Tra i temi filosofici e politici che tocca ultimamente chi scrive su questo giornale vorrei suggerire questo: il ruolo regressivo e parassitario svolto dalla buroocrazia amministrativa, a San Giovanni in Fiore e nel Sud-Italia in generale. Il Salvemini scrisse un libro su questo, il cui sostanzioso succo è: i lavoratori, la classe operaia e le altre classi lavoratrici sono tenute in Italia sotto gli artigli famelici non solo della borghesia capitalistica localizzata fisicamente in parte del territorio nazionale, dove ha impiantato e conduce industrie e il dominio del mercato del consumo delle merci materiali e spirituali, ma anche sotto la zampa famelica della borghesia burocratica. E’ questo il ceto peggiore della pluristratificata classe borghese italiana. E, infatti, non bisogna confondere nel concetto "classe borghese" ogni singolo concreto borghese perchè ve ne sono, e sono parte importante dei proprietari dei mezzi produttivi, di assai più progressivi e rivoluzionari di taluni operai stessi (aristocrazie e "borghesie" operaie). Questa borghesia oggettivamente rivoluzionaria è fatta dai medio e piccoli imprenditori, agricoli e non, dagli artigiani, dagli impegati e dai "collaboratori" intellettualmente sottooccoputati ecc. Questa borghesia sta con le classi lavoratrici, produce riproduce assieme a essi le condizioni materiali di base dell’intera sopravvivenza umana e si contrappone perciò radicalmente all’altra parte della borghesia conservatrice e reazionaria, nella quale i burocrati vegetano e prolificano grazie ai privilegi e guarentige e prebende che l’organizzazione sociale e politica della comunità loro accorda, e sguazzano in compagia dei commercianti, grandi e piccoli e dei medi e grandi capitalisti, su su fino ai capitani dell’industria e della finanza, alle banche.
Questi burocrati sono collocati nei livelli medi e superiori e nei primi si "toccano" con i borghesi piccoli piccoli, che popolano tutta la sfilza di gangli dell’immenso apparato amministrativo Statale, para-Statale, partitico, sindacale, delle "professioni liberali" ecc. non meno che delle istituzioni internazionali. L’antropologia di questi borghesi reazioni sarebbe un aspetto da sviscerare, senza scadere nell’immondezzaio delle anguste e fetide loro aspirazioni personali e di carriera. La loro psicologia e la loro personalità morale è altro aspetto assai importante. Si potrebbero fare microstorie grottesche e tragiche ma in ogni caso è necesario illuminare il nesso con l’assetto attuale del potere e la struttura della loro ideologia politica. Con Salvemini e oltre Salvemini si dovrebbe inquadrarli in una analisi concreta della situazione concreta, secondo quel punto di vista o criterio interpretativo della realtà storico-sociale.
Antonio Bitonti
Ancora sul cancro burocrazia. Prendo a prestito le parole di un anziano calabrese, che brillano per chiarezza e lucidità. Sintesi poderosa che mette in primo piano il ruolo della classe impiegatizia successore del padrontato agrario nelle nozze con il capitalismo italiano. E’ storia ciò che si legge, in quanto tale conoscenza critica e quanto più possibile obiettiva. L’ideologia non c’entra nulla.
Il titolo dello scritto è: La questione meridionale è lotta di classe, l’autore Nicola Zitata.
