E’ la pubblicità, bellezza
di Alessandro Robecchi (il manifesto, 25 febbraio 2007)
«Non siamo mica come Zapatero!», come tutti sapete, è lo slogan coniato dall’astuta sinistra italiana per dire che di noi ci si può fidare, mica siamo pericolosi estremisti. Basterebbe questa frase per farci guardare con attenzione alla Spagna, e infatti ecco che da laggiù giunge una voce di protesta.
L’Istituto Donna (organismo del ministero del lavoro), i Verdi e alcune associazioni di consumatori hanno chiesto il ritiro di una pubblicità di Dolce&Gabbana. Nella foto, un uomo tiene una ragazza immobilizzata a terra per i polsi, e altri bellimbusti seminudi osservano la scena.
Tutto un po’ ridicolo, se è permessa una notazione artistica. Ma di fatto anche piuttosto offensivo e violento, da cui l’incazzatura delle donne spagnole.
Visto da qui sembra peccato veniale, ordinaria amministrazione. E quanto all’immagine mercificata e mortificata della donna, beh, «voi siete qui», cioè in un paese dove si usa un bel paio di tette anche per vendere il gorgonzola (claim: «Mai provato con le pere?»).
Dunque diciamo così, che noi non siamo mica come Zapatero (che si va all’inferno), ma una cosa è certa: sull’argomento dignità e diritti in Spagna tengono la guardia più alta.
Del resto l’esperienza insegna che qui parlare liberamente delle opere e della vita dei santi (D&G) è pericoloso assai. Quando un inserto del Sole 24ore ha stroncato le cotolette del loro ristorante, i due sarti hanno ritirato pubblicità per centinaia di migliaia di euro, dato della «stronza» all’autrice dell’articolo in tivù, e poi ampiamente rivendicato il gesto.
Qualche mugugno in sottofondo, ma non si sono sentiti né direttori né editori tuonare, dire che si tratta di una vera intimidazione e che così la libertà di scrivere (anche delle cotolette dei sarti) se ne va un pochino a puttane. Anzi.
Poco tempo dopo il Sole 24ore ha mandato un altro recensore a mangiare dai due sarti pubblicando un’altra recensione, questa volta favorevole. Ora bisognerà spiegare agli spagnoli che qui non solo non ci indigniamo per una pubblicità volgare e violenta, che siamo abituati, ma abbiamo anche dei problemini di libertà. «E’ la stampa bellezza e tu non puoi farci niente», era una bella frase, ma non vale più. E’ l’inserzionista, bellezza, e tu non puoi farci niente. Ecco, così va meglio.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dolce e Gabbana: ritirate questa pubblicità violenta e sessista
Scritto da Associazione Orlando
lunedì 26 febbraio 2007 *
Su proposta di alcune socie, l’Associazione Orlando si fa promotrice della richiesta di ritiro di una pubblicità violenta e sessista di Dolce e Gabbana. Chi, singola e/o associazione, volesse aderire all’iniziativa, può inviare una mail, segnalando nome e cognome a: redazione@women.it.
Il 19 Febbraio scorso in Spagna l’Instituto de la Mujer, un ente che è parte del Ministero del Lavoro del governo spagnolo, insieme a varie associazioni femministe e gruppi dei consumatori spagnoli, ha chiesto, con una lettera aperta di protesta all’azienda di moda Dolce e Gabbana, il ritiro di una pubblicità dei loro prodotti rappresentante una scena di stupro di gruppo (o più esattamente, pre-stupro di gruppo): un giovane maschio chino su una ragazza, che lui tiene bloccata a terra per i polsi, mentre altri quattro giovani maschi stanno attorno guardando impassibili la scena.
L’Osservatorio dell’Immagine dell’Instituto de la Mujer, che si occupa di monitorare la rappresentazione della donna nei media, ha dichiarato che questa pubblicità incita alla violenza contro le donne, perché "se ne può dedurre che è ammissibile l’uso della forza come modo di imporsi alle donne" e che questo tipo di immagine "rafforza atteggiamenti che al giorno d’oggi sono un crimine, attentano contro i diritti delle donne e ne denigrano l’immagine". L’Istituto ha chiesto a tutti i mezzi di comunicazione, stampa, televisione, ecc. di non prestarsi alla diffusione di questa immagine. L’associazione dei consumatori FACUA e il partito dei Verdi spagnoli si sono associati all’appello dichiarando che l’annuncio viola l’articolo 3 della legge spagnola sulla pubblicità, che proibisce ogni annuncio che "attenti contro la dignità della persona".
