Ottocento anni fa, il 30 marzo 1202, morì Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese «di spirito profetico donato» che Dante collocò nel Paradiso. E che in Paradiso c’è andato per davvero, stando al processo di canonizzazione avviato dalla diocesi di Cosenza, in cui ricade il monastero di San Giovanni in Fiore. Oltre che dall’avvio del processo di santità, il centenario è stato segnato da una serie di convegni. Che dietro la facciata dell’erudizione nascondono questioni vitali per il presente e il futuro della Chiesa. Perché le visioni di Gioacchino da Fiore hanno traversato i tempi, anche se per il grande pubblico egli resta uno sconosciuto. E continuano a influenzare larga parte del cattolicesimo d’oggi.
Affiorano, ad esempio, nelle tesi sostenute dal francescano Raniero Cantalamessa, che è il predicatore ufficiale della Casa pontificia: «La storia sacra ha tre fasi. Nella prima, l’Antico Testamento, si è rivelato il Padre. Nella seconda, il Nuovo Testamento, si è rivelato il Cristo. Ora siamo nella terza fase, quando lo Spirito Santo brilla in tutta la sua luce e anima l’esperienza della Chiesa». Proprio questo, infatti, Gioacchino profetizzò: la venuta di una terza e ultima età del mondo, quella dello Spirito Santo. Con una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica. Che prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. Padre Cantalamessa è vicino al movimento dei carismatici e quindi sensibile a queste visioni. Ma l’influsso di Gioacchino da Fiore sul pensiero cattolico è molto più ampio e profondo.
Il gioachimismo cattolico ha avuto un impetuoso risveglio soprattutto col Concilio Vaticano II. Ha fatto leva su Giovanni XXIII e la sua invocazione di «una nuova Pentecoste». Ha contrapposto lo «spirito» del Concilio alla sua «lettera». Ha predicato una nuova Chiesa «spirituale» al posto di quella vecchia «carnale». Soprattutto le correnti progressiste della Chiesa hanno innalzato questo stendardo. Anche il mito della «Chiesa dei poveri» lanciato dal cardinale Giacomo Lercaro e dal suo teologo don Giuseppe Dossetti rimanda a Gioacchino da Fiore, ai fraticelli e a Celestino V, il papa mistico che, unico caso nella storia, rinunciò alle somme chiavi.
Il grande teologo gesuita e poi cardinale Henri De Lubac dedicò negli anni Settanta all’influsso del monaco calabrese due volumi di più di mille pagine, intitolati “La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore”. Il primo è oggi esaurito. Ma il secondo, “Da Saint-Simon ai nostri giorni”, edito da Jaca Book, è ancora disponibile in libreria.
In esso, De Lubac dedica pagine acute all’impronta gioachimita sul pensiero hegeliano e marxista, ma anche su Lamennais, sul messianismo polacco di un Adam Mickiewicz, sui grandi autori russi. Il capitolo conclusivo, purtroppo incompiuto, ha per titolo “Neogioachimismi contemporanei”. De Lubac vi scrive:
«Il “cancro” denunciato dal Concilio provinciale di Arles nel 1262 era una semplice dottrina fantasiosa, una corrente marginale, episodio effimero nella storia cristiana, o al contrario un fenomeno di straordinaria portata, dal seguito incalcolabile? La risposta non appare dubbia. [...] Il gioachimismo non è solo riconoscibile in contesti completamente secolarizzati. Esso ispira, come forza ancor viva, movimenti spirituali che non vogliono uscire dai confini del cristianesimo. [...] Nella seconda parte del secolo XX assistiamo al suo risveglio nel cuore stesso della Chiesa. Sembra perfino volervi effettuare un ritorno in forze. Però, rispetto allo stesso Gioacchino, i suoi odierni araldi non annunciano lo sboccio dello Spirito per l’indomani; lo vedono e lo dicono già presente in loro; essi ne sono gli organi. Forse più di Gioacchino, accentuano la cesura tra la Chiesa proveniente dal passato, dichiarata ormai invecchiata, e quella del futuro, che sorge oggi stesso in qualche luogo privilegiato, raggiante di giovinezza. [...] Si osserva alla base una concezione lineare del tempo, che crede di non poter accogliere nulla di nuovo se non attraverso il rifiuto dell’antico».
