Come in cielo così in terra. Mozart va a messa in San Pietro
La mattina di domenica 19 novembre Wolfgang Amadeus Mozart scenderà nuovamente dal cielo nella basilica di San Pietro in Vaticano per la terza esecuzione negli ultimi ventun anni della sua Messa dell’Incoronazione K 317.
Attenti: non di esecuzione concertistica si tratta, ma di sacra liturgia. A celebrare la messa nella basilica papale sarà il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn. Quanto a papa Benedetto XVI, difficile che non si unisca anche lui alla celebrazione.
Come già le due volte precedenti, anche questa volta ad accompagnare la messa in San Pietro saranno i Wiener Philarmoniker. Nel 1985 li diresse Herbert von Karajan, nel 2000 Riccardo Muti e ora li dirigerà Leopold Hager.
La messa del 19 novembre sarà il momento culminante, quest’anno, del Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra che ogni autunno fa risuonare nelle grandi basiliche romane i capolavori della musica sacra cristiana, con orchestre, direttori e cantanti di fama mondiale.
I Wiener Philarmoniker non mancano mai all’appuntamento. Ci saranno anche l’anno prossimo: l’11 ottobre 2007 eseguiranno il Requiem di Giuseppe Verdi.
Il programma di quest’anno è invece tutto mozartiano e lo puoi leggere nel sito della fondazione che promuove il festival, giunto alla V edizione: “Fondazione pro Musica e Arte Sacra“.
Della musica s’è detto. Quanto all’arte, la fondazione finanzia ogni anno restauri di parti delle basiliche romane. Questa volta alcune architetture della necropoli romana che sta sotto al pavimento della basilica di San Pietro, dove fu sepolto l’apostolo.
SALVARE LA DEMOCRAZIA
IL MONOTEISMO DELLA LEGGE NON E’ IL MONOTEISMO DEL FARAONE!!!
di Federico La Sala
Caro Direttore *
A proposito della democrazia, della Costituzione innanzitutto, e della Giustizia, trovo il modo di ragionare di molti (anche a sinistra) alquanto strano o semplicemente in mala fede: essi pensano che destra e sinistra siano la stessa cosa e ciò che vale per Dell’Utri oggi, domani varrà anche per D’Alema e Prodi... Personalmente penso che le cose non stiano affatto così e, se pure, ci possono essere stati nel passato cedimenti o errori, le cose non sono state mai così: a partire almeno da Socrate e a finire almeno a don Milani! Il problema è (e lo è stato sempre) la Legge e le regole della Legge, e le persone che si chiamino A o B o C o D .............o Z che vogliono mettersi al posto della Legge e dettare Lor Signori le regole della Legge!!!!!! Che si chiamino "Bonifacio VIII" o "Giovanni Paolo II" è lo stesso!!! Il monoteismo della Legge non è il monoteismo del Faraone di turno, di una persona che si chiami oggi Berlusconi, Dell’Utri, Previti, o domani D’Alema o Prodi!!!
Nessun essere umano è Dio, nemmeno Cristo!!! E’ vero: siamo tutti e tutte figli e figlie di Dio, ma nessuno è Dio!!! Chi - personalmente - osa tanto da cadere nella tentazione di porsi al di sopra di Tutto è solo un ’povero’ Dio-volo!!!
La lezione di Eraclito come di Parmenide, come di Socrate, così come di Gesù e di Marx (nonostante la sua cecità edipica), è eterna. Chi è come Dio?!! La grande saggezza l’ha sempre detto: "se sulla tua strada in contri il Buddha, uccidilo". E ciò non ha mai significato né la distruzione dell’altro né della Legge, ma anzi il rifiuto di farsi servo di altri esseri umani e ubbidire solo alla propria coscienza (e alla Legge e alla Legge di Dio) e testimoniare - anche pagando di persona - che si vuole la legge migliore, che si ama la legge più degli altri. Detto altrimenti, è la democratica "tecnica dell’amore costruttivo per la legge", esercitata da don Milani "nei confronti delle leggi e delle autorità della Chiesa" e insegnata ai suoi "ammirevoli figlioli. Ottimi cittadini e ottimi cristiani". Teniamolo presente, e non perdiamo l’unica "stella" che ci può guidare nella notte degli imbrogli della nostra vita democratica di cittadini sovrani e di cittadine sovrane. Cerchiamo di non ’ritornare in Egitto’!!!
