Il presidente del Consiglio: "Quanta ferocia contro i tagli".
"Ferrero? Nessun caso politico, ma dissenso circoscritto"
Prodi: "Il Paese è impazzito non pensa più al futuro" *
ROMA - Il premier torna a difendere la manovra. E a scacciare le ombre di una crisi del suo governo. "Qui ormai siamo in un Paese impazzito - dice il Professore - che non pensa più al domani. Io ho fatto una Finanziaria che pensa allo sviluppo domani, dopodomani e nei prossimi anni, che pensa a ricostruire il Paese. Con una Finanziaria del genere si fanno molti scontenti. Ma questo non mi fa paura perchè non ci sono elezioni imminenti e perchè è ora che i politici governino anche scontentando, ma per il bene di tutti". Lo ripeto: scontentare a volte significa fare il bene di tutti".
"Ferrero? Nessun caso politico". Per Prodi, il voto contrario del ministro Ferrero in consiglio dei ministri sul Tfr ’’non apre un caso politico’’. Il no del ministro comunista, il premier lo ha spiegato così: "Si vota anche a maggioranza. Sul Tfr non c’era l’accordo da parte di Ferrero che ha semplicemente votato contro senza che questo costituisca nulla. Se si aspetta che negli organi collegiali si voti sempre all’unanimita’, la democrazia viene paralizzata. Ferrero non intende evidentemente trarre da questo alcuna conseguenza di carattere generale".
"Ferocia contro i tagli". ’’C’é una ferocia contro i tagli che abbiamo fatto che sono stati meditati, giusti, seri. Una ferocia impressionante’’ afferma Prodi sottolineando che ’’questa Finanziaria ha degli aspetti paradossali’’. Il premier fa notare, infatti, che ’’tutti dicono: pochi tagli di spese. E poi c’é una ferocia contro i tagli. Nessuno vuole che si taglino le spese che lo interessano’’. Il Professore replica anche a chi parla di "troppe tasse’’. ’’Ma la quantità di imposte -fa notare- è minima. Siamo intorno ai 3 miliardi di euro su una Finanziaria di 40-41 miliardi. Vedremo il definitivo’’.
Larghe intese. ’’Mi fa piacere che il presidente della Repubblica riconosca l’importanza di una decisione di questo tipo’’. Così Prodi commenta l’invito rivolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano a procedere sulla via delle riforme con le più larghe intese. ’’Ho sempre detto -ricorda Prodi- che la legge elettorale e le grandi riforme costituzionali, è nel programma dell’Unione, si fanno non a colpi di maggioranza come ha fatto il governo precedente’’. ’
* www.repubblica.it, 11.11.2006
POLITICA
Sardine, Prodi: Chiedono toni civili *
"Discutere in politica con toni anche più civili? Certo, ma questo è abbastanza scontato. La gente è perplessa sulle tensioni che ci sono. D’altra parte non avevo mai visto in vita mia una grande manifestazione che inneggia alla civiltà dei toni. Questo quindi vuol dire che la durezza del dibattito, indipendentemente dai contenuto del dibattito, comincia a stancare". Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi parlando delle ’sardine’ con i giornalisti a Firenze al termine del convegno dal titolo "Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro e l’adesione all’Euro", organizzato dalla Scuola Normale di Pisa a Palazzo Strozzi.
"Non è mica necessario in politica mangiarsi, azzannarsi l’uno con l’altro. Si può anche dibattere come stamattina. Oggi non sento dibattito su contenuti veri. Noi questa mattina abbiamo dibattuto sui contenuti, sulla sostanza della politica, ed è quello che io vorrei che si ritornasse a fare, perchè abbiamo bisogno di discutere sull’avvenire del Paese e quindi sulle grandi decisioni da prendere. E qui invece si lavora sui puntigli, sulle recriminazioni: è proprio una marcia indietro", ha aggiunto.
All’incontro, che ha visto relazioni sul ruolo di Ciampi nel primo governo Prodi (1996-98), a cui ha assistito il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, hanno partecipato il senatore a vita Mario Monti, l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e gli economisti Alessandro Petretto, Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi.
* ADNKRONOS, 03/12/2019 19:33 (ripresa parziale).
Prodi: "Siamo una squadra di calcio che riparte da meno 26" *
ROMA - "Siamo come una squadra di calcio che riparte da meno 26". Lo ha detto il premier Romano Prodi a Skytg24, parlando del governo e del paese e spiegando che servono invece sacrifici da parte di tutti, senza la difesa di "interessi particolari". "Venti sono i miliardi di euro necessari per i parametri europei - spiega Prodi - 6 invece il deficit di Ferrovie e Anas’’.
Basta corporazioni. Il premier dice "basta con le corporazioni" e ammonisce: "Se tutti difendono l’interesse particolare, ancorchè legittimo siamo finiti". Infine l’evasione fiscale che Prodi definisce "un problema etico". E sulla possibilità di mettere la fiducia sulla Finanziaria, Prodi prende tempo: "E’ ancora evitabile". A meno che la Cdl "non metta in campo tattiche dilatorie". In questo caso "la fiducia è uno strumento che serve a evitare ritardi".
Prospettive del governo. "Tutti i problemi che ho posto non si risolvono nel bilancio di un anno. Per questo ho proposto un bilancio di cinque anni, anche se non sono sufficienti a risolvere tutto. Ma nel primo anno bisogna indicare la direzione" dice Prodi. E se il governo dovesse cadere e si andasse a nuove elezioni, il presidente del Consiglio non ci sarà: "Non sono un uomo per tutte le stagioni".
Caso Telecom. "Appena è cominciato il viaggio in Cina è cominciato un attacco del tutto costruito". Caso Telecom, Prodi ribadisce di non aver avuto nessuna influenza, a dimostrazione, che quando si è cominciato a costruire la politica economica del governo "gli ostacoli sono sempre più forti".
* la Repubblica, 13-11-2006
ASSEDIATO. IL NO DEL MINISTRO FERRERO AL DECRETO SULLA PREVIDENZA INTEGRATIVA È SOLO LA GOCCIA CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO
Palazzo Chigi, i giorni della follia
Cortei, congiure, sabotaggi le spine nel fianco del premier
di Riccardo Barenghi (La Stampa, 12/11/2006)
ROMA. Non è stata una frase dal sen fuggita, dettata dalla rabbia, dalla stanchezza, dal nervosismo, da tutto insieme. No, è stata un’uscita preordinata, programmata, decisa il giorno prima, venerdì, alla fine di una settimana piuttosto difficile per il governo, conclusa dal ministro Ferrero che vota no al decreto sulla previdenza integrativa. Ecco allora che dopo la riunione del Consiglio dei ministri, Prodi riunisce il suo staff e gli annuncia che la sua pazienza ha raggiunto il limite di guardia. Non ne può più, il premier, non sopporta più critiche, attacchi, dissociazioni, proteste, lamentele, manifestazioni, punture di spillo o scontri aperti. Non ne può più di quel che accade nel Paese e anche di quel che accade in Parlamento, soprattutto nelle file della sua maggioranza. E comunica ai suoi che d’ora in poi lo avrebbe detto, segnalato, avrebbe parlato in pubblico per dire appunto che la sua pazienza si è esaurita. Così nasce la frase sull’impazzimento del Paese.
