sarebbe il modo più assurdo di porre il problema: in questa ottica saremmo condannati a dover scegliere tra Disneyland e gli ayatollah.
Come si acquisisce una cultura? Prima di tutto in senso antropologico: il luogo dove siamo nati, la lingua dei nostri genitori... un certo numero di comportamenti, costumi e usi che ci vengono tramandati.
Ma è evidente che ciò non basta a rendere colta una persona. Infatti, quando la cultura è chiusa, soffoca e muore. La cultura è l’invenzione, a partire da un punto dato, di una strada che, passo dopo passo, ci accompagna in un viaggio che ci porta a scoprire prima una cultura che sentiamo vicina, poi un’altra che lo è un po’ meno, e così via.
Questo percorso da una cultura all’altra è costellato di ostacoli, e l’incontro con l’altro, che spesso è diverso da come lo immaginiamo, è difficile. A volte accostarsi alla sua lingua, alle abitudini, alle tradizioni non è facile come si pensava. Tuttavia, in questo percorso possiamo essere sedotti e scoprire costumi che ci sono estranei: che c’è di più bello dell’artigianato brasiliano o di più straordinario, sotto certi aspetti, della raffinatezza della cultura giapponese? La cultura non ha frontiere: è porosa. Mai la Francia fu così francese come nel XVII secolo, quando Molière si ispirava fortemente agli italiani, o Corneille agli spagnoli.
La battaglia annunciata tra dimensione locale e globale, cioè tra la cultura che designa l’insieme dei processi acquisiti in una società umana e la cultura diventata merce, dimostra una profonda incomprensione di cosa è lo spazio culturale. Lo spazio culturale è granuloso. È complesso, diverso per ciascuno e fatto di passaggi, ostacoli, guadi, colli, montagne invalicabili... Soprattutto, ciascuno vi traccia il suo cammino individuale, unico, vi disegna la sua mappa originale che esprime la singolarità culturale di ognuno di noi. Culture di questo tipo non rischiano niente, neppure da Internet, perché anche quello della Rete è uno spazio granuloso: non è uno spazio globale.
In realtà, anche se questi mezzi di comunicazione sono considerati universali e tali da permetterci di entrare in rapporto immediato con qualsiasi punto del mondo, l’uso che se ne fa è sorprendentemente locale! Al contrario di ciò che si pensa, infatti, il telefonino ha rafforzato i legami comunitari della famiglia. Certo, il loro uso assume anche una dimensione globale. Ma è proprio questa combinazione di utilizzazioni locali e globali di strumenti come il portatile o Internet, che fa del loro impiego uno spazio articolato, granuloso, disseminato di ostacoli e di strettoie come lo spazio culturale.
Per questo, a mio avviso, la «vera» cultura non è in pericolo. Su un punto sono tuttavia d’accordo con Jeremy Rifkin: in effetti, contrariamente a quanto pensava Marx, la cultura è l’infrastruttura. L’Europa del carbone e dell’acciaio non è stata sufficiente per costruire l’Europa, perché l’economia non è l’infrastruttura. È vero che dal Medioevo esiste una cultura europea. Se all’epoca fosse stata accettata l’idea che la cultura è l’infrastruttura, sarebbe stato sufficiente creare un’Università europea, incoraggiare lo scambio fra i giovani e costruire una cultura comune attraverso programmi educativi. Si sarebbero parlate quattro lingue, come in Svizzera, e l’Europa sarebbe ora una realtà! Ma se tentiamo di definirla veramente, la cultura a mio avviso dimostra due cose. Da un lato, si caratterizza attraverso il processo di acculturazione, cioè il «viaggio» che permette, di contatto in contatto, di incontrare l’altro. Dall’altro, è fondata su una singola decisione dell’individuo, quando stabilisce: no, non faccio parte di questa cultura. Viviamo una notevole trasformazione del soggetto cognitivo, della scienza obiettiva e della cultura collettiva. È questa trasformazione che mi fa rimpiangere sul serio di non avere diciotto anni!
note:
* Filosofo, membro dell’Académie française, autore in particolare di Hominescence, Le Pommier, Parigi, 2001 e di Retour au contrat naturel, Bibliothéque nationale de France, Parigi, 2000.
Questo testo è tratto dall’intervento fatto da Michel Serres, in risposta a quello di Jeremy Rifkin, nel quadro dei «Colloqui del XXI secolo», organizzati da Jérôme Bindé, direttore della Divisione anticipazione e studi prospettici dell’Unesco.
(1) Leggere Les Clés du XXIe siècle, Seuil/Editions Unesco, Parigi, 2000.
(2) La kulturkampft (lotta per la cultura) è il nome con cui venne indicata la battaglia condotta, dal 1870 al 1885, da Bismarck contro la chiesa cattolica.
(Traduzione di G. P.)
* Le Monde Diplomatique/ Il manifesto, settembre 2001.