Il 23 Febbraio Dolce e Gabbana in persona hanno dichiarato che avrebbe ritirato la pubblicità dalla Spagna, ma solo dalla Spagna in quanto si tratta di un paese "arretrato", e che l’avrebbero mantenuta in tutti gli altri paesi del mondo dove smerciano i loro prodotti.
Noi donne dell’Associazione Orlando troviamo intollerabile non solo l’immagine, che ci sembra senza ombra di dubbio incitamento alla violenza contro le donne, ma anche l’arroganza dei due signori della moda che pensano di diffonderla in tutto il mondo -- un mondo dove la violenza contro le donne è una piaga dilagante sempre più grave. Pensiamo che, lungi dall’essere "arretrata", la società spagnola ha dato prova in questo caso di un livello di civiltà di cui vorremmo che anche il nostro paese si dimostrasse capace. Pensiamo che questa pubblicità sia inadatta a ogni paese civile, a ogni paese che riconosce i diritti umani delle donne, fra cui quello di non subire violenza, inclusa la violenza simbolica, come in questo caso.
Chiediamo a tutte le associazioni femministe e delle donne italiane, in primo luogo le reti delle donne per non subire violenza (inclusi gli uomini che non si riconoscono in una cultura di sopraffazione e violenza), le donne attive nel campo della moda, del giornalismo, dei media, che possono avere un impatto immediato su questa vicenda, le donne attive in tutti i campi, nella scuola e nell’università, negli ospedali e nelle aule dei tribunali, dove vedono quotidianamente il costo che questa cultura della violenza ha sulle bambine, sulle ragazze e sulle donne, di sostenere iniziative di protesta e di denuncia contro Dolce e Gabbana per questa pubblicità e di associarsi al nostro appello perché la ritirino immediatamente anche in Italia, e ovunque. Lo stesso chiediamo a tutte le nostre rappresentanti e i nostri rappresentanti in parlamento e, per dovere istituzionale, al Ministero delle Pari Opportunità, di cui è compito tutelare che non vengano violate le condizioni per cui donne e uomini possano convivere civilmente in una società civile, con "pari opportunità" di non subire violenza.
Per aderire, basta inviare una mail, segnalando nome e cognome, a: redazione@women.it.
Scarica il comunicato stampa di Donatella Linguiti, Sottosegretaria di Stato ai Diritti e alle Pari Opportunità, sull’ultima campagna di Dolce e Gabbana (file doc)
Scarica il comunicato stampa di Arianna Censi, delegata alle Politiche di genere per la Provincia di Milano e Coordinatrice della Consulta Pari Opportunità dell’Upi (file doc)
Scarica il comunicato stampa di Maria Rosaria La Morgia, consigliera della Regione Abruzzo (file doc)
Vietata anche in Italia la pubblicità di Dolce&Gabbana
Scritto da Redazione, martedì 06 marzo 2007 *
La pubblicità di Dolce & Gabbana, quella che ha fatto tanto scandalo e che anche sulle nostre pagine grazie all’appello dell’Associazione Orlando ha raccolto una vera e propria mobilitazione con centinaia di firme in pochi giorni, è stata vietata anche in Italia.
La pubblicità di Dolce & Gabbana, quella che ha fatto tanto scandalo, già da ieri è vietata in tutta Italia. Lo rende noto il Comitato di Controllo, organo deputato dal Codice di Autodisciplina Pubblicitaria a tutelare gli interessi dei cittadini-consumatori. Il 21 febbraio, il Comitato di Controllo aveva emesso una "ingiunzione di desistenza": l’inserzionista, cioé Dolce & Gabbana, aveva tempo per opporsi e non l’ha fatto, quindi il provvedimento "ha acquisito efficacia di decisione definitiva il 5 marzo, e dovrà essere osservato da tutti i mezzi" del sistema pubblicitario.