(Quasi) tutti contro Il quale Paese, a vederla come la vede il presidente del Consiglio, ha cominciato ad impazzire già a luglio, quando tassisti, farmacisti e professionisti protestavano contro il decreto Bersani sulle liberalizzazioni. Loro protestavano e c’era chi, come l’economista Francesco Giavazzi, le cui tesi cominciavano ad essere applicate (sempre secondo Prodi), protestava pure lui scrivendo sul Corriere della Sera che era troppo poco, bisognava fare di più. Via via la schiera degli «impazziti» è cresciuta, a parte i suddetti si segnalano in ordine sparso: imprenditori, sindaci, professori, rettori, scienziati, precari, infermieri, avvocati, notai, artigiani, autonomi vari, economisti, editorialisti, giornali (anche stranieri), parlamentari, ministri, viceministri, sottosegretari... Mancano gli operai e gli studenti, ma non si sa mai un domani.
Un crescendo rossiniano insomma, che si è concentrato ovviamente sulla nuova legge finanziaria. Prima che il governo la approvasse e, soprattutto, subito dopo. A Palazzo Chigi non parlano di complotto ma certo si dicono sconcertati dal metodo. «Ma come - spiegano - noi abbiamo inaugurato un metodo diverso dal passato, invece di chiuderci nelle nostre stanze e presentare poi la Finanziaria l’abbiamo discussa con tutti, dagli industriali ai sindaci, dai sindacati agli artigiani, abbiamo aperto tavoli con chiunque, c’è il povero Enrico Letta che tra un po’ lo ricoveriamo, e questi che fanno? Escono dall’incontro e sparano a zero. Non capiscono, anzi non vogliono accettare la filosofia del nostro governo, che è quella di fare una Finanziaria di partenza, in cui ognuno concede un po’ per poi ripartire negli anni seguenti. Niente da fare, la logica è sempre quella del not in my backyard».
Significa «non nel mio giardino», e Prodi lo scrisse rispondendo sul Corriere della Sera a un articolo dell’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott, che lo attaccava proprio perché non faceva abbastanza. Spiegando che la logica che si era trovato di fronte era appunto questa: se volete tagliare, tagliate pure, ma non a casa mia. Tagliate l’erba del vicino. E questa logica, secondo Prodi, sarebbe appunto la logica di un paese impazzito.
Raccontano a Palazzo Chigi che ci furono incontri anche «a muso duro, per esempio con Luca di Montezemolo e i vertici della Confindustria. Gli industriali erano contenti per il cuneo fiscale ma non volevano accettare le nuove norme del Tfr. Alla fine gli fu detto chiaro e tondo, proprio da Prodi al direttore generale Maurizio Beretta, che allora si tornava indietro: voi vi tenete il Tfr e noi ci teniamo il cuneo. La Confindustria fece una rapida marcia indietro, mollò il Tfr e si prese il cuneo». Anche i sindaci gli hanno fatto venire parecchi «mal di testa» (così li chiamano), in particolare il torinese Sergio Chiamparino quando ha minacciato di consegnare le chiavi della città al premier e quando ha protestato perché l’Expò era stata assegnata a Milano. A Prodi è sembrato «un masaniello che difendeva solo il suo orticello».
La dis-Unione Per non parlare poi della sua Unione (chiamiamola così) e dei suoi ministri. Già qualche mese fa disse che lui si sentiva la badante della sua maggioranza, ma oggi la situazione è peggiorata. Intanto perché «questa storia che lui sarebbe ostaggio della sinistra radicale è una bufala, basta leggere quel che ha appena detto Cossiga» (che certo non risulta essere amico di Prodi).
Ma ormai è diventato un luogo comune, alimentato da giornali e commentatori, che finisce per provocare reazioni nervose del premier. Per la cronaca, ci vengono segnalate le uscite di Rutelli e Fassino sulla fase 2 del governo, il timone riformista insomma, nonché il piano sulle liberalizzazioni presentato l’altro giorno dal leader della Margherita. Prodi, «che neanche lui è olimpico e sereno», non ha amato nemmeno l’offensiva di Rifondazione contro i progetti del ministro Lanzillotta, e tantomeno le uscite di Ferrero, col quale «il rapporto è dialettico» (un eufemismo, in altre parole se ne dicono di tutti i colori).
La guerra dei boatos Insomma Prodi pensa che le cose che fa sono quelle giuste, che il paese ha bisogno di una cura a lungo termine, che oggi è il momento di tagliare e risparmiare, e che tutti debbano contribuire «pro quota» per poterci rimettere in carreggiata domani. Soprattutto pensa che il suo governo debba avere il respiro dell’intera legislatura e che quindi anche la politica economica debba seguire questo passo lungo. Ma gli altri, imprese, categorie, lobby, politici, cittadini sparsi, no. Non lo capiscono o non vogliono capirlo, pensano al loro particulare e non guardano all’insieme e «al futuro». Gli stessi boatos che in Parlamento e sui giornali, un giorno sì e l’altro pure, parlano del che fare se cade Prodi, non alleggeriscono la tensione del premier. «Ha ragione Berlusconi quando dice che qualcuno nell’Unione sta pensando a governi di larghe intese o cose del genere - spiegano gli uomini del presidente -; d’altra parte la nostra classe politica ha ancora la cultura di chi pensa che un premier si butta giù con un battito di ciglia. Ma una cosa è pensarci, tutt’altra metterlo in pratica». Lui ovviamente non vuole sentire nemmeno parlare di inciuci con l’opposizione, quando dice che «non sono l’uomo per tutte le stagioni» si riferisce proprio a questa ipotesi. Gli danno fastidio i boatos, «provocano un altro mal di testa, un’instabilità che però è più psicologica che sostanziale. Certo, quando la mattina legge sui giornali i retroscena che raccontano di chi, come e quando lo farà fuori, non è che poi va a lavorare sereno. Dopo di che, se analizziamo la situazione ci rendiamo conto che il complotto non c’è.
Poi, diciamolo francamente, se D’Alema e Berlusconi vogliono fare un governo di larghe intese, possono farlo, i numeri ce li hanno. Ma Prodi non crede che lo faranno».