La vita degli uomini si svolge secondo due sistemi di regole, quelle naturali e quelle sociali (o storiche). Il concetto, secondo cui lo svolgimento storico della società umana è il frutto della eterna lotta politica fra le classi sociali per affermare l’ordinamento giuridico (politico, lo Stato) più favorevole, si basa sulla premessa che il vincolo da cui gli uomini sono legati l’uno a l’altro è la produzione dei beni che soddisfano i loro bisogni (naturali e storici). Le classi si rivelano nella produzione. Ci sono infatti i lavoratori e i padroni. Non è detto che il padrone non lavori. Il concetto basilare del marxismo è invece che il lavoratore lavora per sé e per il padrone. Per il marxismo non è vero il concetto opposto, secondo cui è il padrone (il capitale) che provvede al lavoratore. La carità, come si chiamava fino a qualche decennio fa, o la solidarietà, come si dice oggi, non riguarda la produzione, ma solo il consumo (dei prodotti). Se utilizziamo lo schema marxiano della storia sociale, non è difficile spiegarsi perché il Sud italiano non fa un passo avanti e invece fa ininterrottamente dei lunghi passi indietro. Quando, 140 anni fa Napoleone III, imperatore dei Francesi, vinse l’Impero Austriaco sulla pianura lombarda, nella seconda guerra cosiddetta d’indipendenza, al Sud era in atto una dura lotta politica, che spesso arrivava allo scontro cruento, tra padronato fondiario e contadini; scontro che non verteva più (come era avvenuto fino a qualche decennio prima) sull’uso delle terre demaniali della Chiesa e dei comuni, ma su chi doveva impossessarsi di dette terre. Il governo borbonico, non voleva andare contro i contadini, sempre leali verso la dinastia, e cercava in tutti i modi di rimandare la decisione a favore del padronato, conformemente a ciò che era avvenuto in Gran Bretagna, in Francia e prima ancora nell’Italia toscopadana. Sconfitta l’Austria, il padronato meridionale tradì i Borbone e si dette in mano ai Savoia, certi che il governo torinese, coperto da Napoleone III e da Sua Maestà Britannica, avrebbe appoggiato le sue rivendicazioni fondiarie e lo avrebbe difeso dalla giusta rabbia dei contadini. I piemontesi domarono l’insurrezione contadina con il ferro e con il fuoco (rifulsero allora le gloriose vittorie del generale Lamarmora e dell’ancor più grande generale Cialdini) e dettero le terre demaniali ai padroni, dopo avere incassato una specie di tangente (fu una banca torinese a vendere patriotticamente ai meridionali il loro demanio ecclesiastico e il loro demanio comunale). L’alleanza tra padronato meridionale e governo piemontese (il blocco storico di Gramsci) comportò un secondo costo, rappresentato dall’azzeramento dell’industria e della manifattura meridionali, in modo che la manifattura, la banca e il commercio toscopadano potessero riconquistare il Sud (c’è infatti da precisare che prima dell’arrivo dei Borbone-Farnese a Napoli e in Sicilia, cioè al tempo della dominazione spagnola, per ben cinque secoli il Sud era stato una specie di colonia degli usurai genovesi e fiorentini). Il padronato pagò questo prezzo senza battere ciglio. L’ex Regno di Napoli e Sicilia arretrò di cinque secoli in pochi mesi, perdendo tutto quello che i Borbone erano riusciti a edificare economicamente, militarmente, culturalmente e socialmente. E perdette anche l’indipendenza della classe politica, essendo essa divenuta un alleato subalterno dei piemontesi (o meglio dell’esercito piemontese). Al tempo del cosiddetto Risorgimento, tutti i paesi civili d’Europa erano impegnati a imitare la Rivoluzione industriale britannica. In conseguenza del rivolgimento sociale, che la crescita industriale andava producendo, la rendita agraria si avviò sulla strada del tramonto. Il prezzo del grano e del granturco, in arrivo dall’America e dall’Australia sulle (allora) nuove navi a vapore, cadde fragorosamente. L’agricoltura europea entrò in crisi. Entrarono in crisi anche tutti i paesi e le regioni non industrializzati (sottosviluppo). I proprietari persero il loro secolare ruolo sociale e il carattere di classe