L’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria, proprio perché sono state tante le richieste di vietare il messaggio (che mostra una donna, bloccata per i polsi, a terra, da un uomo a torso nudo, con altri che assistono alla scena) spiega anche che questo è stato ritenuto "in manifesto contrasto con gli articoli 9 (violenza, volgarità, indecenza) e 10 (convinzioni morali, civili, religiose e dignità della persona) del codice di autodisciplina. Il provvedimento (testo su www.iap.it) sottolinea che la donna "é rappresentata in modo svilente, quale mero oggetto della prevaricazione maschile", ha "un’espressione alienata, uno sguardo assente", non fa percepire "né intesa né complicità" con uno dei tre. Anzi "nell’ambiguità del suo atteggiamento, trasmette l’impossibilità di sottrarsi a ciò che accade, in quanto immobilizzata e sottomessa alla volontà di un uomo, nonché agli sguardi impassibili, ma in qualche modo partecipi e di attesa, degli altri due". L’immagine "pur non riportando espliciti riferimenti alla violenza fisica" proprio per l’atteggiamento passivo e inerme, "evoca la rappresentazione di un sopruso o l’idea della sopraffazione nei confronti della donna stessa". (Ansa)
Il Comitato di controllo di autodisciplina pubblicitaria ha deciso di sospendere la pubblicita’ di Dolce&Gabbana da tutti i media, perche’ offende la dignita’ della donna. Lo ha reso noto la ministra Pollastrini. "Con grande soddisfazione ho accolto la decisione del Giuri’ che ha sospeso la pubblicita’ di Dolce&Gabbana ritenendola lesiva degli articolo 9 e 10 del Codice di autodisciplina, come avevo sottolineato nella mia richiesta di intervento" ha detto la Ministra per i Diritti e le Pari Opportunita’, Barbara Pollastrini. "L’Istituto di controllo, con la sua decisione tempestiva divenuta operativa ieri, ha contribuito ad impedire che un messaggio pubblicitario continuasse ad offendere la dignita’ delle donne. La violenza e’ un dramma che si consuma in famiglia, nei luoghi di lavoro, per strada. Una vera e propria guerra -ha aggiunto la Ministra - tanto silenziosa quanto dolorosa che non puo’ essere trasformata in una rappresentazione per vendere qualche abito in piu’. Per quanto mi riguarda - ha continuato la Pollastrini - continuero’ a stare dalla parte delle vittime con tutti gli strumenti possibili impegnandomi, innanzitutto, per un rapido iter parlamentare del disegno di legge sulla violenza". (la Repubblica, 6/03/07)
8 PUNTI PER L’8 MARZO: NON UN’ORA MENO DI SCIOPERO! *
8 punti per l’8 marzo. È questa la piattaforma politica formulata dalle 2000 persone riunite in assemblea nazionale a Bologna il 4 e 5 febbraio, che hanno proseguito il lavoro sul piano femminista antiviolenza e stanno organizzando lo sciopero delle donne dell’8 marzo che coinvolge diversi paesi nel mondo. I punti esprimono il rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, sessismo, razzismo, omo e transfobia.
L’8 marzo quindi incrociamo le braccia interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva: la violenza maschile contro le donne non si combatte con l’inasprimento delle pene ‒ come l’ergastolo per gli autori dei femminicidi in discussione alla Camera ‒ ma con una trasformazione radicale della società. Scendiamo in strada ancora una volta in tutte le città con cortei, assemblee nello spazio pubblico, manifestazioni creative.
Scioperiamo per affermare la nostra forza. Ribadiamo ancora una volta la richiesta a tutti i sindacati di convocare per quella giornata uno sciopero generale di 24 Ore, Non un’ora meno, e chiediamo alle realtà confederali ed in particolare alla Cgil di rispondere pubblicamente sulla convocazione dello sciopero generale.
Scioperiamo perché
La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne
Scioperiamo contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali. I centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Rifiutiamo il cosiddetto Codice Rosa nella sua applicazione istituzionale e ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale. Pretendiamo che nell’elaborazione di ogni iniziativa di contrasto alla violenza vengano coinvolti attivamente i centri antiviolenza.