Non ci crede ma ci soffre. Si sente deluso dalla sua maggioranza, o almeno da tutti quelli (e sono tanti) che «sparano a zero prima ancora di leggere le carte», dai suoi ministri che prima approvano e poi protestano, da Montezemolo e dalla Montalcini, dai giornali che lo attaccano, dal paese insomma che non lo capisce. Praticamente un incompreso. Per carità, negano i suoi, «non ha affatto la sindrome dell’incompreso. Semmai dell’incazzato. Diciamo pure che la sua è una sana e sonora incazzatura».
Un Paese impazzito?! No ... un Paese di "cherubini" (cfr., sul sito, IL "LOGO" DELLA "SAPIENZA" ) che già da molto tempo si è messo sulla strada del suicidio umano, culturale, e politico-teologico!!! Un delirio... in crescendo, nel sonnambulismo di tutti e di tutte, del mondo della Cultura, dello "Stato", ... e della "Chiesa"!!! Tanto per ricordare, allego una lettera del 27 gennaio del 2002. E, volendo, si cfr. , l’omaggio a Ciampi: LA NOSTRA "BIBBIA CIVILE" E RIPARTIRE DALL’ITALIA, e la LETTERA A PRODI..... Federico La Sala
Messaggio originale----- Da: La Sala --- Inviato: domenica 27 gennaio 2002 0.09 ---A: posta@magistraturaassociata.it
Oggetto: Per la nostra sana e robusta Costituzione...
Stimatissimi cittadini-magistrati
"Nella democrazia - come già scriveva Gaetano Filangieri nella sua opera La Scienza della Legislazione (1781-88) -comanda il popolo, e ciaschedun cittadino rappresenta una parte della sovranità: nella concione [assemblea di tutto il popolo], egli vede una parte della corona, poggiata ugualmente sul suo capo che sopra quello del cittadino più distinto. L’oscurità del suo nome, la povertà delle sue fortune non possono distruggere in lui la coscienza della sua dignità. Se lo squallore delle domestiche mura gli annuncia la sua debolezza, egli non ha che a fare un passo fuori della soglia della sua casa, per trovare la sua reggia, per vedere il suo trono, per ricordarsi della sua sovranità"(Libro III, cap. XXXVI).
Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato "Forza Italia", discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: "Prima potevo gridare "forza Italia" e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!". Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: "Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!".
Oggi, più che mai, contro coloro che "vogliono costruire una democrazia populista per sostituire il consenso del popolo sovrano a un semplice applauso al sovrano del popolo"(don Giuseppe Dossetti, 1995), non è affatto male ricordarci e ricordare che i nostri padri e le nostre madri hanno privato la monarchia, il fascismo e la guerra del loro consenso e della loro forza, si sono ripresi la loro sovranità, e ci hanno dato non solo la vita e una sana e robusta Costituzione, ma anche la coscienza di essere tutti e tutte - non più figli e figlie della preistorica alleanza della lupa (o della vecchia alleanza del solo ’Abramo’ o della sola ’Maria’) - figli e figlie della nuova alleanza di uomini liberi (’Giuseppe’) e donne libere (’Maria’), re e regine, cittadine-sovrane e cittadini-sovrani di una repubblica democratica.
Bene avete fatto, con la Vs. Lettera aperta ai cittadini, a rendere pubbliche le vostre preoccupazioni e a dire e a ridire che la giustizia non è materia esclusiva dei magistrati e degli addetti ai lavori, ma un bene di tutti e di tutte, e che tutti i cittadini e tutte le cittadine sono uguali davanti alla legge. E altrettanto bene, e meglio (se permettete), ha fatto il Procuratore Generale di Milano Borrelli, già all’inizio (e non solo alla fine) del suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, quando ha detto: "porgo il mio saluto, infine, ai cittadini, anzi, alle loro maestà i cittadini, come soleva dire il compianto Prefetto Carmelo Caruso, avvicinati oggi da un lodevole interesse a questa cerimonia, del resto non esoterica nonostante il paludamento, ma a loro destinata"; e, poco oltre, riferendosi specificamente alle "difficoltà che la giustizia minorile incontra", ha denunciato che "il denominatore comune - generatore del disagio donde nascono devianze, sofferenze, conflitti - è rappresentato dalle carenze di un’autentica cultura dell’infanzia, a volte necessitata dalle circostanze, a volte frutto di disattenzione, spesso causata dall’incapacità negli adulti di trasmettere valori che si discostino dall’ideologia di un’identità cercata, secondo la nota espressione di Erich Fromm, nell’avere piuttosto che nell’essere".
Da cittadino-magistrato non ha fatto altro che dire e fare la stessa cosa che don Lorenzo Milani, il cittadino-prete mandato in esilio a Barbiana, in tempi di sonnambulismo già diffuso (1965): suonare la campana a martello, svegliare - praticare la tecnica dell’amore costruttivo per la legge e, ricondandoci di chi siamo e della parte di corona che ancora abbiamo in testa, avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani....
Cordiali saluti
Federico La Sala
L’interesse generale
di Barbara Spinelli (La Stampa,12/11/2006)
NEGLI ultimi articoli che ha scritto su la Repubblica, Eugenio Scalfari si domanda come mai la politica italiana funzioni così male, come mai sia così difficile far riforme che ridiano forza al paese, e va alla sostanza delle cose: quel che manca è la visione d’insieme, il senso di un interesse generale che trascenda i bisogni dei particolari e i diritti da essi accampati. È il motivo per cui quando guardiamo oggi all’Italia abbiamo l’impressione di stare davanti a uno specchio infranto: nei suoi minuscoli frammenti il singolo - gruppo o individuo che sia - guarda se stesso e si compiace di non veder altro che se stesso. Lo specchio è rotto, questa la triste verità, ma il singolo è come avesse dimenticato quel che un grande specchio può mostrare.
Ciascuno si rimira nella scheggia e non pensa ad alcun altro: né al vicino né al lontano, né a chi gli è contemporaneo né a chi nascerà dopo di lui. Dopo di me venga pure il diluvio, dice a se stesso. La morale pubblica diventa oggetto di esecrazione, ed esecrabile è anche chi si dedica alla funzione pubblica. Il particolare giudica ambedue le categorie (morale e funzione pubblica) con un certo pudico fastidio, quasi ne avesse vergogna. Quando ne parla lo fa con parsimonioso distacco, come se l’etica pubblica fosse un affare di cuore: un affare che non deve intorbidire l’asciutta purezza del giudizio.
Scalfari pone una questione essenziale: la più essenziale forse delle questioni contemporanee. In altre parole si chiede se sia possibile, dopo il naufragio delle utopie che promettevano paradisi collettivisti di salvezza, avere ancora un’idea dell’interesse generale e del bene pubblico, o se il mondo che viviamo sia quello dove solo gli interessi particolari hanno visibilità, legittimità e potere. La questione è fondamentale per l’Italia, e Scalfari ricorda le ragioni storiche per cui da noi l’interesse generale è flebile: le frammentazioni dell’epoca dei comuni, il modo in cui si è fatta l’unità nazionale, privilegiando l’annessione a una comune identità. Si potrebbe aggiungere anche la malattia descritta da Leopardi: quello scetticismo ferocemente disilluso, incapace di immaginazione, che impedisce agli italiani di creare una «società stretta».