A riprova di questi suoi giudizi, De Lubac cita di passaggio autori «dottrinalmente inoffensivi» come Mario Pomilio con il suo “Il quinto evangelio” e Ignazio Silone «figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di gioachimismo».
Ma dedica spazio soprattutto ai teorici della «morte di Dio» e ai teologi della liberazione, da Jean Comblin a Giulio Girardi a Leonardo Boff. Nei quali De Lubac rinviene un gioachimismo senz’altro condannabile, ma anche talmente «confuso» da permettere loro «di sfuggire all’eterodossia cristiana».
E ancora. Tra i grandi teologi imbevuti di gioachimismo, De Lubac prende di mira il gesuita Michel de Certeau e il protestante Jurgen Moltmann, «la cui “Teologia della speranza” riprende per cristianizzarle, ma senza riuscirvi molto bene, le concezioni escatologiche di Ernst Bloch» . Il capitolo si interrompe sul limitare del primo dopoconcilio, quando «sboccia tutta una fioritura di apostoli dello Spirito al sole della Chiesa, di una Chiesa al tramonto che deve far posto a quella del domani, [...] una nuova Chiesa in cui l’amore deve “prendere il posto della legge”».
Avesse proseguito, c’è da scommettere che De Lubac avrebbe incluso nella sua critica Giuseppe Dossetti e il dossettismo. Ossia la corrente intellettuale dominante nel cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo XX.
Sandro Magister
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L’ABBAZIA FLORENSE E IL DELIRIO TOTALE A SAN GIOVANNI IN FIORE (CS)
di Emiliano Morrone (Fb., 31.10.2018).
Sul Quotidiano del Sud di oggi leggo della forte preoccupazione di un cronista locale per la sorte degli anziani della casa di riposo privata e accreditata "Villa forensia", data la recentissima sentenza con cui il giudice civile di Cosenza ha stabilito che i locali in cui si trova, dentro l’Abbazia florense del XIII secolo, sono del Comune di San Giovanni in Fiore (Cs) - che, in dissesto finanziario, non ha mai ricevuto un centesimo da codesta occupazione - e vanno dunque liberati.
La causa è andata avanti per 11 anni, durante i quali c’è stata una costante battaglia civile, parallelamente all’inteso procedimento, che in prima persona ho con amici contribuito ad alimentare, coinvolgendo intellettuali di fama, da Gianni Vattimo a Cosimo Damiano Fonseca, Vittorio Sgarbi e Marcello Veneziani, nonché giornalisti, esponenti politici di diversi schieramenti, attivisti del bene comune e più in generale, per dirla con De Andrè, "voci allenate a battere il tamburo", tra cui Beppe Grillo.
Del caso, su cui sono state presentate ben 5 interrogazioni parlamentari, si sono occupati colleghi (non solo calabresi) di livello, che come me hanno raccontato l’incredibile paradosso della rsa dentro un monumento di enorme valore religioso ed artistico, simbolico per l’intera Calabria e legato all’opera profetica dell’abate Gioacchino da Fiore, che riteneva possibile l’affermazione della giustizia in questo mondo, al contrario del neoplatonismo su cui si basa il catechismo cattolico.
Mi lascia di stucco che miei concittadini, pure con buoni strumenti interpretativi, la buttino sul pietismo; sul presunto disagio degli anziani della casa di riposo prodotto dalla riferita sentenza; sulla tesi, suggestiva quanto infondata, dell’abbandono dei "vecchietti" conseguente al loro spostamento presso altra sede, che i titolari della struttura potranno individuare e attrezzare; sulla professionalità, che nessuno mette in dubbio, degli operatori della rsa e sui danni all’economia di San Giovanni in Fiore, che si spopola - questo è il corollario - perché qualcuno fa guerra a residenze sanitarie assistenziali.