Federico La Sala
* www.ildialogo.org/, Lunedì, 20 dicembre 2004.
MOZART, Requiem (K 626):
DIES IRAE (Coro)
(dal "Requiem")
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
di Giulio Busi *
«Indietro»! Tamino si è imbattuto in tre grandi porte. Prova a entrare da quella di destra, e poi da quella a sinistra, solo per esserne scacciato da una voce minacciosa. Finalmente si aprono per lui i battenti della terza porta. Ad accoglierlo c’è un anziano sacerdote, che lo apostrofa con un misto di curiosità e diffidenza: «Dove vuoi andare audace forestiero? Cosa cerchi qui nel tempio?». La risposta di Tamino è immediata, ingenua, ardita: «Il regno dell’amore e della virtù».
La scena dei tre portali, nel primo atto del Flauto magico di Mozart, non è solo un espediente per rendere più movimentata la peripezia del protagonista, alla ricerca di Pamina, che non ha ancora incontrato ma già ama: i tre portali, che costringono l’eroe ad arrestarsi e a dimostrare il proprio valore, sono il simbolo di un’avventura sapienziale che accompagna la cultura europea sin dal Rinascimento italiano. Davanti a tre ingressi, del tutto simili a questi mozartiani, si era fermato dubbioso Poliphilo, nella Hypnerotomachia del frate Francesco Colonna, pubblicata nel 1499. Nell’incunabolo aldino dell’opera, al di sopra di ciascun passaggio, si legge in quattro lingue - arabo, ebraico, greco e latino - il nome di un diverso dominio: «Gloria di Dio», «Madre dell’amore», «Gloria del mondo». Poliphilo, come Tamino, cerca l’amore di una donna, Polia, e, attraverso di quello, vuol comprendere se stesso. Anche l’eroe quattrocentesco ottiene di varcare una delle tre soglie, per poi trovarsi di fronte a ulteriori prove, col rischio di perdere la vita e la ragione.
La somiglianza tra i due episodi non è casuale: un filo nascosto di erudizione e di esoterismo lega la Venezia del Colonna alla Vienna di Mozart e di Emanuel Schikaneder, l’autore del libretto. A far da mediatore tra i due estremi, tra la lotta d’amore in sogno dell’umanista italiano e l’utopia illuministica del Flauto magico è probabilmente un celebre testo del primo Seicento, le Nozze alchemiche, dedicate all’unione tra principio maschile e femminile. In quest’opera è Christian Rosenkreuz, l’eroe in viaggio verso il segreto della trasmutazione dei metalli, a dover superare tre cancelli, che difendono la scienza da occhi profani. La domanda è sempre la stessa. Come varcare la soglia proibita e addentrarsi al di là delle apparenze? In che modo raggiungere «il regno dell’amore e della virtù»?
Colonna, frate invero poco ortodosso e ancor meno casto, cerca la risposta nel piacere sensuale e nei riti neopagani, mentre l’anonimo autore delle Nozze alchemiche propone una raffinata e oscura allegoria d’iniziazione. Dopo la critica radicale della religione portata dall’Illuminismo, Mozart e Schikaneder scelgono un registro espressivo più lieve, ma non per questo meno carico di allusioni erudite. Il tempio in cui Tamino è riuscito a penetrare si rivela una vera macchina simbolica. Sotto la guida del re-sacerdote Sarastro (nome che evoca la pronuncia italiana di "Zoroastro"), gli iniziati si muovono in uno spazio denso di riferimenti all’antica tradizione ermetica. Loro numi tutelari sono Osiride e Iside, sul seggio su cui siedono in assemblea è collocata «una piramide assieme a un corno nero incastonato d’oro», mentre altre «piramidi diroccate, resti di colonne e porte egizie» riempiono l’atrio del santuario. E, ancora, i sacerdoti portano in processione «sulle spalle, una piramide illuminata, e in mano, una piramide trasparente della grandezza di una lanterna».
Per Mozart e per il suo librettista, e per gli spettatori che assistono alla prima dell’opera, il 30 settembre 1791, questi decori sono più che semplici elementi scenografici. L’Egitto, le piramidi, i riti compiuti in nome di Osiride evocano un dibattito che appassiona e divide in quegli anni la capitale asburgica e l’Europa intera. Sia Mozart sia Schikaneder sono convinti massoni (così come lo è Carl Ludwig Giesecke, che forse ebbe parte nella stesura del libretto), ed è proprio ripercorrendo la vita intellettuale delle logge viennesi che è possibile recuperare motivazioni ed echi formali altrimenti per noi inafferrabili.