Ma la questione è essenziale per tutte le democrazie e per l’Europa intera, perché tutte hanno alle spalle quel naufragio delle utopie e tutte sono alle prese con gli effetti che esso ha avuto sul modo di pensare la politica e il governo, i diritti dell’individuo e i suoi doveri.
Ovunque è difficile ricominciare a discutere con serietà di interesse generale, anche se in Italia è difficile in modo specialissimo: nell’agorà, che è la piazza dove i cittadini discutono le loro comuni questioni, è l’idea stessa di questione comune che crea diffidenza, malessere, e chi la propone si isola, inascoltato o frainteso. Quel che seduce le penne e le menti sono le questioni del particolare, le cosiddette questioni-tabù, che il naufragio ha restituito alla vista dopo lungo occultamento. La perniciosa preminenza del pubblico sul privato e sull’individuale, le conseguenze di un interesse generale che soffoca le soggettività e financo le fedi: queste sono le questioni più seducenti. Vengono anche chiamate questioni politicamente scorrette, anche se nel frattempo son diventate le più corrette e correnti, anche tra molti che si dicono riformisti. La cosa veramente più scorretta, soprattutto in Italia, è parlare di interesse generale.
Eppure è di questo che urge parlare, se desideriamo contemplare sullo specchio un paesaggio leggermente più ampio, leggermente meno striminzito e breve della nostra persona. Se vogliamo metter fine alla frammentazione di cui ha parlato ieri il presidente Romano Prodi, quando ha detto: «Il paese è impazzito perché non è più capace di pensare al domani».
Naturalmente non è il paese ad avere tutte le colpe. I principali responsabili sono i politici e la classe dirigente - cioè tutti coloro che esercitano un’influenza sui cittadini anche se non governano - e il paese è piuttosto vittima del loro impazzimento (della frammentazione dello specchio): non si può accusarlo quando preferisce questo o quel partito. Governo e classi dirigenti modellano tuttavia la società civile, quando la influenzano con il proprio esempio, e anche la società ha sue responsabilità ed è soggetta a impazzimenti. Se per natura il popolo fosse incolpevole, i governi dovrebbero sempre decidere misure popolari e mai azzardarne di impopolari. Sicché è da meditare e non da scartare frettolosamente il punto che Prodi solleva quando accenna al paese impazzito e invita a non cercar conforto nelle favole: «È ora che i politici governino anche scontentando: scontentare a volte significa fare il bene di tutti».
Una cosa simile ha detto l’arcivescovo Bruno Forte, venerdì in una conferenza all’università di Chieti, accennando all’evasione fiscale e alla cultura dell’illegalità: se la classe dirigente non ricomincia a «cercare il bene comune più che quello della propria parte», se non rispetta i principi etici nell’ambito pubblico, per forza la società penserà che non pagare le tasse sia legittimo. Invece «è un peccato grave, è rubare!» ha ricordato Bruno Forte, raccontando subito dopo che nel confessionale nessuno mai gli confessa l’evasione. Vuol dire che evadere non è interiorizzato come peccato, dai più. Lo Stato derubato è qualcosa di distante, alieno: non è la personificazione di un superiore patto tra cittadini, che pagano tutti per pagare tutti di meno.
Nei secoli scorsi, è vero, l’interesse generale è stato deturpato. Lo fu sin dal ’700, quando venne teorizzato da Jean-Jacques Rousseau. Hannah Arendt ricorda in alcune limpide pagine come l’idea di una volontà generale, di un corpo unanimistico della nazione, abbia ridotto gli interessi particolari a nemici eversivi del bene pubblico. Quest’ultimo è stato sacralizzato, estromettendo la libertà in nome di una falsa uguaglianza. La volontà generale di Rousseau «sostituisce la vecchia nozione di consenso, esclude ogni processo di scambio di opinioni e ogni eventuale tentativo di conciliare opinioni diverse». L’interesse del collettivo cancella le differenze, le spiana in nome di un’amorfa e unanimistica totalità, e sfocia infine «nella teoria del Terrore, da Robespierre a Lenin e Stalin»: una teoria secondo cui «l’interesse di tutti deve automaticamente e permanentemente essere ostile all’interesse particolare del cittadino». Il rivoluzionario collettivista esalta il sacrificio e l’abnegazione, deprezzando quel che c’è di più nobile nel sacrificio. «Il valore dell’uomo viene giudicato dal grado in cui egli agisce contro il proprio interesse e contro la propria volontà». (Arendt, Sulla Rivoluzione, ed. Comunità 1983) La perversione dell’interesse generale è dunque denunciata con validi motivi.
Troppe volte la persona è stata sacrificata sull’altare del bene pubblico, e l’interesse generale suscita scetticismo. Quel che si omette di dire tuttavia è che l’idea di bene comune è stata travisata, avvelenata. Nel comunismo non fu il bene pubblico a vincere: quando un partito si arroga il diritto di definire quale debba essere l’interesse di tutti, escludendo ogni dissenso, il bene pubblico torna a essere il male contro cui era stato invocato. Torna a essere interesse particolaristico, che non include ma esclude, il che vuol dire: l’interesse del più forte. La fine di questa perversione ha riportato infine la persona al centro dell’attenzione. Ha riscoperto i suoi diritti, ha introdotto i diritti della persona anche nel diritto internazionale. Ma ha anche generato nuovi squilibri: perché come salvare dalle macerie quello che c’era di costruttivo, di utile e di morale, nell’interesse generale? Come salvare Rousseau da Rousseau?
L’idea di Rousseau è che l’uomo sia buono per natura, e che la sua corruzione cominci con la differenziazione della società e con il razionale perseguimento dell’interesse particolaristico. Il seme totalitario è qui: è nel terrore di una virtù che si esprime nella volontà una e indivisibile. Quel che è accaduto nei secoli recenti ha smentito tale ipotesi, ma non interamente: l’uomo non è buono per natura, ma è pur sempre vero che la società può renderlo ancora più malvagio - può farlo impazzire - se è governata senza idea d’un interesse generale, d’un bene pubblico cui ciascuno concorre sacrificando un po’ di se stesso ed equilibrando i diritti coi doveri.
