L’università "democraticista"

Un interessante articolo del prof. Alberto Abruzzese sul quotidiano "Il Riformista" del 30 gennaio
mercoledì 31 gennaio 2007.
 

Corre aria di inchieste e reprimende sulle forme di corruzione dei dispositivi universitari. Ho ad esempio in mente quelle di recente realizzate dall’Espresso sul nepotismo di alcuni settori accademici in cui vincere un concorso risulta particolarmente redditizio. Ma è una vecchissima storia e forme di quel genere abbondavano assai più nel passato che nel presente. Per questo, entrando all’università li chiamavamo baroni. Credo che non possa essere sospettato di benevolenza nei confronti dell’istituzione in cui svolgo la mia professione di ricercatore e docente. Lo ho detto altre volte: tra i corrotti del mio sistema di appartenenza mi metto anche io e non ho difficoltà a dichiarare che, se volessi evitare di esserlo, me ne dovrei andare via (e non da una università piuttosto che da un’altra, ma da tutte). Sentimento che - sono sicuro - provano moltissimi miei colleghi, i quali, come me, restano inchiodati a un sistema di cui non condividono le regole e che anzi di queste regole sono costretti ad essere vittime e carnefici al tempo stesso. Tuttavia è raro che riesca ad apprezzare questo tipo di operazioni accusatorie e a non ricavarne, invece, un’impressione sgradevole e la conferma della superficialità con cui i media esercitano il loro potere di informazione senza disporre o voler disporre dei contenuti adeguati a farlo. Senza prendersi a carico, quindi, un ruolo critico che nessuno altrove sembra avere interesse o forse è in grado di adottare, indagando davvero nella sostanza sulle ragioni per cui l’università funziona male: né i politici, né il governo, né i ministeri deputati, né le organizzazioni accademiche. Sento già di nuovo lo sdegno della mia corporazione per quanto sto dichiarando: non è così - dicono molti miei colleghi - che si fanno gli interessi del mondo universitario, già così a lungo e intensamente messo alla prova da assenza di mezzi e da riforme incerte, male applicate quando non siano decisamente cattive, sbagliate. Magari hanno ragione: uno dei difetti maggiori del protagonismo politico e accademico è avere certezza nelle proprie routine mentali e pratiche. Dunque, provo di nuovo a spiegarmi. Non a giustificarmi, però, dal momento che potrei accettare un ripensamento se qualcuno accettasse di discutere: senza dialogo, le posizioni individuali non trovano l’alimento necessario a mutare. Dunque rischio anche di ripetermi.

La maggior parte delle critiche sui regimi universitari si fonda su conclamati valori e strumenti della democrazia. Ma proprio qui sta l’attuale perversione di tali intenti risanatori poiché questi stessi valori funzionano da legittimazione dei processi di corruzione delle linee di condotta collettive e individuali degli stessi apparati universitari. Impostando così il discorso, si può già cogliere il suo punto di arrivo. E lo anticipo. Consiste in una domanda e quindi in una scelta da compiere: una università diversa sarà possibile averla sperando di rigenerare i valori professionali di chi la abita e di chi la governa senza mutare radicalmente la macchina universitaria, quindi proprio tutti quegli organismi più o meno collegiali - decisionali ai vertici, deliberativi alla base, burocratici in ogni dove - che condizionano concorsi, ricerca scientifica, organizzazione della didattica? La mia risposta è no. O si cambiano le regole o saranno proprio le regole a portarci alla rovina. O si affoga in una malattia generalizzata oppure si inventano nuovi modi di garantire organizzazioni efficienti e produttive in grado di rimpiazzare ideologia e forme degli attuali organi collegiali (consigli di ateneo, consigli di amministrazione, consigli di facoltà e di corsi di laurea, direzioni di dipartimento e via dicendo). O ci si rassegna a continuare il massacro dei giovani che tentano di entrare all’università avendone i meriti e dei docenti che avrebbero pari ragione di vedere riconosciuta la loro carriera scientifica, salvaguardato il loro ruolo formativo, oppure si abolisce l’insanabile macchina dei concorsi. L’impianto storico dell’università non ha retto i mutamenti della società e più ancora dei linguaggi culturali, dei loro contenuti sociali. Ora il presente è andato troppo avanti rispetto alla sua storia passata. Persino il quadro concettuale della parola riforma non riesce a sostenere questo scavalcamento epocale. Badate bene, ho escluso dal dilemma chi continua a pensare che non debba essere messa in discussione l’etica professionale dei docenti e di quanti tra loro assurgono al ruolo di autorità accademiche. So bene che, per realismo, non dovrei praticare questa esclusione. Ma, prendendola in considerazione cadrei nello stesso errore, seppure rovesciato, di quanti, mettendo in rilievo i professionisti che "peccano", rafforzano per ciò stesso l’idea che, adottando epurazioni o correttivi, tutto tornerebbe a posto e la purezza del personale accademico potrebbe tornare immacolata. Non è vero e non può accadere perché la questione da affrontare è assai più complessa del semplice intoppo della macchina universitaria nei suoi singoli segmenti piramidali e orizzontali. La verità è che proprio i buoni intenti o comunque l’impegno di non pochi docenti sono stati il maggiore fattore di una dinamica di corruzione a crescita esponenziale.

Per voler fare ricerca, formare laureati in grado di godere della qualità necessaria ad entrare nel mercato del lavoro, fare crescere allievi e dare loro un futuro accademico, rendere competitiva la propria idea di insegnamento e di professionalità, intendere l’università non come un corpo separato ma come lo snodo di processi che investono globalmente le dinamiche di sviluppo del territorio in cui tale territorio è collocato, e dunque creare reti adeguate all’interno e all’estero dei recinti di cattedra, facoltà e ateneo, per riuscire a realizzare tutto questo non si poteva fare altro che utilizzare la macchina a disposizione. Null’altro che ricorrere al frutto storico, sedimentato, burocratizzato, solidificato con cui apparati in massima sostanza accentrati e autoritari erano stati formalizzati giuridicamente e statutariamente in una corazza democraticista assai più che realmente democratica. Le ultime riforme hanno portato all’esasperazione questa situazione: ogni posto di professore a contratto o di dottorando o di ricercatore o di direttore di dipartimento o di facoltà o di organismo di governo degli atenei e delle corporazioni o dei raggruppamenti disciplinari o dei consigli di amministrazione è diventato terreno di scambio tra gruppi di potere, terra fertile per l’acquisizione di nuovi poteri, possibilità di negoziare piccoli margini di ingresso da parte di poteri minori o nuovi. In questo senso mi dico corrotto anche io: ho portato a casa qualcosa, ho dovuto al tempo stesso legittimare molto di più ingrassando la borsa di altri. Mangi la minestra o salti dalla finestra. E - dal momento che l’astuzia non è delle colombe - andrebbe anche bene se almeno fosse stata rispettata una soglia di qualità (contenuti, persone, stili di vita) nell’imporre e accettare questo mercato, sfrenato e selvaggio quanto più la torta si è fatta piccola. Questa soglia, invece, si sta sempre più abbassando: vuol dire che la quota di scelte di merito, per avere una qualche possibilità di successo, deve ridurre sempre più le sue aspettative. Vuol dire che, a compiere scelte decisive in un momento così drammatico per noi e soprattutto per coloro per i quali lavoriamo, ci sono sempre di più persone dei "quartieri alti". In ogni diramazione della stampa, della televisione, dell’imprenditoria, della politica, questi docenti eccellenti sono sovrani (si mettano o meno in vista, a seconda delle loro inclinazioni e del loro calcolo o anche secondo le opportunità del caso): qualcuno di loro ha straordinarie doti strategiche e tattiche, e va detto che, al contrario dei loro colleghi dei "quartieri bassi", spesso si tratta di sofisticati conoscitori della macchina universitaria, infaticabili e espertissimi suoi artifici. Splendidi costruttori di trame, anche se svuotano dall’interno i palazzi che edificano, resi sicuri da un potere che nessuno è più in grado di togliere loro (potrebbe consentirlo solo l’annunciato ricambio generazionale di un prossimo massiccio pensiona mento, ma rischia di avvenire agli ultimi cancelli proprio delle generazioni in uscita). Ho fatto un sogno: un mondo nuovo in cui questi signori dell’università, grazie alla sicurezza acquisita nelle proprie trame di dominio, accettavano di inserire contenuti nello loro strategie e dare trasparenza alle loro relazioni sociali per iniziare finalmente un processo di riqualificazione delle istituzioni in cui occupano un peso così determinante. La politica a volte si è servita anche di queste svolte. Chissà che il mio sogno non possa avverarsi.

ALBERTO ABRUZZESE

Il Riformista 30/01/2007


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