dominante. Intanto l’originario gruppo dirigente risorgimentale, guidato dagli speculatori liguri e toscani, dal re e dai generali piemontesi, si allargava ai lombardi, agli emiliani e alla nobiltà romana. Tale assemblaggio partorì faticosamente un mezzo sistema industriale che, attraverso la spesa statale, si andò localizzando nel famoso Triangolo industriale Genova - Milano - Torino e poté decollare utilizzando le rimesse valutarie degli emigrati in America. Ma con la Prima Guerra Mondiale, queste vennero meno. Allora il nostro grandioso e immarcescibile capitalismo padano passò a taglieggiare più fortemente il Sud. Il nesso va spiegato. Nel mondo dell’agricoltura elementare, il padrone trae la sua ricchezza dal lavoro bruto. Più terra ha, un maggior numero di contadini gli conferirà una parte del prodotto. Nel mondo dell’industria, il numero conta molto meno. I capitalisti sono in concorrenza fra loro. Quelli che non riescono ad aumentare la quota di capitale che ciascun operaio mette in moto, falliscono. In tale sistema, il capitale è decisivo. Ora, mentre l’Inghilterra e la Francia il capitale fresco lo ricavavano dal commercio coloniale, l’Italia toscopadana non aveva colonie da sfruttare. Cosicché, per rifornirsi di capitale fresco, ridusse a colonia il Sud. In pratica si ebbe il saccheggio tributario dell’agricoltura, la vendita di uomini a paesi stranieri (l’emigrazione), il drenaggio di ogni lira risparmiata (depositi postali), il saccheggio del valore delle esportazioni (le maggiori esportazioni erano la seta, l’olio, il vino, gli agrumi), la negazione di infrastrutture moderne. Tranne la bretella Napoli - Salerno, cresciuta industrialmente d’impeto e per forza propria (Cirio), in virtù della domanda di beni alimentari della tradizione proveniente dall’emigrazione americana, il Sud rimase un paese agricolo e con una classe dirigente fortemente vacillante, perché in declino economico. Lo Stato nordista, uscito dal cosiddetto Risorgimento, si vide costretto a trovare un rimpiazzo. Sul finire della Prima Guerra Mondiale e lungo il periodo fascista, la classe impiegatizia assunse a pieno titolo il posto di classe dirigente del Sud. La Massoneria mondiale e la Chiesa cattolica benedissero la patriottica successione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i governi centristi elaborarono una fine politica fondata sul clientelismo (per aiutare la nuova classe dirigente a tenere sotto mazza i disoccupati), e di assistenzialismo, per ottenere keynesianamente un allargamento degli sbocchi industriali (ma per la verità anche pace e giustizia sociale). Ora, questa nuova classe post-risorgimentale, mussoliniana e consociativista non ha la sua base economica nella produzione meridionale (come gli agrari), ma nella spesa statale per stipendi e sostegno al clientelismo. Nello scontro stronzobossista per scaricare il Sud, è questa la classe chiamata a pagare. La motivazione profonda del suo garibaldinismo fuori stagione (o se si vuole ciampismo) risiede, appunto, in questo maldestro e vile tentativo di Si salvi chi può. Che poi lo stronzobossismo possa far nascere qualcosa di positivo al Sud è la classica battuta sul fesso. Il Sud è destinato alla totale catastrofe. Pur avendo uomini capaci di produrre ai più alti livelli, pur essendo così pieno di soldi da doverli spedire al Nord perché li utilizzi, il Sud non ha un suo Stato, e quindi non ha una classe dirigente nazional-merdionale. Non ha banche, non ha borse, non ha un pensiero che possa dirsi suo. Ha solo ascari, venduti al Nord per un po’ di privilegi sociali e molto fumo. Ha una popolazione sfiduciata, dedita al delitto, all’imbroglio, all’intrallazzo, senza fede in sé e negli altri, che vive nel degrado e nell’ignoranza, che si vende al primo offerente. Non un popolo, non una nazione, ma un ammasso di popolazione; una bidonville senza morti di fame, che si stende da Gaeta a Porto Empedocle; un paese di portoricani con la pelle bianca, che staziona tra i sedimenti di tremila anni di civiltà, i resti dei templi magnogreci e le impareggiabili bellezze della natura felix.