Cos’è il bene pubblico? È tutto quello che il singolo (individuo, gruppo) non può tutelare da solo, nei tempi lunghi. L’educazione, la sanità, l’acqua, l’aria, e tante cose ancora: sono beni nell’interesse di ogni privato cittadino, ma non finanziabili dal privato. Per definizione, sono interessi della res publica, delle sue leggi e istituzioni. In molti casi neppure lo Stato-nazione può tutelare, ed è l’Unione europea ad occuparsene. Il pensiero moderno (a cominciare dai testi ultimi del filosofo Hans Jonas) aggiunge al classico interesse generale la responsabilità verso le future generazioni e anche verso il futuro della Terra minacciata. Una sorta di responsabilità per il futuro, un’«etica della distanza» che s’aggiunge all’etica della vicinanza e della contemporaneità.
Tutto questo è considerato fastidioso, troppo corretto. La rivoluzione conservatrice americana, cominciata nel ’94 con le arringhe di Newt Gingrich contro le servitù della cosa pubblica e dello Stato, ha avuto e ha un’influenza grande ma in questi giorni si sta sfiancando. Trascurando l’interesse generale, queste rivoluzioni creano un vuoto che produce disgregazione, anomia, cultura dell’illegalità, e non per ultimo impossibilità di riforme. E siccome il bisogno di beni comuni e quindi di sicurezza permane, sono altri a riempire il vuoto: le chiese, le sette, le religioni, con le loro leggi esclusive. Oppure, in Italia, la mafia e la camorra.
Se i riformisti non vogliono questi vuoti converrà dirlo, e parlare un po’ di interesse generale. Altrimenti non resterà che la compassione dei singoli verso i più deboli: una virtù che non dura nel tempo, che non si sostanzia in istituzioni durature come è accaduto con lo Stato sociale, che alimenta la lotta di tutti contro tutti, che promuove alla fine l’interesse del più prepotente. È la prossima perversione totalitaria in cui rischiamo di cadere.
CARO-PREZZO (= "CARITAS") E FUTURO !!!
Pubblica incoscienza
di Marcello Cini *
«Nella vecchia economia la gente comprava e vendeva risorse congelate, cioè un mucchio di materiale tenuto insieme da un pochino di sapere. Nella nuova economia, compriamo e vendiamo sapere congelato, cioè un sacco di contenuto intellettuale in un involucro fisico». Così Brian Arthur, uno dei fondatori del celebre Istituto di ricerca di Santa Fé sulla complessità che caratterizza la svolta dell’economia dal XX al XXI secolo. E l’editor della rivista economica americana Fortune, Thomas Stewart spiega: «In questa nuova era, la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l’intrattenimento, i servizi - sono diventati le materie prime dell’economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quello che compriamo e vendiamo".
Chi mi conosce sa che non mi piace che la conoscenza in generale e la scienza in particolare siano diventate merci che si comprano e si vendono, e che la loro produzione sia sempre più subordinata al vincolo della produzione del maggiore e più immediato profitto possibile del capitale investito. Penso che la conoscenza e la scienza - in quanto beni che, al contrario degli ogetti materiali, non si "consumano" ma si moltiplicano tanto più quanto maggiore è il numero di coloro che possono fruirne - dovrebbero ritornare di nuovo beni comuni e disponibili a tutti.
Ma anche se questo obiettivo può sembrare utopistico - ma forse non lo è pensando alle catastrofi che si annunciano se il meercato continua a essere l’unico riferimento - la necessità di una forte ricerca pubblica, che persegua finalità collettive dovrebbe essere un’assoluta priorità per un governo che pensa al futuro dei suoi cittadini.
Dovrebbe essere ovvio che se la conoscenza e la scienza non vengono prodotte, o se bisogna comprare a caro prezzo sul mercato quelle prodotte dalle multinazionali, il nostro paese non entra nel XXI secolo, ma retrocede al XX se non al XIX. Non è una battuta.
[...]
Tagliare 300 milioni su un totale di 1.600 - questo sembra essere l’ammontare della riduzione del finanziamento pubblico per la ricerca scientifica e tecnologica prevista dalla finanziaria - non è un sacrificio paragonabile a quello che anche altri settori della spesa pubblica devono sopportare per mettere in ordine i conti pubblici. E’ soltanto incoscienza.
* DA: IL MANIFESTO, 11.11.2006
«Tra gli emendamenti del governo apprendistato, Tfr e 5 per mille»
Finanziaria, «Integrazione per la ricerca»
Lo ha annuncaito il sottosegretario Nicola Sartor, precisando che che anche gli effetti del decreto Bersani, che decurtava risorse per 60 milioni, «sono stati compensati» *
Il premio Nobel e senatore a vita: «Non potrei dare l’ok su questa manovra se dovessero rimanere i tagli dal governo sulla ricerca»
ROMA - «Se la Finanziaria taglia i fondi per la ricerca il paese è distrutto ed io non potrei votarla». Così il premio nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini. «L’Italia ha tanto capitale umano - spiega - e se non si finanzia la ricerca, il Paese affonda. Noi siamo un paese povero di materia prima, ma ricchissimo di capitale umano. E la ricerca - conclude Rita Levi Montalcini - è il vero motore di un Paese moderno, sia per le ricadute a livello sociale sia per quella a livello economico».
In Finanziaria «ci sarà una maggiorazione, una integrazione delle risorse per i progetti di ricerca». Lo ha detto il sottosegretario all’Economia Nicola Sartor, a margine dei lavori sulla manovra alla Camera, aggiungendo che la questione è allo studio del Governo. Tra gli emendamenti dell’esecutivo, ha aggiunto Sartor, ci sono quelli che risolvono le questioni degli apprendisti, del Tfr, del contratto di pubblico impiego, dei ministeri (con la riformulazione dell’art. 53 sui tagli)e del 5 per mille.
In particolare, il sottosegretario ha spiegato che le attività di ricerca «hanno avuto adeguati stanziamenti e crescenti nel tempo», il fondo di funzionamento ordinario degli atenei «viene dispensato dall’articolo 53 sui tagli ai ministeri». Sartor ha precisato che anche gli effetti del decreto Bersani, che decurtava risorse per 60 milioni, «sono stati compensati». Inoltre, sono state fatte delle deroghe per le assunzioni di ricercatori. Il nodo del contendere sarebbe quindi «l’accantonamento su alcune unità previsionali di base che riguardano il ministero dell’Università». Ma, ha ribadito, «i progetti di ricerca sono stati sostanzialmente finanziati in maniera adeguata».
«Almeno per il primo anno ci sarà una forte attenuazione» della contribuzione per gli apprendisti artigiani che la Finanziaria ha introdotto per la prima volta con un’aliquota del 10%. Lo ha spiegato ancora Sartor, confermando che il Governo ha presentato un emendamento alla Finanziaria per alleggerire il peso dei contributi. «Si tratta per il primo anno, cioè nel 2007, di una misura che si avvicina molto all’esenzione anche se non si tratta di un azzeramento dei contributi».
Le affermazioni di Sartor sui tagli alla ricerca in Finanziaria arrivano all’indomani della presa di posizione di Rita Levi Montalcini, che ha annunciato che non appoggerà in Senato la «Finanziaria dei tagli». «Apprezzo l’appello di Rita Levi Montalcini, ma non il tono minaccioso del premio Nobel sulla richiesta di aumenti sulla ricerca» ha detto il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro. «È necessario e interverremo come governo sui fondi per la ricerca - ha aggiunto l’ex magistrato - ma prego il premio Nobel Montalcini di non porlo come ricatto: il Governo può operare nei limiti dei fondi a sua disposizione. Non ci sono soldi sprecati da qualche altra parte, ci sono soldi che mancano perchè nel precedente governo i conti non tornavano», ha concluso Antonio Di Pietro. E anche il premier Prodi è tornato sulle dichiarazioni di Rita Levi Montalcini. «Mi sembrano un giusto ammonimento, ma anche intempestive», ha detto. 11 novembre 2006
Letta: «Manovra impensabile con il suo voto contrario»
Montalcini: non voto la Finanziaria dei tagli
Il premio Nobel e senatore a vita: «Non potrei dare l’ok su questa manovra se dovessero rimanere i tagli dal governo sulla ricerca» *
ROMA - «Se la Finanziaria taglia i fondi per la ricerca il paese è distrutto ed io non potrei votarla». Così il premio nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini. «L’Italia ha tanto capitale umano - spiega - e se non si finanzia la ricerca, il Paese affonda. Noi siamo un paese povero di materia prima, ma ricchissimo di capitale umano. E la ricerca - conclude Rita Levi Montalcini - è il vero motore di un Paese moderno, sia per le ricadute a livello sociale sia per quella a livello economico».
ENRICO LETTA: CERCHEREMO IL SUO CONSENSO - La rispota del governo non si è fatta attendere. «Non è pensabile una Finanziaria del centrosinistra con il voto contrario della senatrice Rita Levi Montalcini; quindi faremo di tutto per venire incontro alle sue richieste». Lo ha assicurato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta, interpellato dai giornalisti a Verona dove si trova per un foro di dialogo italo-spagnolo.
PADOA SCHIOPPA: I RETTORI SANNO DOVE TAGLIARE - E in un incontro con gli studenti è il ministro dell’economia a rispondere indirettamente ai richiami. Spostando il piano sul taglio degli sprechi e sulle economie che, dice Padoa-Schioppa, solo un rettore può operare in modo saggio. Parlando all’Università di Chieti, Padoa-Schioppa ha detto di riferirsi «alle economie che questa legge Finanziaria cerca di realizzare determinando anche la tensione, insoddisfazione, preoccupazione come quella che abbiamo letto sui giornali di oggi venire dall’Università». Ciò e dovuto al fatto che «l’azione che può fare il governo - ha sostenuto il ministro - è, per certi versi, un’azione indifferenziata: la differenziazione si fa in piccolo, non si fa in grande. Solo un rettore sa dov’è lo spreco in un’universita di cui è rettore, così come - ha aggiunto Padoa-Schioppa - solo un professore sa chi nella sua classe studia in maniera seria e chi non studia del tutto».
MUSSI: PARTIAMO MALE - Di altro avviso è il ministro dell’università e della ricerca, Fabio Mussi «Che nell’anno del risanamento si lesini sulle risorse è inevitabile, che si operi un massiccio definanziamento è un azzardo sul futuro» ha detto. «Posso convenire con Padoa Schioppa, che i soldi pubblici vanno spesi bene, sempre e in tutti i settori, compresa l’università e gli enti pubblici di ricerca. Mi permetto tuttavia di osservare che non siamo in una situazione di abbondanza, bensì esattamente contraria. L’Italia spende per l’università lo 0,88% del pil: la media Ocse è l’1,2%. L’italia spende in ricerca (tra pubblico e privato - poco privato -) l’1,1% del pil contro una media ocse dell’1,5%. Mi riferisco all’Ocse perchè non oso fare paragoni con le medie europee o americane, nè tantomeno riferirmi agli obiettivi di lisbona. Abbiamo - conclude il ministro - la metà dei ricercatori francesi, un terzo dei tedeschi, un decimo dei giapponesi, un trentesimo degli americani».
BERSANI: «MIGLIORAMENTI AUSPICABILI» - Anche il ministro dello sviluppo economico, Pier Luigi Bersani, era intervenuto in precedenza sul tema degli atenei universitari: «Alla luce anche delle successive decisioni della finanziaria - ha affermato il ministro - non mi opporrei certamente ad una soluzione che in sede parlamentare trovasse le condizioni di un miglior equilibrio a vantaggio delle università» Se gli atenei italiani piangono, quelli europei non ridono. A tracciare un quadro negativo della situazione di università e ricerca nel vecchio continente è il presidente del parlamento europeo Josep Borrell: «La situazione dell’università europea è negativa - sottolinea - non solo in Italia. Anche in Spagna, ad esempio, non è buona. Non possiamo pretendere di fare ricerca e innovazione a livelli competitivi senza investimenti importanti». 11 novembre 2006
* Corriere della Sera, 11.11.2006
Prodi: «Questo Paese è impazzito. La Finanziaria è per il domani»*
«Qui ormai siamo in un paese impazzito, che non pensa più al domani». Il Presidente del Consiglio risponde con grinta e senza usare mezzi termini ai giornalisti che lo incalzano sui temi "scottanti" del Paese a margine dell’inaugurazione del raddoppio della tratta ferroviaria Bologna-Crevalcore, nel luogo in cui il 7 gennaio 2005 ci fu l’incidente ferroviario che provocò 19 morti. Parla della manovra, delle difficoltà all’interno della maggioranza, delle critiche ai tagli alla ricerca arrivate dai Nobel, della necessità di "larghe intese" per riformare il Paese e persino delle polemiche annunciate circa una presunta commemorazione "sotto tono" per i militari italiani morti a Nassiryia il 12 novembre del 2003. Insomma una sorta di "sfogo" in cui Prodi difende la manovra e sottolinea soprattutto la necessità di riformare e ricostruire il Paese.
Finanziaria
Ma andiamo con ordine. Prima di tutto la Manovra. «Io ho fatto una finanziaria che pensa allo sviluppo domani e dopodomani, nei prossimi anni a ricostruire il paese - spiega Romano Prodi - Nessuno vuole che si taglino le spese che lo interessano. Poi - ha aggiunto riferendosi alle critiche sul capitolo fiscale - si dice: "Troppe tasse". Ma la quantità di imposte è minima. Siamo intorno ai 3 miliardi di euro su una Finanziaria di 40-41 miliardi, vedremo il definitivo. E si continua a lavorare commentando fatti inesistenti».
Insomma, spiega il premier, è normale che «con una Finanziaria come questa» si facciano «molti scontenti»: «È ora che i politici governino anche scontentando - sottolinea Prodi - per il bene di tutti. Lo ripeto scontentare, a volte, significa fare il bene di tutti». «Quindi io sono estremamente tranquillo - ha ribadito - quando abbiamo la Finanziaria definitiva la gente fa i conti e, soprattutto, quando ci saranno le conseguenze sullo sviluppo dell’economia, allora credo che la gente sarà contenta. È inutile fare politica vivendo sull’oggi».
Tfr e Ferrero
I giornalisti quindi incalzano il premier sulle difficoltà all’interno della maggioranza e in particolare sul "no" del ministro Ferrero (Rifondazione Comunista) alla riforma della cosiddetta "liquidazione". Insomma: il voto del ministro Ferrero contro il Tfr apre un caso politico per il governo e la maggioranza? «Per me no, non apre un caso politico - dice sicuro il presidente del Consiglio - il ministro ha chiaramente limitato il dissenso a questo». «Vedete - ha spiegato Prodi ai cronisti - al Consiglio dei ministri, come in tutti i paesi seri, si vota anche a maggioranza. Sul Tfr non c’era l’accordo da parte di Ferrero e ha semplicemente votato contro senza che questo costituisca nulla».
Montalcini
Sistemato il dissenso con Rifondazione i cronisti chiedono a Prodi cosa ne pensa dell’allarme di Rita Levi Montalcini sugli scarsi fondi per la ricerca. «Ho sentito le sue dichiarazioni, mi sembrano un giusto ammonimento, ma anche intempestive. Perché si sta lavorando, scavando ogni piccola fonte per poter avere soldi per la ricerca. Quindi non ritengo giustificato un grido di allarme definitivo. Lo prendo come un invito e un ammonimento».
Riforme e larghe intese
Concluso il capitolo Finanziaria tocca a quello delle "larghe intese". I giornalisti chiedono al premier se è d’accordo con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sulla necessità che le riforme costituzionali si facciano con le più larghe intese possibili: «Certo, come no! - dice sicuro Prodi - Ho sempre detto che la legge elettorale e le grandi riforme costituzionali si fanno non a colpi di maggioranza come ha fatto il precedente governo. Lo ripeto: è parte del nostro programma. Mi fa piacere che il presidente della Repubblica riconosca l’importanza di una decisione di questo tipo».
Prodi risponde anche a Fini che dice che su le riforme non c’è dialogo: «E allora non si fanno! Se non le vuol fare - dice con un sorriso - non si fanno. Ma non è questo il modo in cui si manda avanti il Paese».
Iraq
Infine il capitolo Iraq e la replica agli attacchi del centrodestra sulla commemorazione della strage di Nassiriya.: «Il presidente del Consiglio domani andrà a commemorare i caduti di Nassiriya personalmente, quindi io non applico nessun tono minore». «Lo faccio a Bologna - spiega Prodi - perché mi sembra doveroso rendere omaggio ai caduti di Nassiriya nella mia città». Domenica mattina, infatti il Professore si recherà al cippo che, nel parco della Montagnola di Bologna, ricorda la strage di Nassiriya: «Il simbolo - sottolinea Prodi - è molto più generale che non bolognese».
* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 13.41
«L’opposizione non ha un modo costruttivo di porsi»
«Nessun scoramento, messaggio al Paese»
Prodi torna a spiegare la sua frase di sabato sul «paese impazzito»: «Serve che ognuno dia il suo contributo» *
ROMA - Nessun scoramento ma un messaggio al Paese su quello che occorre per uscire dalle condizioni difficili in cui il governo ha trovato l’Italia. Così il presidente del consiglio Romano Prodi spiega la sua frase choc rispondendo alle domande del GR1.
LA FRASE - Quella frase sul paese impazzito era un segno di scoramento davanti a una maggioranza che sembra faticare nella ricerca di un progetto comune? «Niente affatto», ha risposto il premier spiegando che si tratta invece di «un messaggio al paese a cui dico chiaramente: non crediate che si possa uscire dalla situazione di difficoltà profonda in cui ci hanno consegnato l’Italia senza fare cambiamenti, senza che ognuno dia il proprio contributo. Non è possibile che ognuno voglia che il contributo lo dia l’altro».
ALL’ATTACCO - Di fronte all’opposizioneche afferma che questo governo è il peggiore della storia della Repubblica, Prodi replica: «si mettono sull’Aventino, criticano e sostanzialmente insultano... Non è questo un modo costruttivo». Napolitano - chiede ancora il GR1- invoca dialogo e riforme condivise; è ancora possibile raccogliere il suo invito? «Sulla riforma costituzionale e sulla legge elettorale - risponde Prodi - ho sempre detto che si possono cambiare, non violentando la minoranza come è stato fatto in passato. E sono coerentemente su questa linea». 12 novembre 2006
L’Italia specchio della politica
di ILVO DIAMANTI *
IL PREMIER, Romano Prodi, ieri, sconsolato, ha ammesso di non riconoscerli più, gli italiani. I quali, a suo avviso, sarebbero "impazziti". Incapaci di capire e di accettare la gravità della condizione in cui versano. Di guardare al futuro. Una strana dichiarazione, per chi governa, per volontà e con il voto degli italiani. A meno che gli italiani non siano impazziti e abbiano perduto il senso del futuro "dopo" il voto. E in questo caso sarebbe difficile non attribuirne la responsabilità, almeno in parte, a chi ha governato in questi mesi. Il fatto è che per fare politica, per governare non è sufficiente diagnosticare i mali e prescrivere le terapie di cui ha bisogno la nostra economia. Occorre convincere i cittadini. Dimostrare loro quanto siano necessari i "sacrifici" (i tagli) previsti. Trovare le soluzioni ma anche le parole per comunicarle. Per spiegarle.
Se gli italiani "non capiscono", anche ammesso che sia vero, non possono essere loro a sbagliare. Ma chi li rappresenta. Per definizione. D’altronde, l’idea che gli italiani sbagliano, non capiscono, è ormai consolidata. L’ha sostenuta Berlusconi, per anni. Anche se il Cavaliere affermava un’immagine opposta. Quella di un Paese felice. Con un grande futuro. Il mito delle due Italie. L’Italia media, depressa e pessimista, che si scontrava, allora, con la narrazione che ne davano Berlusconi e i media. Assai più ottimista.
