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Poco fedeli al Padre nostro - di Adriano Sofri - selezione a cura di Emiliano Morrone, già allievo del compianto prof. Federico Stella. Ricordo di un penalista atipico

Il cattolico Federico Stella fu un giurista problematico e coerente con la sua fede. E i suoi scritti sono un invito a rimettere in discussione le idee comuni sulla giustizia
sabato 24 febbraio 2007.
 

Federico Stella era nato nel 1935, è morto l’estate scorsa. È stato un prestigioso giurista, docente di diritto penale alla Cattolica e avvocato penalista. Grazie alle mie peripezie feci amicizia con lui a Milano, poi lo reincontrai a Venezia, dove, nell’aula accanto a quella in cui si perpetrava un mio processo, si celebrava quello per il Petrolchimico di Porto Marghera. Mi spiacque di trovarlo dalla parte dei padroni, benché sappia che tutti abbiano diritto alla miglior difesa, perfino i ricchi. Ricevevo in carcere i suoi libri e ne apprezzavo, da profano, la sapienza e la passione, come per Giustizia e modernità (Giuffrè). Ho letto ora, con qualche ritardo, il suo più agile e universale volume, uscito postumo per Il Mulino, dal titolo La giustizia e le ingiustizie, e mi affretto a consigliarlo, tanto più a ridosso delle discussioni così accanite degli ultimi tempi, sulla galera, l’indulto, la pena di morte. Fui già colpito qualche mese fa dalla recensione simpatizzante di Guido Rossi sul Corriere: «La società che vive fuori dalle mura del carcere tende a rimuovere la realtà sgradevole e considerare certi criminali malvagi e dunque diversi, raggiungendo l’indifferenza morale. Questo è senza dubbio il passo più toccante del saggio, una sorta di testamento dell’autore. Il senso è di una profonda sfiducia verso il diritto penale, che punisce, ma non ripara, e si rifugia nell’illusione (o nella finzione) della rieducazione del condannato. Ma, terminata la parte destruens, dal carcere, dalla sofferenza, Stella riparte per costruire la sua personale teoria della giustizia. Ed è l’esperimento di Kiran Bedi, la direttrice del carcere di Nuova Delhi, il fatto ispiratore. L’esperienza dell’introduzione della meditazione all’interno del carcere, raccontata nel bellissimo libro La coscienza di sé... Per Stella, la giustizia umana dovrebbe realizzarsi come immagine della giustizia divina».

Succede che studiosi avvezzi alla frequentazione teorica o professionale del basso fondo delle vite umane non arretrino di fronte a parole che perfino le vittime più travolte dalle ingiustizie esitano a formulare, per pudore o per paura di peggiorare la propria cattiva luce. Ascoltate, in tema di funzione della pena, un intervento di Giovanni Maria Flick alla Corte costituzionale, o di Luigi Conso in un convegno dei Lincei (cito non a caso due che furono ministri di Giustizia) e paragonateli alle invettive forcaiole che riempiono le pagine e le chiacchiere quotidiane, e vi chiederete in che mondo viviamo. Sentite Stella: «Io arrivo a dire che anche se avesse un senso la pena, se servisse a far diminuire la criminalità - e così non è - avrebbe ugualmente un costo troppo elevato in termini di sofferenza». C’è una vicinanza fra la nettezza di posizioni espresse dall’altezza ufficiale di cattedre dottrinali e morali e quelle che vengono dal basso, de profundis, di chi è schiacciato ma anche di chi conosce per pratica personale l’iniquità e l’inutilità del trattamento che è pure incaricato di infliggere; e questa vicinanza, benché quasi mai saldata e resa efficace, è una gran conferma della convinzione da cui Stella muove, che la giustizia sia difficilissima da definire fuori da una speranza distante, ma siano fin troppo facili a conoscere e soffrire le ingiustizie; e che l’astrazione della giustizia è perfino ingiuriosa se non scenda sulla terra delle concrete ingiustizie. Nemico del bigottismo, Stella era fervidamente cattolico, visitatore, con i suoi studenti, delle carceri e dei carcerati; inaugurava il suo corso annuale con la recita di una speciale preghiera. Agli esami poteva mettere da parte il Codice penale e interrogare sui Comandamenti. Gli sembrava che tutto si risolvesse in tre norme: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», «Non uccidere» e «Non rubare». Della pena di morte arrivò a denunciare anche la sola applicazione israeliana, contro Adolf Eichmann: «Bisogna avere il coraggio di dire che la condanna di Eichmann costituì una ingiustizia. Ciò fu chiaro fin dall’inizio, perché il dibattimento era inesistente: il giudice Landau era un cittadino di Israele, ed era da considerare parte lesa; la difesa non ebbe alcuna possibilità di azione».

Parole intransigenti, che io stesso non vorrei pronunciare, e che però venivano da uno che altrettanto intransigentemente si opponeva alla minimizzazione della Shoah. Proprio nel giudice della Corte suprema israeliana, Aharon Barak, Stella riconosceva il modello di una giustizia risoluta a riconoscere i diritti individuali di tutti, anche dei nemici. E forse bisognava ricordarsi, nelle discussioni dei giorni scorsi, che nell’Israele del processo a Eichmann la voce profetica di Martin Buber descrisse come un errore di portata storica l’esecuzione di Eichmann, pur dichiarando di non poter avere alcuna pietà per lui. Stella vede nella nostra storia una precipitazione, dalla nozione spesso offuscata e tradita, ma tuttavia tenace e fondante, della natura comune a tutte le creature umane, a quella dell’esistenza di un’umanità superflua ed eliminabile, che trionfa nel baratro degli stermini del secolo scorso (e mai finito), a quella d’oggi dell’insofferenza e della pulizia dalle «vite di scarto». Tormentato dall’idea di una giustizia non solo sognata come riparatrice (e ancor meno desiderata come vendicatrice), ma capace di proteggere le vittime future, Stella affidava le sue speranze (forti, fioche) alla «giustizia del primo passo», che si riassume nel riconoscimento dell’altro e nella riconciliazione. «A me sembra chiarissimo. Io l’ho detto anche a tanti prelati: "Vi rendete conto che noi diciamo il Padre nostro tutti i giorni e quindi tutti i giorni ripetiamo la frase rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Basterebbe solo questa riflessione per prendere atto di un’incoerenza totale della nostra vita e dell’opportunità di fare qualcosa».

di Adriano Sofri Su Panorama del 16/1/2007


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