Se per davvero ci fossero i marziani, osservandoci dall’esterno direbbero che siamo in preda al delirio totale. In altri luoghi non ci sono né l’Abbazia florense né il Centro studi giochimiti, che ha sede dentro lo stesso complesso badiale, né figure come Gioacchino da Fiore, la cui posterità è impressionante.
Eppure, di là dai colori politici, altrove si fa a gara per valorizzare il patrimonio artistico e culturale, che in Calabria è in genere ritenuto un peso da levarsi il prima possibile.
Ancora, per aver scritto dell’Abbazia florense fui querelato insieme a Carmine Gazzanni dall’allora dirigente dell’Ufficio legale della Provincia di Cosenza, Gaetano Pignanelli, oggi capo di gabinetto della Presidenza della Regione Calabria. Il Gip di Cosenza archiviò perché Gazzanni e io avevamo scritto il vero, e cioè che Pignanelli, ai tempi responsabile dell’Ufficio legale del Comune di San Giovanni in Fiore, aveva prodotto un "parere non vero", servito alla rsa per l’esercizio dell’attività.
Inoltre un vescovo, infine condannato per rivelazione di segreto istruttorio, mi intimò, tramite il suo avvocato, di cancellare da un mio servizio giornalistico ogni riferimento al suo assistito. Gli risposi che non l’avrei mai fatto e che, invece, avrei ospitato per dovere professionale una replica dell’alto prelato, che non arrivò mai. Finì che colleghi giornalisti del posto scrissero contro di me, accusandomi d’aver agito per invidia, data la nomina del sacerdote, originario di San Giovanni in Fiore, a vescovo della Chiesa.
Anche questa è la Calabria, oltre alle sue straordinarie ricchezze seppellite, e dobbiamo ripetercelo. Prendano nota i miei (pochi) lettori che mi seguono da altre regioni.
DOC.:
C’è una morale nella politica
di Sergio Zavoli (Il Sole 24 Ore - Domenicale, 11 marzo 2012)
Avrebbe novantanove anni, nacque nel febbraio del 1913, è stato tra i personaggi centrali della democrazia repubblicana sorta sulle macerie del fascismo, il suo pensiero politico e la sua essenza civile e morale stanno ancora attraversando l’identità di un cattolicesimo che ha il suo esordio storico quando i cattolici, nella riconquistata libertà, consolidano laicamente la scelta democratica di Sturzo.
È appena il 1945 quando - mentre De Gasperi interpreta la necessità di dar vita a una economia di mercato - Dossetti propende per una libertà politica cui va affiancata un’economia anche statale in grado di garantire la tutela dei ceti subalterni, ovviamente deboli rispetto al potere condizionante delle grandi forze economiche. Dossetti scrive: «La Democrazia cristiana non vuole e non potrà essere un movimento conservatore», attirandosi qua e là addirittura il sospetto di voler far sua la distinzione di Maritain tra fascismo e comunismo. Mentre il primo, cioè, andava considerato una forza estranea agli ideali cristiani in quanto perseguiva un ideale di Stato-guida, che permea di sé tutto, dalla cultura agli ordinamenti, al cittadino sacrificato all’individuo; il secondo è visto come una sorta di “eresia cristiana”, cioè un sistema che richiama lontanamente originarie ispirazioni comunitarie. D’altronde fu Berdjaef, il filosofo russo espulso dall’Urss nel 1922, a dire che il comunismo doveva intendersi come «la parte di dovere non compiuta dai cristiani».
Ma Dossetti tende alla qualità di una scelta ben più radicale e autentica, che ne farà un testimone scomodo, talvolta persino mal tollerato, di quanto si può dare alla politica senza farlo venir meno alla morale, al pragmatismo senza sottrarlo ai principi, al cittadino senza privarlo della persona.