Lo stesso mito che oggi propone Prodi. Ma a parti invertite. È l’Italia media, secondo lui, a rifiutare la gravità della situazione. Malata di bulimia, non accetta la dieta preparata dal governo. Comune la convinzione che "gli italiani non capiscono". Sono impazziti. Non pensano al futuro. Facile ricorrere all’immagine di una "Italia divisa a metà" (evocata dal titolo di un libro, curato da Renato Mannheimer e Paolo Natale, per Cairo; e tematizzata da un volume di Itanes, Dov’è la vittoria?, appena edito dal Mulino). Divisa: sul piano elettorale, fra destra e sinistra. Ma anche tra società e politica, fra i cittadini e le istituzioni. Però non funziona. L’Italia divisa a metà? Magari. Questo Paese rammenta assai di più l’immagine dello "specchio rotto", sul quale domenica scorsa si è fermato lo sguardo attento e dolente di Eugenio Scalfari. Una società che si sbriciola in mille pezzi. In mille schegge. Il nostro Paese. Diviso e al tempo stesso unito da molteplici differenze, di storia, economia e cultura. Quelle differenze, che hanno sempre costituito una risorsa e una ricchezza, per noi, oggi stentano a stare insieme, dentro a una cornice comune. Come le tessere che rifiutano di combaciare, nello stesso puzzle; rivendicando, ciascuna, la propria irriducibile specificità.
Le nostre questioni territoriali, vecchie e nuove: riesplodono. A Napoli: la questione meridionale. Nel Lombardoveneto: la questione settentrionale. E i "particolarismi" metropolitani. Roma che contende a Venezia il ruolo di capitale del cinema. E a Milano l’hub aeroportuale. Torino che protesta contro Milano - e contro il governo "amico" - per aver perso l’expo. La metropoli diffusa del Nordest contro tutti. Quanto alla coesione sociale e professionale, che dire? Protestano tutti. Tutti i ceti e tutte le categorie. In modo chiassoso. Qualche volta violento. Ma comunque ad alta voce. Protestano i tassisti, i farmacisti, i notai e gli avvocati. Protestano i ceti medi. Ma neanche gli altri ceti sembrano felici. Protestano i commercianti, gli artigiani, gli industriali piccoli, medi e grandi.
Protestano gli evasori, piccoli, medi e grandi. E quelli che non evadono, perché non vogliono e soprattutto, non possono farlo. Protestano i sindaci. Protestano i pensionati e i lavoratori che contano di andare in pensione presto. E quelli che temono di non arrivarci. Protestano i ricercatori, i professori universitari e i rettori. Protesto anch’io, che sono professore universitario, pro rettore, faccio ricerca, non credo che arriverò alla pensione e risiedo nel Nordest.
Ciascuno ha le sue buone ragioni. Tutti, certamente, hanno i loro buoni interessi da difendere. Tutti, nel loro piccolo (medio e grande) hanno un buon motivo per incazzarsi. E lo fanno. Senza preoccuparsi troppo dell’interesse comune, delle buone ragioni di medio e lungo periodo. Senza pensare al futuro. In questo, forse, Prodi ha ragione. Però, a nostro avviso, sbaglia quando contrappone le responsabilità sociali a quelle della politica, delle istituzioni e del governo.
Purtroppo: non c’è distanza fra questa società e la politica che la "rappresenta". Non c’è distacco fra la frammentazione sociale e quella della maggioranza di governo. C’è, anzi, coincidenza fedele. La politica, il centrosinistra, il governo: invece di ridurre e sanare la confusione sociale, la complicano e la moltiplicano. Alimentano le spinte centrifughe cui è sottoposta la società; le tensioni localiste e municipaliste. La Cdl: protesta contro il governo. Ogni settimana una città, una piazza. Ma sta all’opposizione. Fa il suo mestiere. Però, marciano contro il governo anche soggetti politici "amici". I partiti e i gruppi della "sinistra tradizionale" (come la definisce Michele Salvati), che una settimana fa hanno promosso e partecipato alla manifestazione contro il precariato. Cioè, contro i "riformisti" del centrosinistra. Contro gli alleati. Mentre i "girotondini" preparano, a loro volta, strategie e liste alternative. D’altronde, questa legge elettorale ha alimentato ulteriormente il frazionismo partigiano. Riducendo gran parte dei partiti a oligarchie di potere.
Un vizio che oggi affligge la maggioranza, più dell’opposizione. Non che la Cdl sia coesa e omogenea. Anzi. Però, appunto, sta all’opposizione. L’Unione, invece, oggi è un ossimoro, tanto appare sbriciolata. Sette partiti, il doppio almeno di fazioni, frazioni, correnti, che attraversano e segmentano i partiti. E si incrociano, intrecciano, contrastano. Un melting pot di culture politiche, identità, che si traducono in un catalogo sempre più lungo di marchi e definizioni. Comunisti, radicali, socialisti, socialdemocratici, popolari, mastelliani, dipietrini, ulivisti, teodem, social-liberali, liblab, blairiani, veltroniani, verdi, riformisti, new-global. Mentre si avvicina l’Italia di mezzo (cioè, Follini). Ma certamente dimentichiamo qualche sigla, qualche soggetto, qualche neologismo usato per evocare un gruppo, talora, più modestamente, un nuovo comitato che rivendica un posto a tavola. Pardon: al "tavolo di concertazione". E ciascuno spinge, grida, minaccia, fino al limite della rottura. Per cercare visibilità. Spazio.
La difficoltà di costruire una finanziaria e, più in generale, una politica di governo coerente e comprensibile riflette, indiscutibilmente, questa situazione frammentaria e frammentata. Che Prodi, Padoa-Schioppa e gli altri ministri hanno affrontato ricorrendo a continue mediazioni e soluzioni creative. Difficile indicare una "missione", in queste condizioni. Ma è difficile, a maggior ragione, pretendere che i cittadini "capiscano" ciò che solleva polemiche e contrasti fra i ministri e i leader della maggioranza. Interpretarne il disorientamento come segno di follia. Come è difficile, a maggior ragione, chiedere agli italiani un sentimento comune e di unità, se è l’Unione, per prima, ad apparire "spezzata". Incapace di proporre identità, valori, progetti comuni.
Basta pensare al Partito Democratico, che, ancora, incontra il consenso di gran parte degli elettori di centrosinistra. Ma procede per inerzia. Un passo avanti, due di lato. Poi una sosta. Come se si potesse costruire un nuovo soggetto politico in questo modo. Senza entusiasmo. Senza passione. Per necessità. Per cui si sta insieme perché altrimenti sarebbe peggio. Tornerebbe il Tiranno. Di cui, peraltro, di giorno in giorno cresce la nostalgia. Perché la sua assenza al governo, e la sua voce intermittente, all’opposizione, pesano. Soprattutto al centrosinistra. Che, senza il Nemico, appare spaesato.
Se il Paese appare "impazzito", in frantumi, senza futuro, è perché somiglia troppo alla politica. E, in particolare, al centrosinistra che governa. Anzi: la politica e il centrosinistra ne offrono un’immagine ancor più frammentata e opaca. Come uno specchio in frantumi. Se Prodi vuole "curare" il Paese, promuoverne la coesione e il senso del futuro deve cominciare dal governo e dalla sua maggioranza.
* la Repubblica, 12 novembre 2006