Senza effettività dei diritti non c’è giustizia né libertà per le donne
Scioperiamo perché vogliamo la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile sulle donne, da quella economica alle molestie sessuali sui luoghi di lavoro a quella perpetrata sul web e sui social media. Pretendiamo misure di protezione immediate per le donne che denunciano, l’eliminazione della valutazione psico-diagnostica sulle donne, l’esclusione dell’affidamento condiviso nei casi di violenza familiare.
Sui nostri corpi, sulla nostra salute e sul nostro piacere decidiamo noi
Scioperiamo perché vogliamo l’aborto libero, sicuro e gratuito, l’abolizione dell’obiezione di coscienza negli ospedali, nelle farmacie e nei consultori, l’eliminazione delle sanzioni per le donne che ricorrono all’aborto clandestino, il pieno accesso alla Ru486, l’eliminazione della violenza ostretrica e del controllo medico sulla maternità. Scioperiamo per sovvertire le norme di genere che ci opprimono, per avere più autoformazione su contraccezione e prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, per ri-politicizzare i consultori, per aprirli alle esigenze e ai desideri delle donne, delle lesbiche, dei gay, delle persone trans e intersex, indipendentemente dalla condizione economica e fisica, dall’età e dal passaporto.
Se le nostre vite non valgono, scioperiamo!
Scioperiamo per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà, perché non accettiamo che ogni momento della nostra vita sia messo al lavoro; un salario minimo europeo, perché non accettiamo di essere penalizzate per il fatto di essere donne, né che un’altra donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case e nella cura in cambio di un salario da fame; un welfare per tutte e tutti organizzato a partire dai bisogni delle donne, che ci liberi dall’obbligo di lavorare sempre di più e più intensamente per riprodurre le nostre vite.
Vogliamo essere libere di muoverci e di restare. Contro ogni frontiera: permesso, asilo, diritti, cittadinanza e ius soli
Scioperiamo contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà delle migranti, contro il razzismo istituzionale che sostiene la divisione sessuale del lavoro. Sosteniamo le lotte delle migranti e di tutte le soggettività lgbtqi contro la gestione e il sistema securitario dell’accoglienza! Vogliamo un permesso di soggiorno incondizionato, svincolato da lavoro, studio e famiglia, l’asilo per tutte le migranti che hanno subito violenza, la cittadinanza per chiunque nasce o cresce in questo paese e per tutte le migranti e i migranti che ci vivono e lavorano da anni.
Vogliamo distruggere la cultura della violenza attraverso la formazione
Scioperiamo affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università, per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere. Non ci interessa una generica promozione delle pari opportunità, ma coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità. Scioperiamo contro il sistema educativo della “Buona Scuola” (legge 107) che distrugge la possibilità che la scuola sia un laboratorio di cittadinanza capace di educare persone libere, felici e autodeterminate.
Vogliamo fare spazio ai femminismi
Scioperiamo perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività. Scioperiamo per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti nei territori, in cui praticare resistenza e autogestione, spazi liberi dalle gerarchie di potere, dalla divisione sessuata del lavoro, dalle molestie. Costruiamo una cultura del consenso, in cui la gestione degli episodi di sessismo non sia responsabilità solo di alcune ma di tutt*, sperimentiamo modalità transfemministe di socialità, cura e relazione. Scioperiamo perché il femminismo non sia più un tema specifico, ma diventi una lettura complessiva dell’esistente.
Rifiutiamo i linguaggi sessisti e misogini
Scioperiamo contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans. Rovesciamo la rappresentazione delle donne che subiscono violenza come vittime compiacenti e passive e la rappresentazione dei nostri corpi come oggetti. Agiamo con ogni media e in ogni media per comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi ribelli, non stereotipati e ricchi di inauditi desideri.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo. #NonUnaDiMeno #LottoMarzo
*
Strappi e mimose
di Ida Dominijanni (il manifesto, 05.02.2011)
Per quanto tecnica sia la formula, l’aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch’esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l’ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.
Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c’è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l’unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall’altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all’ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com’è possibile?
È possibile, perché c’è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant’altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell’azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent’anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l’8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficace.
D&G, donne e gay
di Alessandro Robecchi (il manifesto, 04.03.2007).