Un’ottima occasione è data dall’edizione italiana di un libro quasi dimenticato di Carl Leonhard Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa. Viennese anch’egli, prima gesuita poi passato al protestantesimo, entrò nel 1783 nella loggia «Alla vera concordia» (Zum wahren Eintracht), alle cui sedute partecipava spesso Mozart (affiliato alla «Carità» - Zur Wohltätigkeit). Alla guida della loggia era Ignaz von Born, a cui forse è ispirato il personaggio di Sarastro. E su invito di von Born, tra il 1786 e il 1787 Reinhold scrisse I misteri ebraici. L’opera è una revisione, audace e provocatoria, della figura di Mosè. Principe iniziato ai misteri egizi, Mosè avrebbe deciso di usare i segreti rituali della religione di Osiride e Iside per guidare la propria gente nell’esodo dalla terra dei faraoni. Così, grazie a uno stratagemma di natura essenzialmente politica, quello ebraico sarebbe stato l’unico popolo dell’antichità a ricevere in massa una rivelazione destinata di norma solo a una ristretta élite di sapienti. Reinhold non è certo tenero verso gli ebrei, definiti sprezzantemente «nomadi selvaggi» e ignoranti.
Quello che gli interessa è il nucleo di conoscenze che si cela dietro i loro riti. Per lui, e per i confratelli massoni a cui è rivolto il libro, la liturgia ebraica, dai gesti e dagli abiti del sommo sacerdote sino agli arredi del tempio, racchiude un messaggio salvifico che proviene dall’Egitto, e di cui, nei secoli, si è persa la chiave. Con un termine che torna insistentemente nel libro, Reinhold chiama «geroglifici» i precetti e i paramenti rituali descritti nella Bibbia. Il suo lavoro vuole decifrare, in senso massonico, il significato occulto dei cerimoniali, per accedere alla verità, oscurata dalla superstizione e dall’oblio. Anche il Dio ebraico è ridefinito in termini egizi. «Io sono colui che sono», pronunciato dal roveto ardente, è interpretato come l’equivalente del motto inciso - secondo la testimonianza di Plutarco - sull’immagine di Iside a Sais: «Io sono tutto ciò che è stato, che è, e che sarà. Nessun mortale mai sollevò il mio peplo». Scopo del sapiente sarà allora alzare il drappo, che rende invisibile l’essenza del divino.
Un insegnamento, questo di Reinhold, che influenzò profondamente la cultura di fine Settecento. Tamino, nel Flauto magico, dimostra di aver compreso a che cosa deve rivolgersi l’iniziato. «Ma quando cadrà il velo?», chiede infatti, impaziente, al sacerdote, che gli risponde: «Appena la mano dell’amicizia ticondurrà nel tempio, verso il vincolo eterno». Dopo aver superato le prove che Sarastro gli ha imposto, Tamino ottiene finalmente l’unione con Pamina, e il coro celebra il suo successo:«La consacrazione d’Iside ora è tua! Venite! Entrate nel tempio». E se poi la rivelazione del divino diviene una conquista d’amore, tanto meglio per la coppia mozartiana, con buona pace dell’austero Reinhold.
* Carl Leonhard Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa, introduzione di Jan Assmann, a cura e con un saggio di Gianluca Paolucci, Quodlibet, Macerata, pagg. 258, € 18,00
* Il Sole 24 Ore, 27.11.2011
A difesa della teologia della liberazione
Una nota di Federico La Sala, su un articolo di Avvenire *
Certo che non è “Dio”, l’oppio dei popoli !!! Ma chi si mette la maschera di Dio, mette paletti e filo spinato intorno alla terra, al cielo, al mare, al sole, e dice “questo è mio”! Non avendo capito che il primo maestro del sospetto è J.-J. Rousseau e che è lui (in una triplice fedeltà - a se stesso, alla natura, e a Dio) a proporre - per la prima volta, e in assoluto (dopo Gesù) - l’uscita dalla logica ‘naturale’ dei campi di recinzione e a concepire il valore positivo e fondante dell’alienazione, per una costituzione e una società aperta e democratica - all’altezza della dignità di tutti gli esseri umani, è ovvio che non si capisce un’acca della radicale critica di Marx, Nietzsche e Freud e si continua solo a... fare apologia di fondamentalismo economico e teologico, di monopolio della verità, e di barbarie. E, cosa ancora più grave, a non far capire più qual è la differenza tra Mosé e il Faraone, tra “Dio” e “Mammona”!!! Questo è il peccato ... e il peccato più grande, contro la buona-notizia e contro la teologia della liberazione!!! (federico la sala).