Chi non ha in mente questa fedeltà laica e insieme religiosa al primato dell’uomo, quello della sua intrinseca e libera dignità personale, stenterà a farsi largo negli aspetti non di rado impervi - per esempio della dignità sacerdotale - di don Giuseppe Dossetti. Non a caso egli fa coincidere l’unicum cui si ispira affrontando la politica come il momento in cui si diventa responsabili personalmente di ciò che scegliamo per l’orientamento di noi stessi e nei confronti degli altri.
Ecco, allora, la base su cui poggiare il peso della scelta: la norma costituzionale dell’eguaglianza tra i cittadini, da perseguire attraverso la ricerca e la messa a punto di un modello di statualità sottratta, insieme, alla vischiosità della conservazione borghese e a una giustizia sociale i cui costi gravino sulle libertà personali; nell’assoluta preminenza dei diritti inalienabili di un uomo partecipe della speranza collettiva - laica, razionale, organizzata dalla politica dentro la storia - ma nella intangibile responsabilità della risposta individuale.
Si è detto di Dossetti che aveva i principali nemici, per paradosso, nelle sue idee. Certo, voler trarre da una vocazione originale e rigorosa un patrimonio di principi da comunicare a masse di cittadini comportava un’impresa virtuosa e pedagogica tale da scontrarsi con quel bisogno di duttilità e tolleranza che la gran parte di un popolo appena rinato alla democrazia coltivava nel limbo di una coscienza civile ancora confusa; in cui, per legittimarsi anche spiritualmente, bastava esibire l’alibi del «perché non possiamo non dirci cristiani», di crociana memoria, per indispettire chiunque intendesse la lotta politica come un esercizio fondato sulla pregiudiziale anti-comunista, e da tenere in sospetto una parte della stessa sinistra, la quale si sentiva insidiata nella sua dimensione più difficile, quella dell’autocritica filosofica e pragmatica.
Questi condizionamenti non giovarono all’immagine pubblica di Dossetti, ma al tempo stesso ne esaltarono la dimensione, per dir così, più sottesa e costosa. Tra gli uomini che hanno rifondato lo spirito democratico del nostro Paese è quello che ha reso più manifesto il significato morale del far politica, seppure alzandolo a un tale livello di esemplarità da essere, non di rado, irriconoscibile. Forse si fa torto al politico, ma quanto gli si toglie nella sfera pubblica alla sfera pubblica ritorna proprio attraverso quella privazione: è il paradosso-Dossetti, la sua storia e la sua coscienza. Pochi eletti, di quegli anni e dopo, hanno uniformato i propri gesti all’esigente esemplarità di quella lezione. Dossetti ne fu così consapevole che prese su di sé, assumendolo nel suo animo, il segno di contraddizione che egli stesso aveva finito per rappresentare. E quando cominciò a capire che la parola, passando per strade e piazze spesso votate alla facilità degli slogan, all’intelligenza pratica e quindi alla realtà del giorno per giorno non suscitava più le risposte che avrebbe voluto udire, la portò nel deserto e ne rimase paziente, incorruttibile custode.
Così aveva descritto il senso di quel viaggio fruttuoso: «Il mio sacerdozio è nato da uno sbocco credo coerente con la vita che già conducevo, una vita consacrata nell’intenzione e nella forma al dominio dell’orazione sull’azione tutta orientata a diffondere tra i laici cristiani una formazione che stesse a monte del pensiero socio-politico e che lo sanasse continuamente dai suoi pericoli: perché il pensiero politico è continuamente insidiato da grandi pericoli». E subito dopo, per ricomporre nella sua fondamentale unità il senso dell’altra scelta, aggiungerà: «Noi non siamo monaci, conduciamo una vita molto simile, o quasi integralmente eguale alla vita dei monaci, però negli istituti monastici tradizionali non mi riconosco».