Buttatela sulla famiglia! Provate! Qualunque fesseria col botto diventa un discorso accettabile. Prendete il caso di Dolce&Gabbana, segnalato in questa rubrica domenica scorsa. Una foto pubblicitaria violenta e volgare che in Spagna (e finalmente anche qui) ha suscitato proteste: una ragazza immobilizzata a terra da un giovanotto e altri umani della categoria macho-macho che guardano. Registriamo divertiti la risposta dei due sarti: quella è arte, e allora chiudete anche i musei. La soave leggiadria con cui due disegnatori di camicette si mettono alla pari con Picasso si commenta da sé. Ma veniamo alla famiglia, tema obbligato nei migliori salotti politici e nei locali di lapdance. Severa riflessione del direttore del Foglio sull’argomento: noi zapateristi, moralisti, sindacalisti eccetera eccetera abbiamo santificato la cultura gay, schernito matrimonio e famiglia, e ora questi sono i risultati. Il giro è largo: per dare dei fessi a noi (affetti da «fisime libertarie»), si insultano i gay, riducendo la loro cultura a un manifesto di D&G. Hai difeso li froci? E mo’ te impari, argomento raffinato, non nuovissimo a dire il vero. Visto che funziona? Buttatela sulla famiglia! Il trucco (come sempre) è girarci intorno per non parlare della vera questione morale, che non è quella dei gay, della famiglia o di noi zapateristi. Ma è la clamorosa questione morale del mercato. Che serva una donna nuda, ammiccante, provocante, per vendere un gelato, un silicone sigillante, il formaggio o dei pantaloni vorrà pur dire qualcosa. È il mercato bellezza, e chi più di ogni altro ha contribuito alla creazione della volgarità attuale, in termini di donne mercificate dalla pubblicità, è chi ha una posizione dominante sul mercato della pubblicità. Altro che dare la colpa della volgarità e del disprezzo delle donne che ci circonda a omosessuali e libertari. È il mercato, bellezza. Tabù. Parliamo d’altro, buttiamola sulla famiglia, che va di moda.
Pubblicità con stupro, la Cgil: boicottiamo D&G *
Un uomo a petto nudo (con occhiali scuri e jeans) è chinato su una ragazza e la tiene bloccata a terra, per i polsi, mentre lei tenta di divincolarsi. Altri quattro uomini, più o meno vestiti, assistono alla scena impassibili. Quest’immagine, una specie di foto-ricordo scattata pochi secondi prima di uno stupro di gruppo, è stata scelta dagli stilisti milanesi Dolce & Gabbana come icona per lanciare i loro prodotti alla moda: appunto jeans, occhiali, profumi, vestiti .
Così il 19 Febbraio scorso in Spagna l’Istituto de la Mujer, un ente che è parte del Ministero del Lavoro del governo spagnolo, insieme a varie associazioni femministe e gruppi dei consumatori, ha chiesto all’azienda di moda di ritirare questa pubblicità che incita alla violenza perché «se ne può dedurre che è ammissibile l’uso della forza come modo di imporsi alle donne» e «rafforza atteggiamenti che al giorno d’oggi sono un crimine, attentano contro i diritti delle donne e ne denigrano l’immagine». L’Istituto ha chiesto a tutti i mezzi di comunicazione, stampa, televisione, di non prestarsi alla diffusione di questa immagine.
L’idea che uno stupro collettivo possa convincere uomini donne a vestirsi Dolce & Gabbana, però, sembra piacere molto ai due stilisti milanesi che il il 23 Febbraio hanno semplicemente dichiarato che avrebbero ritirato la pubblicità dalla Spagna. Ma solo dalla Spagna da loro definito un paese «arretrato» e che quindi l’avrebbero mantenuta in tutti gli altri paesi del mondo dove smerciano i loro prodotti.
Italia compresa. Ed ovviamente non è passata inosservata. Secondo gli ultimi dati Istat la violenza sulle donne nel Belpaese è un fenomeno in crescita. Oltre 6 milioni di donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni (in percentuale il 31,9%) hanno subito nel corso della loro vita violenza fisica (ovvero: minacce o atti violenti dalle forme più lievi a quelle più gravi) o sessuale (ossia: costrizione a fare o subire contro la propria volontà atti sessuali che vanno dalla stupro alle molestie fisiche ). Quelle che hanno subito violenza negli ultimi 12 mesi sono esattamente 1 milione 150 mila. Il 23,7% ha subito violenze sessuali, il 18,8% violenze fisiche. Circa un milione sono stati gli stupri o i tentati stupri. Ma ovviamente va considerato che il 95% della violenza subita dalle donne non viene denunciato e che un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno.
Per questo, proprio mentre l’istantanea pre-stupro di Dolce & gabbana arriva sui nostri giornali, il Ministero per le pari opportunità sta diffondendo su tv e non solo la campagna contro la violenza sulle donne. Inevitabili quindi le immediate proteste contro i due stilisti milanesi, proteste che hanno visto scendere in campo non solo associazioni e politici ma anche i sindacati. «La moda è innanzitutto cultura, etica, e veicolo di trasmissione di valori, sogni emozioni. È vergognoso che Dolce & Gabbana veicolino un messaggio di violenza e sopraffazione nei confronti delle donne - sottolinea Valeria Fedeli , segretario generale della Filtea-Cgil (sindacato dei lavoratori tessili che ha un’altissima percentuale di donne) - Quel manifesto dovrebbe scomparire e gli stilisti devono chiedere scusa a tutte le donne. Se ciò non avverrà, l’8 marzo le donne proclameranno uno sciopero degli acquisti dei capi di Dolce & Gabbana».
Anche dalla Provincia di Milano arrivano critiche. Secondo Arianna Censi (Ds), consigliera alle Politiche di genere della Provincia, «è inammissibile che venga proposta a fini commerciali un’immagine che incita alla violenza contro le donne, riproponendo un’idea di sottomissione e prevaricazione che ancora una volta rischia di generare una cultura maschilista sbagliata e fondata sulla violenza». «È un messaggio maschilista e violento» aggiunte l’esponente della Quercia.
Ma anche Amnesty international, da anni impegnata nelle campagne di lotta alle violenze contro le donne in tutto il mondo, chiede che la pubblicità venga ritirata perché «rischia di rappresentare un’apologia dell’uso della violenza nei confronti delle donne ed è un contributo veramente inaccettabile dei due stilisti italiani alla vigilia della Giornata internazionale della donna». «Dal 2004 - spiega il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury - Amnesty International cerca di denunciare e fermare un fenomeno che colpisce, in molti paesi, due donne su tre e da cui l’Italia non è affatto immune, come denunciato dall’ultimo rapporto Istat. Il diritto delle donne a vivere libere dall’incubo della violenza ha bisogno di tutto, meno che di immagini come quelle di Dolce e Gabbana».
E poi 13 senatori, sia del centrodestra che del centrosinistra, chiedono che la pubblicità venga ritirata e che l’azienda sia richiamata al rispetto delle regole. Prima firmataria dell’appello Vittoria Franco, presidente della commissione Cultura e responsabile nazionale delle Donne Ds, che ha inviato la richiesta al Giurì per l’autodisciplina pubblicitaria, Umberto Loi.
Ma non solo politici e grandi associazioni internazionali si sono mobilitati contro questa pubblicità. Sono molti anche i semplici cittadini e cittadine che si sono attivati per chiederne il ritiro. L’Associazione di donne Orlando ha, ad esempio, avviato una vera e propria mobilitazione on line con raccolta di firme sul sito www.women.it che ha già raccolto l’adesione di centinaia di navigatori.
Come diceva Coco Chanel «La moda riflette sempre i tempi in cui vive. Anche se, quando i tempi sono banali, preferiamo dimenticarlo».
* l’Unità, Pubblicato il: 02.03.07, Modificato il: 03.03.07 alle ore 15.30
Napoli, 7 minorenni accusati di violenza di gruppo su coetanea
NAPOLI (Reuters) - Sette minorenni della provincia di Napoli tra i 15 e i 17 anni sono accusati di violenza di gruppo su una minorenne. I giovani avrebbero abusato di una ragazza riprendendo l’episodio con un videofonino, si legge in una nota della questura di Napoli.
L’episodio sarebbe avvenuto agli inizi di ottobre in una località della provincia di Napoli dove la ragazza si era recata con due amiche e dove aveva incontrato un suo compagno di scuola con un gruppo di amici.