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RIFLESSIONI
Fin dall’inizio del pontificato, Benedetto XVI ha ripreso una parola cara ai filosofi moderni: l’«alienazione». Rovesciandone però la teoria, come già aveva fatto Giovanni Paolo II
Ma non è Dio l’oppio dei popoli
Marx, Freud e Nietzsche sbagliano: non è la religione ad «alienare» l’uomo ma il peccato, che lo allontana da se stesso e dagli altri
di Pier Luigi Fornari (Avvenire, 18.05.2005)
Nella limpida spiegazione dei segni liturgici che hanno caratterizzato la Messa di inizio del pontificato, Benedetto XVI ha incastonato anche (per tre volte) un termine denso di richiami alla cultura filosofica degli ultimi secoli: l’alienazione (da noi sottolineato con un corsivo, ndr). Nella missione del «pescatore di uomini», ha detto citando i Padri, accade il contrario di ciò che avviene con i pesci: «Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. È proprio così - nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio».
A veder bene l’uso del termine "alienazione" non è una concessione alla modernità, ma la riappropriazione di un patrimonio sottratto al magistero della Chiesa. È cioè la capacità di descrivere ed interpretare l’esperienza di perdita di se stesso vissuta, in qualche modo, da ogni uomo. Il recupero di questa chiave ermeneutica è quindi un’operazione di grande portata culturale che accomuna Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. «La teoria della alienazione dev’essere rovesciata», ammoniva già Papa Wojtyla in una catechesi sul peccato, nell’ambito delle udienze dedicate al Credo (12 novembre 1986). Infatti il Santo Padre riscontrava nelle parole tentatrici del serpente, riferite dal capitolo III della Genesi, la prima formulazione di un criterio opposto di interpretazione: «Il criterio cioè secondo cui Dio è "alienante" per l’uomo, così che questi, se vuol essere se stesso, deve farla finita con Dio (cfr. Feuerbach, Marx, Nietzsche)». Un criterio «a cui in seguito l’uomo peccatore ricorrerà tante volte nel tentativo di affermare se stesso o addirittura di crearsi un’etica senza Dio». E i nfatti "alienazione" è termine strategico nella scalata al cielo operata dalla modernità. Emblematica di tale costellazione culturale è la versione marxiana. La teoria della alienazione del pensatore di Treviri, esplicitata soprattutto negli scritti giovanili, ha una duplice valenza. L’uomo è alienato dal fatto che esiste un altro da lui: l’Altro che è Dio, e l’altro che è l’altro uomo. Il rapporto tra uomo e uomo è mosso solo dall’interesse, fintantoché non si giunga al comunismo (compiuta negazione di Dio, e superamento della condizione di limite). Solo allora gli uomini potranno avere tra loro un rapporto altruistico. L’antropologia marxiana è antagonistica. Proverbiale la traduzione che ne ha fatta Jean Paul Sartre: «L’inferno è l’altro». «Ma se si vuol guardare alla realtà senza pregiudizi e chiamare le cose col loro nome - ammoniva Giovanni Paolo II in quella catechesi dell’80 - dobbiamo dire francamente che alla luce della rivelazione e della fede, la teoria dell’alienazione dev’essere rovesciata. Ciò che porta all’alienazione dell’uomo è proprio il peccato, è unicamente il peccato!». Triplice è la conseguenza di questa rottura del rapporto di amore con Dio: «L’alienazione del peccatore da se stesso (cfr. Sal 57,4: "alienati sunt peccatores ab utero"), da Dio (cfr. Ez 14,7: "[qui] alienatus fuerit a me"; Ef 4,18: "alienati a vita Dei"), dalla comunità (cfr. Ef 2,12: "alienati a conversatione Israel")». Questo ripristino di una antica chiave di interpretazione era stato pochi mesi prima (22 marzo 1986) anche elemento strategico nella istruzione Libertatis conscientia del prefetto della Congregazione per la Fede, Joseph Ratzinger. Il documento esplicitava i principi sui quali era stata redatta la Libertatis Nuntius(l’istruzione sulla teologia della liberazione). «Per molti Dio stesso sarebbe l’alienazione specifica dell’uomo», ammoniva la Libertatis conscientia (n.18). Ma aggiung eva (n.37): «Volendo liberarsi di Dio ed essere lui stesso dio, egli si inganna e si distrugge. Egli si aliena da se stesso». E l’intero punto successivo (n. 38) era dedicato a "Il peccato, radice delle alienazioni umane". Poco prima (n.32) si ristabiliva la corretta antropologia: «Dio non ha creato l’uomo come un "essere solitario", ma lo ha voluto come un "essere sociale. La vita sociale non è, dunque, estrinseca all’uomo». Anni dopo (1991), la Centesimus Annus individuava l’impatto alienante del peccato nell’incapacità di «trascendere se stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità umana». Ma questa riappropriazione filosofica era in germe fin dalla prima enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor Hominisdel 1979, nella quale il Papa citava due volte il termine alienazione. Ma si evidenziava in una omelia della domenica in Albis del 1980 (con le stesse letture dell’ultima messa a cui Giovanni Paolo II ha assistito) pronunciata in una Torino ancora piagata dal terrorismo. Il Santo Padre individuava nel criterio di interpretazione dettato dal peccato la causa della vera alienazione, della morte ontica dell’uomo: «L’uomo toglie a Dio se stesso e il mondo. E chiama ciò "liberazione dell’alienazione religiosa"». Perché dunque adesso ha paura? «Forse addirittura - aggiungeva - perché, in conseguenza di questa sua negazione di Dio, in ultima analisi, rimane solo: metafisicamente solo». Questi tempi, ammoniva Giovanni Paolo II, «in cui si è operata la prospettiva della "morte dell’uomo" nata dalla "morte di Dio"», proprio questi tempi «esigono, in modo particolare, la verità sulla risurrezione del Crocifisso. Esigono pure la testimonianza della risurrezione, che sia eloquente come non mai prima». E così concludeva il Santo Padre: «La Chiesa intera annunzia oggi a tutti gli uomini la gioia pasquale nella quale risuona la vittoria sul timore dell’uomo. Sul timore delle coscienze umane nato dal peccato».
* www.ildialogo.org/filosofia, Mercoledì, 18 maggio 2005
Ma perchè l’Italia non è una società aperta e democratica ? Aborto, divorzio, droga, sesso (10 milioni di "puttanieri" sulle nostre strade! Alla faccia di don Benzi !!), manifestazioni libere di omosessuali e transgender e fra poco: eutanasia, PACS, fecondazione assistita, ecc. ecc..
Ma quale mascheramento ? Ma quale teologia della liberazione ?? Più LIBERI E FELICI di così....
Massone o cristiano? A 40 anni dalla morte del principe dei comici, un’indagine sulla sua religiosità, più o meno conclamata
Il mistero di Totò
Portava sempre con sé una copia del Vangelo. In punto di morte, secondo la figlia, disse: «Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano». Ma pochi studi sono stati fatti per esplorare il suo rapporto con la trascendenza. Si confrontò sempre con la questione della morte
di Marco Roncalli (Avvenire, 14.04.2007)
A giudicare dalla sua popolarità, dall’attualità delle sue battute ancor graffianti, dalla mimica inconfondibile, dai tanti libri dedicatigli, non si può dire che, quarant’anni fa, Totò sia uscito di scena. Semmai, proprio a partire da quel 15 aprile 1967 - data del suo addio al mondo - Antonio de Curtis cominciò a ritagliarsi il suo piccolo scanno nel Pantheon delle glorie patrie e, superando i confini dell’arcipelago cinema-teatro-televisione (sì perché, come lui diceva, «ogni limite ha una pazienza!»), entrò per sempre nell’immaginario di tanti estimatori: vecchi e nuovi, egualmente sedotti da quel suo volto - di «serenissimo buffone» (Goffredo Fofi) o di «Arlecchino del ’900» (Dario Fo) - diventato un po’ maschera e un po’ icona. Destino singolare, quello toccato al comico italiano dall’insuperabile carica istintiva, «grillo del focolare per ogni famiglia» (Volponi), pronto a sbeffeggiare tutti (sé stesso compreso), cuoco monarca della risata capace di mettere d’accordo democraticamente tutti i palati: senza barriere di censo, cultura, estrazione sociale, età.
Sì, come scrisse Fellini, Totò è sfuggito alla trappola del tempo. Così come prima aveva dribblato da artista quella delle ideologie. Chi allora avrebbe puntato sulla sopravvivenza dello «Charlot dei poveri» come lo definirono certi critici?
Ha ragione chi sostiene che per certi versi Totò è ancora un mistero, mentre si conosce quasi tutto dei suoi film (analizzati anche da intellettuali e linguisti), della sua vita di uomo e di attore (anche se a Oriana Fallaci disse di essere solo «un venditore di chiacchiere»). Eppure qualche sorpresa potrebbe ancora arrivare. E se qualche piccolo tassello al mosaico del suo itinerario artistico andrà al suo posto - tra una proiezione e l’altra - con gli eventi programmati nella capitale (a partire dall’esposizione curata dalla nipote Diana de Curtis Un principe chiamato Totò apertasi a Palazzo Venezia) - ma anche a Napoli (dove al quarantennale è dedicata la mostra Dal baule di Totò con tanti oggetti compresa una copia del Vangelo che sempre portava con sé), nell’attesa che l’ottobrina Festa del Cinema di Roma presenti l’annunciato documentario ricco di curiosità (le lettere d’amore, il primo provino con impressa la dicitura «non adatto al cinema», i fumetti ideati in età giovanile), resta una cosa da approfondire.
Parliamo dell’approccio con la morte e il trascendente del teorico della «livella» :«A morte ’o ssaje ched’è? ... è una livella», sin qui interpretata nel suo legarsi alla simbologia della terra, nella sua orizzontalità compiuta. Magari legandolo prima all’addio di Totò attore di cinema «di cassetta», ma anche diretto da Rossellini (La paura), De Sica (L’oro di Napoli), Monicelli (Guardie e ladri), Bolognini (Arrangiatevi!), Pasolini (Uccellacci e uccellini).
E poi all’addio del Totò filantropo che di notte scendeva con l’autista nei rioni più fatiscenti di Napoli e infilava un bel bigliettone di vecchie lire sotto la porta di una famiglia povera scelta a caso (oppure che pagava bravi avvocati a detenuti senza soldi). La cronaca della morte di Totò invece è stata raccontata tante volte. Il 13 aprile, abbandonato il set, si sentì male. Lo disse a Carlo Cafiero che lo accompagnava a casa in auto. Lo disse all’amata Franca Faldini che viveva con lui (gli altri grandi amore furono Liliana Castagnola e la moglie Diana). E Franca subito chiamò il medico. Invano.
La sera dopo formicolìì al braccio sinistro forieri di brutti presagi. Il tempo di avvertire e veder giungere la figlia Liliana, il cardiologo Guidotti, il cugino-segretario Eduardo Clemente e nella notte l’infarto che fulminò. Ore tre e venticinque del 15 aprile 1967. Con un piccolo giallo però mai risolto. Nessuno ha mai discusso le frasi rivolte al cardiologo «Professò, vi prego lasciatemi morire. Fatelo per la stima che vi porto».
O quelle rivolte al cugino «Eduà, Eduà mi raccomando. Quella promessa: portami a Napoli». Piuttosto non c’è concordanza sulle sue ultime parole (tema alla ribalta in questi giorni in Germania per il libro di Hans Halter Ich habe meine sache hier getan edito da Bloomsbury e tutto dedicato agli addii dei personaggi più celebri).
Furono per Franca, l’ultima compagna «T’aggio voluto bene Franca, proprio assaie»? O quelle riportate dalla figlia Liliana secondo la quale suo padre avrebbe detto «Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano»? Scripta manent, e come conciliare queste parole con quelle espresse per il suo addio dai fratelli di loggia: «Nella sede storica di Piazza del Gesù, 47. All’alba del 15, è passato all’Oriente Eterno l’Illustre Fr. Antonio de Curtis 30° Venerabile della R.L. Fulgor Artis dell’Oriente di Roma». Già, il «Totò massone»... Vegliata per due giorni, la salma il 17 aprile fu portata a Napoli tra ali di folla dove si svolsero i funerali davanti ad oltre centomila persone.
Nella chiesa di Sant’Eugenio, la bara sulla quale era stata posta la bombetta del suo esordio e un garofano rosso ricevette una semplice benedizione (concessa -pare - solo grazie a delle amicizie che Totò aveva con alcuni prelati, essendogli stata negata a motivo della sua convivenza). Poi la sepoltura al cimitero Del Pianto a Napoli. Con tutto il suo pubblico e gli applausi. Come disse Nino Taranto nell’orazione funebre «l’ultimo "esaurito" della sua carriera». E poi ci fu l’appendice dei funerali-bis su richiesta dei guappi del Rione Sanità, il 22 maggio, pochi giorni dopo il trigesimo, la bara vuota e la stessa folla acclamante.
Ultima nota. Ho letto tempo fa su un sito dedicato a Totò (da Rosario Romano) che Antonio de Curtis «non era stato un uomo particolarmente religioso, ma a modo suo credente lo era. Credeva senza mezze misure nell’Artefice di questo Creato che non si stancava di ammirare e su di Lui non ammetteva lazzi o linguaggi irriguardosi. Non cre deva in quell’Aldilà prospettato già dalla prima preghiera che ti infilano in bocca e anzi, a questo proposito affermava che l’inferno e il paradiso sono entrambi qua, in questo mondo, da quell’altro nessuno era mai tornato a descriverglieli» . Bazzecole, quisquilie, pinzillacchere? E si può essere un credente... «a prescindere?». «Senza nulla a pretendere» ci piacerebbe saperne di più.
TOTO’: SULLE SUE TRACCE A NAPOLI A 40 ANNI DALLA MORTE*
NAPOLI - Il 15 aprile del 1967 moriva a Roma il principe Antonio De Curtis, universalmente noto come Totò: a 40 anni dalla scomparsa di uno dei simboli di Napoli cosa rimane del ricordo del grande attore nella città partenopea? "Addio Totò, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori e non ti scorderà", promise Nino Taranto nella sua orazione funebre.
A Napoli è in programma entro fine mese una serie di iniziative, ma non sono mancate polemiche circa un presunto oblio da parte della città del più grande attore comico della storia italiana. Sicuramente è entrato nella memoria collettiva il ’doppio’ funerale napoletano di Totò, celebrato il 17 aprile nella Basilica del Carmine Maggiore gremita da tremila persone, mentre altre centomila sostavano nella piazza antistante. La bara fu anche la prima ad essere platealmente applaudita dal pubblico, una abitudine che si è poi diffusa. Chi volesse ritrovare il principe della risata tra le vie di Napoli dovrebbe recarsi al popolare rione Sanità, e più precisamente in via Santa Maria Antesecula 1 dove, al secondo piano, nel 1898 nacque il figlio illegittimo del principe de Curtis e di Anna Clemente. La casa natale fu messa in vendita per soli 35 milioni di lire all’inizio del 2000 e acquistata da un privato, non da un’istituzione, come si auspicava, per farne un museo o una fondazione culturale. Poco lontano, al Collegio Cimino nel palazzo del Principe di Santobuono in via San Giovanni a Carbonara, Totò frequentò le classi ginnasiali mentre nella vicina parrocchia di san Vincenzo il comico servì messa recitando in latino. E fu proprio nella parrocchia della Sanità che venne celebrato, qualche giorno dopo quello ufficiale, un altro rito funebre, con la bara vuota, presenti migliaia di napoletani con la medesima commozione. Non esiste più invece la Sala Napoli, dove Totò cominciò a proporre con poco successo le macchiette di De Marco, mentre è stato rinnovato di recente lo storico teatro Trianon, dove lavorò negli anni giovanili, prima di cercare fortuna a Roma.
Proprio questi ambienti, e soprattutto il teatro Nuovo ai Quartieri Spagnoli, furono anche lo scenario della sua travagliata passione con Luisella Castagnola, la bellissima soubrette che si tolse la vita per amore e che per volontà di Totò riposa nella cappella gentilizia dei de Curtis, altro luogo di culto dei napoletani. Tra le altra vestigia per gli appassionati: adiacente a via Foria, nei pressi del Museo nazionale, c’é una piccola strada intitolata ad Antonio De Curtis, mentre un monumento in bronzo del principe De Curtis è nascosto tra i palazzi del Vomero Alto. Aspettando il "grande evento" annunciato dal Comune di Napoli per fine aprile (il sindaco Rosa Russo Iervolino parteciperà a una messa nel cimitero degli Uomini illustri) e in vista della celebrazione ufficiale alla Festa del cinema di Roma ad ottobre, Napoli ha dedicato a Totò la Pasqua appena trascorsa con una mostra nello storico Salone Margherita.
* ANSA » 2007-04-14 16:22