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Il mercato comune europeo: il consumo culturale. "The Culture of the Europeans" di Donald Sassoon, recensito da Giovanna Zucconi.

sabato 30 dicembre 2006.
 
[...] Studiare «l’industria del piacere» culturale, significa anche capire perché alcune opere diventano bestseller, mentre miriadi di altre si affannano invano - come spermatozoi, dice Sassoon, che non fecondano ma sono indispensabili al processo creativo: «Che cosa funziona lo si sa soltanto dopo. Dal punto di vista di chi produce, l’innovazione costa: meglio ripetere, costringere Simenon alla sovraproduzione, inchiodare Conan Doyle al suo personaggio anche se tentò tante volte di uccidere Sherlock Holmes» [...]

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Leonardo o Dan Brown per me pari sono

Il consumo culturale in un saggio di provocazione "Inutile sottilizzare, non si è mai letto tanto"

di GIOVANNA ZUCCONI *

Produrre e consumare cultura è la principale occupazione degli europei, nessuno (sottolineiamo: nessuno) escluso. Ora che è stata pronunciata e dimostrata, dallo storico Donald Sassoon nel saggio The Culture of the Europeans, questa appare come una verità lampante. È una questione di sguardo: il re è nudo, ma soltanto quando qualcuno lo dice.

Altrettanto, proporre una mappatura della cultura europea dall’Ottocento a oggi in termini quantitativi anziché qualitativi, occupandosi di prodotti e mercato e non di sottigliezze estetiche, significa ridimensionare alcuni temi dominanti. Per esempio, distinguere fra cultura alta e bassa appare insensato, e altrettanto vacuo rimpiangere i bei tempi andati, quando i valori anche culturali erano chiari e solidi. Macchè: «Due secoli fa in Inghilterra un libro costava una sterlina e mezzo, quando lo stipendio di un domestico era di dieci sterline all’anno. Oggi costa come un biglietto della metropolitana, quindi tutti possono comprare libri». Oggi bastano tre ore e mezzo di lavoro a paga minima per comprare un tomo di 1600 pagine come The Culture of the Europeans di Donald Sassoon, pubblicato in settembre da Harper Collins: secondo Eric Hobsbawm, storico massimo, uno dei libri più importanti dell’anno.

Sassoon, che insegna storia europea comparata al Queen Mary College di Londra ed è appena stato in Italia per una lezione allo Iulm, non è nuovo a ricognizioni colossali. Suo è Cento anni di socialismo (Editori Riuniti), e l’idea che «alto» e «basso» siano categorie fallaci era già nel suo studio sulla Gioconda (Rizzoli): dipinto elitario diventato un’immagine popolarissima.

Ora Sassoon amplia e radicalizza quell’idea: la storia della cultura è per lui la storia di ciò che gli europei hanno «letto, visto, ascoltato» nel corso degli ultimi due secoli, la storia cioè di una straordinaria espansione. Intendendo per cultura, spiega, «un oggetto commerciale, che viene venduto e comprato. Se adesso le racconto una barzelletta non è cultura, se la racconto in un cabaret davanti a un pubblico pagante sì. La cultura degli europei è quella consumata dagli europei, anche se è prodotta altrove, per esempio negli Stati Uniti».

Con alcune omissioni dichiarate: lo sport, le arti figurative perché appartengono a un mercato speculativo, e in parte anche la televisione. Ottimo esempio, quest’ultima, di come contenuti e mezzi tecnologici abbiano avuto evoluzioni parallele ma non coincidenti: «Fiction e sit-com derivano dal teatro farsesco, i notiziari dalla stampa quotidiana. Fra il 1880 e il 1920 è avvenuta una rivoluzione culturale quanto ai mezzi di diffusione, che ha enormemente accelerato produzione e consumo, mentre per i contenuti c’è stata un’evoluzione senza strappi».

La riproducibilità tecnica è una rivoluzione, certo. Nel 1800 chi sentiva una sinfonia in una sala da concerto poteva riascoltarla soltanto dal vivo, magari anni dopo: oggi viaggia sempre con noi nell’ipod. «C’è più di tutto. In Gran Bretagna escono 120mila titoli all’anno, per sessanta milioni di abitanti: non ci sono mai stati così tanti libri per persona». A questo sguardo quantitativo, Jane Austen e Barbara Cartland si equivalgono.

Una posizione che ha provocato polemiche: «Mi hanno rimproverato di non avere scritto abbastanza di Proust. Ma qui non sono in gioco i valori artistici, né tantomeno i miei gusti personali: io sono uno storico, sarebbe come discutere se le crociate sono belle o brutte. La cultura alta è tale solo perché è così definita dall’élite che detiene appunto il privilegio della definizione. Oggi l’élite è più ampia e meno unita, per difendere i propri privilegi è tentata dal populismo. Ecco allora che c’è chi sostiene che le masse abbiano sempre ragione, dunque Barbara Cartland sia un genio, i Beatles meglio di Mozart, e Il Codice da Vinci un capolavoro. All’estremo opposto c’è chi, come Harold Bloom, stila elenchi della cultura “buona”: quella che piace a lui, e chi vuole appartenere all’élite si adegui».

Sassoon preferisce la terza via: studiare l’espansione dei mercati culturali, senza paragonare la media di oggi con l’élite del passato, come secondo lui fa Harold Bloom. «Quando ero studente», dice, «frequentava l’università il 5% della popolazione, adesso il 43%. È ovvio che la media si è abbassata. Però la Bbc ha trasmesso il Ring a puntate, l’hanno visto un milione di persone: Wagner se lo sognava. Negli ultimi decenni alcuni sono stati esclusi dalle tecnologie più recenti, ma nessuno dal consumo di cultura».

Studiare «l’industria del piacere» culturale, significa anche capire perché alcune opere diventano bestseller, mentre miriadi di altre si affannano invano - come spermatozoi, dice Sassoon, che non fecondano ma sono indispensabili al processo creativo: «Che cosa funziona lo si sa soltanto dopo. Dal punto di vista di chi produce, l’innovazione costa: meglio ripetere, costringere Simenon alla sovraproduzione, inchiodare Conan Doyle al suo personaggio anche se tentò tante volte di uccidere Sherlock Holmes».

Prodotti in serie, simili ma non identici al modello: il libri non sono mica come la Coca-Cola, con la sua formula immutabile. Anche per questo, secondo Sasson difficilmente arriveranno i cinesi: «L’egemonia è ancora americana, lì hanno tutto, da Pynchon a Dan Brown: come nei beni di consumo, chi è autosufficiente non importa. L’Italia non lo è, quindi importa e traduce moltissimo».

Ma davvero è così risolutivo che ci sia tanto di tutto? «Le gerarchie nei consumi ci saranno sempre, molti hanno un’utilitaria e pochi una Ferrari, molti leggono Harry Potter e pochi Proust. Però tutti possono farlo. Nel ’700 il viaggio in Italia era appannaggio dei nobili, nell’800 della borghesia, oggi anche gli operai vanno, magari a Rimini, ma vanno. E sono immensamente più colti dei loro bisnonni».

* La Stampa, 30/12/2006 (8:53)


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