Nasceva qui, non sentendosi espulso dalla politica, ma riconoscendone i legittimi limiti temporali, la necessità di radicare in un certo luogo - con una testimonianza tangibile anche per i significati di memoria e di lascito - la scelta definitiva di Monte Sole come riferimento e irradiazione verso la Palestina, l’Oriente, le cento terre, le cento patrie, le cento paci promesse. Monte Sole è una sorta di vulcano alla rovescia, dove si è compiuta una violenza senza tempo, in quanto consumata davanti al giudizio di Dio. È quindi il luogo della preghiera continua, per un perdono senza soste.
Qui Dossetti vuole un radicamento e si conforma a una regola. Egli è «uomo delle regole». Prima del presbiterio viene da una cultura giuridica, sa che la civiltà del diritto si fonda sul “contratto”. Occorre regolare quel “contratto”: nella Costituzione come nel Concilio, come nella stessa “piccola regola” che si darà il monastero di Monte Sole. Un “contratto” che rimetta insieme, anzitutto, storia ed etica, politica e morale, non per trasferire nella vita civile quello che ricavi dalla vita religiosa. Non è integralismo, né zelo, né mera virtù: si tratta di rivivere la dimensione pubblica secondo il principio della condivisione e della solidarietà.
C’è un fascino di Dossetti che sta anche in questo continuo contemplare e agire, nel mettere in crisi ciò a cui pensa per sottoporlo alla prova di ciò in cui crede. Egli vedeva, in lontananza, una grande crisi religiosa, anche di cristianità, forse per l’insorgere di culture pragmatiche, dispensatrici di straordinari sollievi terreni, spesso ingannevoli e persino alienanti. Anche di qui il suo sguardo all’Oriente, in cerca di una grande scaturigine di religiosità, da cui attingere per nutrire un grembo vasto, limpido, universale. C’è un enigma nell’aver visto queste distanze, e concepito quel viaggio, dal suo stare a Monteveglio, il piccolo centro della sua intoccabile, appartata totalità. «Non è possibile purificarsi da solo o da soli; purificarsi, sì, ma insieme; separarsi per non sporcarsi è la sporcizia più grande». Sono parole di Tolstoj e don Giuseppe le sa a memoria.
La parte finale della sua vita è stata giudicata una fuga dal mondo. Dossetti stesso annotava: «E qualcuno (anche tra cattolici e persino teologi) parla della vita monastica non solo come di “fuga dal mondo”, ma persino dalla Chiesa». E qui è possibile cogliere una conclusione: «Al termine di ogni via c’è l’unico e definitivo mistero di Gesù di Nazareth, figlio di Dio e figlio di Maria, che con la sua croce e la sua morte volontaria, gloriosa e vivificante, è divenuto il primogenito dei morti aprendo per noi la via della Risurrezione».
Dossetti chiuderà il suo libro, lacerato e di nuovo riunito dalla sua totalità, il 15 dicembre del 1996. Credenti e non credenti parteciperanno alle esequie in gran numero. Intorno alla bara, per un tratto della cerimonia funebre, si alterneranno vecchi partigiani con i loro nipoti e pronipoti, i nuovi bambini della comunità; laicamente destinati a capire i valori anche civili che lo spirito, secondo Dossetti, sa mettere nella storia. La quale forse non si ripete, ma quanto disse e visse Dossetti somiglia ancora a non poche questioni che si presentano davanti alla Chiesa e ai cattolici nella dimensione globalizzata dei problemi.
La centralità dell’uomo, l’etica associata allo sviluppo, la relazione tra uomo e ambiente, le connessioni tra diritti umani e civili, la lotta agli egoismi vecchi e nuovi, la salvaguardia delle diverse identità, il dialogo tra le culture religiose, la laicità dello Stato e della politica, sono temi che investono anche la teologia cattolica e la pratica dei credenti, la loro visione della società e delle relazioni umane. Tutto ciò nel segno della prima delle regole: la ricongiunzione del cittadino con la persona, della politica con la moralità, dello Stato con l’interesse del popolo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA E L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L’ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL’INVESTITURA ATEO-DEVOTA DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA"
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITA”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO...
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi. Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.: