[...] "Siamo orgogliose di quello che abbiamo compiuto.", sottolinea Marlenys Hurtado, madre di tre bimbi e membro della Liga, "Certo portiamo con noi tutte le sofferenze e le ferite della guerra, ma abbiamo imparato a guardare al futuro con dignità."
"Ma è solo l’inizio", interviene Patricia Guerrero, "Abbiamo bisogno di rendere la città e i progetti produttivi autosufficienti e di creare un’economia basata sulla solidarietà. Dobbiamo anche imparare a risolvere i conflitti che inevitabilmente sorgeranno, e consolidare le basi della comunità attorno ai diritti umani, l’eguaglianza, l’opposizione alla guerra ed alla violenza."
Immaginate di assistere all’omicidio di figli, mariti, fratelli o sorelle e poi di dover fuggire per salvare la vostra stessa vita. Immaginate di dover sconfiggere la paura, la fame, la marginalizzazione sociale. E’ questo ciò che le donne del villaggio hanno fatto [...]
Colombia
Ricostruire la vita mattone su mattone,
di Gloria Helena Rey (per Inter Press Service News Agency, 1° settembre 2006 --- trad. M.G. Di Rienzo)*
Cartagena, Colombia. La "Città delle Donne" nella municipalità di Turbaco, nel nord della Colombia, ad undici chilometri dalle mura fortificate dalla città turistica, non assomiglia per nulla al film di Federico Fellini che porta lo stesso nome, ne’ al sobborgo di Buenos Aires che pure lo porta, dove tutte le strade e i luoghi pubblici sono stati intitolati a donne famose.
Queste donne colombiane, al contrario, sono molto reali e tuttora vive, e stanno lasciando un segno nel paese. Rese profughe dalla guerra, sopravvissute a massacri e crimini, alcune vittime delle milizie paramilitari, altre dei guerriglieri o delle forze di sicurezza. La Colombia ha il maggior numero di profughi interni al mondo dopo il Sudan: circa 2 milioni e mezzo di persone secondo i dati governativi, ed il 49% del totale sono donne. La nuova comunità nei pressi di Turbaco è stata costruita dal duro lavoro di queste donne.
All’inizio, in otto fondarono la "Liga de Mujeres Desplazadas" nel 1998, affinché le migrazioni forzate interne fossero riconosciute come crimini di guerra, per cercare aiuto umanitario che migliorasse le terribili condizioni igieniche e nutrizionali in cui vivevano, e per reclamare i propri diritti umani e quelli delle proprie famiglie.
"La vista della tremenda povertà nelle strade era insopportabile.", ricorda Patricia Guerrero, avvocata resa profuga dalla minacce ricevute, madre di tre figlie e forza motrice della Liga de Mujeres e del villaggio da essa creato. Circa cento donne si unirono a lei nel cominciare a costruirlo, mattone su mattone, nel 2003. Esse stesse hanno fabbricato i 120.000 blocchi di cemento usati per le 97 case (ciascuna di 78 metri quadri) che oggi ospitano 500 persone. Il progetto, che includeva i costi del terreno e la costruzione degli edifici fu negoziato con il proprietario per più di un anno e mezzo. Guerrero è riuscita ad ottenere fondi da numerose organizzazioni pubbliche e private, fra cui l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati ed il governo spagnolo. Mano a mano che nuovi fondi arriveranno, altre abitazioni verranno costruite.
La formazione è uno dei punti chiave dell’iniziativa: molte delle donne che ora vivono nel villaggio erano contadine o domestiche. "E’ stata dura imparare a fare mattoni, ma ho dimostrato che una donna può riuscirci.", dice Niris Romero, madre di cinque figli, una delle donne appositamente addestrate allo scopo, "Ho posato io le travi di casa mia, e ho contribuito a modellare ogni colonna, e ho mescolato il cemento che doveva fissare il tutto. Sono felice: ho un tetto e un mestiere."
Tutte le donne hanno ricevuto istruzione professionale, nel posare mattoni o nel coltivare la terra; tutte hanno portato la loro formazione oltre a questo, impegnandosi nel campo dello sviluppo dei diritti umani.
"E’ stato estremamente difficile far diventare concreto il progetto.", dice ancora Guerrero, "Siamo state attaccate quasi subito. Io venivo accusata di agire per interessi personali, e praticamente chiunque diceva che il progetto era destinato a fallire. Durante la costruzione delle case fummo continuamente minacciate, persone "sparivano" e poi venivano uccise, e i loro corpi venivano riportati accanto al villaggio per terrorizzarci.
Volevano che ce ne andassimo, e usavano qualunque mezzo." Il marito di Simona Velásquez, 46enne madre di sei figli e resa profuga dalla guerra per tre volte, fu ucciso a colpi di machete mentre sorvegliava i materiali da costruzione per l’insediamento. "Non rubarono i materiali, ma l’omicidio fece salire il panico. Molte donne sulle prime volevano abbandonare, ma nessuna lo fece.", dice Guerrero. "Avrebbe significato dir loro: avete ucciso la nostra ultima speranza. Non potevamo farlo, siamo restate tutte.", aggiunge Nerlides Almansa, 48 anni e anche lei madre di sei bambini, attuale coordinatrice dei progetti produttivi della Liga e della "Città delle Donne".