Uno dei minorenni le avrebbe preso gli occhiali minacciandola di romperli se si fosse rifiutata di appartarsi con lui. Dopo averla portata in un luogo isolato, il ragazzo avrebbe abusato di lei insieme agli amici, che avrebbero anche ripreso l’episodio con un videofonino, dice la nota.
La ragazza ha denunciato il fatto solo qualche mese dopo, facendo scattare le indagini da parte della polizia, che ha individuato i presunti colpevoli e li ha fermati.
I sette accusati non potranno per il momento lasciare le loro abitazioni, in applicazione di una misura cautelare emessa dal tribunale dei minori di Napoli.
* REUTERS - ITALIA, mercoledì, 28 febbraio 2007 5.37
Stuprata dal branco, frustata dal giudice
di Marina Mastroluca *
Novanta frustate. Da quando è successo, G. aspetta che il telefono squilli e che qualcuno dall’altra parte del filo le ordini di presentarsi per ricevere la sua punizione. Novanta colpi di frusta, questo ha deciso la corte che ha processato i suoi stupratori. Per loro il carcere, pene che vanno dai 10 mesi ai cinque anni. Per lei, comunque colpevole per essersi incontrata con un uomo che non era suo parente, una punizione insultante, che non la riconosce come vittima. «I giudici mi hanno chiesto se ero soddisfatta della sentenza. Come posso dirlo? Non riesco nemmeno a credere che sia vera», dice la ragazza.
I giudici le hanno fatto capire che le è andata bene, avrebbero potuto condannarla al carcere, non è il caso di lamentarsi. G. ha 19 anni, vive in una piccola città non lontana da Qatif, Arabia Saudita. La sua storia, raccontata dal quotidiano saudita in lingua inglese Saudi Gazette, comincia un anno fa con le telefonate di un uomo, che le chiede continuamente di incontrarla. All’inizio la ragazza non gli dà peso, poi lui minaccia di raccontare alla famiglia di avere una relazione con lei, se si fosse ostinata a rifiutare un incontro. Per ingenuità, e perché comunque la parola di una ragazza è più leggera di quella di qualsiasi uomo in Arabia Saudita, G. accetta di far avere una sua foto all’ostinato ammiratore. Ma quando si fidanza con il marito scelto dalla sua famiglia, la ragazza insiste per riavere indietro la sua fotografia. Fissa un appuntamento con l’uomo che la perseguita, ma mentre è con lui avviene l’assalto.
Sette uomini armati di coltelli la sequestrano puntandole la lama alla gola. La portano in una capanna fuori città. E lì a turno, la violentano per 14 volte. Uno del branco scatta anche delle foto usando il cellulare della ragazza. «Mi hanno detto di non dire niente dello stupro. E che mi avrebbero chiamato e io avrei dovuto incontrare loro o chiunque altro volessero, altrimenti avrebbero spedito quelle foto a tutti i numeri del mio cellulare». Quando torna a casa, G. è una donna spezzata. Vorrebbe uccidersi, ma le pillole che ingoia la fanno solo stare male. Finisce in ospedale. Sempre muta, chiusa, l’ombra di quella che era. E forse sarebbe rimasta in silenzio, se il branco non avesse cominciato a vantarsi: la voce arriva al suo futuro sposo. Solo a quel punto G. racconta e sorprendentemente il fidanzato non la ripudia come gli consigliano di fare.
Lui resta al suo fianco, la rappresenta in tribunale e ora è con lei in attesa del processo d’appello. «È rimasto con me, a dispetto della sua famiglia e dei suoi amici», dice G, che nemmeno in casa ha trovato comprensione: il fratello più giovane l’ha picchiata perché con lo stupro ha gettato la famiglia nel disonore. Nell’aula del tribunale G. viene interrogata tre volte. Tre domande che non hanno nulla a che vedere con quello che ha subito. Per i giudici anche lei è colpevole, e da colpevole la trattano. Lei stessa riconosce di essere stata una stupida ad incontrarsi con quell’uomo che le dava il tormento. «Stavo solo cercando di salvare il mio onore - dice -. Quello che mi è accaduto quella notte è peggio di qualsiasi punizione». E invece no, ora le spetta anche la pena decisa dai giudici. Per Fouziyah Al Ouni, un’attivista che ha portato alla luce il caso di G., è una sentenza vergognosa. «Condannandola a 90 colpi di frusta, fanno passare il messaggio che è colpevole. Nessuna vittima di stupro lo è».