Queste donne hanno già ricevuto nomination per il Premio Nobel per la Pace, in ragione del fatto che come individui e come organizzazione stanno dando un contributo significativo alla risoluzione di un conflitto armato che interessa la Colombia da ormai 40 anni. La loro storia è stata presa a modello in altre regioni del paese. Le famiglie delle donne hanno ricevuto anch’esse formazione ed hanno partecipato a corsi di autocoscienza.
Patricia Guerrero mi spiega il lavoro fatto sul concetto di "mascolinità" con la "Lega della gioventù" e i mariti. "Non vogliamo mariti violenti, o figli che possano essere trascinati nella guerra e nella prostituzione. La nostra comunità è coesa attorno a valori etici ed educhiamo ognuno ai suoi diritti di cittadino."
Le donne hanno anche costruito un sistema di distribuzione idrica e un centro sociale diurno; hanno fondato Mujercoop, una cooperativa che commercia parte dei mattoni fabbricati, e messo in funzione un ristorante comunitario. Inoltre, hanno creato un fondo per finanziare micro-imprese e progetti sussidiari di istruzione. Nello scorso mese di luglio, dice la responsabile Roselí Cardona, sono stati approvati progetti per 11 nuove piccole imprese, e quello per la formazione alla fabbricazione di scarpe.
Prima di giungere a Turbaco, queste donne avevano perso tutto. Il loro orgoglio e la loro dignità erano in pezzi. Molte di esse erano state stuprate, molte avevano visto uccidere i membri delle loro famiglie.
"Non ci tengo a rivangare il passato.", dice Adelaida Amador, madre di cinque figli, che gestisce uno dei negozi di alimentari della comunità e fu una delle prime ad unirsi al progetto, "Oggi abbiamo pace, un tetto sopra le nostre teste e un futuro."
"Siamo orgogliose di quello che abbiamo compiuto.", sottolinea Marlenys Hurtado, madre di tre bimbi e membro della Liga, "Certo portiamo con noi tutte le sofferenze e le ferite della guerra, ma abbiamo imparato a guardare al futuro con dignità."
"Ma è solo l’inizio", interviene Patricia Guerrero, "Abbiamo bisogno di rendere la città e i progetti produttivi autosufficienti e di creare un’economia basata sulla solidarietà. Dobbiamo anche imparare a risolvere i conflitti che inevitabilmente sorgeranno, e consolidare le basi della comunità attorno ai diritti umani, l’eguaglianza, l’opposizione alla guerra ed alla violenza."
Immaginate di assistere all’omicidio di figli, mariti, fratelli o sorelle e poi di dover fuggire per salvare la vostra stessa vita. Immaginate di dover sconfiggere la paura, la fame, la marginalizzazione sociale. E’ questo ciò che le donne del villaggio hanno fatto.
Isabelina Tapias, 71 anni; Doris Berrío, suo marito e i due piccoli, e Ana Luz Ortega con il marito e sette bambini, erano stati colpiti dalle forze paramilitari. La figlia di Isabelina fu uccisa, Doris e la sua famiglia scamparono per miracolo alla morte, Ana Luza decise di fuggire quando gli omicidi attorno a lei erano diventati routine e la sua bimba dodicenne era stata minacciata di stupro.
"Fuggimmo dagli ammazzamenti della guerriglia.", racconta Almansa, "Lasciammo tutto, e andammo via." L’attenzione di Almansa è oggi concentrata sulle piantagioni di grano, fagioli e verdure, e sulla ricerca di risorse per migliorare i raccolti. "La mia forza la prendo dalle persone che hanno pensato il progetto, da coloro che le sostengono, e da me stessa. Vivere così era il solo sogno che avevo."
Viste da lontano, le modeste casette immerse nella vegetazione tropicale sembrano silenziose. Ma stanno facendo un grande rumore. E’ un suono potente e, come Patricia Guerrero sostiene, è soprattutto "Resistenza pacifica all’impunità, alla violenza su donne e bambini, e all’omicidio. E’ anche un modo per fronteggiare chi fa "sparire" le persone, ruba la terra, e coloro che per decenni hanno sparso i semi del dolore e della fame in questa regione."
www.ildialogo.org, Venerdì, 01 settembre 2006
COLOMBIA: ..... E LA LEZIONE DEL CARDINALE TRUILLO E DEI VESCOVI !!!
In Colombia abortisce una bambina vittima di violenza Il card. Trujillo e i vescovi scomunicano tutti. Ma non lo stupratore
di Adista N. 61 - 09 Settembre 2006 *
33519. BOGOTÀ-ADISTA. Scomunica per tutti coloro che il 25 agosto scorso, nell’Ospedale Simon Bolivar di Bogotá, hanno consentito di realizzare il primo aborto legale in Colombia. Per il presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, card. Alfonso López Trujillo, non fa differenza il fatto che, ad abortire, sia stata una ragazzina di undici anni, incinta di otto settimane, vittima di violenze sessuali da parte del patrigno sin dall’età di 7 anni. Interpellato il 29 agosto dall’emittente radiofonica colombiana Rcn, Trujillo ha dichiarato che "tutte le persone che hanno partecipato all’intervento medico sono dei malfattori perché hanno stroncato la vita di un innocente prima della nascita". La scomunica per direttissima di Trujillo ha sollevato un vespaio in Colombia: le sue dichiarazioni hanno dominato le prime pagine dei giornali e hanno provocato la reazione di 21 direttori di ospitali pubblici, che hanno espresso la loro solidarietà a Carlos Lemus, che ha autorizzato l’aborto nell’ospedale di cui è responsabile. Per il presidente dell’Ordine dei medici della Colombia Stevenson Marulanda, che pure è contrario all’aborto anche in caso di stupro, "l’intervento del cardinaleè esagerato e radicale": "se mi toccherà disporne per gli altri due motivi [malformazione del feto o pericolo di vita della madre, ndr] mi scomunichino pure, anche se resterò sempre cattolico". "Come fedele, rispetto la posizione del cardinale, anche se non la condivido", ha ribattuto il dott. Lemus. "Come direttore d’ospedale, mi assumo tutte le responsabilità di quanto è successo: che la scomunica colpisca me e soltanto me, non i medici che lavorano alle mie dipendenze. Come cittadino, ho disposto l’aborto in ossequio a una sentenza della Corte Costituzionale che fa esplicito riferimento ai casi di violenza in questione. Come uomo, infine, ho visto il visino angosciato della bimba quando è arrivata all’ospedale e quello del tutto trasformato quando ne è uscita: è quanto basta alla mia coscienza". Lemus ha comunque assicurato che, nonostante la scomunica, continuerà ad andare in chiesa: "La mia comunicazione con Dio è sempre stata molto buona e forse con la scomunica magari diventerà più diretta". Il cardinale, in seguito alle polemiche, si è sentito in dovere di precisare il proprio pensiero: "né il Vaticano, né io stesso", ha dichiarato alla stampa colombiana, hanno mai scomunicato nessuno. E questo perché la scomunica, per chi concorre "materialmente o moralmente" all’aborto, è da considerarsi automatica (latae sententiae), in base all’articolo 1398 del Codice di diritto canonico, e non viene quindi applicata da nessuna autorità ecclesiastica. Tuttavia, il Tribunale ecclesiastico colombiano ha precisato che spetterà al card. Pedro Rubiano Saenz, arcivescovo di Bogotà, disporre su chi cadrà la scomunica, in quanto massimo esponente della Chiesa locale. "I protagonisti del complotto per mettere in atto questo crimine", aveva dichiarato Trujillo, "sembrano essere i medici, gli infermieri ed i familiari", in riferimento al fatto che è stata la nonna della bambina a rivolgersi alla clinica. In Colombia l’aborto, tra molte polemiche e con l’opposizione netta della Chiesa, è diventato legale - e solo in alcuni limitati casi - lo scorso maggio: una sentenza delle Corte Costituzionale lo ha infatti depenalizzato solo quando il feto è deforme, la gravidanza è frutto di uno stupro o la vita della madre è in pericolo. Il verdetto della Corte veniva a porre fine ad una lunga diatriba legale, rassicurando ai medici che non sarebbero stati perseguiti penalmente se avessero praticato aborti ’terapeutici’ e obbligandoli invece ad applicare la legge nei casi previsti. Già in quel caso - sempre appellandosi al Canone 1398 - la conferenza episcopale colombiana, nella persona del primate card. Pedro Rubiano Saenz, arcivescovo di Bogotà, aveva dichiarato scomunicati i giudici della Corte Costituzionale che avevano votato a favore della depenalizzazione, insieme a tutti coloro che l’avevano promossa. "Da ieri ho un nuovo poster nel cuore: quello del dottor Carlos Lemus", ha scritto il 31 agosto sul quotidiano La Stampa Massimo Gramellini. "Il cardinale Alfonso Lopez Trujillo, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, ha proclamato la scomunica. Del patrigno? No. Dei medici che hanno effettuato l’intervento, nonché dei familiari della piccola che avrebbero ordito ’l’orrendo crimine’. La violenza carnale? No. La decisione di far interrompere la gravidanza meno voluta e cercata del mondo". "La Chiesa fa bene a fare il suo mestiere", conclude Gramellini. "Ma forse lo farebbe meglio se i suoi campioni assomigliassero un po’ meno al cardinal Trujillo e un po’ di più al dottor Lemus".
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www.ildialogo.org, Martedì, 05 settembre 2006