* l’Unità, Pubblicato il: 06.03.07, Modificato il: 06.03.07 alle ore 9.10
La violenza a Magnago, nel Milanese. La donna è stata colpita al volto con un pugno
«Il bar chiude». Stuprata e rapinata
La titolare aggredita: erano 5 albanesi. Picchiata anche la madre *
MILANO - «Cinque stranieri. Albanesi, sì albanesi. Erano entrati a bere. Birra, vino bianco, amari. Un po’ di tutto. Stavamo per chiudere il bar, abbiamo detto "Scusate, dovete andare". Sono salita al piano di sopra, dove abitiamo. La mamma mi avrebbe raggiunto di lì a poco, giusto il tempo di dare una pulitina al bancone. L’ho sentita urlare. Sono scesa di corsa. Uno la stava picchiando. Un altro mi è corso incontro, mi ha tirato un pugno sul naso. Sono caduta, non riuscivo a parlare, poi...». Poi, nel bar-tabaccheria di Magnago (Milano), gestito con la madre, l’hanno violentata. Mentre sanguinava per il colpo in viso. E sotto gli occhi della mamma, 75 anni, in ginocchio per il dolore. Le hanno fratturato alcune costole, è in ospedale.
La figlia, di 40 anni, è stata ricoverata e dimessa in giornata. Mercoledì scorso, a Caravaggio (Bergamo), Luigia Polloni, 63 anni, era stata strangolata nel bagno del colorificio dove lavorava. Si era opposta alla rapina di Vincenzo D’Errico, che ha confessato l’omicidio. Nemmeno una settimana dopo, un’altra rapina. Con stupro. Martedì, attorno alle 22, ecco le botte e gli abusi d’una banda che poi ha portato via soldi e tre stecche di sigarette. Ieri sera, la 40enne è tornata nel bar-tabacchi. Saracinesca abbassata. Luci accese. La vicinanza dei parenti. Il pellegrinaggio di quelli di Magnago - quasi ottomila abitanti in provincia di Milano - tornati davanti al bar-tabaccheria come nel febbraio 2002, quando due banditi avevano sparato a Luciano Pasello, un cliente che aveva reagito all’arrivo dei banditi tirando una sedia. Questa volta, non c’erano clienti. Il locale andava verso la chiusura.
I malviventi sono sì usciti, accogliendo la richiesta delle due donne, ma sono rientrati dal retro. Forse, all’esterno - ipotizzano i carabinieri di Legnano -, ce n’erano altri cinque, utili per coprire la fuga. «Sono scappati sempre dal retro, scavalcando la staccionata del giardino» racconta la 40enne, che chiede scusa per la voce: «Il naso è conciato male, faccio fatica a respirare e a parlare». La rapina nel 2002. La rapina con violenza in questo 2007. E, nel mezzo, nel 2003, il titolare del «Cavallino», un altro locale, aveva sparato e ucciso un malvivente. Ma perché così tanta violenza a Magnago? Dal Comune, dove comanda una lista civica tendente al centrodestra, provano ad analizzare: «Stiamo diventando una sorta di paese-dormitorio. Bisogna fare qualcosa. Però, di spedizioni contro gli stranieri non vogliamo sentir parlare». Paese-dormitorio. Magnago, dal ’90 a oggi, sta vivendo e vive un boom edilizio. «Non c’è nessuna emergenza - tengono a precisare i carabinieri -. Non c’è una criminalità con percentuali da incubo. Siamo pur sempre in un paese piccolo e in provincia». D’accordo. Però, adesso, c’è questa banda. Feroce. I banditi sarebbero già stati visti a Magnago. Ci sono le descrizioni delle vittime che hanno permesso di stilare buoni identikit. E soprattutto: il bar-tabaccheria è dotato di un sistema di videosorveglianza, le immagini sono state acquisite dagli inquirenti. «Speriamo li trovino» dice la figlia 40enne.
Andrea Galli
* Corriere della Sera, 08 marzo 2007